[ funeral party ] gone but not forgotten

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    we'll be together again

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    stiles&erin
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    Can you hear the silence?
    Can you see the dark?
    Can you fix the broken?
    andrew stilinski & erin chipmunks
    Ne esistevano di persone, al mondo. La leggenda narrava che fosse la diversità umana a renderlo la meraviglia che talvolta, guardandolo ad occhi socchiusi, si dimostrava d’essere. Si diceva fosse l’uomo, nei suoi molteplici respiri e battiti, a trasformarlo in un luogo sempre nuovo nel quale l’esistenza meritasse di essere definita tale: non i tramonti arancioni, non i cieli cobalto. Non il freddo pungente dell’inverno, o le vampate bollenti dell’estate - no. Era la gente, a renderlo quel che era.
    E c’era chi, fra quella gente, non vedeva che il peggio dell’opera umana: l’inquinamento, le guerre. Il sangue a chiazze sul cemento, quello scarlatto sui fili d’erba - colpa loro, colpa nostra. C’era chi invece riusciva ad entusiasmarsi per la forma d’una sedia, o chi ancora non si capacitava della genialità nel riuscire a trovare vaccini contro malattie un tempo mortali. C’era chi guardava la mano stretta a pugno, e chi preferiva volgere le iridi sul sorriso, l’orecchio ad una risata cristallina poco distante.
    C’era chi voleva salvarlo, quel mondo, e chi voleva esserne salvato. C’era chi ci aveva provato, e chi ancora ci provava, fosse mera questione di principio o sincero intento generoso di poter migliorare la vita. C’era chi non si arrendeva, e chi l’aveva fatto – chi lo faceva ogni giorno un po’ di più, palpebre più pesanti su occhi di ogni colore. C’era chi prendeva l’iniziativa, e chi si lasciava passivamente trascinare dagli eventi, spettatori di una storia ch’erano incapaci di scrivere con il proprio pugno. C’era chi non se ne interessava, e chi lo faceva troppo.
    Poi c’erano Erin Chipmunks ed Andrew Stilinski, che un po’ ne avevano di tutto, ed un po’ di niente. Quelli che tendevano a rimanere sempre al margine, chi per un motivo o chi per l’altro. Quelli che osservavano il disfacimento dell’umanità fra le dita, e con lo stesso stupore ammiravano una gru sollevare un blocco di cemento. Che ancora, un poco, ci credevano.
    Che ancora, un poco, non lo facevano affatto.
    Stiles era uno di quei bravi ragazzi che, pur essendo buoni, non erano dei Buoni. La consapevolezza lo colpì così, come sempre facevano le cose che si tendevano ad ignorare o a dare per scontate. Così, come uno schiaffo di salsedine su ferite sempre recenti: Andrew era buono, ma non era uno dei loro. Non lo sarebbe mai stato. Tutti guardandolo non potevano che soffermarsi sui ridenti occhi cioccolato, sul sorriso goffo e le dita nervose a stringersi su una camicia a quadri: era esattamente quello che Stiles voleva vedessero, ma c’era di più. C’era un ragazzo che non ci aveva mai provato, a cambiare le cose. Che magari sorrideva un po’ a tutti, e sempre serbava una pacca sulle spalle a chi ne aveva bisogno, ma non s’era mai lanciato nel mezzo d’un conflitto per parare il culo a qualcun altro – lavoro per altri, s’era spesso ripetuto. Non farei che peggiorare la situazione, mentre scavava la fossa della propria codardia. Era quello, il problema degli Andrew Stilinski: trovavano sempre un modo sensato per non essere uno dei Buoni, e nessuno era in grado di criticare quella non posizione perché, beh, si trattava di uno Stiles. Vent’anni a bruciare nel cesso, i suoi, vissuti tramite diapositive altrui – e dire che un tempo, perfino lui aveva voluto essere un eroe. La sindrome che affliggeva un po’ tutti i giovani cresciuti a pane e marvel, sapete. Quando per la prima volta s’era trovato nel mondo magico si era detto: eccomi, è la mia occasione. Ed allora perché non l’aveva colta quella prima volta, quando un ragazzino del suo stesso anno era stato picchiato a sangue senza alcun motivo? Ed allora perché non aveva fatto il vocione di fronte alle ingiustizie, preferendo tornare più tardi con una battuta inopportuna atta solo a far sorridere?
    Perché era un codardo, ed un ipocrita. Si era convinto di non poterlo fare perché voleva vivere, rimanere fuori dai drammi altrui; perché nessuno l’aveva mai fatto con lui, e le colpe d’altri erano ricadute su chi non gli aveva mai fatto alcun male. Si era convinto che divenire psicomago sarebbe stato utile – a lui, a qualcuno. Che avrebbe dato un briciolo di orgoglio e soddisfazione a quel bambino undicenne con il capo chino e le spalle a tremare: visto, mini!stiles? ora hanno bisogno di noi, ora possiamo fare qualcosa. Ora, s’era detto, posso essere un eroe.
    Ma lo era, se non prendeva la pallottola al posto d’altri? Lo era se quegli altri, neanche si azzardava a guardarli negli occhi? Era buono, Stiles.
    Eppure, sarebbe sempre stato uno dei cattivi. Omertà, egoismo. Avrebbe aiutato solamente quando fosse stato strettamente necessario, o quando fosse stato certo che non avrebbe subito alcuna ripercussione: ed era quello, lettori, un modo di vivere? Un mondo in cui vivere?
    Così Andrew era lì, bacchetta alla mano e spalle ingobbite, a domandarsi il perché. Perché fosse rimasto, perché non stesse facendo nulla. Perché non potesse semplicemente fingersi morto, o perché non riuscisse a cambiare le cose perfino provandoci. Perché fosse così inetto, perché ancora la gente gli parlasse -quei battiti di ciglia in cui non poteva biasimare Xav per i commenti sputati a sopracciglia inarcate e sorriso sghembo. Quelli che ci scherzavano, sì.
    Ma per scherzare, prendevano sempre dal vivo.
    Che a vederlo, un ragazzo come Stiles, nessuno gli avrebbe dato un centesimo. Se qualcuno l’avesse guardato in quel momento, non avrebbe visto altro che un ventenne dal broncio pronunciato e lo sguardo confuso - starà pensando alle mollette? Al forno acceso?- quando invece si stava interrogando sul proprio posto nel mondo: chi era, Stiles? Chi voleva essere? Chi poteva essere?
    «TOO HOT, HOT DAMN!»
    Ancora immobile, la bocca leggermente dischiusa, quando Murphy gli saltò al collo.
    «l’ho fatto davvero» un osservazione stupida, stupita. Si era lanciato nella ressa senza realmente comprendere la portata delle proprie azioni, guidato da un istinto auto lesionista che un poco se ne infischiava delle ingiurie, se a seguito di un buon operato – come i lividi derivati dal parkour, per intenderci. Sbattè le ciglia, deglutì. Approfittò del momento di distrazione della Skywalker per indietreggiare d’un passo, e poi d’un altro ancora - ma cosa aveva fatto? Non era un tipo d’azione, Stiles. Aveva accantonato anni prima l’idea di poter essere un eroe.
    Era uno di quelli che se ne andavano, lui.
    Eppure ci sorrise, di quella mossa offensiva. Si sentì, finalmente, orgoglioso di sé stesso, per aver protetto una persona a cui teneva - visto Stiles? Puoi farlo anche tu.
    Un bravo ragazzo, ma non uno dei buoni.
    Alla fine, perfino in quel momento d’estasi, non poteva che essere uno dei cattivi: quando non sceglievi, finivi sempre per esserlo.
    Non poteva essere né odiato né amato, non un Vasilov né un Lafayette: era un Lancaster, Stiles.
    Ma senza soldi e senza charme.
    «MAMMA» Fine momento filosofico sulla vita. Il tono urgente di Obi – L’AVEA CHIAMATO MAMMA- lo strappò dalle sue riflessioni come una striscia di cera sul petto villoso di un messicano, il capo improvvisamente sollevato a mettere a fuoco il mondo circostante: mentre Stiles era distratto, l’intera radura avrebbe potuto andare a fuoco, e lui si sarebbe limitato a sentire le guance avvampare.
    Ecco cosa succedeva, ad essere un Andrew. «Obi?» fece per voltarsi, quando. Quando.
    Oh. Uno non poteva provare a fare la cosa giusta una volta, che subito se la prendeva nel culo. Ma perché? Capite perché normalmente stesse nelle retrovie a fare il tifo? «AAAAAAAAAAAAAAAAA» ricambiò al grido del Draghetto, portandosi le mani al viso come Lito di Sense8. «PERCHÉ URLI» domanda legittima. Si buttò a terra rotolando di lato come un salamino beretta, le dita a coprire gli occhi per timore che qualche ramo al suolo lo rendesse cieco – dove non era riuscita la masturbazione, stai a vedere che ci riusciva un braccio di frassino qualunque. «mi hai…» rivolse un’occhiata ad Obi, la bocca semi aperta.
    Perché Stiles lo amava, certo, ma non credeva di essere ricambiato – storia di una vita. Non pensava fosse uno di quelli per i quali valeva la pena tornare indietro.
    Forse era una delle clausole per essere un internet child. Decise di non voler sapere, convinto, nel profondo del proprio cuore, che fosse solamente affetto: uno ci provava sempre. Anziché completare la frase, puntò la bacchetta al suolo, lo sguardo serio e professionale a fissarsi sui piccoli oggetti presenti sul suolo inglese.
    E vi dirò, fra tutti gli incanti che avrebbe potuto fare, fece quello più stupido - quello che, con il senno di poi, avrebbe probabilmente fatto più male a lui ed a tutti gli altri piedini ignari, che non a Dorian.
    Maeve l’avrebbe ucciso, se l’avesse saputo.
    Sarà un nostro segreto, Stiles. «acutus» trasfigurazione era sempre stata la sua materia preferita, d’altronde. «flipendo» sperando di scagliarglieli mentre era in volo, altrimenti avrebbe rischiato di far fuori mezza popolazione magika.
    Eh, vabbè. Era andata così.
    Rotolò allora supino, tornando a guardare Obi. Avrebbe voluto sottolineare che l’aveva salvato, e magari rinfacciarglielo ogni volta che Stiles l’avrebbe costretto a indossare qualche cappello stupido - «mi hai salvato, figghio, ora ficcati sulla capa la kippah o come si chiama»-; avrebbe voluto ringraziarlo, fargli i complimenti per l’essere un tale bravo maghetto. Avrebbe voluto ammettere un damn uomo, ma quanto culo abbiamo avuto io e la mangiapizze? Avrebbe voluto costringerlo ad andarsene, dato che la situazione si faceva sempre meno porno amatoriale fra jean e drago e più final destination.
    Invece.
    «se muoio, dai il mio nome ad un campo di zucche su farm heroes» pugno al cuore, dita alla bocca.
    E rotolò lontano, nell’etere. Il suo cuore sapeva che qualcuno, qualcuno di preciso, aveva bisogno di lui, come sapeva quando il suddetto necessitava di un veganburger (wat) sotto banco fuori dalla portata di mamma maeve, o quando di una puntata di Temptation Islan con lui e Niamh.
    Insomma: «ROBIN è QUI» perché figurarsi se in quei *gif della bionda* anni che si conoscevano, Stiles non aveva mai fatto notare a Dakota Wayne di essere il suo Robin. Fu con immenso disappunto che a)si rese conto che qualcuno stava cercando di prendere a pugni Maeve b) beh, le voleva bene ma non poteva dar torto al draghetto, probabile l’aveva sgridato per le scarpe slacciate c) aw, un’anima affine coricata al suolo che desiderava solo di morire! Corrugò le sopracciglia verso Hyde, sollevando poi le iridi scure sull’insegnante di Incantesimi. Sollevò le sopracciglia in un allusivo watcha here, sono diventato 2kool. «FORAMEN» puntò la bacchetta contro il drago, la punta rivolta alla sua gamba – non ci teneva ancora a diventare un assassino, voleva solo essere un… Vigilante, o un passante casuale con una buona mira. Soffiò quindi sulla punta della sua arma, la lingua a schioccare sul palato: «vi sono mancato?»
    Probabilmente no.

    Erin Chipmunks era il classico caso umano che proprio non ce la faceva, a trovare un senso – una spiegazione, un proprio modo d’esistere in un mondo sconosciuto ed alieno. Si era recata a quel funerale con le migliori intenzioni, decisa a portare supporto morale alle famiglie in lutto, a mostrare che a lei importava; voleva fare un ultimo gesto rispettoso, quel poco che ancora poteva permettersi, ai caduti dell’attentato: innocente, Erin. Sempre. Più la vita cercava d’imbrattarla di fango, più lei si srotolava su candidi asciugamani fatti di fede, e ne usciva lucida come un penny.
    Sapeva che accadevano cose brutte a persone belle, Erin. Sapeva che persone belle potevano fare cose brutte, quando necessario. Non si sentiva di giudicare chi, in quel momento, impugnava armi e bacchette contro coloro che per primi s’erano osati attaccare - era il prima, che ancora la turbava. Ormai la violenza era entrata in circolo, e per pomparla fuori dal sistema non c’era altro metodo se non quello di estirparla dalla radice. Razionalmente, poteva comprenderlo.
    Eppure, non riusciva a fare quel piccolo mantra proprio: non riusciva a rendersi una spada, pur consapevole fosse di quello che v’era bisogno. Coraggiosa aveva cercato di esserlo per quasi diciassette anni, ma non faceva per lei: si allenava duramente al quartier generale, apprendeva le tecniche di primo soccorso; s’era fatta una cultura su ogni genere d’unguento curativo, e con una bacchetta fra le mani sarebbe stata certa di avere almeno una vaga idea sul come muoversi, ma.
    Ma, in quella vita, Erin non era fatta per la guerra. Non era un’arma, non era brutale: era il tondo ritratto di ciò che quel mondo avrebbe potuto essere, di quel che andava rovinando di lotta in lotta. Di quella gioventù sempre più rara che andava sgretolandosi sotto la suola di chi, giovane, non lo era da un pezzo. Così faceva per allungare le braccia, ma alla fine rimaneva immobile; tentava di muovere un passo nella direzione dei nemici, ma finiva per guardare sconsolata la punta delle proprie scarpe.
    Così voleva piangere, Erin Therese Chipmunks, ma trovava il proprio tipo di coraggio nell’ingoiare il pianto: anche quella, era una forma d’audacia. Specialmente se si era un Erin Chipmunks. Cercò Scott, cercò Jess e Nate. Cercò Amalie. Lanciò un’occhiata alla barriera di uomini ch’era andata collassando, la strada per abbandonare la radura finalmente libera – ma non se ne sarebbe mai andata, senza di loro.
    Non era certa l’avrebbe fatto anche con loro, considerando il numero di persone alle quali teneva lì dentro.
    E voleva aiutare, Erin, ma non sapeva come fare. Non sapeva cosa fare: le sue strategie d’offesa non portavano a nulla di fatto, ed i cattivi continuavano a rialzarsi, ad attaccare i suoi amici - qualcosa che la Chips non poteva accettare. Eppure, dopo l’esperienza della missione, non riusciva… non riusciva neanche a pensare, di dover essere più conclusiva, nelle sue mosse.
    Non voleva uccidere dei soldati, era la loro guerra quanto la sua: non avevano colpe, se non quella di essere nati nel posto sbagliato, sotto un regime sbagliato. Si morse il labbro inferiore, le braccia strette al petto.
    Tupp non era così. Le battaglie non l’avevano mai spaventata, l’essere drastica semplice pragmatismo di sopravvivenza – probabilmente per quello, perfino in quel momento, il cuore della ribelle andava a sbattere furiosamente contro le costole, i palmi a prudere nel volerla costringere a fare qualcosa.
    Aiutali. Come?
    Salvali. Io?
    E spostati, scema.
    Amava credere d’essere una giovane istintiva e sveglia, ma la realtà era un’altra: si limitava, Erin Chipmunks, ad ascoltare la secca voce all’orecchio che le suggeriva come muoversi. Certo, lei non poteva sapere che si trattava di una sé differente – dava la colpa alla coscienza, al volere divino.
    Alle coincidenze.
    Non sapeva d’essere stata allenata ad udire il più infimo dei suoni prodotti dalla stoffa, e che il suo corpo reagiva per difenderla ben prima che il rumore potesse, al suo orecchio, avere senso. Si lasciò quindi cadere a terra - così, d’improvviso. Spalancò gli occhi nocciola su di un uomo poco distante, casacca blu e bacchetta puntata contro di lei. «oh.»
    Eh già. Proprio oh, Erin.
    Doveva trovare Scott.
    Un po’ per l’adrenalina, un po’ per la preoccupazione, Erin si ritrovò a correre fendendo la folla, il collo allungato alla ricerca del fratello e le dita a stringersi convulsamente attorno alle vesti di chi sapeva conoscerlo, con la speranza che potessero indirizzarla verso l’altro Chips. «scott? Hai visto scott?» continuava a ripetersi che la sua ansia fosse superflua, che probabilmente stava meglio di lei, but still.
    «MAEVE» scattò in avanti, e per poco non ruzzolò sopra a- «tupp?» guardò il biondo steso al suolo. «è sul palco» rispose di getto, rallentando il passo giusto il tempo per permettere a «STILES! DAKOTA!» di fare la loro entrata in scena. Approfittando del momento di distrazione generale quale, scambiò un’occhiata con il Grifondoro. Prima che lui potesse ribaltare il Draghetto a terra, Erin schivò Stiles cercando di colpire con un calcio ben assestato in quale universo l’uomo sulla gamba ferita, così da facilitare il lavoro al Wayne. «avete visto scott?» domandò poi trafelata, trattenendosi a stento dal massaggiarsi la pianta del piede.
    Sembrava sempre così facile, quando lo faceva Bruce Lee. «o nate. O jessalyn. amalie?» qualcuno, qualcuno qualsiasi.

    | ms.




    stiles -- COMBO DIFESA (con obi, per stiles): rotola
    stiles -- COMBO ATTACCO (su dorian, francia, con obi): acutus + flipendo
    stiles -- COMBO DIFESA (con dakota, per maeve): foramen

    erin -- COMBO DIFESA (con murphy, per erin): rotola (si, ho due ninja)
    erin -- COMBO ATTACCO (con dakota, su nikolai, vasilov): tira un calcio sulla gamba ferita
     
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    A Dakota non piaceva particolarmente essere fissato. Era sempre stato un ragazzo ansioso, innervosito dagli sguardi della gente e da come temeva potessero giudicarlo pur senza conoscerlo; la paura dell'opinione negativa altrui era anche ciò che lo aveva spinto a tergiversare tanto sul proprio coming out. Certo, crescendo questo suo leggero disturbo, per così dire, era un po' scemato, come in qualsiasi adolescente che diventa adulto, ma ancora a volte si trovava a chiedersi cosa la gente pensasse di lui, e se fosse paranoico o, ad esempio, davvero quel tipo lì in fondo lo stesse davvero fissando un po' troppo.
    Tipo quel ragazzo biondo barbuto.
    Dakota se lo stava sognando, o davvero l'aveva guardato e studiato, quasi come se si fosse aspettato una reazione da parte di Dakota? Se non fosse stata una persona, come già detto, perennemente reso nervoso dall'umanità forse l'ex rosso sarebbe andato da lui, chiedendogli così, a caso e nel bel mezzo di un combattimento, se si conoscessero -perchè quel viso, anche se era sicurissimo di non averlo mai visto, era così familiare, e invece restò fermo, Dakota, guardandolo di sottecchi da lontano anche quando questi fu preso da altro. Apparentemente, Dakota non era l'unico osservato con quegli occhioni, nascosti (male) dalle lenti scure degli occhiali rotondi; forse il biondo guardava tutti così? Ma Dakota quegli occhi, in qualche modo già visti, non riuscì a toglierseli dalla testa. Nè quelli, nè gli altri di quello che doveva essere l'amico più morto che vivo del ragazzo.
    Neanche quando un ragazzo gli si parò davanti difendendolo da un attacco che lui, distrattamente, neanche aveva visto partire contro di sè.
    «Uh, grazie!» e Dakota sarebbe stato anche più gentile verso il suo salvatore... ma cavoli, anche lo sguardo di quest'ultimo sembrava inseguirlo in un modo tutto particolare. "Sono paranoico? Ci sta provando con me? Credo abbia detto a Jason di fare attenzione" e dire che fino a qualche minuto fa, quando l'aveva visto interagire un po' troppo con Jason, pensava facesse il filo all'ex serpeverde! Pazzesco.
    «Tutto a posto?»
    No, dai, non ci stava provando. Aveva uno sguardo intenso, ma non di quel tipo. Era solo affabile e gentile.
    Tutto suo padre, anche se Dakota non poteva saperlo.
    «Yep, grazie amico!»
    E mentre il biondino si voltava, Dakota, spinto da una forza che chiameremo "istinto shipper", seguì la sua occhiata, e finalmente, come sognato e preannunciato ormai da mesi, li vide.
    Maeve Winston e Aloysius Crane.
    Forse li aveva sempre shippati, o almeno pensato che sarebbero stati bene insieme. Conoscendo meglio Al nel capanno (sì, qualcosa di buono era uscito da quella esperienza), scoprendo i suoi gusti e le sue aspirazioni, si era ritrovato più volte a pensare che con Mae sarebbero stati carini, e poco importava che, una volta liberato, Maeve non avesse ancora dato segni di interessarsi al pavor. Insomma, li aveva sempre un po' shippati, anche solo come crackship.
    Tuttavia. Tuttavia in quel momento, uno accanto all'altro come la regina che era Maeve e il suo fido principe (?), i capelli biondi di lei incastrati nella camicia di lui e quindi obbligati a essere ancora più vicini, Dakota capì che quella non era una ship.
    Quella era la sua otp.
    One true pain.
    Già si immaginava gli headcanon le scene fra i due, così belli e biondi. I pomeriggi alla Lanterna dorata, le domeniche tranquille sul divano di Mae, le notti non così tranquille sul letto di Al (*mani in alto* è uno shipper a tutto tondo). In certe fantasie (?) ovviamente c'era anche Dak, perchè adorava anche Al e voleva essere parte della famiglia. Chissà se Mae e Al avrebbero acconsentito a una cena con la mayne! Sarebbe stato così bello. con Byron e Leaf al rientro a casa per mangiare tutti insieme il dolce. Dakota non aveva un padre da quando aveva nove anni; improvvisamente si chiese se Al, con quella fissa di adottare tutti, uscendo con Mae si sarebbe potuto accollare da patrigno (?) anche lui.
    Purtroppo, shipper heart a parte, non era il momento di fantasticare sulla mal (so sad), bensì il momento di salvarla, visto che uno stronzino sovietico voleva far loro del male.
    «Not my ship, you cagna*» (*censurato come la versione italiana perchè hashtag maeve mi fa così paura, e non voleva lo cazziasse) mormorò, e avvicinandosi alla coppia felice, che forse sarebbe stata un po' meno felice se quella bestia di mangiamorte fosse riuscito nell'intento di colpirli, puntò la bacchetta sull'omone. Un muto Conjuntivictus, perchè non vedendoci non beccasse Mae. Sarebbe stato piuttosto blando, tuttavia efficace, quindi Dakota rimase di stucco vedendo partire un colpo di pistola verso il SUO nemico, che non aveva deciso di uccidere. Da Stiles poi. E Dakota che pensava che l'amico fosse un paciuchino too pure too precious per usare un incanto del genere... ma meh, in effetti poteva anche capirlo. Non si tocca Maeve.
    Cosa che doveva pensare anche Erin soldatina coraggiosa, visto che la sua entrata in scena alla Ambrosini nelle succose caviglie del soldato. Dakota non avrebbe sprecato l'occasione, e approfittando del momentaneo equilibrio precario dell'uomo, prima di dargli il tempo di riprendersi, lo avrebbe atterrato spingendo col ginocchio sulla cavità poplitea. Veloce un pugno in pancia (questo è gratis perchè ha puntato la mal) prima di buttarlo a terra e fargli battere la faccia al suolo. Non era niente di estremamente cattivo (parliamo comunque di dakota), ma sarebbe potuto essere abbastanza per metterlo ko e farlo svenire. «Possiamo ancora trattare a parole!» non era neanche sicuro parlasse l'inglese, ma ci sperava.
    Se nessuno fosse morto, si sarebbe voltato verso il suo Robin ed Erin (ma anche Nathaniel già che c'era, perchè ABBIAMO UN CAPITANO, UN CAPITAAAANOOO aBBIAMO UN CAPITANO #captainshippersegretodove) con i pollici alzati e lo sguardo da "we did it. For the ship". Forse Stiles sarebbe rimasto confuso (?), ma Erin sicuramente avrebbe capito, dallo sguardo adorante di Dak verso Mae e Al, a cosa si stava riferendo.
    Si voltò verso la Mal con un sorriso istintivo e babbeo. Quanto erano belli.
    «avete visto scott?» Dakota si voltò a guardarla, massaggiandosi la mano. «o nate. O jessalyn. amalie?»
    Fece una smorfia. «Non li ho più visti. Penso siano sul palco... Scott quasi sicuramente; andava in quella direzione» Ma pensava anche lei ci sarebbe andata, dopo averla vista qualche minuto prima, quindi MEH. «Forse sono rimasti bloccati fuori dalla barriera. Non ti preoccupare aggiunse rapido «Andrà tutto bene. Sono sicuro che presto abbasseranno tutti le armi» Allungò le dita per pat pattarle la testa, alzando lo sguardo verso il resto degli "adulti responsabili" alcuni più responsabili di altri. Forse se avesse visto che la barriera di uomini non esisteva più le avrebbe detto di filarsela, ma non è così quindi acab, rassicurazioni non richieste.

    | ms.



    difende mae (combo con stiles) - conjuntivictus
    attacca nikolai (combo con erin) - lo atterra


    Edited by ‚soft boy - 13/8/2017, 18:40
     
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    kieran leia
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    Here's the pride before the fall - Cause I was always such a runaway Trying to cheat my way right through the game
    i will either find a way or make one || 03.07.17
    Kieran non era fatta per fare del male, fino a un paio di mesi prima non era sicura di esserne capace, non capiva perché non si potesse risolvere i conflitti parlandone anzi di farsi del male a vicenda – poi avevano tentato di ucciderla un paio di volte, e aveva capito che se voleva uscire dalla “festa” doveva diventare come loro, o almeno fingere. No, normalmente la ragazza non avrebbe fatto male neanche a un ragno, un ragno!, era convinta che la vita andasse rispettata e coltivata, non buttata nel cesso come sembravano fare tutti intorno a lei. Era furiosa, voleva solo che il mondo smettesse di girare attorno a lei e tutto si fermasse, le persone finalmente libere di riflettere sulle sciocchezze che stavano commettendo: era sbagliato, e dovevano metterci una fine.
    Ma nessuno l'avrebbe ascoltata, come sempre. Aveva solo diciassette anni ed era alta un metro e tanto amore, la sua presenza scenica era paragonabile a quella di Rob Kardashian in un mondo di Kim Kardashian, e questo prima che del disastro con Blac Chyna - sì, era anche un esperta del trash americano, fatele causa. Quindi, per riassumere, al momento la vita non le stava dando limoni, e la sua delusione era tale da impedirle di salire su un cavallo bianco (o nero #noracism) e riportare la pace del mondo.
    La Sargent avrebbe quasi voluto che quei vermi non fossero usciti dal terriccio, davanti a lei la visione di una Ludmilla paralizzata dalla paura mentre questo continuavano ad avanzare sulle sue gambe (sperava non fossero carnivori), si sentiva in colpa, capite? Quella sapeva di vendetta, e non era abituata a certe sensazioni, non avrebbe dovuto essere così soddisfacente. Da quando fare del male al prossimo era qualcuno di giusto? Nel 2017 era di certo all'ordine del giorno, ciò non voleva dire che dovesse lasciarsi trascinare: il mondo aveva bisogno di qualcuno con un cervello funzionante, c'erano già troppe persone mosse dalla violenza e stupidità: bastava guardare Vasilov, o la sua versione arancione e trash. Si portò entrambe le mani alla faccia, le dita a premere decise sulle tempie mentre contemplava il da farsi: poteva continuare ad attaccare per difendere, guardarsi i nuovi meme su Instagram o la live che stava facendo suo zio. Sì, perché sporgendo la testa a destra poteva vedere Zoel con un braccio alzato e il telefono in mano narrare ai suoi followers cosa stesse accadendo. La ragazza voleva un po' morire, non sapeva se fosse perché l'uomo si stesse comportando come un ragazzino o perché la situazione era inappropriata. Probabilmente un misto di entrambe. «ZII MA CHE STAI FACENDO?» un urlo disperato o la salvezza per i seguaci, chiamatelo come volete. Si mise persino a sventolare la mano in aria, un gesto come un altro non proprio per farsi trovare da Zoel tra la massa di gente, ovviamente lui lo scambiò per un saluto entusiasta «CIAO LIL K, SALUTA LA PIPOL» «ma la pipol chi questo, solo un sussurro da parte della mimetica, un pensiero trapelato da labbra incapaci di chiudersi una volta per tutte. Non che in quel caos qualcuno avrebbe potuto sentirla parlare da sola. Sul soprannome dato dallo zio neanche voleva soffermarcisi, era quel misto di trash ed erba nei quali nascevano i peggio alias per i rapper, quando Zoel le aveva comunicato il suo nuovo specialissimo nome, Kieran aveva sospettato che volesse incastrarla nell'industria musicale. Così, perché si annoiava e aveva bisogno di un nuovo hobby dove concentrare il suo tempo. «CIAO NOI STIAMO MORENDO» una sventolata della mano e via a nascondersi dietro una persona caso per fermare le molestie dello zio, non aveva intenzione di unirsi a quella squallida live nel bel mezzo di quella che sembrava la fine del mondo - Gesù, era terrorizzata, come faceva lui a scherzarci sopra? Ecco, al suo funerale avrebbe mandato quel video in replay così da ricordare a tutti di quando fosse stato irresponsabile e stupido. Severa ma giusta.
    Intanto Kieran stava concentrando tutte le sue forze sul non fissare Murphy e Shot, impedire al suo sguardo di spostarsi su di loro: un gesto istintivo al quale non poteva mettere fine, il bisogno di imprimerli nella sua mente prima che diventassero frammenti sfocati. Come poteva impedirsi di creare una relazione con loro, fare finta che non esistessero? Persino lei, addestrata fin dalla più tenera età, lo trovava impossibile, immaginava già quanto sarebbe stato divertente dirlo a tutto il resto della casta 2043.
    Loro non ce l'avrebbero fatta, l'aveva saputo ancora prima di iniziarci a pensare concretamente: non erano come lei, sarebbero crollati sotto il peso di quelle realtà sussurrate, incapaci di distogliere lo sguardo da un viso troppo familiare, da una vita già vissuta.
    Almeno lei, doveva tenere la bocca chiusa. Per Murphy, Shot, Sin, Al, Run e tutti i suoi mille cugini, perché non voleva rovinargli la vita. Finché fossero stati bene bene, le labbra curvate in un sorriso, lei si sarebbe fatta da parte mille volte, sacrificando un futuro dove non c'era spazio per lei.
    Aveva Zoel, i suoi genitori, andava bene così. Se la sarebbe cavata anche senza Murphy e Shot. Non era il suo tempo, aveva già avuto la sua occasione. E ne avrebbe avuto un'altra ancora.
    Non la sua, quella di Leia Skywalker.
    Mai la sua, effetto collaterale in una realtà altrimenti perfetta.
    E quasi riuscì a convincersi, le parole che avrebbe dovuto ripetere alla gang a ripetersi come un disco rotto nella sua testa, senza riuscirci del tutto. Di certo, non impedì a quella lacrima solitaria di solcare la gote, il dolore sul letto a farsi sempre più acuto.
    Kieran Sargent voleva dire di essere speciale, quando invece era esattamente come tutti gli altri. In fondo, anche lei aveva bisogno di una famiglia, dei suoi genitori. Voleva solo sentirsi normale, per una volta.
    E poi dovettero rovinare il momento, qualcuno fu così rude da scansare la gracile Kieran di lato, con tanto di gomitata sullo sterno. O almeno, Elisa spera funzioni. La ragazza non la vide in faccia, né ebbe il tempo di rincorrerla per darle una rinfrescata sulle buone maniere, fu catturata prima da una voce ormai familiare «senti, kieran.. è kieran, giusto?» mentirei, se dicessi che il cuore della Sargent saltò un battito, prendendo a correre furiosamente subito dopo. Si ricordava il suo nome, aveva una vaga idea di chi fosse! Male, ma bene. Dovesse impedirsi di alzare gli angoli della bocca, comprimendo quel sorriso in due occhi nocciola e le sopracciglia leggermente arcuate «yep, è Kieran!» poteva abbracciarla? No? Sospettava che sarebbe stato troppo strano, persino per la Skywalker, un gesto decisamente troppo strano per una sconosciuta. No, la mimetica doveva mantenere la calma, comportarsi come una persona normale.
    Il problema era che lei non la era, una persona normale.
    «Lo vedi quel tipo che sembra volersi gettare da un dirupo? Telecineta.» la Sargent annuì vigorosamente, un tentativo come un altro di dimostrarsi brillante, e non un'ebete come sospettava stesse apparendo «say no more» e avrebbe capito quelle parole, la geocineta, se fosse stata un'appassionata di meme come Kieran sospettava. Certe cose si sentivano a palle, alcune affinità che niente poteva cancellare: il potere dei meme sarebbe sempre stato infinito.
    Mentre la Skywalker avrebbe fatto la sua parte, lei si sarebbe concentrata sul telecineta indicato, ignorando i ripetuti tentativi di impiccarsi. Perché faceva così? La sua era stata una performance incredibile, era certa che fosse persino stato ripreso nella live dello zio. E Zoel era un influençer, non ai livelli della Ferragni, ma era abbastanza conosciuto.
    Kieran si figurò una ragnatela davanti a lei, una matassa da mille fili arcobaleno, Gemes Hamilton quel singolo filamento che vibrava tra tanti; cercò di assorbire il potere, sentirlo ballare tra le due dita e drizzarle i peli sulle braccia, imprimersi nella sua mente tanto da sentirlo parte di sé, perché in quel momento lo era. Concentrò i suoi pensieri, i suoi desideri, sul veder il corpo di Tasha alzarsi gradualmente da terra, all'inizio un saltello, e poi un violento troppo che l'avrebbe portata in alto di parecchi metri. La fece volteggiare una volta, due come una trottola umana, un po' come se fosse su una giostra: avrebbe reso l'esperienza più divertente e meno traumatica, sperava. Poi, incominciò a spostare il corpo a destra facendogli accumulare man mano più velocità, fino a che non incontrò un albero, e a quel punto ce la sbatté abbastanza forte da farla svenire.
    Innocua, così da non far più del male a nessuno.
    Si girò verso Murphy per alzare i pollici in aria, segno che forse ce l'avevano fatta e non erano morte tentando. Qualcosa, tuttavia, catturò la sua attenzione: un uomo vestito da renna che stava tentando di colpire sua madre.
    Ma stiamo scherzando. Come osava.
    Ancora una volta si concentrò sulla telecinesi per tentare di strappare la sedia dalle mani di Rudolf Naso Rosso, finché uno strattone finale non riuscì a liberarla dalla presa dell'uomo, per poi venire lanciata verso il prato, dove non sembrava esserci nessuno.
    Non voleva rischiare di colpire qualche persona a caso, non voleva essere menata da qualcuno, dopotutto era gracile e alta un metro e tanto amore.

    | ms.


    COMBO DIFESA con Murphy, per Kieran viene spintonata via #rude
    ATTACCO COMBO con Murphy, su Tasha la sbatte (mlml) contro un albero con la telecinesi
    COMBO DIFESA con Obi, per Murphy strappa di mano la sedia a Rudolf (con la telepatia) e la lancia lontano
     
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    Sembrava che le cose stessero degenerando. A dire il vero mi ero concentrata molto sull' "uscire" da lì, logicamente a causa della mia fobia che forse si stava intensificando, non me ne sarei stupita. Senza contare che oltre la barriera, si poteva andarsene da quel macello e quindi salvare più persone possibile, magari. Mi chiedevo anche che fine avesse fatto mio padre, visto che ci aveva accompagnate, ma non lo avevo più visto, probabilmente era davvero semplicemente tornato a casa.
    Fatto sta che, ad un certo punto della battaglia, mi ritrovai con una bacchetta puntata contro. Non che fosse la prima volta quel giorno o in generale. Per mia fortuna, ci furono due persone a venire in mio soccorso Eugene, il quale affrontò i cattivi con una sedia, si avete capito bene, che gli "comparve" affianco e lo colpì. Nel frattempo, però mi ritrovai atterrata senza tanti complimenti da Joey, un concasata a cui avevo risparmiato la sala delle torture, e che mi odiava per questo, ma in realtà sembrava odiare tutti. Siamo pari gli dissi semplicemente, magari ora sarebbe stato contento Comunque grazie, a tutti e due esclamai semplicemente, rivolta anche ad Eugene, che circa in quel momento, rifilà la sedia a Joey e andò chissà dove. Non passò molto che il biondo fece la stessa cosa.
    Recuperai la bacchetta che mi era caduta nell'essere placcata, quindi mi guardai attorno, dovevo trovare Sy, così da potermene andare quanto prima da quel luogo, e non lo avrei fatto senza mia cugina, in sostanza. Mentre la cercavo, comunque, c'erano ancora persone in difficoltà, perciò mi avvicinai al tizio più vicino (Hyde) che aveva qualche problemino più magico, se vogliamo Everte Statim esclamai a voce chiara, ferma, verso chi lo aveva attaccato (Maxim). Non c'era tempo per un non verbale, che richiede comunque maggior concentrazione a mio avviso. In ogni caso disse qualcosa, anche se non compresi cosa ma sembrava una sorta di verso. Poco male potevo riprendere la ricerca più importante, quella di mia cugina, che con quella confusione immensa, avevo perso di vista. Si, lo so. Ero più piccola, ma non mi sentivo una quindicenne con tutte quelle che avevo passato, molti probabilmente crescevano più in fretta e non ero da meno.
    Ed ecco che vi fu una seconda persona (ciao Arci), a cui mi avvicinai per dare una mano. Nello specifico, puntai la bacchetta verso la tizia Petrificus Totalus utilizzai la versione non verbale, giusto perchè così, magari, la prendevo di sorpresa, ma speravo ci rimanesse di..pietra, in un certo senso. E sentii nel mentre anche la voce di Syria, che si era aggiunta, anche se attesi un momento prima di rivolgermi a lei. Quindi udii la domanda, chiaramente ironica, del tizio Si gli risposi a tono. Mi ero frenata sin troppo con Vasilov, ora probabilmente, avrei risposto a tono a chiunque, anche se certo dipendeva da cosa mi veniva detto ed ecco che mi rivolsi a mia cugina Sy, finalmente esclamai sospirando sollevata, ed era ancora tutta intera per fortuna. Cosa facciamo? Rimaniamo o ce ne andiamo? le chiesi, perchè in ogni caso dipendeva da lei. Alla sua risposta non riflettei a lungo No, resto risposi quindi, ristringendo le dita attorno al legno della bacchetta e puntandola ora verso uno degli uomini di Vasilov (Dimitri) Stupeficium anche questa volta predilessi una formula non verbale, e speravo che la combo con Sy, andasse a buon fine.

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    DIFESA Arci castando un Petrificus Totalus su Dorian
    DIFESA Hyde castando un Everte Statim su Maxim
    ATTACCO combo con Syria su Dimitri usando lo Stupeficium
     
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    Si sentiva così un pesce fuor d'acqua mentre tutt'attorno a lei il mondo sembrava aver iniziato a vorticare velocemente mentre, spostando lo sguardo da una parte all'altra, gli occhi avrebbero potuto staccarsi dagli occhi e correre ovunque come delle biglie. Si era completamente persa in quel miscuglio di persone, non capiva più nemmeno chi era chi e chi fosse dalla parte di chi. Lei in primis non avrebbe saputo dire da che parte fosse realmente, ognuno doveva avere le proprie ragioni per attaccare l'altro e in tutto questo era confusa, letteralmente confusa anche se questa situazione rientrava esattamente nei canoni della sua vita quotidiana. Era neutrale per scelta, non voleva scegliere perché non vedeva solo il bene, non vedeva solo il male, ma vedeva entrambe le parti accettando le in equal modo. Qualcuno avrebbe detto che lei non avesse la minima idea di cosa scegliere, che fosse una codarda e che quindi aveva paura di prendere una decisione. Ma non era così, non era affatto così, ci doveva essere per forza una soluzione migliore che non comprendesse i due estremi, una soluzione equilibrata. Eppure, per ora non esisteva e di sicuro non sembrava che entrambe le parti potessero arrivare ad un compromesso, i compromessi erano la cosa migliore, mantenevano la stabilità e nessuna delle due parti aveva da rimetterci, ma il mondo magico voleva seriamente arrivare ad un compromesso o volevano che l'una avesse la meglio sull'altra? Un compromesso non avrebbe saziato la voglia di primeggiare. Oh, uno dei peggiori vizi dell'essere umano, quello di voler vincere sempre, non era però staticamente possibile che questo accadesse sempre per quanto uno si impegnasse. Quando finalmente si riprese dai meandri della sua mente, ormai era troppo tardi per difendersi, il fascio di luce aveva scelto proprio lei e sarebbe stata un ottimo bersaglio, se non fosse stato per le due difese. L'incantesimo l'aveva solo sfiorata, niente di grave o di irreparabile, l'importante era che stesse bene ed era tutto grazie ai due. Ebbe l'impulso di abbracciarli, eppure quello non le parve affatto il momento adatto, quando alzò lo sguardo la prima cosa che incontrò fu il sorriso di Nathaniel e non poté che ricambiare il sorriso. «Noi-?» Lo guardò fin che si zittì, non aveva idea di cosa volesse dire e ovviamente non avrebbe saputo rispondere perciò rimase in silenzio e questo gli permise di aggiungere qualcos'altro. «Sei familiare» Assottigliò gli occhi, cercando di ricordare dove l'avesse visto, era una sensazione diversa da quando pensavi semplicemente di riconoscere qualcuno visto da qualche parte. No, era una sensazione completamente diversa, sapeva di conoscerlo, ma non poteva assolutamente essere, non le sembrava di averlo visto prima d'ora. E mentre attorno a loro continuavano a sferrare incantesimi, lei si era fermata ad analizzare quella sensazione, senza trovare alcuna soluzione. Sembrava quasi che qualcuno le avesse lanciato un Oblivion, non poteva certo ricordare perché avesse i occhi così simili ai suoi., non sapeva spiegarsi quella sensazione come se volesse tenere l'acqua in mano nonostante sfuggisse dalla stretta delle sue mani, come se volesse rubare un filo d'aria o aggrapparsi ad una nuvola, alla fine ricorrevi qualcosa di intoccabile. Alla fine in mano non ti restava esattamente niente. Non poteva però sapere quanto il proprio sangue fosse irrimediabilmente legato al suo. Quella era esattamente la sensazione che provava guardando, a sua insaputa, suo padre. Si era letteralmente persa a cercare di rincorrere quel ricordo che, quando ritornò alla realtà e volle rispondergli, fu fermata alla vista di qualcuno pronto a fare lo sgambetto a Nathaniel. Dovevano proprio essere bambini per permettersi questi stupudi scherzetti, sperò che non fosse distratto come lei da non accorgersene, ma per precauzione lo avrebbe preso per le spalle e lo avrebbe trascinato indietro prima che potesse fare anche solo un altro passo. Era il minimo che potesse pare per lui, senza recar danno a nessuno. Qualcosa però scattò in lei, come se quel semplice sgambetto avesse potuto recar danno come un incantesimo ad una persona a lei molto cara. Intendiamocelo, lei non avrebbe mai attaccato nessuno in condizioni di stabilità mentale. O almeno la Cora che tutti conoscevano non l'avrebbe fatto, il problema era che in quel momento, il controllo della sua mente non era più della Cora ingenua e calma. Non era Cora che strinse la bacchetta, non era Cora che si posizionò davanti a Nathaniel, bensì era Persephone, la stessa ragazza che si era slanciata in quella missione per difendere la sua famiglia, le persone a cui voleva bene. Dalla sua bacchetta sarebbesaun partito un fascio di luce era partito verso Rudolf. «Stupeficium.» Avrebbe detto decisamente, cosa che non avrebbe mai fatto. Non avrebbe mai attaccato nessuno, non avrebbe fatto del male, soprattutto per una persona che non era sicura di conoscere. «Anche tu sei familiare.» Disse leggermente confusa dal fatto che avesse la bacchetta puntata verso un mago. La sua mente aveva letteralmente eliminato quanto successo fino a poco prima. Il fatto poi non migliorò quando vide un'altro attaccare alle gambe di una ragazza (hola Zenith!) con una frusta. Veramente, la situazione stava degenerando se si arrivava perfino ad usare la frusta. Non si sarebbe perse in ulteriori pensieri e avrebbe puntando la bacchetta verso il mago avrebbe pronunciato «Rictusempra.» in modo da fare indietreggiare il nemico e quindi da tener lontana la frusta mentre Zen sarebbe rotolata via Zen usa rotola!
    | ms.

    Spero che sia tutto giusto non mi sorprenderei del contrario.
    combo difesa con nathaniel: lo trascina indietro
    combo attacco con nathaniel: usa stupeficium
    combo difesa con zen: usa rictusempra
     
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    WHAT THE HELL AM I DOING HERE? | 03.07.17

    Non sarebbe dovuto rimanere. Aveva un figlio, cristo santo, una minuscola creatura capace solo di bere vagonate di latte, riempire pannolini di cacca, fargli venire continuamente il dubbio se respirassse o meno nel sonno e fissarlo con occhi troppo grandi e profondi per una testa così piccola. Eugene glielo doveva, di rimanere vivo, perché Uran non aveva chiesto di venire al mondo; ci si era ritrovato e basta, quella volta su un milione, scaraventato senza troppi complimenti in un tempo che aveva ancora troppo da imparare, troppo da sistemare. Sarebbe stato logico, sarebbe stato giusto approfittare della breccia nella barriera, afferrare le persone care rimaste - più di quante il pavor avesse immaginato all'inizio - e darsela a gambe, ma le cattive abitudini sono dure a motire. E ad Eugene Jackson era sempre piaciuto farsi pestare, quando il gioco valeva la candela. La domanda, in quel caso, sembrava scontata e banale, ma necessaria: era disposto a morire, perché qualcuno si assumesse la responsabilità di quanto accaduto? No. Non gliene fregava niente, al serpeverde, che Vasy e Lafayette fossero ai ferri corti e stessero per spezzare la ship, non poteva fottergliene di meno del fatto che Lancaster li osservasse da lontano come tanti burattini, finché teneva Tupp al sicuro. Euge voleva solo conoscere la verità; solo guardare in faccia chi aveva ucciso sua sorella, e possibilmente togliere a questa persona la vita. Una, dieci, mille, che differenza faceva?
    Ma, come dice il proverbio, bisogna imparare a camminare, prima di poter correre: e il ragazzo aveva i suoi cari a cui pensare, prima di organizzare una vendetta che sapeva non gli avrebbe mai riportato Delilah. Cristo, un tentativo doveva pur farlo, no? «EHI STRONZETTO!» le braccia stese per aria, le mani a muoversi come per richiamare l'attenzione di etienne. Aveva sempre avuto un debole per i francesi, il Jackson, escludendo ovviamente quella stracciapalle di Josephine l'angelo custode, ma a quel punto le baguette stavano esagerando; cos'era, la centesima volta che attentavano alla loro vita? Jade e Run, separate da pochi metri di distanza, prese di mira dalla stessa testa di cazzo d'oltralpe, quasi il francese avesse deciso di colpirlo al cuore li dove faceva più male. Amava quasi tutti i partecipanti al funerale, frammenti di una vita passata a raccimolare amicizia ed affetto, spalle su cui piangere, corpi ai quali stringersi, risate cui aggrapparsi nei momenti di buio, ma per loro provava qualcosa che andava oltre; lo avevano accolto sulla fiducia, quando a chiunque sarebbe bastato guardarlo in faccia per capire di trovarsi di fronte ad un coglione, ed erano diventate parte della sua vita legandosi a doppio filo, nell'amore e nella morte. Letteralmente. «Uh, oui oui c'est la Madelein! Quasi quasi faccio rap in francese. Mi fa più elegante cantante TIRA SU LE MANI SE ANCHE TU C'HAI L'AMANTE!» che stile. Si sarebbe lanciato in avanti di corsa, testa bassa e ghigno dipinto sulle labbra tirate, la spalla destra ad impattare contro lo stomaco ed il basso ventre dell'avversario, al solo scopo di mandarlo culo all'aria prima che questi potesse lanciare l'incantesimo. Non contento - perché, andiamo, come poteva dargli soddisfazione un semplice placcaggio? - si sarebbe messo cavalcioni sul torace dell'uomo, le ginocchia strette attorno ai suoi fianchi per impedirgli di sgusciare via come un lurido verme sul terreno fangoso; ecco cos'erano, se proprio doveva trovare un animale ad accomunarli tutti, baguette mangialumache e novelli zlatan ibrahimovich bastardi. «sei» le dita della mano destra chiuse a pugno «davvero» il braccio caricato indietro, nocche a battere sui denti di etienne «un francesino» nocche a battere su entrambi gli zigomi, come pestoni in rapida successione «cattivo.» battute sul pane ne abbiamo? Anche troppe.
    Rapidamente, perché di recente aveva ricominciato ad allenarsi boxando (ovvero prendendole di santa ragione) con Ake, si alzó in piedi, avvertendo il primo fastidio al palmo della mano, lì dove le piccole ossa incriccate avevano impattato senza remore contro la faccia del nemico, chiazze di sangue a sporcare la pelle abbronzata; questa è solo una teoria, una congettura scritta da un'inguaribile ottimista, ma datemi corda almeno per un po', okay? «Jade, te l'ho mai detto che quando fai così la dura mi ecciti e terrorizzi insieme?» osservazioni lecite, di quelle strettamente necessarie. Soprattutto se sei al funerale di tua sorella e rischi di morire anche tu lasciando un figlio figlio appena nato con la certezza di portare con te due meravigliosi esemplari di heimes: guardiamo il lato positivo, almeno dall'altra parte avrebbe avuto una ship #priorità. Fu rivolgendo lo sguardo alla bionda, già pronto a soffiarle un bacio dalla punta delle dita, che vide un cucciolo di gazzella e una bacchetta puntata contro il suo gracile petto. Eugene si portó la mano destra all'altezza del cuore, sangue di etienne a sporcargli la camicia ormai da buttare, le labbra dischiuse in un'espressione di sincero disappunto. «How dare you detective diaz ?? QUELLO È IL MIO TAPPO!» diamine, non capivano proprio un fico secco. Si sbracció, perché non era tempo né luogo per utilizzare la brotipatia - nonostante Archibald fosse molto migliorato grazie agli insegnamenti del Maestro -, attirando l'attenzione del suo bimbo prodigio numero uno, la mano libera ad indicare quel coglione infame di maxim. «Protego!» e la questione si chiudeva lì, con Arci che faceva senz'altro qualcosa di più mistico e meraviglioso a vedersi; spazio ai giovani, i vecchi a casa.



    Non era la prima volta che uccideva. Non sarebbe stata l'ultima.
    Perché in fondo, e nemmeno tanto, le piaceva; sentire affondare la lama nella carne, lacerare i tessuti e risalire oltre i fasci di muscoli fino alle ossa, osservare la vita di chi fino a pochi istanti prima avrebbe volentieri preso la sua spegnersi come una luce flebile riflessa nelle pupille dilatate, ascoltare l'ultimo battito del cuore. Il pugnale si dissolse tra le dita della ragazza, lasciando solo sangue sui polpastrelli, dita ferme a stringersi sulla maglia del biondo che l'aveva aiutata. Da una parte, quel suo accanirsi brutalmente sul nemico usando solo le mani l'aveva piacevolmente colpita, ma non bastava affinché Jekyll potesse considerarsi suo amico, non era niente, solo un paio di occhi blu come tanti già visti, solo un paio di labbra che sarebbe stato interessante baciare come tante altre prima delle sue. Strinse la presa, inghie corte a premere contro il sottile strato di pelle, nelle iridi verde acqua tutt'altro che il ricordo di una vita insieme. «Se le dici che abbiamo ucciso qualcuno, torno qui e ammazzo anche te.» Non c'era cattiveria nel tono, o nel modo in cui aveva sfiorato il volto di Jekyll con lo sguardo, mostrandogli i palmi delle mani imbrattati di sangue quasi a conferma della minaccia nemmeno tanto velata; si trattava di un dato di fatto, come dire che la terra ruota intorno al sole e non il contrario. Se il biondo sperava in un tenero siparietto da incontri ravvicinati del terzo tipo attraverso squarci nel tessuto dello spazio tempo, aveva capito male. Lo molló lì senza ulteriori indugi, le iridi chiare alle ricerca di Phobos e il resto della marmaglia, quel gruppetto disagio che Zenith aveva il coraggio di definire famiglia, pur sapendo che alcuni pezzi erano ancora sparsi per il mondo, in attesa di essere trovati; ma il Campbell e i suoi bambini adottivi troppo cresciuti la tenevano al sicuro, protetta dalla sua stessa biondaggine, e per lei era sufficiente. Non vide il padre, né Phoebe o Gene, in compenso lo sguardo le si posò su una persona che la Gallagher ormai conosceva bene; dove bene è sempre una parola grossa, inventata per essere usata a sproposito. Se avesse saputo quale apporto avesse dato Jaden Beech alla ricerca nei laboratori, quante vite le mani della donna avessero cambiato e quante altre si fossero consumate su di un freddo lettino da sala operatoria, forse non l'avrebbe considerata sua amica. Forse lei l'avrebbe ammazzata, ricompensando la bionda per anni di torture ed incubi perenni. Ma Zenith non lo sapeva, e nemmeno quella creatura nascosta nella parte più recondita della sua mente: vedeva solo un volto conosciuto, uno sguardo amico, occhi verdi così simili ai suoi da non poter fare altro che incrociarli e sentirsi per un attimo meglio. Una distrazione non da poco, perché quando udí il primo schiocco di frusta, era troppo tardi per concentrarsi e richiamare a sé il proprio potere, magari nella speranza di creare una qualche sorta di scudo. «Merda.» si sarebbe gettata di lato, il corpo ad impattare con il terreno ormai freddo e scivoloso, un breve rotolamente verso sud (?) così da provare a togliersi dalla traiettoeia del colpo. Che non l'avrebbe uccisa, questo è ovvio (ihih), ma a nessuno fa piacere uno squarcio sulle gambe, nemmeno ad una apparentemente menefreghista come lei. Le avrebbe rovinato l'aestethic, come già accaduto all'abito nuovo regalatole da Phobos, ormai un tutt'uno con fango e strisciate d'erba; CHE PECCATO EH. Si rimise in piedi, pulendo i palmi delle mani su un'unica zona rimasta immacolata di stoffa, il labbro superiore sollevato a scoprire i denti, una smorfia quasi impossibile da immaginare sul viso di Zenith, sempre sfiorato da un sorriso dalla sfumatura triste; quello era un ghigno malsano, colmo di rabbia pronta ad esplodere. Che non ebbe modo di rivolgere al caro Dimitri, già intento a pararsi il culo dall'attacco di due ragazzine, ma bisognosa di trovare un valido sostituto come valvola di sfogo. Ad esempio, una tipa intenta a rialzarsi a fatica dopo essere stata lanciata contro un albero. La donna poteva anche essere ferita, stremata, impossibilitata a difendersi, certo a lei non faceva pena: era una di loro , gli stessi che avevano attaccato suo padre e i suoi fratelli, e come motivazione bastava e avanzava. Socchiuse gli occhi, inspirando a fondo per escludere le urla di dolore e affanno, la mente ed i pensieri ad insinuarsi nel folto del bosco, tra gli alberi sui quali era ormai calata la sera; le sentì, placidamente nascoste tra i rami, piccoli occhi vuoti ad osservare dall'alto il sangue luccicare nell'erba, pallide piume frementi sul ventre, di un giallo così tenue da apparire quasi trasparente. Parló con loro, comunicando un furore che le cince ben conoscevano, una rabbia, la loro, covata per troppo tempo. Può darsi che avrebbero deciso di starne fuori, aspettando un momento più propizio per sterminare il genere umano, se Zenith non avesse controllato le loro piccole menti diaboliche, ma ormai il dato era stato lanciato, i numeri scelti dal Fato #wat Le avrebbe spinte a calare funeste come la Morte stessa sulla figura di Tasha, i becchi appuntiti diretti a quel cuore palpitante, un attacco letale. Davvero letale.
    Voltandosi, infine, per assicurarsi che Dimitri fosse morto e sepolto, si rese conto dell'ultima mossa dell'uomo, un ironico vaffanculo rivolto a coloro che tentavano di contrastarlo. Lo schiocco della frusta fu perfettamente udibile, la sferzata nell'aria persino percepibile a sfiorare la pelle. Fai qualcosa. Una voce, quella voce, a scuoterla nel profondo. «Perché?» chiese, a se stessa, mentre già si proiettava in avanti, entrambe le braccia tese in direzione di Jekyll. «Ti prego.» Si ritrovó con la maglietta del biondo tra le dita, senza nemmeno essersi accorta dei passi compiuti per raggiungerlo, i polpastrelli ad imprimersi nella carne scoperta prima di intrecciarsi tra loro; lo trascinó indietro, verso di sé, con sufficiente forza (si spera) da togliere il ragazzo dalla traiettoria della frusta, il baricentro di entrambi rovinato dal brusco movimento. Era a terra, DI NUOVO, con il gomito di quella pertica bionda infilato nello stomaco. «Ti vuoi levare??!» Che vita infame quella degli schizofrenici.

    | ms.


    euge

    DIFESA COMBO per jade con jade:
    placca etienne

    ATTACCO COMBO eubeech contro Etienne: pugni in faccia

    DIFESA COMBO per thad con arci:
    protego

    zenith

    DIFESA COMBO per zenith con cora:
    rotola via

    ATTACCO COMBO con hyde su tasha :
    richiama stormo di cince assassine

    DIFESA COMBO per jekyll con hyde:
    tira jek verso di sé (?) e cadono a terra #biondi

    che bello, nemmemo le gif della stessa dimensione, grazie cell.
     
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    aesthetic ||03.07.17 ||
    Era circondata da moltissime persone, ognuna con un intento diverso: c'era chi a finalmente scappando con la caduta della barriera, c'era chi si dedicava alla difesa delle persone attaccate, c'era chi attaccava e infine c'era chi cercava di guarire i feriti. Lei invece non apparteneva ad una sola categoria perché difendeva e attaccava, un circolo continuo e vizioso. Non si sarebbe tolta di mezzo, non avrebbe permesso che qualcuno che non lo meritasse, morisse, non avrebbe negato un'aiuto in più. Tutt'attorno a lei regnava il caos, non riusciva nemmeno a capire dove fossero le persone a cui voleva bene, si era detta di non volerle perdere di vista ed invece era proprio quello che era successo. Nel frattempo avrebbe cercato di essere d'aiuto nelle vicinanze che di sicuro era più utile che cercare magari inutilmente qualcuno. L'occhio cadde sto in tempo verso Aidan che stava per essere attaccato. Avrebbe quindi puntato il più velocemente possibile la bacchetta verso Aidan e pronunciato «Protego.» per appunto proteggerlo dall'incantesimo. Come se non servisse, la sfiga volle che nel suo raggio di azione entrasse Arci, che venne preso di mira da un urlatore ambulante che neanche i venditori nei mercati. Mossa a compassione, molta compassione, lanciò un «Silencio.» in direzione del venditore ambulante chissà, magari lo era veramente o del cantante di opera lirica, ma questo l'avrebbe accertato solo se con la sua voce avrebbe spaccato un bicchiere di vetro, altrimenti sarebbe stato un cantante da due soldi. Diciamocelo. Syria molto probabilmente si sarebbe pentita di aver difeso Archibald, non correva buon sangue fra lei e i serpeverde e lui non era certo un'eccezione, ma così almeno nessuno si sarebbe spaccato i timpani e già le urla l'avevano infastidita. «Ciao sfigato, non ringraziarmi.» L'orgoglio dopotutto nessuno dei due l'avrebbe messo da parte molto probabilmente. Forse avrebbero iniziato a prendersi in giro, anche in un momento come quello, chi l'avrebbe potuto dire. Alla fine magari il Silenzio l'avrebbe scagliato anche sul ragazzo o altrimenti si sarebbe armata di ago e filo e gli avrebbe cucito la bocca. Due sole erano le soluzioni, sarebbe stato lui a scegliere in caso. Anche sua cugina nel frattempo l'aveva raggiunta, anche lei in aiuto di Arci. Quasi avrebbe vomitato, questo non sarebbe mai riaccaduto. Cosa facciamo? Rimaniamo o ce ne andiamo? Sarebbe stato bello andarsene, ma non era giusto. Non avrebbe più potuto essere d'aiuto e lì di man forte ce n'era assolutamente bisogno. «Io resto fino alla fine, c'è bisogno d'aiuto, ma se tu lo ritieni giusto o vuoi andartene, puoi, non preoccuparti.» Non aspettò molto per la risposta che fu quasi istantanea. No, resto Sorrise annuendo alla sua risposta, era fortunata ad avere qualcuno che potesse romanerle accanto in quel momento. Si sarebbe quindi slanciata verso Dimitri. «Bombarda.» Uno dei suoi incantesimi preferiti, le esplosioni erano il suo forte. Se fosse andato anche a segno non si sarebbe trattenuta da un «BOOM BITCH.»

    | ms.

    Difesa combo con Arcie su Aidan.
    Difesa combo con Ekate su Arci.
    Attacco combo con Ekate su Dimitri.
     
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    -- Se Archibald avesse avuto un galeone per ogni volta che aveva difeso qualcuno spassionatamente, sarebbe stato ancora un poveraccio, perchè lui non aiutava nessuno senza motivo. Vuoi perchè voleva bene alla vittima, o erano in "squadra" insieme e la sua morte sarebbe stato un malus, vuoi perchè questi meh, era proprio sulla sua traiettoria dove doveva passare, o ancora per poi rinfacciargli di avergli salvato la pellaccia, ma in ogni caso non gli veniva in mente mai di essere carino senza tornaconto.
    Figuriamoci con quel minchione di Aidan Gallagher.
    Non che ce l'avesse con il grifotonto per qualche gran motivo particolare, eh. Arci era così: una drama queen che si legava qualsiasi cosa al dito, anche le cose più piccole e stupide (ancora covava rancore aspettando di vendicarsi per quella volta che Oscar aveva finito tutto il succo alla pera, lasciando Arci a bersi la benza liscia). Insomma: fu istintivo, vedendo Aidan nei guai, ripensare a tutti gli stupidissimi scherzi per niente divertenti che gli aveva fatto (per qualche motivo gli scherzi apparentemente era bello solo farli, non riceverli; TU PENSA), ma soprattutto a quando aveva rovinato il finale di un indovinello che Arci stava facendo ad alcuni ragazzini («Cos'è giallo, schiacci un pulsante e diventa rosso?»), passando di lì con quel sorriso da idiota e commentare («uh, è quella del pulcino in un frullatore?»), rovinando tutto.
    Stronzo. Forse se la meritava quella maledizione.
    Oppure
    Oppure
    Arci partì dal nulla alla carica come un giocatore di rugby, la schiena piegata in avanti, le braccia tese e allargate. Prima che l'incanto potesse colpire Aidan, Arci si sarebbe buttato su di lui con tutto il suo dolce peso, atterrandolo in quel placcaggio la manuale, il proprio corpo peso piuma su di lui. Chissà se nel farlo, aw, fortuna delle fortune, gli aveva -boh, rotto una falange o qualcosa del genere.
    «Mi devi un favore, amiko», fece notare perchè sì, ovviamente aveva aiutato il prefetto solo per avere in cambio qualcosa (non più favoritismi sull'orario di coprifuoco, purtroppo, ma qualcosa avrebbe trovato). Mal che vada una buona parola con Maple per un bis di sette minuti in paradiso (ma anche con Aidan stesso, WHY NOT).
    Arci si alzò pulendosi le manine sui pantaloni (perchè? Mah, gesto istintivo), e neanche si accorse subito che un tipo aveva appena provato ad assordarlo. Bah, vivendo con il piagnone Yugin e la bestia Akelei, era abituato a peggio #wat
    Il panettiere guardò per nulla impressionato le due ragazzine che lo avevano, a conti fatti, salvato da una vita di silenzio (che poi, sarebbe stato quasi un favore non dover più sentire le minchiate della gente; avrebbe patito molto di più la perdita di vista o tatto: come avrebbe poi potuto bearsi delle tette della Queen o di Ake?). La Hollis corva, soprattutto, sembrava così... Hollis corva, nel suo essere tutta alzezzosa e gngn sono meglio di te. Alla fine aveva solo fatto un incantesimo da primo anno, eh, e nessuno le aveva chiesto di salvarlo (per quanto fosse felice che lo avesse fatto gratuitamente, ovvio).
    «Ciao sfigato, non ringraziarmi.»
    ... ripensandoci anche la Hollis tassa aveva un po' superato il limite.
    «Volete un applauso?», domandò a entrambe con tono piatto
    «Si»
    WOOOOO
    .
    Davvero, Ekaterina, davvero? (Sì, si era appena guadagnata un nome proprio). Questo significava guerra .
    Arci non distolse lo sguardo, alzò la mano, pronto a riabbassarla con violenza. Stava forse per schiaffeggiarla? Meglio. Fece un applauso, battendo una sola volta fra di loro le mani. «Braaave.» commentò fra l'ironico e l'apatico, e prima che la situazione degenerasse ulteriormente si allontanò verso lidi meno guerriglieri, ignorando completamente Aidan, probabilmente ancora a terra con le ossa rotte.
    Si diresse invece verso il suo piccolo Thaddino, che pur essendo un nano malefico evidentemente continuava ad aver bisogno di aiuto, come stava giustamente cercando di comunicargli Euge (damn, peccato la brotpatia non funzionasse ancora bene fra generazioni diverse; Arci continuava ad aver bisogno di tette come tramite per comunicare con gli altri, e non aveva tempo di cercarne).
    Si parò accanto al suo maestro, davanti a un Thad che evidentemente «Non riesci a stare due secondi senza di me, eh? Quando s- ma. Ti trovo cambiato?» Possibile? In fondo erano passati solo, quanto, due minuti? Strano. "Sarà la pubertà. A qualcuno colpisce tutto insieme". Poco importante che fra un po' Thad avesse trent'anni.
    Eugene chiaramente si aspettava una difesa strafiga da parte di Arci, quindi Arci non lo avrebbe deluso. Rapido come una gazzella la mattina di Natale davanti ai regali sotto l'albero (?), si sarebbe affrettato ad afferrare Thad l'affettuoso per i fianchi e sollevarlo di peso, spostandolo dalla possibile traiettoria dell'incanto. MA NON SI SAREBBE FERMATO LI! Arci tenendo sempre in alto l'amico avrebbe volteggiato come una ballerina, avvicinandosi al draghetto, e usando il buon thaddy bear come arma impropria, avrebbe colpito il nemico. Forse Thad un giorno l'avrebbe ucciso, sicuro proprio, ma fintanto era Arci a tenerlo sollevato stile cigno bianco del lago dei cigni (ammetto di non avere idea di cosa parli quel balletto, un po' come Arci, ma immagino almeno in una scena ci sarà una presa così), non poteva fargli del male senza morirci anche lui.

    -- Sarebbe dovuta scappare. La breccia nella barriera era stata aperta, stile Wall Maria in SNK, e lei se ne sarebbe proprio, proprio, dovuta andare. Sarebbe dovuta entrare nella casa dei suoi genitori (non era casa sua da così tanto tempo, ormai), guardare Jodie e Richard e forse Ego giocare con quel piccolo provolino biondo che era suo figlio e finalmente riabbracciarlo, rassicurarlo che andava tutto bene, che la mamma era di nuovo lì per lui, per assicurarsi che niente gli sarebbe successo e che non sarebbe rimasto mai solo. Tupp era al sicuro (o almeno, così sperava) sul palco con Lancaster, e degli altri studenti di Hogwarts già qualcuno era scappato, altri erano andati nella zona neutrale. Nonostante si fosse sempre ritenuta una ragazza da prima linea, pronta a combattere in ogni situazione per quello che riteneva giusto, la sua volontà vacillava sapendo il figlio da solo, forse impaurito e spaventato che i genitori o Run non avrebbero fatto ritorno. Fece un passo per andarsene, il cuore combattuto tra ciò che avrebbe fatto la rivoluzionaria Jade e ciò che avrebbe fatto la madre Jade... ma un grido di battaglia la fece fermare e voltarsi.
    «Uh, oui oui c'est la Madelein! Quasi quasi faccio rap in francese. Mi fa più elegante cantante TIRA SU LE MANI SE ANCHE TU C'HAI L'AMANTE!»
    Neanche fece caso subito all'uomo in divisa francese che l'aveva puntata, concentrata com'era su uno stupidissimo Eugene che correva cantando il REB alcolistico. Aw, la loro canzone (???). «Nella pista c'è Beecha a palla, È IL MIO RAGAZZO, GUARDA COME BALLA!» (non si resiste alla tentazione, scusate, ogni tanto la JB in lei usciva. Chissà se Jowc stava ascoltando e si sarebbe aggiunto?)
    Come poteva andarsene, quando quel bambinone di Euge era lì? Con anche Run, lì vicino, Elijah, Rea, Mae, e un sacco di altra gente che amava? Uran poteva aspettare altri dieci minuti., il tempo di assicurarsi che quelli che comunque erano la sua famiglia allargata non morissero. O che non morisse la sua disperdi latte, comunque.
    Sventolando una sedia come fosse stata una mazza, il francese sembrava essersela presa con lei e Run. Poi era lei la beech.
    «Non ci pensare», borbottò, e giustamente la prima difesa che gli venne in mentre contro il paletto fu la creazione, giocando con la luce e con le particelle luminose che vedeva vivide intorno a lei come pezzi di lego, di uno scudo. Lo scudo di Captain America (perchè vergognarsi di essere team Cap? CIAO LANCASTER SKS).
    Avrebbe dato una botta alla gamba della sedia con cui il francese cercava di ucciderla («Tifavo per voi, cazzo!»), e poi mentre Euge, arrampicato sopra di esso, lo prendeva a pugni, Jaden avrebbe contribuito infierendo con scudate sui denti e col colpo di grazia una ginocchiata sulle parti intime (quello era per Run).
    Si fermò prima del pavor, guardando, suo malgrado leggermente eccitata, l'uomo fare giustizia. Ok che lei era dalla parte dei baguette però... daaamn. Euge era particolarmente sexy, combattendo. Non le era mai capitato di vederlo lottare seriamente, e non poteva dire di esserne delusa. Chissà se avrebbe potuto chiedergli di mantenere quella passione anche a letto...
    «Jade, te l'ho mai detto che quando fai così la dura mi ecciti e terrorizzi insieme?»
    La bionda alzò lo sguardo, distogliendolo con difficoltà dalle mani sporche dell'uomo o dai suoi muscoli gonfi e vibranti. Finchè si rese conto di quanto detto dal Jackson. Oddio, era come lui? Erano due psycho?
    «Ti ho visto eccitarti e terrorizzarti per molto meno» how do you flirt what is life i don't know. Nel libretto delle istruzioni di "Come essere sempre badass", trovato nel numero uno di "costruisci la tua aria da motociclista senza paura e senza vergogna" con la giacca di pelle, non c'era spiegato come rispondere in certe situazioni. Dannazione. «Ne riparliamo a casa» Ammiccò facendo finger gun.
    E mentre Eugene andava a salvare il sedere al loro vicino, Jade scappò per evitare di proseguire quella conversazione partì alla volta della figlia del suo capo, quella pulcina di Zenith. Pur essendo più grande di Jade di due anni, per Jaden era ancora una topolina da salvare dal mondo, e la considerava un'amica, anche se era sempre terrorizzata all'idea di dover dare un giudizio ai suoi quadri. Jade amava l'arte, eh, e amava anche lo stile di Zen (che oltre tutto aveva un nome fighissimo). Tuttavia, trovava profondamente disturbante la collezione di quadri di Phobos nudo a casa Campbell. Cristo, quanto lo trovava profondamente disturbante.
    Aveva sempre pensato di non avere problemi con i quadri di nudo, o la nudità in generale (sapete, vivendo con Run e soprattutto EUGE, mister nudista), ma dopo aver visto le grazie del proprio capo rappresentato da quella che era praticamente sua figlia... nope. NOPE. Non riusciva più a vedere Phobos con gli stessi occhi (E LEI CHE AVEVA PURE PENSATO FOSSE FIGO), senza pensare a mini phobos. E aveva pure un suo stupido quadro a casa, perchè Zenith, vedendola rimasta a bocca aperta davanti alla collezione, le aveva gentilmente chiesto se ne voleva uno.
    «Ma, veramente...» «Dai, è un regalo! Ti piace così tanto...» Se non avesse avuto paura che un giorno Zen sarebbe andata con Phobos a trovare gli Eubeech, e Jade avesse dovuto appendere il regalo fingendo fosse sempre stato lì (come se fosse normale avere un ritratto del proprio capo senza vestiti, se non per lo scettro e la coroncina di sailor moon), forse lo avrebbe bruciato e avrebbe gettato le ceneri nell'oceano, come gesto di purificazione.
    Eugene non sapeva nulla di quel quadro, nascosto sotto il letto. E non lo avrebbe mai scoperto, perchè probabilmente avrebbe voluto appenderlo e jaden avrebbe dovuto fingere non le creasse problemi perchè aveva una reputazione da mantenere.
    Tutto ciò per dire: OH ECCO ZENITH!
    E anche OH CIAO ZENITH visto che già si era difesa. Vabbè, ci aveva provato ma neanche troppo
    A quel punto, nel suo campo visivo entrò Elijah.
    "Merda."
    Elijah era ancora... un tasto sensibile. Era piuttosto sicura di non provare più niente per lui, e di essere felice per come il ragazzo, amico d'infanzia di Rea, fosse riuscito infine a conquistarla (era quindi già lei la ragazza per cui già anni prima era chiaramente innamorato, e per colpa della quale non si concedeva mai a nessuna?)... però, cotta adolescenziale a parte, restava un piccolo, essenziale dettaglio.
    Jaden gli aveva cancellato la memoria.
    Inevitabilmente tutti i dottori o ex dottori che conoscevano quel segreto erano collegati, e con il fatto che Eli avesse la chiaroveggenza Jade temeva sempre che da un momento all'altro lui avrebbe ricordato, che avrebbe saputo quello che era accaduto, che avrebbe detto a Eugene la verità sulla bionda. Sarebbe stata una catastrofe di dimensioni epiche. Euge non avrebbe mai capito, non ci avrebbe neanche provato, e ormai, volente o dolente, la vita di Jade girava attorno a lui.
    In ogni caso, a Elijah ancora voleva bene (al vecchio Elijah, quello che era stato suo amico, nascosto lì da qualche parte, e al nuovo Elijah, conosciuto nuovamente grazie a Eugene), e non avrebbe permesso che gli capitasse (di nuovo) qualcosa di male. Prima che l'incanto arrivasse all'obiettivo, quindi, si sarebbe posizionata ancora con lo scudo americano di fronte a Elijah, un «Giù» mentre lo afferrava con l'altra mano dalla spalla per spingerlo in basso e tenerlo nascosto.
    «Captain America, eh? Mai figo quanto Captain Shipper, se posso dire la mia»


    -- Ovviamente Nathaniel era accorso appena il suo cucciolo di golden retriever preferito era stato preso di mira, per chi lo avete preso? Non per ricambiare il favore del salvataggio di poco prima, in combutta con la cerbiattina Zenith (se avesse dovuto ricambiare il favore per ogni volta che Elijah, apposta o senza saperlo, lo aveva salvato, saremmo ancora lì), ma perchè era Elijah, andiamo. Per lui avrebbe fatto di tutto, per lui aveva rischiato di morire in uno strano rito satanico di cui non sapeva niente.
    I loro cuori battevano all'unisono, insieme a quelli della Hamilton, e come detto da Lancaster qualche mese prima vicino all'amico Nathaniel si sentì improvvisamente più forte. Non era sicuro di cosa di eli o di Rea avesse inglobato nelle sue azioni quotidiane (rea continuava a dire di essere sempre la solita, ma li aveva visti gli occhi da shipper folli e le stelline nascoste in tasca, nathaniel), forse niente, ma almeno sul sentirsi meglio insieme, completi, il preside di Salem. aveva avuto ragione
    Fece un banalissimo protego dopo essersi piazzato davanti allo scudo dietro cui si nascondeva Elijah, in modo che tutti e tre fossero protetti dallo stupeficium. Bacchetta ancora in mano, Nathaniel avrebbe fatto anche lui qualcosa di badass. Tipo, idk, un bel «Foramen» alla gambe del tipo, così imparava a fare sgambetti. Nate non voleva uccidere nesuno, non quel giorno, ma non era più tanto sicuro che sarebbero riusciti a contrattare con quegli stranieri. Iniziava a sentirsi un po' salvini, con l'odio per i clan de stini.
    «Captain shipper? Come quello del forum?»
    Nate guardò a destra e sinistra, e vedendo campo momentaneamente libero si voltò verso l'amico e Jade. Elijah ovviamente sapeva che era Nate a nascondersi dietro il cofounders del forum dello shipper club, ma non voleva che anche la bionda compagna di Euge lo sapesse. Doveva essere antisgamo. «Esatto», iniziò, cercando aiuto negli occhi dell'amico. «Non è semplicemente fighissimo e fantastico? Meglio di tutti gli altri plebei»
    Era andata bene? Non ne era sicuro. Nel dubbio MiSSION ABORT, un panic moonwalk per andarsene ignorando lo sguardo confuso della Beech, e via verso l'infinito... o meglio, verso la propria morte.
    Visto che già ci era andato sotto con moonwalk, sempre imitando Michael Jackson e ignorando il dolore alla caviglia per la slogatura di poco prima, per evitare il malefico sgambetto di uno dei soldati avrebbe fatto un toe stand con tanto di «Uuh!» acuto, ed era francamente una difesa di merda, quindi ringraziamo la buona Cora, presente ora come allora (ora come nel futuro? Vabbè) come bastone della sua vecchiaia, che lo trascinò via. Aw grz figghia
    «Anche tu sei familiare.»
    Aprì la bocca per replicare, dire qualcosa di sassy (?) tipo «Si, beh, io sono famoso», considerando che era sia capo ministeriale che professore a Hogwarts che personaggio di internet (?)... tuttavia si fermò. Non gli sembrava una risposta corretta.
    E una risposta corretta non ebbe il tempo di elaborarla, visto che questa dolce pulzella se ne andò, proprio verso la cerbiattina.
    «Eli, secondo te non...» no dai, non poteva dirlo. O si? «Non mi somigliava un po'?» più ad Aveline, ma forse solo perchè era una ragazza; in qualcosa le ricordava sè da bambino. «Meh, sto diventando vecchio. Presto girerò con la coppola come Sin e andrò a guardare cantieri» non disse che già provava desiderio per entrambe le cose. Aveva una reputazione.

    -- Avrebbe voluto che quella ragazza dagli occhi tristi non lo disturbasse così tanto. Perchè poi? Non la conosceva, non l'aveva mai vista prima. Era solo una tipa a caso conosciuta ad una scazzottata a caso (perchè questo era per Joey, niente di più e niente di meno). Non doveva neanche importargli che conoscesse tanto bene i suoi amici, che tenesse particolarmente alla loro salvezza... eppure lo trovava strano. Nessuno voleva bene ai freaks. Nessuno li aiutava spassionatamente: per questo avevano iniziato a farlo fra di loro.
    Anzi. tutta quella gente così spassionatamente interessata a loro iniziava a dargli i brividi. Si stava forse perdendo un pezzo del puzzle? Odiava non avere ben chiara in testa la situazione. E Cristo, odiava che la gente che non conosceva gli si avvicinasse.
    Rotolò a terra proprio mentre l'uomo faceva qualcosa, e rialzandosi Joey lo guardò con una smorfia, le braccia spalancate.
    «Mi segui, cazzo sbottò, lo sguardo rivolto al ragazzo tatuato che, ancora, era lì al suo fianco. Forse se avesse conosciuto Jason Maddox in un tempo diverso sarebbero andati d'accordo; Jaz gli avrebbe venduto pasticche che annientavano il dolore, Joey lo avrebbe pagato con soldi sporchi sapendo che al drogato non importava... invece, il divario di età li aveva fatti conoscere solo a quella maledetta festa di aprile (che, tutto sommato, era stata divertente) e reincontrare a quel funerale. Non tanto ambientazioni scomode, in realtà, non per un ragazzino violento come Joey, ma Jason aveva aiutato Joseph, stampandogli un debito a troppe cifre sul petto. Non voleva essere aiutato, Joey. Non da lui, non da altri. Soprattutto non da infamissimi adulti, di cui non si fidava.
    Tirò fuori la bacchetta, e senza starci troppo a pensare spacò un foramen sul petto del soldato, sperando di stenderlo. Non era un fottuto gioco quello, e non si stava divertendo.
    «Siamo circondati. Non seguo te, ma sei nel mio cammino. Tra me e il mio ragazzo. Spostati.»
    «Vai da lui» indicò con la testa l'ubriaco di poco prima, che sembrava essersi preso una cotta, oltre che per Joey, anche per l'ex infermierino della scuola che continuava a pedinare. «Non vedi che ci prova col tuo ragazzo?»
    Cliff anche voltò la testa per il biondo e... cazzo. Non solo ci provava con la gente. Ma si distraeva anche, rischiando di morire come uno stupido. Meh, doveva lasciarlo morire, o poteva pensare a come aiutarlo? In fondo lui l'aveva -again- salvato, con quell'altro morto vivente che gli aveva dato del ritardato gratis (e vabbè, era stato insultato in modi peggiori)... forse doveva aiutarlo? Giusto per fargli vedere che se la cavava da solo.
    Corse in là, puntando la bacchetta che aveva ancora in mano in direzione del soldato e facendo un Ad ignem muto, perchè si distraesse abbastanza per lasciare la frusta e non colpire nè l'ubriaco nè gli altri due biondoni.
    Ed ecco lì di nuovo il suo amiko tatuato.
    «cristo, non ci credo. Sei un fungo»
    «E smettila di essere così paranoico. Sembri Dakota.»
    Joey aprì la bocca per dire che non sapeva chi fosse Dakota, ma la richiuse. Tecnicamente lo sapeva, ed era stupido fingere il contrario dopo tutti gli anni in cui aveva lavorato a scuola, e tutti gli anni in cui il suo nome aveva avuto uno strano sapore agrodolce sulla lingua del corvonero, senza un apparente motivo.
    «Sono solo realista»
    | ms.




    NATE
    -- difesa nate con cora
    -- difesa elijah con jade
    -- attacco RUDOLF

    ARCI
    -- difesa aidan con syria - placcaggio aidan
    -- difesa thad con euge - lo solleva da ballerina
    -- attacco MAXIM - usa thad come arma #wat

    JADE
    -- difesa jade con euge
    -- difesa eli con nate
    -- attacco ETIENNE

    JOEY
    -- difesa joey con jaz
    -- difesa cliff con jaz
    -- attacco ALAIN


    Edited by mephobia/ - 14/8/2017, 11:23
     
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    Era rimasto probabilmente fermo per quello che poteva sembrare un tempo infinito, quel tempo in cui vide Jeremy difendere loro sorella e la barriera farsi sempre più stretta intorno a loro o magari era solo una sua idea. E lui cosa stava facendo? Niente. Non aveva idea di quello che stava capitando e non sapeva come muoversi, tanto da rimanere praticamente inerme davanti a quello che stava succedendo; avrebbe voluto aiutare, fare qualcosa di utile alle persone che aveva intorno, invece di essere un peso. Non si sentiva mai al posto giusto, sicuramente avrebbe fatto qualche danno rimanendo lì.
    Forse dovrei andare sul palco si disse, nella speranza di sentire Mickey dirgli di scappare immediatamente ma non sembrava essere presente. Sospirò, forse non era il momento per deprimersi, doveva agire. Vide Run aggredita, così non ci pensò oltre, corse da lei. Nessuno poteva toccare la sua famiglia, avrebbe anche dato la propria vita per proteggerla, se ce ne fosse stato bisogno (succederà mio caro e cuccioloso Todd). Avrebbe potuto correre e spostarla, saltandole addosso, ma una ragazza lo anticipò così per aiutare decise di provare con la magia, visto che era un mago era il caso di esserlo davvero ecco. Depulso urlò puntando la bacchetta verso la sedia in rotta di collisione verso la sorella, sperando di vedere l'oggetto frantumarsi con quell'incanto.
    Solo che la ragazza non era così felice ( e chi lo è), perché vide anche lei sotto attacco, così provò a mettere in sicurezza anche lei, nonostante non sembrasse averne bisogno, lui sentiva che era la cosa giusta da fare, come se fosse importante per la sua famiglia fare un gesto simile. Puntò quindi la bacchetta verso l'avversario e Languelingua un incantesimo non verbale, poteva essere la miglior soluzione per fermare il tizio che stava provando a far volare via sua nipote la sconosciuta ma anche non troppo.
    Dai, che poteva farcela, si sentiva così vivo, poteva combattere contro il mondo intero e sapeva di potercela fare ( per ora), non era male alla fine e iniziava a capire perché sua sorella e Jeremy spesso si ritrovavano a vivere esperienze simili, forse era tipo la droga, erano sempre alla ricerca di adrenalina per sentirsi vivi, come stava capitando a lui. Sorrise e provò a fare il passo successivo, attaccò uno dei presenti ( Eugene) puntando verso di lui la bacchetta. Doveva solo pensare ad un incantesimo figo da lanciare; poteva farne uno che lo facesse esplodere, o magari qualcosa di più leggero come un immobolisu, così da fermarlo solo o farlo svenire, insomma non doveva per forza ucciderlo. Tarantallegra disse, serio come se avesse appena lanciato un incantesimo di morte. Ma che idiota di un Todd.


    Minchia sei, mio padre? Jason guardò Joey che incazzato gli rivolgeva la parola, non aveva tutti i torti, perché si era comportato in quel modo? Cosa pretendeva da lui, che salisse sul palco al sicuro? Manco fosse Dakota, cosa poteva fregargliene a Jason di uno come Joey eh? Niente. Hai ragione non suo tuo padre disse riconoscendo l'errore; loro due non avevano niente in comune, poteva anche morire per quanto poteva importare all'ex serpe. Fanculo stronzetto disse offeso, incazzato; non era Dakota quindi non era della sua vita che aveva interesse. Eppure gli era venuto così spontaneo, non si era trattenuto e la cosa peggiore era che aveva davvero sperato che corresse nella zona sicura. Che pazzia.
    Si ritrovò a seguirlo con lo sguardo mentre ( forse sono successe cose nel frattempo ma io salto) si faceva spazio tra le persone, odiando tutti i presenti e salvandole qualche d'uno. Certo che di coraggio ne aveva da vendere, se non fosse stato per quel carattere di merda, come il suo d'altronde, poteva sembrare il rosso; per il modo in cui combatteva sembrava credere molto in qualcosa ( ma cosa dico ahah ). Quando lo vide in difficoltà o magari sembrò a jason ( cuore di papà) fece un passo verso di lui e diede un pugno al nemico. Quanto amava prendere a cazzotti le persone, davvero, era liberatorio più di una notte di sesso, non è vero, quello non lo batteva nessuno, specialmente con il suo rosso ( Si Dakota è una sgualdrina); ma cazzo se lo faceva sentire vivo, gli piaceva il contatto con i volti delle persone, il faccia a faccia era spesso la miglior soluzione, per confrontarsi. Poi gli diede una ginocchiata allo stomaco, sperava di metterlo k.o una volta per tutte, la doveva smettere di attaccare suo figlio Joey.
    «Mi segui, cazzo?» sentì da dietro, quasi, l'acidume del biondo ( o castano chiaro?). Possibile che doveva lamentarsi sempre? Ma era anche Jason in quel modo? Quasi sicuramente si; come faceva Dakota a sopportarlo? Spesso se lo chiedeva, era così scontroso, orso e Maddox ecco. Non augurava a nessuno di diventare come lui, avere un altro Maddox in giro non era sano. Sospirò Siamo circondati. disse facendogli notare che non erano soli, anche se in effetti doveva smetterla di preoccuparsi di lui, visto che non lo conosceva e questo non voleva farsi aiutare. Ma ancora una volta non era riuscito a trattenersi. Non seguo te, ma sei nel mio cammino. Tra me e il mio ragazzo. usò la prima scusa che gli venne in mente, non poteva certo dirgli che qualcosa che lo rendeva familiare ai suoi occhi lo spingeva ad agire in quel modo. Spostati. aggiunse, guardando ora Dakota, doveva avvicinarsi a lui. Odiava saperlo lì e senza lui a proteggerlo.
    «Vai da lui» disse indicando però Cliff, ma non aveva idea di chi fosse, anche se...Dannazione, pure lui era così familiare. Ma cosa stava capitando? Troppa droga in quegli anni, gli aveva bruciato il cervello. «Non vedi che ci prova col tuo ragazzo?».
    Cosa?? in un momento del genere? Eppure non sembrava che ci stesse davvero provando, ma cazzo non poteva certo permetterlo. Dakota era suo. Andò versò Cliff, e si bloccò. Era davvero fin troppo strano, era come se, non riusciva a capirlo neanche lui. Non fece niente se non fissarlo per qualche istante per poi provare ad aiutarlo dall'attacco. Lo prese da un braccio e lo spostò dalla traiettoria della fune. Vuoi proprio morire eh? Svegliati. Cazzo. lo rimproverò, non che gliene fregasse molto ma doveva comunque aiutare, non poteva salvare il culo a tutti.
    «cristo, non ci credo. Sei un fungo» esordì il ragazzo acido. Jason sbuffò, stanco di litigare con lui «E smettila di essere così paranoico. Sembri Dakota.»
    «Sono solo realista»
    Si certo. Ragazzo. Come vuoi era proprio arrivato il momento di assecondarlo, non poteva di certo passare il resto del tempo a discutere con un ragazzino immaturo e acido, una testa calda. tutto suo padre .


    Shia, un nome una garanzia. E quale garanzia, insomma era davvero una bomba quel ragazzo, divertente e ricco. Aveva davvero tutto, per non parlare che era sempre nel vivo degli eventi, come in quella battaglia d'altronde, anche se ultimamente non stava andando moltissimo bene, si poteva dire che tutto sommato se la stava cavando. E per gli altri? Amen. Shane era al sicuro per il momento, quindi perchè preoccuparsi di persone che non erano Shia Hamilton? Magari poteva preoccuparsi della sua sgualdrina preferita, ma era in buone mani, o quasi visto che soggetti la stavano aiutando. ( Dai Todd, faccio il tifo per te). O magari poteva anche non uccidere il Crane.
    Per sua, anzi loro, fortuna, l'attacco di Al andò male ed erano entrambi vivi e felici insieme, magari avrebbero festeggiato la vittoria in un locale, ma prima doveva uscire non morti da quel campo di battaglia e l'unica soluzione era prendere sulle spalle sia lui che Sin e correre. Peccato che avevano tutti e tre altro da fare, ognuno a difendere persone a caso. Magari poteva farlo anche lui no? Per un secondo pensò di andare nella zona sicura e godersi lo spettacolo, ma lui si divertiva in quel momento, gli piaceva mettersi sempre alla prova e cercare di non far morire il suo migliore amico, non ci stava riuscendo benissimo ma almeno stava facendo qualche tentativo.
    ( e...si passa alla difese a caso, scusate)
    Prese il tizio da un braccio, provando a bruciarlo col proprio veleno, che stava provando ad attaccare Patrick, lo zio di Shane; per questo si stava scomodando, sennò ne avrebbe fatto a meno, un Hamilton non rischiava la vita per persone a caso. E poi provò a lanciarlo a terra, facendo una giravolta fanne un'altra per poi lasciarlo cadere qualche metro più in là.
    Solo dopo sentì probabilmente qualche imprecazione alle sue spalle,notando così Cj, che con poca grazia si scansava dal proprio attacco, così per aiutarlo Shia, diede un calcio allo stomaco del tizio, così da non doversi più preoccupare che quello facesse male al ragazzo, anche se meh, sembrava cavarsela benissimo da solo, dato che sembrava così testa di cazzo.




    | ms.



    chiedo venia, fa schifo ma sto crollando.
    allora.
    Difese:
    - Difesa combo per Cj con Shia e Cj: Shia calcio nello stomaco
    - Difesa Patrick Con Shia: Blocca il braccio e tenta di bruciarlo
    - Difea: combo per Ade con Cj e Todd: Languelingua
    - Difesa combo per Run con Ade e Todd: Depulso
    - Difesa combo per Joey con Joey e Jason: pugno in faccia
    - Difesa combo per Cliff con Joey e Jason : sposta Cliff

    Attacco:
    Attacco combo su Maxim con Shia e Arci: Lancia via dopo averlo perso il braccio
    Attacco combo su Etienne con Euge, Jade e Todd: Tarantallegra
    Attacco combo su Alain con Joey, Cj e Jason: ginocchiata nello stomaco.
     
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    Il tempo ad addensarsi, l'ironia a farsi più pesante - soffocante, sul palato di Adelaide Milkobitch - di battito in battito, di secondo in secondo.
    Di lancetta in lancetta a portarla più vicina ad un addio che non si meritava, Ade - perché non era stata abbastanza malvagia, in nessuna vita, da meritarsi una sorte simile. Dov'era Grey? Cliff? Jekyll, Hyde? - che poi, i due zii erano...cresciuti? Come. Non avevano avuto tempo per i cortesi convenevoli che implicavano domande di rito quali come fate ad essere qui?, e ad essere sinceri, in quel momento le importava assai poco. Era solamente lieta, Adelaide Milkobitch, che ci fosse qualcun altro a dover sopportare l’insostenibile fardello dell’obbligato silenzio.
    Quegli addii che non avrebbero mai avuto voce, perché superflui e superficiali a ragazzi e ragazze che, di loro, non sapevano nulla – e che non avrebbero cambiato il sapore amaro e ramato del tempo nel quale vivevano, dove di loro, tutti loro, non c’era più traccia. Ade era l’ombra di un’epoca che cercavano di cambiare, nulla più. Un futuro che avrebbe potuto essere, per loro – e che per lei, era ormai passato. Avrebbe dovuto allontanarsi, il cuore pulsante sulla lingua ed il malessere ad ondate dietro le costole - così poco, così tanto, così poco, così tanto, non è giusto - eppure qualcosa la frenò.
    Un guizzo colto con la coda dell’occhio a rallentarle il passo, bloccandole il piede su una zolla di terra smossa. Il muscolo cardiaco a schiantarsi contro le costole, mozzandole il respiro sul palato.
    Non farlo, Ade. Eppure mai, in nessuna vita ed in nessun tempo, Adelaide Milkobitch avrebbe potuto non farlo; anche volendo, e di certo non lo voleva, non sarebbe riuscita ad ignorare quello. Strinse i denti ed i pugni, le unghie a conficcarsi nei palmi. Ci provò, ad inspirare ed espirare - ci provò, a spegnere quel cuore furioso- ma non fu abbastanza.
    Non lo era mai.
    La voce appena sibilata a far vibrare roche le corde vocali, gli occhi blu fissi su un torace pallido e marchiato. «me l’avevi promesso.» boccheggiò piano, avanzando, suo malgrado, di un passo verso il fratello. Lo sguardo punse ogni contusione sul corpo esile ed allungato di CJ: ogni livido, ogni cicatrice, ogni taglio recente. Spinse via il corpo ormai senza vita dell’uomo, ponendosi così vicina a suo fratello che per guardarlo negli occhi, avrebbe dovuto alzare il capo. «me l’avevi» inspirò, le palpebre serrate a trattenere una crisi isterica sull’orlo delle iridi oceano. C’era un po’ tutto, in quelle poche parole: c’era il dolore, l’impotenza, la delusione. C’era la rabbia, soprattutto. Quella sempre. «promesso» ringhiò infine, concludendo il teatrino della sconosciuta dall’aria familiare. Nessuno di disinteressato avrebbe mai potuto covare una tale ira a bruciare la punta della lingua, né un tale disperato bisogno nello sguardo, ora sollevato, a cercare quello giada del fratello. Non gliene poteva fregare un cazzo di meno se per lui erano passati sedici anni, e lei non sapeva neanche chi fosse. Decise che non le importava delle sopracciglia corrugate, della linea serrata delle labbra di lui. Ignorò perfino l’occhiata inquisitoria che le rivolse, il sorriso insano a sporcare i denti di sangue. «chi è stato?» domandò quieta, placida come il ritrarsi del mare prima d’uno tsunami. Se avesse ricordato, avrebbe saputo che quello non era il momento per fare il CJ: avrebbe taciuto, suo fratello, limitandosi a stringere le spalle ed a posare lo sguardo criminale da un’altra parte. Quel CJ, invece, continuò a guardarla.
    Quel CJ, invece, seguendo i suoi occhi sulle proprie ferite di guerra, inarcò un sopracciglio: «queste?» il tono denso e viscoso a strisciare sulla pelle come acido, strappandola dalla carne. Ade represse un brivido tagliandosi la lingua fra i denti, tremolii di rabbia a scuoterle la schiena. Deglutì. Come poteva, non capire. Come poteva, guardandola lì, di fronte a lui, non sapere. Si odiò, e lo odiò, per quella voce. Per quello sguardo, per quella vita.
    Per esistere anche senza di lei, quando lei senza di loro non era nulla.
    «chi è stato» ed avanzò ancora di un passo, trovandosi a mezzo centimetro di distanza da lui. Meno di un’ora prima le aveva promesso che si sarebbe preso cura di sé stesso - e si era fidata, Adelaide Milkobitch. Gli aveva affidato la loro possibilità di cambiare la storia, di salvarla, e lui cos’aveva fatto? Ed a lui, cosa avevano fatto? Si repulse per averlo lasciato da solo; si odiò per non aver costretto i Custodi a prendere in affidamento entrambi i fratelli, perché sapeva, Ade, che BJ non avrebbe mai permesso una vita del genere a CJ - non importava, che non ricordasse: certe cose rimanevano impresse nel cuore e negli occhi, non nella memoria. Dov’era BJ, in quel momento? Non lo vedeva che CJ aveva bisogno di lui? Non lo sapeva che Adelaide, aveva bisogno di lui?
    «lui» CJ indicò un punto in lontananza, chiunque e nessuno. Ade trattenne il fiato, percependo nel tono rovente del Tassorosso, che la vita l’aveva masticato e sputato troppe volte.
    E dire che gliel’aveva detto, CJ, che senza di lei non ce l’avrebbe fatta - è colpa tua, Ade. La sua coscienza, il suo freno, la mente d’un braccio troppo brutale. «lui» ti prego, non parlare così. E l’angoscia andava a mescolarsi al dolore, alla melanconia così straziante da strapparle il cuore. Erano la sua famiglia, i gemelli. Erano tutto ciò che le era rimasto. «lei» piccolo bastardo senz’anima, con quel sorriso irriverente ed il languido sguardo smeraldo ad indugiare sulla folla, carezzandola con pigra malizia. E più lo guardava, più si rendeva conto che quella sarebbe stata l’ultima volta in cui l’avrebbe visto: spezzato, rotto, incapace di aggiustarsi. Si era, Cristo!, fidata, di lui. Come aveva potuto farle una cosa del genere? Chi l’aveva piegato così tanto da tranciarlo a metà? «tu» Ade trattenne il respiro. Trattenne perfino il cuore, mentre gli occhi di suo fratello le pizzicavano la fronte, il capo lievemente reclinato.
    «io.» e le sorrise, come se quella fosse una maledetta battuta. Come se ognuna di quelle ferite non avesse intaccato anche la pelle candida di Adelaide – come se le sue mani, tornate nel 2043, non avrebbero cominciato a cercar le bruciature sul petto. Perché. Sollevò quella domanda silenziosamente, pozze zaffiro a sciogliersi di rabbia e dolore, gli occhi levati ora su di lui. Perché. «bugiardo» e fu un brontolio feroce, strizzato fra denti e palato, mentre i piccoli palmi di lei andavano a poggiarsi sul petto scarno di lui, spingendolo con quanta forza aveva all’indietro. «fottuto bugiardo» ed ancora avanzò, ed ancora lo spinse mentre lui, serio e passivo, non faceva altro che subire ed accusarla.
    Era un maestro nel non reagire, e nell’alimentare comunque la furia del proprio interlocutore. Dove Adelaide la assorbiva, lui faceva da scudo, rimbalzandola al proprio interlocutore: era una faccia da prendere a schiaffi, quella affilata del fratello.
    Lo era sempre stata. «me l’avevi giurato» e divenne un grido sordo, mentre i pugni colpivano la cassa toracica di lui lasciando piccoli aloni pallidi – a spingerlo ancora indietro, a spingersi ancora in avanti. Vide CJ fare un breve un cenno di no con il capo, un dito pigramente sollevato a qualcuno alle spalle di lei, ma lo ignorò: perché non aveva mantenuta la sua promessa, e non era così che si faceva, in famiglia. Perché quel giuramento, era tutto ciò che Adelaide, nel futuro, aveva: l’unico motivo che l’avrebbe spinta ad aprire gli occhi al mattino, a continuare a vivere. Glielo doveva, CJ. Glielo doveva. «ti avevo chiesto solo una cosa, UNA» dio, quanto lo odiava. Dio, quanto lo amava. Un altro pugno, un’altra spinta.
    CJ le bloccò le braccia sopra la testa con una sola mano, mentre con l’altra andava a stringerle il mento fra due dita, obbligandola a guardarlo. Non lo voleva fare, Ade. E non voleva quell’accusa consapevole, e quell’ignoranza dilagante, a premerle addosso con quegli occhi tanto familiari da far male: «si può sapere chi cazzo sei?» sputò fuori lui, quasi fosse stato un noioso filo di fumo incastrato nel palato. In quel momento, mentre suo fratello le scavava la carne con domande cui non poteva rispondere, Adelaide si accorse di aver pianto. Le sentì, quelle lacrime a bruciare sulle guance.
    Lo sentì, che l’aveva perso. Che l’aveva perso. Avrebbe voluto ridere di quell’interrogativo, nervosa e nevrotica – ed invece non riuscì neanche a deglutirlo, mentre altro pianto le riempiva gli occhi. Era suo fratello, sangue del suo sangue. Era il bambino che a quattro anni era riuscito ad impadronirsi di un paio di forbici e si era tagliato i capelli perché era stufo che tutti gli rinfacciassero di essere biondo; era il sorriso cinico di un’ormai quattordicenne che tornava a casa con abiti appesantiti da fumo e droghe, gli occhi arrossati ed il «tranquilli parenti più o meno stretti, me l’ha data lo zio» per il quale mamma lo cazziava con un «potevi almeno portarmene un po’, figlio ingrato» e papà sollevava gli occhi al cielo chiedendo, per la quattordicesima volta, se fossero proprio certi fosse suo figlio. Era il sedicenne che attendeva, capo chino e gambe incrociate, fuori dalla stanza di BJ: «credo abbia il ciclo», per sdrammatizzare la preoccupazione a velargli gli occhi verdi, nel sentire i singhiozzi soffocati di BJ dall’altra parte.
    Aprì la bocca, ingoiò aria. Poteva saperlo? Sì, ti prego. Sì, ti supplico. Lo so che lo sai, CJ: sono tua sorella. E fece per liberare le mani, colpirlo ancora con un basso grido disarticolato di pura frustrazione. Cristo, se non poteva. «basta.» un braccio le cinse la vita, trascinandola di peso lontano da suo fratello. Lasciami, ti prego. Lasciami. «hyde, fatti i cazzi tuoi» «lo - ahi, con sti gomiti – sono.» Hyde Crane Winston, dall’alto del suo metro e poca voglia di vivere, la squadrò con intensi e distanti occhi cerulei. «non ha senso, ade» come osava dire a lei, che l’aveva tenuto in braccio quand’era solo una macchia pallida dai radi capelli biondi, che non aveva senso? Era suo fratello, quello che andava sbriciolando la sua vita sotto la suola dei fottuti anfibi.
    Come osava, avere ragione.
    «è tutto sbagliato» non guardò CJ. Non guardò Hyde.
    Si volse lentamente, vibrando di quella rabbia dolente per la quale non esisteva un nome. Vibrava di dolore, Adelaide Milkobitch. Della triste consapevolezza che non poteva più fare niente, e non aveva potuto fare niente, per la sua famiglia. Così spostò gli occhi blu, gonfi d’accusa e di qualcosa privo di forma, alle proprie spalle. Ironicamente, erano quasi tutti lì. Guardava Jade ed Euge, e si chiedeva se la stessero aspettando - almeno loro. Avrebbe voluto sorridere allo scambio di battute, ed invece non potè che odiarli, in quel loro essere ignari. Così giovani. E l’odio si rinforzò quando andò a sbattere contro il profilo di Gemes, scontrandosi forzatamente come ceramica sul pavimento.
    E l’odio divenne palpabile quando infine, inspirando ossigeno ed espirando veleno, gli occhi si posarono su sua madre. Era compito suo, prendersi cura di CJ. Nessuno sapeva come prenderlo: Ade c’era riuscita a malapena, e comunque, le era sfuggito; BJ ci aveva provato, per anni – per vite; suo padre si era arreso, votandosi al limitare i danni come un politico dopo qualsivoglia catastrofe naturale. Per tutti loro CJ non era stato altro che l’esplosione di un vulcano, lo spaccarsi di un cielo nella tempesta perfetta: ma era stato il loro, vulcano; la loro, tempesta.
    Ed era Heidrun, ad aver sempre capito CJ. Così simili. A limare gli angoli, a smussare le lame, a fasciargli le ferite premendo un poco più forte perché percepisse, nel sangue a scorrere sulla pelle, la cazzata che aveva appena fatto. «è colpa tua» avrebbe voluto che l’affermazione suonasse più rabbiosa, anziché il lamento di una vecchia nave allo sfacelo. Non lo vedeva, quel ragazzino? Non lo sentiva, quel ragazzino? Vide un francese avventarcisi contro, e la risposta della Milkobitch fu istintiva: con la stessa feroce rabbia le si avvicinò, le mani a premere sul ventre piatto mentre la spingeva a terra. «è colpa tua.» le gridò in un sibilo atono, trattenendo le lacrime sulla punta della lingua. Perché non poteva semplicemente stringerla, chinarsi per riderle all’orecchio un «gesù, ade, quanto sei melodrammatica» prima di stamparle un bacio sulla fronte? Perché non poteva capirla, in quei due occhi troppo blu e troppo familiari? Ed alla fine lo disse. Non riuscì a tenerlo per sé, ad appesantirle il cuore nel petto. Non ce la fece, Adelaide Milkobitch, mentre si lasciava scivolare sopra di lei, le gambe a bloccare le braccia ed il pugno sollevato davanti al suo viso. Sapevano entrambe che Heidrun non avrebbe avuto alcuna difficoltà a schivarla, a spostarsi.
    Eppure, il braccio scattò comunque in avanti.
    «non dovevi morire.» non dovevi lasciarci, guarda cos’hai fatto. Se i loro genitori non fossero morti anni prima, vite prima, CJ e BJ non l’avrebbero mai lasciata per quell’assurda missione. Sarebbero rimasti con lei - quel poco che avevano, per il poco che avevano. Una stupida lacrima scivolò lungo il naso per ricadere sulle guance bronzee di sua madre, le nocche a dolere contro il verde prato inglese nel quale s’erano schiantate.
    Non le avrebbe mai, mai fatto del male, Ade.
    Ci riusciva così bene da sola, Run.
    «cos’hai fatto?» perchè era tutto sbagliato, ed Ade non aveva alcun dubbio fosse colpa sua: togliendo CJ dall’equazione, rimaneva un solo Crane che poteva essere colpevole.
    Fu in quel momento, infine, che sollevò gli occhi davanti a sé – sull’apice di quella domanda ancora a pesarle fra i denti, a pungolarle le costole. Cosa gli avevano fatto - a CJ, a Gemes, a Run.
    E dov’era, BJ.
    «todd?» lo disse prima di rendersi conto che non avrebbe dovuto saperlo. Lo disse d’istinto, nel vedere il viso fanciullesco che l’aveva accompagnata per anni, le lentiggini diafane su un corpo opalescente. Non aveva mai avuto una vera occasione di conoscere zio Todd, strappatole prima ancora che potesse compiere dieci anni. Almeno, da vivo: da fantasma, era stato tutto. Il suo confidente, il suo miglior amico. La spalla su cui piangere quando non voleva farsi vedere da nessuno, nonché il suo primo fan: quanti notte a suonare la chitarra, con Todd a batterle le mani in un angolo della stanza. Indietreggiò rapida, prima ancora di poter sentire una risposta da sua madre. Strisciò al suolo finchè non fu in grado di reggersi in piedi, le dita ad artigliare la pelle nel tentativo di non allungarsi per sentirlo vivo, per abbracciarlo.
    Almeno una volta. «perchè» fu un sussurro lapidario destinato solo a sé stessa, mentre il cuore minacciava di gonfiarsi a tal punto da soffocarla. Il capo nuovamente chino, il grido a cui non avrebbe dato voce a chiuderle la gola. Era semplicemente troppo, per Adelaide Milkobitch.
    Si alzò in piedi traballando, gli occhi blu ad evitare di posarsi su chicchessia. Le vertigini la colsero impreparata, ma non si fermò comunque. Continuò a camminare, testa bassa e battito sulla lingua, testarda nel non voler più esserci: doveva trovare Grey.
    Doveva andarsene.
    Doveva dire addio.
    Doveva trovare BJ.
    Doveva almeno salutarlo.
    Doveva- «fai qualcosa» una supplica vuota, priva di contesto e riquadri. Sollevò lo sguardo su suo nonno, il cuore a scontrarsi con gli occhi, mentre dal basso tentava di spingerlo prima che la sedia potesse raggiungerlo. Solo quello, solo per favore. Non sapeva cosa, con esattezza, Aloysius Crane avrebbe potuto fare: impedire a sua madre di morire, impedire a CJ di uccidersi. Convincere BJ che ne valeva la pena continuare a provarci, con gente come suo fratello - farli trovare, in qualche modo. Gli chiese silenziosamente di ridargli la sua famiglia, malgrado lui nulla potesse – nulla sapesse.
    «fate qualcosa» e con la voce ancora stretta fra le mani, si disperse nella folla come un’ombra qualsiasi di un tempo qualsiasi – un Adelaide qualsiasi, di una vita qualsiasi.

    Si inumidì le labbra, le palpebre pesanti a calare su un paio d’occhi chiari e stanchi. Ma perché a lui? Non era certo famoso per la sua diplomazia, anzi: quando poteva, era ben felice di seminare un po’ di sano dramma, e dove altri avrebbero pianto lacrime da soap opera argentine, lui avrebbe lanciato fiori con l’entusiasmo di un Blob morto. «hamilton» commentò di cuore, con un sospiro, il capo a scuotersi con disappunto mentre gli occhi seguivano le spalle di sua nipote. Tutti così, in quella famiglia.
    Schizzati male.
    «cosa?»
    Oh, madre Teresa di Calcutta. Finse di non aver appena fatto una gaffe da effetto farfalla grande quanto l’Empire State Building, lo sguardo ancora puntato sulla nuca corvina di Adelaide Milkobitch. «badminton» corresse il tiro, sollevando pigramente il braccio destro per mimare una schiacciata. «il mio sport preferito» e con lo stesso apatico tono, costrinse le labbra a sollevarsi in un ghigno ironico: tutti sapevano che lo sport preferito di Hyde era pianificare la conquista del mondo. Nulla che poteva interessare il giovane involveva delle palle al suo interno forse mlml (a meno che non fosse la nera palla da biliardo che dava tutte le risposte del mondo – quella sì che gli piaceva, specialmente quando al suo: «jekyll si becca un cagotto fulminante al suo appuntamento con davina?» rispondeva con: è decisamente così. Ah, quante gioie la palla magika. Tirava maledizioni quasi quanto Hyde stesso, e vi assicuro che di impegno, ce ne voleva).
    Fece scivolare lo sguardo da CJ ad Adelaide, e con un sospiro degno del buon vecchio zio Sin, intrecciò le dita dietro la schiena e chinò rispettosamente il capo, convincendosi che così avrebbe evitato domande scomode. Dov’era quell’infame di Jekyll? Come aveva potuto lasciarlo solo mentre tutto, lì, andava allo sfacelo? Era rotolato lontano da mamma e papà quando Maeve, gli occhi blu fissi nei suoi, gli aveva domandato: «e tu cosa fai ancora per terra? FUORI» hashtag mamma mi terrorizza, era diligentemente scivolato via come un rotolo di sushi, un laconico sospiro di vicinanza spirituale a zio Dak e la Tu sei Tupp – no sks sbagliato annata, errore mio. Se avrebbe preferito rimanere steso a terra a guardare le loro narici, pregando che nel mentre lo ignorassero come tappezzeria, anziché seguire gli ordini diretti della Corvonero? Sì. Era un bambino, quand’erano morti. Voleva sentire come parlavano, vedere come si muovevano. Voleva osservare i petti tremare di risate trattenute, udire i sibili fra i denti e percepire il loro passo al suolo. Voleva capire cosa, cosa, avesse preso da loro – da tutti, loro.
    Ma non lo fece, perché sapeva perfettamente quale fosse il suo dovere.
    Tirare macumbe casuali Controllare che suo fratello non morisse, dopotutto poteva farlo solo per mano sua, possibilmente di qualche malattia trasmissibile, e cercare la casta 2043 per poter riportare le sue delicate chiappe pallide al pallido sole di una civiltà morente. Lo so, programma entusiasmante. Era tutto un fremito d’eccitazione, non si vedeva? Si era poi sollevato con un grugnito degno di Sin quando Murphy gli domandava di prendere la padella più in alto, con tanto di stiracchiata che faceva sempre un po’ anziano, ma ehi, con la sciatica non si scherzava. Per puro caso si era accorto del draghetto con la bacchetta puntata contro di lui, ed ancor più fortuitamente s’era spostato indietreggiando con un panic moonwalk che avrebbe reso fiero Jekyll, se solo fosse stato lì ad assistere – ma no, lasciamo il bruh a crepare male, tanto era già morto dentro. Intravide una donzelletta, decisamente non dalla campagna, che era venuta in suo soccorso: «meh» fu il suo unico commento degno di nota, mentre questa già si era allontanata. Che strane le persone, ed il loro testardo non lasciarlo morire anche quando non lo conoscevano. E dire che tanto, Hyde, aveva già praticamente ambedue i piedi nella fossa.
    Comunque.
    Questa è la storia di come, infine, si fosse infelicemente imbattuto nella faida fra i suoi psicotici nipotini. E sì che non era il loro biggest fan, e sì che un po’ di botte alla testa rasata di CJ facevano sempre bene, ma insomma, perfino lui aveva un limite. Senza contare che non poteva permettere ad Adelaide di rivelarsi: cristo, avevano un solo compito, ed era non fottutamente rivelarsi. Non era particolarmente affine alle regole, il buon Hyde, ma la legge era una soltanto: perfino lui poteva rispettarla, santo cielo. Il minimo che sua nipote potesse fare, era seguire il suo esempio.
    E, oh: si era distratto un attimo, e la gente intorno a lui era sparita. Che magia. Dire che un tempo aveva sognato ardentemente di avere quel super potere, e proprio quando non gli serviva, puff - bingo. Così tipico. Un altro sospiro affranto proruppe dalle labbra dischiuse ed esangui del Serpeverde, una mano impegnata ad infilarsi gli occhiali da sole – non perché volesse vicino qualcosa di suo padre, figurarsi: non era certo lui quello sentimentale in famiglia, ci teneva semplicemente a coprire le occhiaie e proteggere le borse sotto gli occhi dai lampantih raggi del tramonto. Fu così, in un momento d’estasi confusa, che intravide una chioma bionda. «oh, cristo redentore» aveva sperato che, salutandola con la manina come la regina Elisabetta il giorno della missione, si fosse liberato di Davina Dallaire. Non aveva nulla di personale contro di lei, ma a) il fatto che piacesse a tutti, la rendeva automaticamente sversa al CW minore; b) Jekyll gli aveva scartavetrato le palle così a lungo che ormai perfino lui quando guardava i fondi di bottiglia, intravedeva i candidi denti della sorella di Finn – il come, è ignoto; c) preferiva Wes, almeno lei si limitava a tirargli pugni sulle spalle che gli lasciavano lividi per mesi, ma non gli spuntava creepy da dietro con un «aw, sei kosì adorabile quando hai la febbre».
    Insomma, diciamo pure tranquillamente che aveva appena trovato Jekyll: se la biondina era nei paraggi, suo fratello non poteva essere lontano. Così, il nostro buon Joyce, fece ciò che gli veniva meglio: l’inquietante stalker. «oppugno» a caso, perfino un po’ annoiato, mentre puntava la bacchetta contro delle cince chiamate dalla Biondaneve della povertà.
    «eh, pensa un po’ te, la vita» commentò stringendo le labbra fra loro, gli occhi così ruotati al cielo che oramai avevano fatto il giro completo all’interno del cranio – l’esorcismo oculare, come amava definirlo. Puntò la bacchetta contro la frusta del francese, scatti rapidi del polso a disegnare la forma di un quattro nell’aria. «evanesco» sempre un po’ a caso, come se quella vita gli pesasse perennemente – spoiler: era così. Chinò poi lo sguardo a terra, un Jekyll avvinghiato a koala su Davina.
    Così tipico.
    Unì le mani fra loro e le poggiò sotto al mento implorando una morte rapida ed indolore: non lo vedevano che c’erano (Hyde) bambini? Gli sembrava il momento più opportuno? Sì, vabbè, suo fratello credeva di averla persa per sempre, non la vedeva da un anno e mezzo, blablabla, cose, indovinate a chi non interessava? «ecco, levati» ad Hyde, che con un piede poggiato sul fianco di Jekyll lo calciò via dalla Dallaire. «anche perché, abbiamo un problema» reclinò il capo, le dita a ticchettare sul labbro inferiore. «anzi, hai: io ho già fatto il mio dovere, ora tocca a te» mani aperte in segno di resa.
    Amava la sua famiglia, ma non era propriamente da Hyde il tirar fuori l’arrosto per far tacere i litigi tipici del Natale: era Jekyll, il cuore. Lui era solo il contorno di patate, spacca gioie per eccellenza con il laconico, e sempre caratteristico, «è pure bruciato e probabilmente fa skifo: auguri amiki».

    Il respiro in rantoli furiosi, gli occhi acqua marina inchiodati sulla testa abbassata della ragazza. Retrocedette ad ogni colpo, CJ Knowles, trattenendo nel petto ogni ansito ed ogni fiato ad incastrarsi nella trachea. La lasciò fare, capro espiatorio di colpe che non aveva, e non seppe neanche il perché. In fondo, non aveva mai creduto di aver bisogno di un motivo, per i pugni contro le costole: era così e basta, nella vita di CJ. S’incassava, che sempre si meritava, e poi, con un ghigno famelico ed affilato, si riscuoteva la quota di quel pegno con altrettanto sangue, ed altrettanta carne al fuoco.
    Ma non l’avrebbe fatto, non con lei. Non sapeva il motivo di quell’arrendersi passivo alla sua rabbia; si convinse che la comprendeva, che anche lui avrebbe voluto prendere a fottuti pugni qualcuno, qualcuno qualsiasi. Si era convinto che il languore alla bocca dello stomaco fosse il chiaro segno della compassione, la pietà provata per qualcuno di cui si capiva la furia, la brutalità.
    Come poteva, il Tassorosso, sapere che non desiderava altro che essere toccato, da quelle mani. Che gli erano mancate per tutta la vita, da tutta un’intera fottuta vita. Come poteva riconoscere, nelle grida soffocate di sua sorella, quel riverbero nelle vene di una scena già vissuta: è colpa tua, cj. Non dire cazzate. Sei un bugiardo.
    Gliel’aveva promesso. Chi era stato. Buon Dio, quanto desiderava avere la forza per riderle sadico in faccia, beandosi del sangue a inumidire le papille gustative. E ridere, e riderne ancora, fin quando l’isteria non fosse entrata così saldamente nell’organismo, da far parte del circolo sanguigno. Avrebbe voluto sapere, quale fantomatica promessa avesse infranto – lui, che spaccava promesse solamente per proteggerli. Come aveva sempre fatto, e come sempre avrebbe fottutamente continuato a fare.
    Così subì, senza capire. Senza porsi domande scomode, senza riconoscere il mi dispiace a pizzicare il petto ed il cuore. Ed anche avesse saputo, che cazzo avrebbe potuto dirle? Era la sua vita, ed era una merda, ma era la sua vita; i lividi erano tutto ciò che gli ricordavano d’essere vivo, l’unico modo che conosceva per riempire il vuoto a spandersi nei polmoni. Era l’unico, fottuto momento in cui qualcuno lo guardava, e si rendeva conto ch’era vivo. A nessuno fregava un cazzo di CJ Knowles, finchè le sue nocche non cozzavano contro le mascelle – allora sì, che rimembravano della sua esistenza. Che buon Dio avrebbe potuto dire, alla sorella perduta? Mi hanno lasciato in un posto di merda, Ade. Mi hanno insegnato a combattere prima di andare in bicicletta, e tu, cristo, non c’eri. E BJ , vaffanculo, non c’era. I tuoi amati, fottuti, genitori, neanche sanno che esisto. Cosa ti aspettavi, Adelaide? Cosa cazzo ti aspettavi?
    Così subì, senza capire. Senza riconoscere la rabbia ad infiammarsi nelle ossa, il dolore sordo ogni volta che i pugni di una perfetta sconosciuta andavano a picchiare contro il torace. Non era l’Hamilton che sua sorella aveva amato, quello - non più: e sì che subì, ma ad una certa perfino la sua infinita pazienza, aveva un limite. Le bloccò i polsi, così sottili, con una mano sola, mentre l’altra andava a stringersi attorno al suo viso. Un tondo perfetto, morbido, privo dei suoi spigoli aguzzi: parevano fatti in scala, i fratelli Hamilton, con la dolcezza di Adelaide, i tratti marcati ma privi d’angoli di BJ, ed il tutto lame Crane Junior. Vie di mezzo, CJ, non le conosceva neanche sul proprio volto. «si può sapere» a denti stretti, a occhi socchiusi. Un sorriso già pigro, già stanco ad incupire le iridi rendendole puro oro zecchino. «chi cazzo sei?» e se nelle sue intenzioni la domanda era stata legittima ed offensiva, quel che ne uscì fuori non fu altro che una richiesta cauta e supplicata: non capiva, la mora, che CJ aveva bisogno di saperlo? Che i suoi occhi li aveva cercati sempre, e la sua musica l’aveva cercata sempre, ed il suo petto l’aveva cercata sempre, ansimando un battito che non aveva? Aveva solo bisogno di quello, CJ.
    Doveva solo sapere di non essere del tutto sbagliato – che una cosa giusta, l’aveva sempre avuta: lei.
    Almeno quella, almeno sempre.
    Ti prego, non piangere.
    «basta» se la lasciò strappare via senza alcuna protesta, CJ. Guardò il ragazzo, schifosamente familiare, senza neanche battere ciglio: «fatti i cazzi tuoi» istintivo, a far eco alla voce più bassa e melodiosa della mora.
    Ed avrebbe dovuto esserne turbato, invece sorrise ancora. Quei sorrisi scheggiati che lasciavano più carne maciullata che altro, in bocca. Rimase a guardarla mentre si allontanava, opponendosi all’irrazionale bisogno di seguirla per avere una fottuta risposta: si disse che in fondo, ed in realtà, non voleva davvero saperlo. Che non gliene poteva fregare una sega di meno, di una donnina qualunque con il fottuto ciclo mestruale.
    Ed allora perchè fa così male, CJ? Bella domanda del cazzo.
    Un sospiro. «hamilton» Alzò la testa meccanicamente, il cuore a battere privo di un vero motivo dietro le costole: prima il furioso Crane della mora, ed ora quell’annoiato Hamilton del biondino? Parevano coincidenze troppo assurde perfino per chi, nel destino, non credeva un cazzo. «cosa?» che forse aveva capito male. Doveva, aver capito male.
    Non sentì mai la risposta del biondo malaticcio, attirato da un francese con la bacchetta puntata contro di lui. Non potevano smetterla di rompere i coglioni almeno per un fottuto secondo? Grugnì, si chinò rapidamente; e fece una cosa per la quale, probabilmente, sarebbe andato all’inferno due volte - ma suvvia, tanto un biglietto di sola andata ce l’aveva già da un pezzo. Con un colpo secco ed umido della mazza sfondò la cassa toracica dell’uomo esangue ai propri piedi, e facendo leva sulle gambe, sollevò il cadavere di fronte a sé. «angustia questo, figlio della merda» con tanto di seccato dito medio sollevato nella sua direzione, giusto per sottolineare quanto poco fosse nel mood.
    Ma pensa te, ‘sti cazzoni francesi. Non dovevano essere in Francia a, boh, fare baguette o lanciare nuove mode per i capelli? Strappare lumache dal loro innocente guscio per mangiarsele? Costruire un’altra Tour Eiffel con gli stecchini di shanghai? Lasciò ricadere il corpo al suolo, dov’era giusto fosse; ignorò il sangue a inzaccherare le mani rendendo la presa sul bastone chiodato scivolosa, ignorò la coscienza deturpata a strillargli di smetterla: con un movimento secco dell’arma, colpì il francese al fianco, pregando che una spina gli perforasse i polmoni.
    Così imparava, a rompere i coglioni alla gente sbagliata. Al CJ, sbagliato. «bella lì» roco, posò un distratto e breve bacio sulla testolina bionda di Joey e dell’hipster, prima di superarli diretto solo Dio sapeva dove.
    Lo sapeva, CJ, dove. «ma levati dal cazzo» ed ancora ruotò il bastone, il legno a cozzare contro il petto di un altro francese annoiato: rabbioso, crudele.
    Perché dovevano smetterla, di attaccare sua sorella e credere di poter sopravvivere.
    Il family business non includeva quella possibilità fra le clausole, avrebbero dovuto saperlo.
    Quando infine sollevò gli occhi verdi sulla radura, di lei non c’era già più traccia. Ingoiò la tachicardia, deglutì l’ansia – il cuore sulla lingua, fra le dita. Ti prego non te ne andare ti prego non te ne andare ti prego non te ne andare rimani con noi rimani con me. «’fanculo» i pugni serrati, la testa reclinata al cielo, una risata a vibrare muta in gola. Solo un sorriso, CJ.
    Solo quello sbagliato.
    | ms.


    -- ade: ade + todd difendono run: la spinge
    -- ade: ade difende al: lo spinge

    -- hyde: hyde + ekate difendono hyde: panic moonwalk
    -- hyde: hyde + zenith attaccano tasha (vasy): oppugno per rinforzare la malvagità delle cince
    -- hyde: hyde + zenith difendono jekyll: evanesce la frusta #wat

    -- cj: cj + shia difendono cj: usa il cadavere nemico come scudo
    -- cj attacca alain, francia: mazzata (strano)
    -- cj: cj + todd difendono ade: tira una mazzata alla tipa


    Edited by #epicWin - 14/8/2017, 05:06
     
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  11. call me lancaster!
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    ministro della magia britannico | 39 y.o.
    kimiko oshiro
    preside di salem | neutrale | 55 y.o.
    william lancaster
    Did you ever deny? Were you ever a traitor? Ever in love with your blood-lust and need?
    Lasciò entrare l’aria dal naso, per poi farla uscire lentamente dalle labbra dischiuse. «provate ancora» non fu una domanda quella di Kimiko Oshiro, Ministro della magia britannico da poco più di un mese. Non fu un invito, il suo: si trattava di un ordine diretto, impossibile da ignorare. Per quanto la sua voce non si fosse alzata, ogni commilitone la udì.
    L’esercito inglese continuò a puntare le bacchette contro la cupola cerulea, mentre Kim stringeva testardamente i denti. Che storia era mai quella? Prima riceveva un sicarius da Icesprite, e poi era impossibilitata ad entrare in una zona che le apparteneva di diritto? Impossibile.
    Qualcosa non tornava.
    «tu, prova a contattare il vice ministro» ruotò gli occhi scuro su una donna poco distante, le braccia allungate mollemente lungo i fianchi. Osservava con cipiglio scettico la surreale scena di fronte a sé - il vuoto, era ciò che più la turbava. Dall’interno dell’Aetas non giungeva alcun suono. Non avrebbe mai mostrato di essere nervosa di fronte ai suoi sottoposti, ma c’era una rigidità presuntuosa, nelle spalle sottili di Kim, che lasciava placidamente intendere che qualcuno l’avrebbe pagata, per quell’affronto. «ministro, non-» «ancora» ribadì, senza neanche spostare la propria attenzione sull’uomo appena giunto: era mezz’ora che cercavano di far crollare la barriera, e non avevano ottenuto ancora alcun risultato. Aprì i pugni con lentezza studiata, le falangi a piegarsi sulla coscia. Indossava abiti semplici, il Ministro, conformi sia ad un’attività nel mondo magico, che nel mondo babbano: un completo giacca pantalone grigio fumo, nessuna camicia a stropicciarsi sulla pelle lattea della donna. Possedeva un seno troppo poco pronunciato perché dalla giacca ne spuntasse il solco, un tocco che avrebbe reso volgare la sua esile persona; un triangolo di epidermide era tutto ciò ch’esponeva, e nella semplicità della sua tenuta, non v’era creatura più bella od elegante su quel prato. Ruotò gli occhi a mandorla di fronte a sé.
    «sta arrivando qualcuno» Come un unico organismo, Ministro e soldati puntarono le bacchette contro una ragazzina, il fiato corto e le guance esangui. Il terrore nel suo sguardo fu ciò che spinse la Oshiro ad alzare pigramente un braccio, ordine silenzioso per i suoi compagni di deporre le armi. «chi sei, e cosa sta succedendo» di nuovo, la sua non fu una domanda. Tenne la bacchetta puntata contro la giovane, ignorando volutamente le lacrime a gocciolare sul verde prato inglese: non si arriva a ricoprire la carica di Ministro della Magia, specialmente se eri donna, lasciando che un pianto alleggerisse il cuore e spingesse ad abbassare le difese. Fidarsi di un viso pulito, determinava la differenza fra vivere o morire. «io-» accadde d’improvviso, come sempre capitava. Un attimo prima il silenzio, e quello dopo fu il caos: i rumori tornarono come un elastico tirato troppo a lungo, una fiumana di persone si riversò all’infuori della radura, incespicando sui propri stessi piedi. Mentre i militari si spostavano ond’evitare di rimanere travolti, Kim rimase immobile e granitica nella propria posizione, lasciando che la fiumana la circumnavigasse come una roccia nel letto d’un torrente. «dentro.» ordinò ai soldati, un modesto cenno con il capo. «i presidi…vasilov… io-io non c’entr-» «vattene.» una donna di poche parole e d’intenti precisi, Kimiko. Cristallini i suoi obiettivi, e chiare le strade necessarie per raggiungerli: non aveva tempo per le risposte smozzicate di una ragazza qualunque. «ma passa dal san mungo, prima di tornare a casa» perchè sapeva, Kimiko Oshiro, che rispettare il proprio popolo era il primo passo per costruire un regime di fiducia – letale, sì, e indubbiamente pragmatica, ma mai sadica: era una donna giusta, la giapponese. Nel mondo sbagliato, ma una donna giusta. Le rivolse un breve inchino, prima di muovere i primi passi all’interno del sentiero calpestato e distrutto che l’avrebbe portata alla cerimonia.
    Non ci si poteva fidare neanche più dei morti, a quanto pareva.

    La barriera cadde, ma i Presidi non tentennarono. Gli uomini e le donne morirono, ma loro non indugiarono mai – neanche li guardarono, i soldati che avevano portato a perire. Lancaster rivolse una silenziosa preghiera per ognuno di loro: non era un uomo religioso, ma loro avrebbero potuto esserlo - ed era un qualcosa che William, pur non riconoscendolo come proprio, rispettava. Era tollerante su diversi fronti, il preside di Salem. Credeva nella libertà -d’essere, di pensare, d’esistere. Credeva in un mondo nel quale nessuno si sentisse in dovere di giudicare le opinioni altrui: sostanzialmente, Lancaster credeva solo in sé stesso. Non comprendeva i metodi di Jeanine, né quelli di Vasilov.
    Inspirò, un’occhiata al bambino fra le proprie braccia. William non avrebbe lottato per un mondo migliore, né per un peggiore. Non avrebbe lottato e basta, ma c’era qualcos’altro che avrebbe potuto fare – qualcosa che doveva, in quanto Guardiano dell’Ordine, fare.
    Lancaster non avrebbe mai iniziato una battaglia, ma non significava che non potesse concluderla.
    «tienilo un secondo» sorrise ad una ragazza sul palco, porgendole il fagotto ancora in fasce. «non ho tempo. I fascicoli-» Lanciò un’occhiata all’orologio. «hai ancora un quarto d’ora, se non erro» si schiarì la voce, un sorriso a far capolino dalle labbra sottili. Avanzò allora d’un passo, la bacchetta puntata al suolo. Domandò silenziosamente a Donnie ed Idem di avvicinarsi: sapevano qual era il loro compito. «aqua eructo» uno, due. Dieci, venti. Nell’ombra, dove sempre si muoveva il buon Lancaster, aveva fatto in modo d’arginare la radura e di renderne il terreno impermeabile: nessuno s’era accorto che il sangue non filtrava come avrebbe dovuto? Aveva detto loro di andarsene, William; li aveva invitati sul palco.
    Non era colpa sua, se non avevano accettato.
    Dieci centimetri d’acqua. Quindici. Venti. «Donnie, gentilmente…» il brillante babbano non ebbe bisogno d’altro.
    Qualcuno se ne accorse, qualcuno se ne rese conto per altri: non sarebbe stato Lancaster a dir loro di spostarsi, in ogni caso. Contava sul loro spirito d’osservazione. Donald Armstrong si chinò, i piedi ben piantati sul palco, ed allungò una mano a sfiorare la superficie dell’acqua.
    La immerse fino al palmo, e diede la prima scossa elettrica.
    In piedi erano rimasti solo pochi uomini di Vasilov, e caddero. I presidi infine si voltarono verso di lui, di loro, le ginocchia ad affondare nel fango. «idem» avrebbe preferito non chiederglielo, ma l’aveva fatto comunque. Due inferi si materializzarono al fianco dei presidi, immorali ed abietti nella loro pallida forma semi umana; furono rapidi, dopotutto non risentivano del dolore: spinsero a terra Jeanine e Dragomir, un piede a premere il braccio con cui tenevano la bacchetta, e l’altro a schiacciare sulle scapole per impedire loro di alzarsi.
    Una seconda scossa, una terza. Smisero di muoversi, le teste immerse nel sottile strato d’acqua, immobili sotto i loro aguzzini. «è abbastanza» corrugò le sopracciglia, reclinò il capo.
    «lo so» Si grattò la nuca, lanciò un’occhiata alla Withpotatoes. C’era qualcosa che non gli piaceva, in quegli occhi troppo blu. Qualcosa nella linea delle labbra, nella testa leggermente piegata di lato. «idem?» schioccò le dita, il cuore a pulsare dietro le costole. Non poteva permettere che li uccidesse, non aveva pensato l’avrebbe fatto: dovevano solo perdere conoscenza, Dragomir e Jeanine. «IDEM.» Idem battè le ciglia.
    Gli inferi volsero i petti dei due presidi alla pigra luce delle prime stelle, e così com’erano giunti, sparirono.
    Lancaster sospirò. «mi dispiace» Lo sapeva.
    «cosa sta succedendo? Esigo risposte ora»

    Scavalcò il corpo di più d’un uomo a terra, Kimiko. Tutti vestivano le sue divise, le sue, e pur non ricordando di averli mandati, non accettava la loro morte: erano la sua gente, i suoi soldati. Chi aveva osato un tale affronto?
    E poi vide, sollevando lo sguardo, la fonte di tale sfacelo. Si immobilizzò al limitare della raduna, l’acqua a fremere d’elettricità statica poco distante. Puntò i freddi occhi neri sugli uomini e le donne a terra, riconoscendo gli stemmi di Durmstrang e Beauxbatons; uno sguardo più distratto agli invitati, prima di mirare la propria ira alla persona che pareva reggere i redini di quella partita: «non ripeterò la domanda, lancaster» esortò a denti stretti, la bacchetta saldamente stretta nel pugno della mano sinistra – il braccio destro, sollevato, bloccava l’ondata Nera dei militari inglesi.
    I suoi, militari inglesi. Quelli autorizzati.
    «c’è stato un-» Kimiko si smaterializzò al fianco dell’uomo, ignorando, per puro buon cuore, il saltello terrorizzato dell’uomo. «uno spiacevole inconveniente» Gli occhi neri della Oshiro languirono sui due presidi, Vasilov e Lafayette, supini al suolo. Lo sguardo corse poi ai rimanenti in quella radura. «icesprite, nel mio ufficio. La raggiungo a breve» chinò rispettosamente il capo verso il vice ministro, le dita intrecciate fra loro. Doveva sapere cosa fosse accaduto, certamente, ma non era quello il momento opportuno.
    «fuori. Dal. Mio. paese. li voglio fuori ora, prima che sia costretta a prendere provvedimenti» il tono apatico, le spalle dritte. Avrebbe avuto tutte le ragioni, essendosi gli Stranieri portati un esercito senza previa autorizzazione, di sbattere entrambi i Presidi, e coloro che erano sopravvissuti, ad Azkaban; per quanto la riguardava, la faida avrebbe potuto essere iniziata a causa di una bacchetta inglese, ma non aveva alcuna importanza: erano loro quelli di troppo, lì. Eppure, la Oshiro non li avrebbe costretti ai Dissennatori senza conoscere i capi d’accusa. «dovranno subire un processo» alzò la mano verso Lancaster, obbligandolo a non interromperla. «qualunque cosa sia successa, ma non qui. non oggi» Un distratto movimento del polso, e l’acqua defluì dal terreno, ora nuovamente agibile.
    «le mie più sentite condoglianze. Cercheremo di far luce sull’accaduto» l’attentato, quel… qualunque cosa fosse. «in qualità di attuale Ministro Magico, chiedo umilmente perdono: tutto ciò non avrebbe dovuto essere possibile. lo so, per molti di voi è una sorpresa vedermi, e personalmente avrei preferito che la mia prima apparizione pubblica fosse meno…» l’ombra di un sorriso ironico? Impossibile dirlo. «ad effetto, ma sono il vostro nuovo Ministro. Mi chiamo Kimiko Oshiro, e farò del mio meglio per evitare altri simili incidenti. Il Ministero si rende disponibile per qualunque cosa abbiate bisogno: giorni di riposo, denaro, supporto psicologico gratuito al san mungo. Mi rendo conto che si tratta di aiuti assai superficiali, ma spero possiate rendervi conto che è tutto ciò che ci è consentito» Cercò di guardare ognuno di loro, pesando parole e sguardo. «non posso riportare in vita i vostri cari, ma posso assicurarvi che farò quanto in mio potere per avere giustizia.» un breve inchino.
    Un sincero, e sentito, minuto di silenzio. «portateli via.» braccia inglesi si strinsero ai corpi a terra, a quelli dei presidi. «non posso rimanere, ho del lavoro da fare. spero possiate perdonarmi, e non preoccupatevi del… caos, sistemeremo tutto noi non appena la situazione sarà chiarita» indicò le macerie, che d’altro non poteva trattarsi, ai loro piedi.
    «chiudo ufficialmente le frontiere verso francia ed est Europa: nessuno esce, e nessuno entra.» sollevò il palmo alle prime proteste. «una misura di precauzione.» Spostò la propria attenzione su William Lancaster.
    «attendo anche lei al ministero, preside. Sappia che non mi piace aspettare» e detto quello, così com’era giunta, Kimiko Oshiro se ne andò.
    Una crisi di stato già al suo primo mese lavorativo?
    Tipico della Gran Bretagna. Ora poteva capire, la donna, cos’avesse spinto i suoi predecessori a lasciare lo scranno.


    | ms.


    -- (draghi: dimitri su cliff, 19): joey + jaz = 4 + 11 = 15 (-4 PS).
    Cliff, la frusta ti taglia la camicia (maglia? idk) e lascia un lungo segno rosso, ma superficiale, sul petto.
    -- (draghi: dimitri su zenith, 17): cora + zenith: 15 + 9 = 24
    -- (draghi: dimitri su jekyll, 14): zenith + hyde: 1 + 13 = 14
    ATTACCO SU DIMITRI: ekate + syria = 15 + 2 = 17. K.O.

    -- (draghi: maxim su hyde, 12): ekate + hyde = 13 + 12 = 25
    -- (draghi: maxim su patrick, 1): shia = 14 (+13 PA)
    -- (draghi: maxim su thad, 12): euge + arci = 13 + 5 = 18 (+6 PA)
    ATTACCO SU MAXIM: arci + shia: 14 + 1 (+13 +6) = 34. K.O.

    -- (draghi: nikolai su nate, 2): cora + nate = 14 + 13 = 27
    -- (draghi: nikolai su al, 3): ade = 10
    -- (draghi: nikolai su maeve, 1): stiles + dakota = 3 + 11 = 14 (+13 pa)
    ATTACCO SU NIKOLAI: erin + dakota = 15 + 4 (+13) = 32. K.O.

    -- (draghi: rudolf su murphy, 17): obi + kieran = 1 + 6 = 7 (-10 ps)
    Parte della sedia ti colpisce in faccia, lasciandoti un taglio sanguinante dallo zigomo al mento.
    -- (draghi: rudolf su elijah, 5): nate + jade = 6+6 = 12 (+7)
    ATTACCO SU RUDOLF: nate + cora = 13 + 1 (+7) = 21. still alive bitches

    -- (draghi: tasha su kieran, 17): murphy + kieran: 15 + 7 = 22 (+5)
    ATTACCO SU TASHA: murphy + kieran + zenith + hyde = 14 + 2 + 14 + 10 (+5) = 45. K.O.

    -- (francia: alain su cj, 9): shia + cj = 4 (-5 ps)
    Inciampi su una sedia rotta al suolo, e ti tagli il polpaccio.
    -- (francia: alain su joey, 21): joey + jaz = 6+14 = 20 (-1 ps)
    Inciampi su una sedia rotta al suolo, e ti sbucci il ginocchio.
    -- (francia: alain su aidan, 22): syria + arci = 4+4 = 8 (-14 ps)
    Beh. Quando cadi a terra, la scheggia di una sedia (lo so, le sedie dell'ikea sono + killer dei nemiki) ti si pianta nello stomaco. Malino, ma non morirai.
    ATTACCO SU ALAIN: joey + jason + cj = 10 + 8 + 10 = 28 K.O. di culo

    -- (francia: dorian su stiles, 15): obi + stiles = 12 + 1 = 13 (-2 ps)
    Cadendo al suolo, rotoli male e ti sloghi una spalla.
    -- (francia: dorian su arci, 8): ekate + syria = 12 + 14 = 26
    -- (francia: dorian su ade, 13): todd + cj: 10 + 15 = 25
    ATTACCO SU DORIAN: obi + stiles : 3+1 = 4 still alive bitches.

    -- (francia: etienne su erin, 11): murphy + erin: 10 + 3 = 13
    -- (francia: etienne su jade, 20): euge + jade: 12 + 2 = 14 (-6 ps)
    -- (francia: etienne su run, 9): todd + ade: 14 + 3 = 17 (+8)
    ATTACCO SU ETIENNE: euge + jade + todd = 13 + 14 + 8 (+8) = 43. K.O.

    Potete evitare la scossa salendo su sedie o lasciandovi trascinare sulle sedie - insomma, siate intelligenti ed EVITATELA.
    Ehh dunque. Possiamo dire ufficialmente che la parte killer dell'evento, si è conclusa! Avete tempo fino al 31 per postare l'uscita, per ciarlare,
    far quel che vi pare.
    Nel mentre, zanzanzan.
    Verranno aperte TRE ROLE DI TRAMA, una per ciascun preside. Ciascuna role durerà due settimane, non di più - non di meno. Saranno ambientate in periodi e contesti differenti, ed ovviamente troverete tutte le informazioni del caso, nel primo post. Potrete portare, a ciascuna role, un massimo di DUE PG - ed i pg scelti per un preside, non potranno essere portati alla role di un altro preside.
    Alla role con Lancaster, potrà partecipare chiunque.
    Alla role con Lafayette, solamente i ribelli.
    Alla role con Vasilov, solamente i mangiamorte.
    Sapendo questo, organizzatevi di conseguenza - valgono anche pg fittizi, ovviamente. Perchè partecipare? Perchè potrete porre ai presidi qualunque domanda, perchè dalle loro risposte potreste, finalmente, capire.
    Perchè la storia esiste, ma ha bisogno di voi per vivere.
     
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    claireelisewindonovan
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    1st of July, 20:35

    drriiin drriiin
    «Pronto? Drake! … cosa? » che portenti questi oggetti babbani. Riuscivano ad annullare qualsiasi distanza. Senza aspettare i comodi di un gufo, con quel cellulare babbano si poteva parlare da un capo all’altro del mondo. Anche i portali diventavano inutili se non c’era la necessità di spostarsi fisicamente da un posto all’altro. Ma soprattutto, erano in grado di fare una cosa che nient’altro, forse, ti permetteva di fare: guadagnare tempo. Il tempo. Non c’era mai stato nulla di più semplice e di più prezioso. Niente era più naturale dello scorrere del tempo, una cosa che neanche la magia poteva fermare o rallentare a lungo. Persino la morte era impotente di fronte al ticchettio di un orologio. Eppure, era difficile immaginare che una cosa così semplice e lineare potesse essere anche la più stronza. Si dice che il tempo guarisce le ferite, o almeno si spera, ma forse fa anche qualcos’altro. Il tempo lascia che le cose accadano, che si rompano. Le vede prima vacillare per poi lasciarle infrangersi, in mille pezzi, senza fare nulla. Il tempo fa aumentare i rancori, nutre l’odio, non dà pace all’angoscia, alimenta la paura, dà potere ai cattivi. E di cattivi quel mondo ne era già strapieno. Drake lo sapeva bene, anche più di Claire, che fino ad allora aveva vissuto coccolata e protetta lontana dal mondo dei maghi. A parte per qualche brutto incontro lei non conosceva davvero il significato della parola ‘cattivo’. In teoria sì, in pratica no. Ne aveva sentito parlare da sua madre dopo che era stata nei laboratori, lei lo aveva un po’ sperimentato quando era stata vittima di bullismo da dei maghetti perché non possedeva la magia, ma niente di più. Eppure si era preparata tutta la vita a rispondere a tono a chiunque l’avesse insultata, aveva studiato e letto qualsiasi cosa per saperne sempre un po’ più degli altri, ma la cultura non ti appagava e non ti aiutava nel momento in cui un mangiamorte ti puntava la sua bacchetta di fronte pronto per ucciderti. E tu lì, inerme. E neanche i secondi che passavano potevano fare qualcosa. Semplicemente morivi nel modo meno doloroso possibile. E forse ti era andata anche bene.
    «Arrivo. »


    3rd of July, present day

    Non aveva assistito a molti funerali prima di quel giorno. Fortunatamente dei suoi parenti stretti non era venuto a mancare nessuno, perciò non sapeva cosa si provava di fronte a una grossa perdita. Immaginava dolore, tristezza, rabbia, ma non sapeva cosa significasse provare tutte queste emozioni insieme. Aveva però visto morire pazienti sotto le sue mani, nel momento in cui non c’era più nulla da fare. Sapeva cosa significava essere impotente di fronte a una malattia che divorava gli uomini e le donne dal suo interno, causando dolori indicibili. Aveva dovuto rinunciare a salvare vite negli ospedali babbani per non destare sospetti dinanzi a uno o più miracoli. Aveva dovuto mettere da parte quel che era, quell’unica abilità che lei considerava un dono per non diventare oggetto di studio, lei, una ragazzina di soli 22/23 anni.
    Probabilmente questo non aveva minimamente a che fare con il dolore reale di perdere un fratello, una sorella, un padre o una madre, ma quello era l’unico modo che Claire aveva di sentirsi vicina ai parenti delle vittime, di non sentirsi indifferente, distante, lei, che aveva metà dei suoi parenti proprio lì, in Francia.
    Quando seppe la notizia sbiancò al telefono. Se fosse successo qualcosa ai suoi di parenti lo avrebbe saputo ancor prima che Drake la chiamasse, ma il pensiero la sfiorò. Una delle due sue patrie era stata violentata e una parte di lei si sentì vulnerabile. Se ne avesse avuto la possibilità si sarebbe materializzata a casa di sua nonna e l’avrebbe abbracciata per dirle che le voleva bene, anche se non lo dimostrava sempre, e poi sarebbe tornata a casa sua, a Londra, con un peso in meno e l’animo più tranquillo. Ma questo non le era possibile senza l’aiuto di suo fratello, e certamente Claire non era una tipa che avrebbe chiesto un favore a qualcuno. Perciò si accontentò di chiamare i suoi e chiedere se andava tutto bene nonostante l’esplosione in Francia. Ringraziando Merlino, la sua famiglia era salva.
    Sospirando, Claire aprì con calma l’armadio, cercando qualcosa di nero o di scuro che potesse andare. Queste situazioni la mettevano un po’ a disagio, e se Drake non fosse stato coinvolto più o meno direttamente nella faccenda forse non ci sarebbe neanche andata. Non tanto per mancanza di tatto o menefreghismo, quanto per il fatto che Claire odiava le situazioni scomode, in cui si sentiva fuori contesto. Era una vecchia sensazione quella di sentirsi inadatta in un luogo o in mezzo a tante persone, bastava poco a richiamarla, purtroppo. Ma quel giorno c’era Drake, e per quanto avessero passato ancora poco tempo insieme, lui le ispirava una specie di ‘sicurezza’. Era una sensazione nuova, quella, difficile da spiegare. Fatto stava che la faceva sentire bene.
    In un angolo dell’armadio, dove c’erano tutti i vestiti che non indossava da tempo, finalmente ne trovò uno perfetto. Era un tubino nero, semplice, con le maniche corte in pizzo. Ai piedi optò per un paio di tacchi bassi e comodi, l’ideali per guidare anche la macchina dato che sarebbe passata a prendere lei Drake per andare alla radura dove avevano organizzato il funerale delle vittime.
    Guardò l’ora sulla sveglia poggiata sul comodino accanto al letto. Non voleva partire troppo presto per lasciare a Drake il suo spazio. Sapeva che non se la stava passando bene. Come molti altri era rimasto abbastanza scosso per l’accaduto, soprattutto in virtù dell’affetto provato per una ragazza in particolare, Idem Withpotatoes, la quale aveva perso sia la sorella che il fratello.
    Ma forse ora era pronta.

    Bussò alla porta senza troppa foga, immaginandosi Hector dietro la porta pronto per abbaiare, ma ci fu solo il silenzio a seguire, fin quando lui non aprì. «ehi.. pronto?» con un rapido sguardo lo fissò da cima a fondo. Era davvero elegante con quel suo completo, probabilmente anche troppo. Gli calzava alla perfezione, come anche l’espressione sul suo viso. Avrebbe voluto chiedergli come stai? Hai dormito almeno stanotte? ma sapeva non le avrebbe risposto o perlomeno ci avrebbe girato intorno fin quando la ragazza non si fosse accontentata delle risposte. Perciò si limitò a quello, sperando che fosse lui a sbottonarsi, prima o poi. E lo fece, ma non come si aspettava Claire, ovviamente. «beh, dio mio, se non mi lasci neanche lo spazio personale per mettermi la colonia... controllare i capelli... lucidare le scarpe--ahia» non gli diede modo di finire la frase che se lo stava già trascinando alla macchina per un orecchio, con gli occhi alzati a fissare il cielo e sospirando, fin quando non passò dalle mani direttamente alle minacce. «ci metto davvero poco a lasciarti qui e andarci da sola» diciamo che la magonò non usava molto le mezze misure. Nonostante in un’altra circostanza quel funerale lei lo avrebbe evitato, quel giorno avevano preso una decisione che lei rispettava e che alla fine avrebbero portato a termine. Senza nessuna esitazione.
    Lasciò che Drake chiudesse casa e si sistemasse un’ultima volta mentre lei se ne stava appoggiata alla macchina, con le braccia conserte, ad aspettarlo. Fu quando lui le si avvicinò che Claire notò un particolare non di poco conto «bel nodo».

    Non ci misero molto ad arrivare alla radura. La luce calda del tramonto conferiva a quell’angolo di mondo un’aria maledettamente pacata. C’era una strana quiete, magari anche giusta per certi versi. Ma la sensazione che le trasmetteva era della quiete prima della tempesta. Era evidente: gli uomini e le donne presenti lì non avevano solo perso i loro cari, gli era stato tolto anche qualcos’altro. Ed erano in attesa. Avevano quasi tutti il dente avvelenato, qualcosa era cambiato dopo gli ultimi avvenimenti.
    Claire parcheggiò la macchina poco fuori la radura e raggiunsero a piedi il luogo dove si sarebbe svolto il funerale. Lui, con lei a braccetto. Venne quasi naturale chiedersi quando avessero fatto il “salto di qualità” quei due. Ad ogni modo, raggiunsero le salme chiuse nelle bare in silenzio. Ogni tanto Claire, dal basso, cercava di guardarlo. E lo vedeva, perso nei suoi pensieri che quasi aveva paura di richiamarlo alla realtà.
    La magonò era praticamente un’estranea in mezzo a quella folla, così si lasciò guidare da Drake che si dirigeva verso quelli che conosceva. Il primo a parargli davanti fu Aloysius, il suo migliore amico, così almeno immaginò. Poi spuntò Isaac, il ragazzo di cui Drake le aveva parlato. Non fu di molte parole quando gli raccontò la sua vita ma era palese quanto il ragazzo fosse importante per l’uomo accanto a lei. Così abbandonò il suo braccio per lasciare ai due un momento tutto per loro anche se non poté fare a meno di osservarli. Erano..teneri. Poi arrivò il momento cruciale per Drake, ovvero salutare Idem. La funzione stava per iniziare, bisognava muoversi se voleva vederla prima che cominciasse.
    Quando le furono davanti lui ebbe un attimo di esitazione, e si fermò. Assolutamente no, non siamo venuti qui per vederti fare retromarcia, pensò la ragazza. «se non ti muovi, ti ci spingo» e camminò, tirandoselo dietro, a braccetto, con nonchalance. Diciamo che..Drake a parole aveva bisogno di riscaldarsi prima di azzeccare le cose giuste da dire, ma, anche se alla fine e dopo un calcio nello stinco, comunque ci riuscì. Probabilmente dopo quella conversazione lui sarebbe stato meglio e sarebbe tornato a casa con la consapevolezza di poter rimediare agli errori del passato senza alcun timore. Chissà.. In quel momento comunque uscì un lato del ragazzo che la magonò non si aspettava e ne fu, per certi versi, commossa.
    Quando Drake ritornò al fianco di Claire, lei lo abbracciò, stringendolo forte. Non c’era bisogno di dire niente.

    Presero posto in terza fila e attesero che la cerimonia iniziasse mentre lui cercava di spiegarle chi fossero gli altri presenti in quell’occasione. Non parlarono degli incontri fatti fino a quel momento e andava bene così.
    Il funerale iniziò con alcuni discorsi di molti ambasciatori, seguiti poi da quello di Idem. Purtroppo però, le cose non filarono lisce ancora a lungo. Una figura alta, dai lineamenti spigolosi, prese la parola. Claire non aveva idea di chi fosse, lo scoprì solo in seguito. Strinse la mano di Drake, percependo che le cose si stavano per mettere male. Scocciato però, a un certo punto il biondo accanto a lei si alzò e iniziò a camminare portandosi davanti a tutti e prendendo la parola, rivolgendosi a decine di persone. Anche altri fecero come lui.
    Non seppe quando esattamente, ma le cose iniziarono presto a degenerare. Peccato che la magonò non immaginava quanto sarebbe potuto peggiorare fin quando non lo vide direttamente con i suoi occhi. Lampi di luce colorata cominciarono a volare sopra le loro teste. Molti si alzarono per fare qualcosa, altri scapparono. Scoppiò il panico. Anche Claire si alzò ma solo per raggiungere Drake, entrambi abbastanza inutili in mezzo a quella folla perlopiù di maghi e streghe.
    «Isaac… e Al, dove sono?» bella domanda. Con la gente che gli correva addosso trovare i due non sarebbe stata una passeggiata. Degli uomini, poi, circondarono la radura, per cui uscire da lì sarebbe stato oltre modo impossibile. Che fare quindi? «Non lo so.. ». Di colpo la ragazza si abbassò per evitare un incantesimo e si portò giù anche il ragazzo. «Dobbiamo andarcene da qui, spostarci. Non possiamo combattere, saremo solo d’intralcio ». Era iniziato tutto come un funerale e stava finendo come uno scontro politico. Gli incantesimi volavano sia da una parte che dall’altra, impossibile anche stabilire chi poteva avere la meglio. Quando i due si alzarono per trovare un riparo qualcuno finì lì in mezzo e lì separò. Dovettero persino allontanarsi da lì per non diventare parte di quel duello. Ma nel momento esatto in cui Claire iniziò a correre per ritornare da Drake trovò ai suoi piedi un ragazzo, ferito, che perdeva via via conoscenza. Poteva cercare di scansare gli incantesimi ma non poteva scansare anche le persone morenti a terra. Sapeva che avrebbe dovuto scappare ma discutere con la propria coscienza significava rimanere con i sensi di colpa a vita. Perciò rimase ferma, immobile, per secondi che le sembrarono minuti. Molti la spintonarono, qualcuno forse la chiamava, ma nulla la scostò da lì. Alla fine, l’immagine di quel ragazzo che perdeva sangue vinse su di lei. Aveva lasciato che fin troppe vite si spegnessero per non destare sospetti tra i babbani, ora che nessuno l’avrebbe giudicata rimaneva ferma? E se quel ragazzo combatteva per lo schieramento sbagliato? Lei aveva uno schieramento? Troppe domande e poco tempo per rispondere. Si chinò su di lui, poggiando le mani sulla sua ferita aperta e beccandosi a volte qualche ginocchiata addosso. «Ci metterò poco, te lo prometto ». La ferita guarì rapidamente, abbastanza da rimetterlo in sesto. Poi qualcuno la abbracciò da dietro, o perlomeno così le sembrò. Ne riconobbe l’odore. Drake l’aveva raggiunta e sconvolto la fissò. Claire non si rese conto di avere le mani ricoperte di sangue. «Claire! Sei ferita? Da dove viene tutto questo sangue?» per un attimo pensò fosse il suo, non badando al ragazzo di poco prima. «Sto bene, non preoccuparti. Tu? Tu sei ferito?» «Io anche sto bene. Andiamo, sul palco saremo al riparo. Forse..». La ragazza si appoggiò sulle braccia forti di lui per rialzarsi, e insieme raggiunsero il palco, lontani dai combattimenti e lontani dalla barriera degli uomini che circondava la radura. Ogni via di fuga era bloccata.
    Ma in qualche modo ce la fecero. Ad arrivare sul palco, intendo. Da lì, lo ‘spettacolo’ fu agghiacciante ai suoi occhi. La magonò non aveva mai visto niente del genere e pensò che questo fosse solo l’assaggio di ciò che stava per accadere. Ma per fortuna non durò ancora a lungo.
    I primi uomini iniziarono a cadere, anche se nessuno vinceva ancora. Quando Lancaster salì sul palco mise ufficialmente fine a quegli scontri con una scossa. Letteralmente con una scossa. Mancò solo il ministro britannico a chiudere la faccenda ma ciò che disse, Claire non lo udì. Seppe solo quando fu il momento, finalmente, di andare. Era tutto finito, anche se era appena cominciato. Qualcuno iniziò già ad allontanarsi, altri rimasero a cercare i propri amici, altri ancora cercavano di tamponare il più possibile i danni di quel pomeriggio. La magonò, a quel punto, iniziò a chiedersi, ancora una volta, quale fosse davvero il suo posto. Probabilmente partecipare a quel funerale non era stata una grande idea, ma forse le stava aprendo gli occhi su ciò che la circondava. Era rimasta in disparte tutta la vita, che fosse arrivato il momento di fare qualcosa?
    «Sei pronto? Vuoi andare o preferisci rintracciare Isaac e Al? » Rimandare di qualche altro minuto il ritorno a casa non avrebbe cambiato nulla, anzi, sarebbe stata più tranquilla se Drake si fosse accertato che i suoi amici stessero bene. Gli stampò un bacio sulla guancia. Almeno loro due stavano bene.


    Aspettò che l’acqua divenne abbastanza calda prima di entrare nella doccia. Il sangue ormai secco sulle mani si lavò immediatamente a contatto con quel calore e fu un sollievo scoprire che a parte per qualche livido e dei graffi sulle ginocchia lei stava bene. Rimase venti minuti abbondanti sotto l’acqua corrente mentre ripensava a ciò che aveva visto quel pomeriggio. Si era sempre sentita chiamata in causa ma era sempre rimasta neutrale. Non ci avrebbe messo nulla a farlo anche ora. Ma era davvero la cosa giusta da fare?
    Uscì dalla doccia e con un asciugamano pulì il vetro dello specchio appannato. Riflettendosi, Claire ebbe finalmente la risposta che cercava.

    role code made by effe don't steal, ask



    Sì, lo so, spunto come un fungo giusto all'ultimo momento. Infatti è un post fine a se stesso, scritto solo per ufficializzare la presenza della magonò al funerale. Ora sparisco così come sono arrivata. C'è crisi per tutti.
    Ciao <3
     
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    Non ero altro che un "e se", in quel mondo. Non un pensiero, non una stretta allo stomaco. Non ero neanche un'idea, in quella vita. Era strano, sapete? Si dava per scontato così spesso d'esistere, che non ci si rendeva conto che si trattava invero di un privilegio - l'aria nei polmoni, le stelle negli occhi. Si guardava ai propri genitori distrattamente, si accusava il proprio fratello di aver finito i cereali ed aver lasciato la scatola vuota nell'armadio. Cose normali, cose di tutti i giorni: li si sentiva, ma non li si ascoltava mai. Non si prestava attenzione al battito, alla sfumatura dell'iride: di che colore hanno gli occhi vostra madre e vostro padre? Come stringe la penna vostra sorella? Qual è il piatto preferito di vostro nonno? Di cosa ride, vostra zia? A cosa pensa il vostro miglior amico, prima di dormire? Come batte il cuore del vostro amante, quando lo stringete al petto?
    Lo sapete?
    Io vorrei averlo saputo, prima che fosse stato troppo tardi. Il fatto è che non sapevo, fosse tardi.
    Avete detto a vostra madre che amate la sua risata? Avete mai detto a vostro padre che vi manca sentire la sua voce quand'è al lavoro? Avete mai detto ai vostri fratelli che sono i loro respiri a cullarvi nel sonno? Glielo avete mai detto, che gli volete bene? Senza nasconderlo dietro una battuta, senza una mano a celarlo nella bocca. Sputato con il petto a sanguinare, laddove s'era strappato per quel brandello di verità.
    L'avete mai fatto?
    Io vorrei averlo detto, almeno una volta - quel tanto che bastava a lasciarlo impresso nella pelle, sapete. Dentro al cuore. Vorrei che fosse rimasto qualcosa, di quell'amore, che non fossero le mie stesse dita masticate fra i denti. Sarebbe stato così facile, così naturale. Eppure non l'ho mai fatto. Sono stata superficiale, come ogni essere umano: tendiamo a non credere che le volte possano essere ultime, così ce le lasciamo sfuggire. Non le teniamo abbastanza strette, non le proteggiamo abbastanza: e dire che sono tutto ciò che abbiamo.
    O nel mio caso, che avevamo.
    Vorrei averle dette tutte, quelle cose. Vorrei aver detto a mamma che aveva il profumo più buono del mondo. Vorrei aver detto a papà che aveva il sorriso più bello. Vorrei aver detto a BJ che quando al mattino lo trovavo ancora nel suo letto, ringraziavo Dio che non mi avesse lasciata. Vorrei aver detto a CJ che era imperfetto, ma era una meraviglia.
    Vorrei aver detto a Ronan a che lo amavo.
    Ma non l'ho fatto, ecco il punto: non l'ho mai fatto.
    Ed avrei voluto ringraziarli, sapete. Non scialbi ringraziamenti per un regalo di natale, non quegli abbracci un po' dovuti alle feste o quei 'grazie' piluccati quando si passava un piatto: quelli che nessuno dice mai, e tutti pensano sempre. Quelli che sentiamo nel petto, e neanche riconosciamo come gratitudine.
    Grazie di avermi rimboccato le coperte, di avermi suonato la ninna nanna, di avermi lasciato l'ultima fetta di torta. Grazie dei buongiorno. Grazie di essere stati la mia famiglia, di essere stati miei amici. Grazie di avermi amata.
    Grazie di essere rimasti, anche per poco.
    Grazie di essere la cosa più bella che ho.
    Che avevo.
    Mi chiamo Adelaide Milkobitch, e questa è la mia storia.
    Va masticata con lentezza, deglutita piano. Va presa a piccoli dosi, va capita. Provate a mettervi nei miei panni. Prendetevi un minuto solo per voi stessi - ascoltate buona musica, stringete una tazza di tè fra le mani: leggete la mia storia ed imparare dai miei errori.
    Perché avrei voluto abbracciarli, almeno una volta.
    Perché avrei voluto dire loro che li amavo, almeno una volta.
    Perché avrei voluto che la loro prima volta, non fosse la mia ultima.
    Perché mi chiamo Adelaide Milkobitch, e questa è la storia di come ho detto addio.
    Almeno una volta, nel mio unico per sempre.


    Continuava a ripetersi che non erano la sua famiglia, loro: qualcuno non lo era più, qualcuno non lo era ancora - non li conosci, Ade. Si costrinse a respirare mentre avanzava nella folla a capo chino, recettiva solamente alla presenza di Grey, Jekyll, Hyde o Cliff: erano loro, la sua famiglia. Era con loro, che sarebbe tornata a casa.
    Il resto, era solo perdita di tempo.
    Il resto, l'aveva già perso.
    Così continuò ad avanzare, i singhiozzi soffocati nei denti; così continuò anon pensare, sforzandosi di trovare il proprio equilibrio al centro del caos. Era sempre stata brava a concentrarsi focalizzando la propria attenzione su un dettaglio per volta: una minuziosa osservatrice, affatto impulsiva nelle sue scelte; posata, Adelaide, in ciascuna attività nella quale sceglieva d'impegnarsi. La missione. Lancaster - un mantra che divenne quiete ad ogni fiato, placando un battito folle. Non avrebbe dovuto essere così soverchiante, quel senso di vuoto; erano tutti ancora vivi, doveva pur contare qualcosa, giusto? Tentò di rimanere aggrappata a quel pensiero, ignorando il vacuo dolore percepito ogni qual volta sbatteva le palpebre, la presa di coscienza di quanto quel mondo fosse concreto: perché sapendo che non sarebbe mai partita, Ade non aveva pensato davvero a come sarebbe stato quel passato. Non si era resa conto di cosa avrebbe significato - avrebbe impedito ai suoi fratelli di partire, se l'avesse saputo? Avrebbe chiesto a Ronan di rimanere? Avrebbe supplicato Wes di non lasciarla sola?
    Forse sì. Odiava che loro non sapessero, che non capissero. Che non si trovassero.
    Odiava come la guardavano, come non la vedevano: li odiava un po' tutti, Ade, in quell'egoistico accorgersi che non avrebbero mai saputo chi lei fosse - non avrebbero mai saputo che lei, Adelaide, li aveva amati tutti.
    Anche quando non c'erano più stati, quei tutti.
    Aveva creduto di essersi abituata alla loro assenza; aveva creduto che aver salutato CJ e BJ, meno di un'ora prima, avesse segnato la conclusione che meritavano, il loro quasi lieto fine - Dio, che razza d'idiota era stata. Che razza d'idiota era ancora, nel sentir scorrere il tempo misurandolo di respiri.
    E meno cercava di non pensarci, più le pesava sul cuore - li avrebbe lasciati così, Ade? Qualche frase appena smozzicata, sorrisi di circostanza, e strette che non avrebbero compreso? Accuse prive di senso alle loro orecchie, che per lei valevano una vita intera? Non c'era giustizia, in quel tempo.
    Non c’era giustizia, per Adelaide Milkobitch.
    Distratta, troppo impegnata a mordersi a sangue il labbro inferiore, per rendersi conto dell'ostacolo sul suo cammino - sciocca, la medium. La sedia la colse alla sprovvista, plastica a incastrarsi fra le gambe facendole perdere l'equilibrio.
    Una mano le cinse l'avambraccio - calda, morbida. Riconobbe la forma delle dita sulla pelle, il formicolare familiare che da sempre, e sempre, aveva significato casa. Fu allora che sentì le vertigini, e poco avevano a che fare con l'assenza del suolo sotto i propri piedi: «attenta».
    Adelaide, con lentezza appiccicosa, sollevò le iridi blu.

    Fu il rumore delle stoviglie a strapparla da quel sonno privo di sogni, le braccia ancora strette convulsamente al cuscino lavanda, ed il lenzuolo arrotolato dai piedi. Corrugò le sopracciglia, strinse i denti, respirò profondamente - finché fosse rimasta a letto, avrebbe potuto ignorare la realtà, dare la colpa a ramati e ferrosi incubi: i suoi genitori non erano morti; CJ non se n'era andato. In quel pigro battito di ciglia mentre il tintinnio dei piatti continuava a turbare la quiete della casa, Ade poté quasi sentire Run canticchiare a bassa voce: aveva sempre detto di svegliarsi prima degli altri, sua madre, malgrado Ade fosse segretamente convinta che in realtà non dormisse affatto. Riuscì quasi a percepire il profumo della colazione, l'ennesima torta in forno a sfrigolare piano; poté quasi sentire le molle del letto di CJ, nella stanza accanto: quando mamma era ai fornelli, CJ trovava sempre una scusa qualsiasi con la quale giustificare la sua presenza in cucina - come se nessuno sapesse che si svegliava prima appositamente per quei momenti strappati alla routine quotidiana, dove perfino lui poteva smettere di fingere d'essere qualcuno che non era. Rimaneva in silenzio seduto su qualche ripiano, o a braccia incrociate vicino al frigorifero. Guardava e basta, CJ. Poté quasi, Ade, udire il sospiro seccato del fratello: «spero non ci sia frutta, in quella cosa» sempre la stessa domanda. «buongiorno anche a te» sempre lo stesso sorriso, sua madre. Entrambi.
    Ed era tutto un quasi, quello di Adelaide: perché sapeva, che non poteva essere vero.
    Si obbligò ad alzarsi, a mettere un piede davanti all'altro; si trascinò fino alla cucina - una mano a scivolare sul muro, e l'altra a sorreggersi. BJ aveva un asciugamano poggiato distrattamente sulla spalla, lo sguardo corrucciato a posarsi critico sui piatti sistemati a tavola; con le dita sottili continuava a spostare ancora, ancora, ed ancora, tovaglioli che, apparentemente, non stavano come avrebbero dovuto. Era così concentrato nel suo compito, da non accorgersi che Adelaide lo stava osservando - e lei ne approfittò, beandosi del dorato profilo del fratello nella pallida luce del mattino. Non aveva l'aspetto etereo e delicato di lei, né quello tutto angoli affilati del gemello: BJ era BJ, come sempre si narrava in famiglia. Così diverso da tutti loro, da non esserlo affatto. In molti si domandavano come fosse stato geneticamente possibile un esemplare di BJ - «non ha preso niente, da voi!»-; CJ stesso aveva tentato di convincerlo per anni di essere stato adottato.
    Ade non aveva mai capito come tutti loro potessero non vedere quel che a lei pareva ovvio: non aveva i capelli biondi dei Quinn, né gli occhi blu degli Hamilton - ma non era in quello che si vedeva l'impronta della famiglia. L'avevano mai sentito ridere? L'avevano mai guardato mentre tentava d'apprendere qualcosa di nuovo, cipiglio severo e sguardo duro? E sì, era buono, BJ. Non era come lei, o come il fratello - ed era ciò di cui avevano bisogno, quel che li salvava da loro stessi: era il più della loro addizione, l'opposto senza il quale un CJ non avrebbe potuto esistere. Aveva la testardaggine e l'esuberanza tipica dei loro genitori - semplicemente, la usava in modo diverso. Lo stesso sguardo di sottecchi di Gemes, lo stesso sorriso sincero di Run. L'avevano sempre saputo tutti, quello: perché BJ, dopotutto, era BJ.
    «ti sei svegliata» lo disse come se non fosse previsto che Ade lo facesse; come se ne fosse sollevato, sorpreso. Lo disse con quel sorriso che scaldava il cuore, costringendo le labbra del suo interlocutore a ricambiare. Adelaide annuì, lo sguardo blu a posarsi sul tavolo apparecchiato.
    Una stretta al cuore, una alla gola. Le costole a pungere nel petto, strappandole un ansito in sbuffi. Le prime lacrime della giornata ad imperlare cocciute le ciglia, sapore salato e ferroso fra i denti. «bj...» «so che ti piacciono le uova a colazione, quindi ho cercato di fare un omelette - si, mi sono bruciato, ma non è nulla di...» «bj» «...grave. Ho trovato anche del succo che spero non sia scaduto, nel dubbio prima lo lasciamo assaggiare a-» «bj,» la voce era ormai appena un sibilo, labbra dischiuse e dita ad artigliare la carta da parati.
    Perché c'erano cinque piatti, a tavola. Cinque tovaglioli, cinque bicchieri.
    Adelaide chiuse gli occhi.
    «non ci sono più» che se li avesse tenuti aperti, che se avesse guardato, non sarebbe riuscita a dirlo.
    Perché ad occhi aperti, sarebbe stato vero.
    «non ci sono ancora» la corresse lui, nervosamente a rassettare la tovaglia: non la guardò. «torneranno» piccato, sicuro.
    Bugiardo.
    «vero, Ade?»
    Oh, BJ.
    Quegli occhi troppo sinceri a cercare altre menzogne in quelli di Ade, a pungere sul vivo dove la carne era ancora troppo fresca. Dava sempre qualcosa, lo sguardo di suo fratello, trasparente quanto il più tiepido del mar dei Caraibi. Dava fiducia, dava speranza, con quelle pozze di cioccolato fuso a reclamare un’altra illusione. Voleva crederci, BJ.
    Avrebbe voluto farlo anche Adelaide.
    Mosse un passo nella sua direzione, le braccia ora a ciondolare inermi lungo i fianchi. Il ragazzo scosse la testa, indietreggiò verso il muro opposto – poche parole sputate a bassa voce, il capo chino a fissar le proprie mani. «io ero lì, e c’erano anche loro, e-» il tono a liquefarsi come ghiaccio al sole, sciogliendosi in singhiozzi atoni a vibrare sulle spalle. «non può … non è-»le gambe a cedere, la sedia a scricchiolare sotto il peso di lui. Lo guardò mentre portava i palmi al viso, la schiena scossa da singhiozzi silenziosi – lo guardò e non potè che trovare ironico, Adelaide, che mai avrebbero saputo il suo vero nome: Beech Jackson, Brandon Junior, Britney Justin o Beyoncè J-Lo. Alla fine nessuno aveva mai detto ai figli quale fosse la verità, tanto BJ è BJ; ad Adelaide era sorto il dubbio che non lo sapessero neanche i loro genitori. Così esilarante, da strapparle un rauco suono di gola.
    Perché uno scherzo di famiglia smetteva di essere divertente, quando metà della famiglia moriva.
    Rischi del mestiere. «è colpa mia?» No. Dio, no, come avrebbe potuto essere colpa sua. «CJ mi odia?» No. Dio, no, come avrebbe potuto odiarlo. Cercò di parlare, di muover le labbra, ma non riuscì a far altro che scuotere il capo: aveva solo vent’anni, Adelaide. Crescere con la morte nel petto non rendeva più semplice ingoiare quella dei propri cari. Ancora un passo verso di lui, e quella volta BJ non si mosse. Altri passi, altri respiri – ed infine lo raggiunse, quel gigante buono di suo fratello. «mai» un filo di voce, promessa d’altri mantenuta dalla sua bocca: perché sapeva di poter parlare per tutti coloro che se n’erano andati, Ade.
    Funzionava così, fra loro. «andrà…» tutto bene? Non poteva esserne certa. Così si limitò a stringerlo a sé, le braccia avvolte alle sue spalle mentre il pianto di suo fratello le inumidiva il pigiama, il capo chino a poggiare sopra quello di lui. Parole sussurrate sui capelli, le labbra a sfiorare la chioma scura di BJ. «siamo insieme» deglutì le lacrime, si schiarì la voce. «non mi lasci, vero?» e quella domanda sfuggita dalle labbra senza intenzione, a bruciare in gola e sulla lingua. Quella supplica, nell’annaspare alla ricerca d’aria, mentre testarda s’aggrappava a lui.
    Tutto ciò che le era rimasto. Loro due contro tutti.
    «mai»
    […]
    Cinque anni passati a respirar la stessa aria, a vivere l’uno per l’altro. Si prendevano cura vicendevolmente, i due fratelli; impegnavano il loro tempo dividendolo fra le ricerche di CJ, e quelle per una cura, una soluzione all’apocalisse ormai imminente.
    E l’avevano trovato, un modo. Una missione di salvataggio.«devo andare, ade» avevano un equilibrio particolare, una sintonia delicata ed impalpabile. Ade non avrebbe mai capito suo fratello, non avrebbe mai potuto sostituire il legame fra i gemelli, eppure avevano trovato un modo tutto loro di comprendersi, lei e BJ – non avevano neanche bisogno di guardarsi, per il non detto a pesar fra loro. Non erano stati anni facili, i loro.
    C’erano stati Natali in cui avevano finto tutto andasse bene, un gruppo d’orfani a pretendere d’essere ancora completi: ricordava il purè di Gwen, le polpette di suo fratello; ricordava le tovaglie strappate con rabbia dal tavolo, i pianti soffocati nella neve all’esterno – e la cena spostata lì, al freddo, per il semplice bisogno di rimanere insieme. C’erano stati compleanni in cui avevano creduto che tutto potesse sistemarsi, sempre due candele sulle torte di BJ – perché che CJ sarebbe tornato, lo sapevano entrambi. C’erano state notti in cui Ade aveva bussato alla porta di suo fratello, chiedendo silenziosamente se potesse dormire con lui; c’erano stati pomeriggi in cui BJ, riconoscendo il sorriso sulle labbra di Ade, le aveva domandato chi fosse il suo nuovo ragazzo. C’era stata una vita intera, compressa in quei cinque anni.
    Una vita intera basata su una promessa antica, e sempre recente: non mi lasci sola, vero?
    Così Adelaide si morse il labbro inferiore, il capo chino. La lingua a premere per rinfacciare quelle parole, il cuore a tremare dietro le costole - non poteva perdere anche lui.
    «lo faccio per noi» Davvero? Avrebbe voluto ribattere che lo faceva solo per sé stesso, per poter vivere in un mondo differente - per poter riavere la sua famiglia, perché lei non era abbastanza- ma non lo fece: BJ non le aveva mai mentito. L’avrebbe fatto davvero, per loro. Così si limitò ad annuire, un debole sorriso a curvare le labbra. «sai che non verrò» sì, lo sapeva. Perché Adelaide non sarebbe mai riuscita a perdere i propri, sudati, venticinque anni di vita. Non voleva privarsi dei propri ricordi, non voleva lasciar solo chi sarebbe rimasto.
    Si sarebbe presa cura di loro, Ade, come aveva sempre fatto – Grey, Jek, Hyde. Non avrebbe lasciato solo Cliff con suo padre; non avrebbe lasciato Rea, Elijah, Jade ed Euge, a piangere la partenza dei propri figli da soli. Non aveva la stoffa da Custode, né quella per essere Messaggera – così decise che sarebbe rimasta guardiana di quel mondo dimenticato, di quella piega d’universo rifiutata da Dio. Avrebbe cercato di migliorare la vita, laddove poteva – avrebbe reso più facile il trapasso, laddove fosse stato necessario.
    Non aveva mai creduto nel destino, ma non aveva alcun dubbio sul fatto che la sua storia, sarebbe rimasta lì. «potrò essere il fratello maggiore, questa volta» Ade rise, pur non facendolo mai.
    Non gli disse che si trattava d’un altro universo, un’altra vita - che lei, loro, avrebbero potuto non esistere mai. Aveva bisogno di sperare che almeno un poco, per loro, ci sarebbe stata.
    Ade pianse, pur non facendolo mai. BJ la abbracciò, la testa di lei affondata nel petto di lui. «cj verrà con te» perché conosceva suo fratello, Adelaide, e sapeva dove sarebbe ricaduta la sua scelta.
    Si sarebbero dimenticati entrambi, di lei. Se era quello il prezzo da pagare per avere un futuro migliore, almeno in un’altra vita, era disposta a saldarlo: sarebbe bastata lei, per tutti loro, a ricordare. Nessuno dei due disse nulla per un tempo che parve interminabile, mentre la Milkobitch cercava d’aggrapparsi al profumo del fratello, alla sensazione di sicurezza che solamente le sue braccia sapevano darle: non aveva mai avuto paura, con BJ. Che paura, Adelaide, l’aveva sempre avuta delle piccole cose - dell’abbandono, del buio, dell’essere sostituibile - e mai lui l’aveva fatta dubitare.
    Neanche in quel momento, quando un po’ lo detestò, in quella stretta: perché BJ conosceva bene quanto lei il prezzo della Missione, e non era una decisione presa d’impulso – non era un CJ, lui. L’aveva ponderata, l’aveva schematizzata.
    Non avevo scelto di abbandonarla, ma di salvarla.
    Se Adelaide se lo fosse ripetuto abbastanza, magari avrebbe smesso di piangere.
    «non ti chiederò se sei sicura, ma… pensaci, per favore»
    Deglutì. «non insistere, ti prego» perché potrei cambiare idea, e non posso. Perché potrei voler partire, ma non è ciò che sono.
    «mi odi?»
    E quell’unica certezza, appena bisbigliata sul tessuto sottile della sua maglia. Il fiato a mescolarsi alle lacrime, nel sorriso più caldo del mondo. «mai»

    Cercò di deglutire, ma non aveva più saliva – la gola arida, la lingua secca. Adelaide Milkobitch rimase ad osservare il fu BJ con occhi spalancati e bocca dischiusa, un cervo colto dai fari di un’automobile.
    Non era cambiato affatto. Guardò la mano ancora stretta attorno al suo braccio, costringendo gli occhi a rimaner fissi su quel contatto - ad imprimerselo nella carne, consapevole che sarebbe stato l’ultimo. Ancora, lo sguardo cobalto si riempì di lacrime che non avrebbe avuto senso versare, ed ancora si maledisse, la medium, per quella situazione.
    I pugni chiusi, le unghie a perforare i palmi. Cosa avrebbe potuto dirgli? Mi abbracci, per favore? Resistere a quella necessità fu più difficile, con il fratello minore - più doloroso, dietro le costole. Perché i suoi genitori non la conoscevano ancora, perché con CJ non era mai stato quel tipo di caldo conforto - ma lui? BJ era stata la sua certezza quando aveva perso tutto, il primo sorriso del mattino. Erano i pancake appena sfornati e decorati con panna montata che le ammiccavano a colazione, erano i balletti nei quali cercava sempre d’includerla durante le pulizie. Erano le notti passate a guardare le stelle, con il dito di Adelaide ad indicarle tutte; erano le giornate passate a suonare la chitarra, od il pianoforte. Erano i film guardati sul divano, a litigarsi i pop corn bruciati. Erano le lacrime, era il senso di vuoto un poco più pieno, erano quelle strette di cui avevano bisogno pur senza ammetterlo mai.
    E vide il capo di lui reclinarsi, le palpebre ad assottigliarsi sulla sua figura. Il cuore perse un battito – o forse cento, o forse mille- mentre sul palato pregava che sapesse: dillo, BJ. Almeno te, dillo. So che sai chi sono, ti prego.
    Non puoi avermi dimenticata così. Avevi promesso di non lasciarmi sola.
    «ti sei fatta male?»
    Oh, BJ. Una risata amara grattò nervosa i denti di Adelaide, singhiozzi ritmati ad imitazione d’un sorriso. Sottrasse il braccio dalla sua presa sentendosi nuovamente pesante e vacua, assente nel proprio corpo: non riusciva a tollerare quegli occhi senza leggervi il proprio nome, l’affetto che s’era meritata. Non riusciva a guardare suo fratello sapendo di essere solamente una sconosciuta – una chioma corvina fra tante, uno sguardo blu qualsiasi. Così indietreggiò, lacrime salate a pizzicarle il labbro superiore. «sì» ammise, ridendo di sé stessa. Non era un genere di dolore a cui un cerotto avrebbe potuto rimediare («nemmeno se ci disegno sopra una faccina?» - sovraccarico di ricordi a pugnalare ogni muscolo, affollamento dei sorrisi di sottecchi che il fratello le rivolgeva sopra un ginocchio sbucciato: «con me funziona» quelle che aveva sempre ritenuto sciocchezze per farla ridere, e che l’avrebbero spinta a disegnare occhietti su ogni benda, quando fosse tornata a casa: perché uno scherzo di famiglia smetteva di essere divertente, quando la famiglia non esisteva più – quando ti dimenticavano, passante fra passanti). Era quella sofferenza che rendeva l’ossigeno piombo, che incrinava le costole finchè non bucavano i polmoni. Era quel male che non riusciva ad uscire, incastrato pesante sopra al cuore.
    Sì, si era fatta male. «colpa mia» sì, era colpa sua.
    Spinse con il palmo a terra, si sollevò in piedi. Adelaide Milkobitch rimase in silenzio di fianco a quello ch’era stato suo fratello, che lo sarebbe sempre stato, sentendo le mani prudere dal bisogno di stringerlo a sé, le orecchie a necessitare la sua voce a ricordarle che erano insieme, la lingua a pungere di domande che non avrebbero avuto senso, per quel BJ.
    Deglutì. Quando lui fece per andarsene, reagì d’istinto - allungò il braccio, cercando con la mano quella di lui. «aspetta» pregò, irrazionale, intrecciando brevemente le dita alle sue. Chiuse gli occhi ed il cuore, sentendo il palmo caldo di suo fratello contro il proprio. Non potevano rimanere così? Solo un pochino, quel tanto che sarebbe bastato a BJ a riconoscerla. Chiuse gli occhi perché non poteva accettare lo sguardo confuso di lui, così familiare ed estraneo da straziare la carne. «sì?»
    Ti prego, prenditi cura di loro. Ti prego, so quanto sia difficile, ma non abbandonarlo - insisti, con CJ. Quando spinge, attacca – quando attacca, spingi. Ti prego, non arrenderti. Non ce la fa da solo, non ce l’ha mai fatta - non ce la fai, da solo. Avete bisogno l’uno dell’altro, voi due. L’avete sempre fatto – due cuori, un solo battito: salva tuo fratello, BJ. Lasciati salvare, BJ.
    Ti prego, siete tutto ciò che ho.
    Almeno voi.
    Mi manchi già, BJ. Non so cosa farò quando tornerò a casa, ed i muri suoneranno vuoti di voi. Sono stata un’idiota a lasciarvi partire senza di me, ho creduto troppo in qualcosa che non sono - abbastanza forte, abbastanza pragmatica. Sento già il petto dolere, BJ. Lo sai che ti voglio bene, vero? Che non ti odio, anche se mi guardi così - Dio, non potrei mai.
    «niente» scosse il capo, un sorriso friabile a far capolino sulle labbra carnose.
    Almeno sempre.
    Si strappò dal fratello con un suono secco che le frustò le ossa. I primi passi furono i più difficili, le spalle a bruciare del suo sguardo, ma andò avanti comunque, Adelaide. I polpastrelli a sfiorare i bracciali in cuoio, quelli che loro le avevano dato prima di partire – sui quali poteva ancora percepire il sentore della loro pelle, dei loro battiti. Non si accorse neanche, Ade, che v'era un solo bracciale, attorno al polso. Camminò ad occhi chiusi, a respiro fermo.
    Missione. Lancaster.
    Il sorriso spezzato di CJ. Lo sguardo assente di Ronan.
    Missione. Lancaster.
    La voce di sua madre. Il profumo di suo padre.
    Missione. Lancaster. Senza sapere come, salì sul palco.
    Davina. Mabel. Tupp. Cash. Leia.
    Missione. Lancaster.
    Al. Sin. Murphy. Todd. Jay.
    Così tanti. Così tutto, e nessuno poteva comprendere la portata di ciò che avevano.
    «grey» un singulto sollevato quando le dita della cronocineta si serrarono attorno al suo polso, il sorriso della Crane umido di lacrime. Le aveva sempre invidiato quell’insano ottimismo che le curvava le labbra anche nelle situazioni più tragiche, le sopracciglia inarcate e le spalle a stringersi fra loro in un «poteva sempre andare peggio» a cui la Milkobitch non era mai riuscita ad adattarsi. Posò la mano su quella di lei, gli occhi chiusi ed un sospiro a tremare sul palato. Bastò quel contatto familiare, quel contatto del suo tempo, per riportare determinata quiete nello sguardo di Adelaide: Missione, Lancaster.
    Il loro tempo stava scadendo.
    «tienilo un secondo» Il preside si volse appena verso di loro, un neonato in fasce offerto come una reliquia alle mani scure e delicate di Grey. Ade corrugò le sopracciglia, reclinò il capo seccata: «non ho tempo, i fascicoli-» ma non concluse la frase, fermata sia dalla pronta risposta del preside di Salem, che dal sibilo fra i denti della zia. Grey stava guardando il fagotto, un lento sorriso ad accentuare le fossette sulle guance. «sembra river» Non le fece notare come tutti i bambini fossero uguali: per quanto ne sapeva, avrebbe potuto esserlo davvero. «hai ancora un quarto d’ora, se non erro» Adelaide osservò impassibile l’uomo, specchiandosi nelle lenti scure degli occhiali da sole.
    Un quarto d’ora. Quindici minuti. Novecento secondi.
    Duecentodieci respiri.
    Rimase immobile sul palco, le braccia lungo i fianchi ed il capo chino.
    Duecentonove.
    Cosa avrebbe potuto farsene, di quei fiati a spingere in gola? Troppo da dire, nessuno ad ascoltarla. Non erano loro, non c’erano più.
    Erano morti. Erano partiti. Strinse i pugni, si morse l’interno della guancia. Tenne testardamente gli occhi fissi sulla punta dei propri piedi, mentre Lancaster si muoveva placidamente sul palco, invitando Donnie e Idem a fare qualcosa ch’ella neanche vide - duecentocinque, duecento.
    Cento ottanta.
    Trattenne il respiro per non consumarlo, sorridendo all’idiozia di quel gesto irrazionale. Aveva saputo sin dall’inizio come sarebbe andata, così come sapeva perfettamente, Adelaide Milkobitch, di non poter dilatare quel poco d’ossigeno che le era rimasto; avrebbe voluto avere il coraggio di sollevar le iridi sulla folla, di guardarli un’ultima volta. Avrebbe voluto aver l’audacia d’imprimersi le loro voci ed i loro profili nelle orecchie e negli occhi, nenia di consolazione quando fosse tornata a casa. Avrebbe voluto possedere l’imprudenza di parlargli ancora, di supplicarli di vederla per quel che era – parte di loro, sempre. Di stringerli, incurante del fatto che una sconosciuta non avesse alcun motivo per farlo.
    Ma non sarebbe riuscita, Ade, ad accettare un rifiuto. Sarebbe stato semplicemente troppo, sentire le loro dita spingerla lontana, sopracciglia corrugate ed occhiate confuse a posarsi distratte su di lei.
    Decise di accontentarsi di quel che aveva avuto, Adelaide. Che quello, non le spettava.
    Udì i piedi strisciare pesanti sul fango. Sentì i sospiri di sollievo, le risate cristalline e nervose a rendere fulgida l’aria, l’erba a sporcarsi di saluti e pacche sulle spalle. Non ebbe cuore di guardare chi se ne fosse andato, facilitandole così una scelta ovvia: non guardò, Adelaide, chi non avrebbe più rivisto.
    Non ha senso, Ade.
    Quanto odiava, quando Hyde aveva ragione. «ora dobbiamo parlare» non dovette neanche costringere la propria voce a non tremare, di suo piatta ed atona quanto un sasso sulla superficie d’un lago. Una parte di lei continuava a strappare e contare respiri come una ragazzina i petali d’una margherita, l’altra portava già il peso di un lutto sempre troppo recente, sempre troppo ingiusto. Missione, Lancaster.
    Si lasciò trascinare in disparte, passiva sotto la calda stretta dell’uomo. Tutto, purchè le desse ciò per la quale s’era avventurata in quel tempo - tutto, purchè la portasse lontano. Prese il sottile tomo color pergamena, le dita a scivolare sui fogli ivi raccolti. Come poteva qualcosa di così piccolo cambiare le sorti di un universo intero? E dire che non le sarebbe servito a niente, una volta che fosse tornata nel 2043: non c’era più nulla da salvare, nella sua era. Non avevano più tempo. Si schiarì la voce, inspirò profondamente. «pensavo fosse vostro compito assicurarvi che tutti finissero nelle famiglie appropriate» una rabbia fredda, strisciante. Quelle pacate, delle quali faticavi ad accorgertene finchè non mordevano la carne. Quelle che avevano già dato tutto, e non erano altro che il frutto di un guscio vuoto memore di una vita del quale ancora gli importava. «dovevate fare solo una cosa. Dovevate proteggerli finse che quello stridio fosse dovuto al tono basso, e non al cuore ad incrinarsi nel petto. Che lei non c’era stata, ed aveva lasciato a loro la responsabilità sui suoi fratelli: avrebbero dovuto capitare in famiglie scelte, sicure. Nulla di quanto aveva visto sulla pelle e nel sorriso di suo fratello, lasciava intendere che la sua storia fosse stata scelta, o sicura. Che CJ, santo Dio, era uno di quei ragazzi che andavano protetti da loro stessi, dalle stupide scelte dettate dalla lingua prima ancor che dalle mani; che era fatto male, il telepata, perché si faceva male. Era uno di quei fiori che non avevano bisogno di cure, solo di attenzioni. C’era qualcosa di spezzato e folle, nel sorriso di lui - e c’era qualcosa di sempre turbato, nell’espressione di BJ. Non era così che avrebbe dovuto andare.
    Non erano così, che avrebbero dovuto essere.
    Avrebbero dovuto crescere insieme, completarsi e smontarsi, odiarsi ed amarsi. Avrebbero dovuto sorreggersi, spingersi - esserci. Sapeva, Ade, che qualcosa non era andato come previsto: perché lei, così, non li aveva mai visti.
    Ed in momenti peggiori, di quello.
    «perchè?» a sè stessa, a Lancaster. Alle foto dei defunti sul palco, ai poco lontani Hyde e Jekyll, a Ronan e Zenith, a Todd. Il tono supplichevole di chi poteva accettar solamente menzogne, perché la verità già grattava a sangue la pelle. «ho delle richieste» drizzò la schiena, irrigidì le spalle. Più di una, più di cento. Si schiarì la voce sforzandosi di spingere gli occhi al di là delle spalle di Lancaster, così da non dover incrociare lo sguardo dell’uomo. «io, veramen-» «avete sbagliato, il minimo che possiate fare è rimediare ai vostri errori» un giudizio, sempre colpevole, scagliato con la freddezza di una stilettata: avevano sbagliato in passato, costringendo ragazzini a perdersi per ritrovarsi in un tempo che non gli apparteneva; avevano sbagliato nel prendersi cura di loro, non facendolo affatto. Avevano sbagliato a dimenticarsi che i propri debiti di carne, bisognava saldarli sempre. «se potessi farlo io, non lo chiederei a lei» tentò di suonare come un’accusa, ma non fece altro che apparire come ciò che effettivamente era: una verità dolente – a stringerle la gola e bagnarle le ciglia, un pugno arrugginito a stropicciare i propri vestiti. Se Adelaide avesse potuto scendere quegli scalini, costringerli a capirla, non avrebbe chiesto a Lancaster di farle da portavoce; se avessero potuto essere le sue mani, sulle loro spalle, non avrebbe domandato a William di farlo al suo posto. «conosco la mia famiglia» un tempo, un giorno. Potevano essere così diversi? Potevano aver preso i suoi fratelli, ed averli piegati così tante volte da renderli completamente differenti?
    No.
    Mai.
    Lo sapeva, Adelaide, che erano sempre loro: certe cose rimanevano nel sangue, in ogni brandello di sincerità affidato al buio. «non mi crederebbero, se glielo dicessi-» s’interruppe prima di poter dire io, la voce a morirle sulla lingua. Perché un tempo, CJ e BJ, avrebbero creduto a qualunque cosa, se gliel’avesse detta lei – e Dio, quanto rimpiangeva non avergli detto quanto fossero importanti, quanto fossero amati: perché ad Adelaide, avrebbero creduto.
    Un tempo, un giorno.
    «-adesso.» si inumidì le labbra. Non lo guardò mai, mentre svuotava lo stomaco di quelle farfalle destinate a morire giovani. «so cosa penseranno quando sapranno la verità» riusciva quasi a vederli, i due fratelli, a chiedersi cosa non fosse andato in loro: perché lei non li avesse seguiti, perché se ne fossero andati, che persone fossero state. Se avessero amato, ed odiato - se si fossero amati, ed odiati. Riusciva quasi a sentire la risata affilata di CJ, vedere le spalle di BJ a curvarsi: siamo sempre stati così? «mi deve promettere che dirà loro che non è stato facile partire – per loro, e per me. che sono rimasta perché qualcuno doveva farlo, ma sono felice che loro non l’abbiano fatto. Che mi mancheranno, mi mancano già» inspirò dalle narici. «mi deve promettere che li aiuterà anche quando non vorranno – e non lo vorranno. Dirà loro che un tempo sono stati amati, e si meritano di esserlo ancora: che se qualcosa non va, possono sempre contare l’uno sull’altro. che l’hanno sempre fatto. e-» premette i palmi sugli occhi, ridendo flebile e triste, mentre le mani schiacciavano gli occhi per bloccare le lacrime. «che non sono soli. Dio, non sono soli» e raccontagli di quella volta in cui CJ ha cercato di preparare la colazione, e nei piatti aveva servito solamente ketchup e fette biscottate, ma avevamo comunque finto fosse la più buona del mondo; di quella volta in cui BJ si è intestardito a voler vedere l’alba, e papà ha dovuto raccoglierlo dal termosifone sul quale s’era addormentato, per portarlo a letto. Raccontagli di quando CJ ha imparato a scrivere, di quel ‘è per le parolacce’ quando sapevano tutti ch’era per essere la mano di un BJ che ancora, pur non sapendo farlo, sognava di lasciare messaggi in codice a bottiglie fra le onde. Raccontagli di quando ho rotto il vetro della finestra in sala, e loro si sono presi la colpa ostentando un calcetto a cui neanche avevano mai giocato. Raccontagli di quando CJ aveva la febbre, ed in un sonno distratto aveva domandato a suo fratello se potesse leggergli una favola. Raccontagli della loro prima sbronza, di quelle risate mal celate sotto le dita a rimbalzare fin sul tetto; di quella volta in cui mamma ci ha portati allo zoo, e siamo tornati a casa con un cucciolo di coccodrillo perché ‘gemes non guardarmi così, ai bambini piaceva tanto!’. Raccontagli di quella volta in cui BJ s’è fatto le treccine africane, e nessuno è riuscito a guardarlo senza ridere per un mese; di quella volta in cui CJ non è riuscito ad entrare nella squadra di baseball, così ne abbiamo fatta una tutta per lui – ed uno stadio, ed un campionato. Di quelle notti in cui i nostri genitori non c’erano, e quando BJ domandava ‘torneranno?’ CJ rispondeva con un ‘purtroppo’ a cui non aveva mai creduto nessuno. Raccontagli degli abbracci, delle dita intrecciate fra loro. Raccontagli i nostri segreti – la mia paura del buio, quella di CJ per le altezze, quella di BJ di non essere abbastanza. Di quando litigavano, e per farsi perdonare CJ suonava la canzone preferita di BJ, pur detestandola; di quando litigavano, e per farsi perdonare BJ bussava piano alla porta di CJ. Di quei ‘sei mio fratello’ bisbigliati come un segreto, gridati ad un cielo sordo, pianti in un sorriso a singhiozzi. Raccontagli di quei tre bambini che ‘non ci piace halloween’ a giustificare la loro presenza in casa mentre gli altri erano fuori a giocare, solamente per poter festeggiare insieme il compleanno di papà. Di quando mi sono rotta il braccio, ed ogni giorno scrivevano i loro nomi sul gesso perché ‘ti aiutiamo noi a guarire, ade’. Raccontagli di quando CJ ha pianto la prima volta, nudo di fronte ad un mondo crudele: di quei pensieri che lo pugnalavano fisicamente, e di quei ‘non è vero, cj. Non sei così’ di BJ, a cercare di convincere suo fratello che non era come lo descrivevano loro – che valeva la pena, sempre. Raccontagli di quando stavo male e mi addormentavo da sola, ma mi svegliavo con uno dei due a dormire sulla poltrona vicino al letto. Raccontagli dei sorrisi, delle pacche sulle spalle, delle risate di scherno. Raccontagli degli incubi, di come l’uno sapesse sempre quando l’altro avesse qualcosa che non andava. Raccontagli delle stelle. Raccontagli del nostro cane, e della capra che al mattino ci dava il buongiorno mixando in cucina. Di quando CJ non tornava a casa, e cercandolo ovunque lo trovavamo seduto su di un muretto a guardare la città; di quando BJ ha imparato a scattare foto, ed ha immortalato ogni momento perché ‘non voglio che vada via’. Delle canzone stupide, dì loro anche quello – delle band, dei balli, dei karaoke improvvisati sul balcone. Di come li guardavano mamma e papà quando credevano non li vedessimo – quei sorrisi un po’ sbilenchi e un po’ orgogliosi che dicevano quanto c’era da sapere, privi di parole.
    Raccontagli delle promesse, di quei ‘mai’ a ritrovarsi d’anno in anno rinnovando antichi giuramenti. Raccontagli dei baci sulla fronte, delle strette rabbiose di chi non aveva null’altro cui aggrapparsi.
    Dì loro che non erano perfetti per tutti, ma lo erano per me.
    E che lo sono ancora. E che lo sono sempre.
    Che non ho mai ringraziato abbastanza, di averli avuti come fratelli: che non eravamo una famiglia perfetta, ma eravamo la cosa più bella della mia vita.
    Ricorda loro di non dimenticarmi
    .
    «sono sempre stati quel genere di guerra che merita d’essere combattuta» lasciò che le lacrime s'asciugassero sulle guance, lo sguardo perso nel vuoto ed il cuore a pulsare dietro le costole scandendo una vita - due vite, tre vite- che aveva già perso. «glielo dica. e di non arrendersi. di prendersi cura di loro» come avrei fatto io. Come aveva fatto, lei.
    Un'altra vita, la stessa Adelaide.
    «ci proverò, bambina» e non era abbastanza, ed era tutto ciò che poteva ottenere. Una risata atona le scosse le spalle, frammentandole le ossa in flebili respiri scheggiati. Si morse il labbro inferiore e si limitò ad annuire, il capo già chinato sul fascicolo che l'uomo le aveva fornito. Non sarebbe riuscita a guardarlo oltre, Adelaide: pur non incontrandone gli occhi, riusciva a percepire il suo sguardo pizzicarle la pelle, la compassione antica di una storia destinata a ripetersi all'infinito. Lesse le prime righe senza comprenderle, la vista offuscata da una patina umida di lacrime amare. «è il momento, adelaide» Lo ignorò, perseverando sulle parole del tomo color crema. «prenditi i tuoi addii, ragazza.» vibrò sotto la mano dell'uomo stretta alla sua spalla, un singhiozzo silenzioso a picchiare sui denti. Lancaster la superò d'un passo, lasciandole quello spazio vitale del quale aveva bisogno per ricominciare a respirare - neanche s'era resa conto di aver smesso, Ade. Prenditi i tuoi addii.
    Centodieci fiati.
    Avrebbe potuto finire in qualsiasi anno, avrebbe potuto avere fra le mani qualunque informazione, eppure fu del Labirinto che scoprì in quelle poche pagine: i polpastrelli carezzarono debolmente, quasi i legittimi proprietari avessero potuto sentirla, i nomi dei suoi genitori. Inspirò sentendo l'ossigeno perdersi da qualche parte fra la lingua e la trachea, le dita a tremare debolmente - il potere dell'inchiostro, si disse ironica. Bastava sporcare un foglio bianco con tracce di penna, per cambiare la storia.
    Heidrun Crane. Gemes Hamilton. Pareva così assurdo, surreale - la vita di qualcun altro. Perché nel suo tempo, non era mai esistito alcun Labirinto: visto, Ade? Non sono i tuoi genitori - cambia il passato, cambia il futuro. Quei Run e Gemes non erano i suoi. Sollevò piano lo sguardo, temendo forse di far troppo rumore. Gli occhi blu li cercarono nella folla, cauti come la mano d'un viandante alle fauci di un animale selvatico.
    Novanta respiri.
    Allora perché guardarli fa così male? Era come osservare il nascere del sole, l'esplosione di una stella. Il lento sbocciare di un fiore in primavera, a straziare il petto di frustrazione nell'impossibilità di coglierne l'atto. Le iridi cerulee si fermarono su di lei, le nocche a bruciare di quel pugno scagliato con rabbia su un prato sporco di sangue. Le foto non avevano reso abbastanza giustizia all'energia guizzante appena sotto la pelle bronzea, od agli occhi dorati e sottili che parevano ridere di nulla, e di tutto insieme. A quei sorrisi opachi - a quelli appena accennati, a quelli spenti in un mento chino. Sembrava così... giovane, in quelle risate prive di voce e quei meschini piegar sghembe le labbra al cielo. In quella rabbia, in quella trattenuta violenza nelle dita intrecciate fra loro, nell'eleganza quieta con la quale stropicciava il suolo inglese. Adelaide Milkobitch, quella Run, se l'era persa: quella tristezza a sporcarle la bocca, quell'ironia pigra a rendere vetro l'iride bosco.
    C'era la ferocia affabile di CJ, nel ghigno rivolto al proprio palmo. C'era la testardaggine di BJ, nel continuo sollevare lo sguardo sulla folla; Ade ne seguì la direzione, le guance a sanguinare sotto i denti: perché c'era il rimorso di Adelaide, nel continuo riabbassarlo sulle proprie mani.
    Era tutto così sbagliato.
    Così rimase lei, a far quel che sua madre evitava di fare - lei che non c'entrava nulla, con quei loro.
    Adelaide Milkobitch aveva ingenuamente creduto che quello sguardo corrucciato fosse colpa sua - o meglio, dei suoi fratelli. Quel continuo apparire come se da un momento all'altro ci fosse qualcosa da rimproverare, un misto d'esasperazione e piccato senso critico; le labbra dischiuse sul punto di dire qualcosa, il sospiro con il quale sanciva a sé stesso che non l'avrebbe fatto. Non aveva preso in considerazione che quella potesse essere l'espressione standard di Gemes Hamilton - ah, se solo CJ avesse saputo. L'orecchio le pungolò della voce di suo fratello, malgrado egli non potesse pronunciarle - e del suo sorriso, e del suo cinismo impregnato d'utopia: «te l'avevo detto che era insoddisfatto di natura, non è colpa mia». Suo malgrado curvò impercettibilmente le labbra, gli occhi a pungere di lacrime. A guardarlo, Gemes dava sempre la sensazione di star combattendo una guerra - l'aveva sempre fatto. Ce l'aveva negli occhi, nella cautela con la quale toccava ogni cosa, perfettamente consapevole che una pressione maggiore avrebbe potuto romperla. Era quel genere di battaglia che non finiva mai, e che quando lo faceva, era solamente per essere sostituita da una lotta nuova - tutte dentro, tutte riflesse nelle iridi blu. Era quel genere di persona che non era mai il problema, eppure riusciva sempre ad esserne la soluzione - che fosse antidoto, che fosse veleno. Adelaide aveva preso quello, da lui: le cause perse, già vinte fra le dita; il bisogno costante di combattere sé stessa, gli altri - di trattenere tutto a fior di pelle, razionandolo all'esterno quando richiesto, quando se lo permetteva. Forse era lì, su quella linea sottile che divideva guerra da soldati, vinti da vincitori, che s'erano schierati i fratelli Hamilton: e se CJ e Run erano la natura stessa della discordia, Adelaide e Gemes erano l'arrogante trionfo al confine. E poi c'era BJ, un po' d'un lato ed un po' dall'altro, vincitore e vinto insieme, soldato e guerra, istinto e ragione - l'equilibrio. Forse era per quello, che avevano funzionato: la genesi d'una guerra, e la sua lecita conclusione.
    Settantacinque respiri.
    Distolse lo sguardo prima che suo padre potesse percepire i pesanti occhi blu su di sé, l'attenzione rivolta nuovamente ai nomi sul fascicolo.
    Joanna Harvelle, sua nonna. Mamma non le aveva mai parlato di lei, un addio non compreso a render ruvido il palato; nonno si limitava a sorridere, inarcando appena le sopracciglia: «è stata il mio primo amore, jo, ed il primo amore lascia sempre qualcosa» un buffetto sulle guance, un'occhiata di sottecchi rivolta a sua figlia.
    Heidrun aveva sempre avuto la cattiva abitudine di non accorgersi mai, quando qualcuno la guardava. Non se lo sentiva addosso, quell'affetto. Non sentiva di meritarselo. Adelaide ricordava di un tempo, quand'era bambina e le memorie erano appena screzi smeraldo ad intaccare la superficie, in cui aprendo gli occhi l'aveva trovata seduta vicino al proprio letto, il palmo a sorreggerle il mento: sei così bella, Ade, le aveva sussurrato piano, seguendo il profilo della guancia con la punta delle dita. E c'era qualcosa di più, c'era sempre nelle sue parole, in quel 'bella' bisbigliato alla notte. Adelaide l'aveva colta, quella sfumatura - nel petto, dove le cose sincere andavano sempre a metter radici. Quasi non fosse prevista lo fosse, Ade - quasi non fosse giusto, una svista; uno di quei sogni chiusi nel cassetto per timore che se qualcuno li avesse visti, li avrebbe portati via. Quei sogni gelosi, quelli delicati come fili di zucchero.
    Sessantatrè respiri.
    Scorse la lista giungendo sul fondo, due nomi di soggetti idonei a svettare sugli altri. Per poco la saliva non le andò di traverso, nel sibilo stupito che sfuggì fra i denti.
    Maeve Winston. Aloysius Crane.
    Ma sul serio? Quante probabilità c'erano? Spostò gli occhi dal fascicolo alla radura sottostante, le pupille a ricercare le loro teste fra la folla - non difficili da trovare, le due chiome bionde.
    Suo nonno era la cura? I suoi zii erano l'antidoto che avevano cercato per anni? Quindi anche lei, nelle vene, aveva un poco di quella soluzione? Forse per quello, non si era ammalata. E forse, forse, sua madre avrebbe potuto non morirci, di quella malattia - le sarebbe passata come un'influenza, un raffreddore di stagione.
    A chi importa? Tanto è morta comunque - come Al, come Maeve.
    Ma era ad Adelaide, che importava. A sua figlia. Stritolò il tomo fra le dita, stropicciando pagine così sottili da procurarle lievi tagli superficiali sui palmi.
    È andata così, Ade. Non puoi cambiarlo.
    E prima che potesse rendersene conto, fu di nuovo troppo tardi. Una vita a credere d'avere tutto il tempo del mondo, e meri istanti che bastavano a strapparti i battiti rimanenti dal cuore con un solo, unico, ritardo. Quell'unico ritardo che perdeva tutto, nel suo fiato corto ed il piede sul binario d'un treno già in corsa.
    Cinquanta respiri.
    «grey» quella volta priva di sollievo, nel richiamare l’attenzione della ragazza. Voce ferma, priva d’alcuna inflessione – sguardo distante, sempre troppo vicino. Le porse il fascicolo senza guardarla, le mani a scivolare sul proprio marsupio: Adelaide, per quella gita, s’era portata davvero qualunque cosa. La prima regola per sopravvivere in un territorio straniero promesso come sicuro, era non crederlo sicuro affatto. E sapeva, Dio se sapeva!, che sarebbe stato inutile, quel che aveva intenzione di fare. Lo lesse anche negli occhi verdi della Crane, un sopracciglio scuro inarcato sopra il tomo di Lancaster: «no, ade» Le sorrise senza gioia, con quella piega che talvolta prendeva la bocca quando meno se l’aspettava: «hai pronunciato male » ribattè, porgendole una siringa.
    La verità era che ormai, nel 2043, non c’era più tempo per una Cura. Lo sapeva Grey, e lo sapeva perfino Adelaide. Non avrebbe salvato nessuno dei pochi rimasti a sollevar polvere ad ogni passo. La verità era che non le importava abbastanza, dell’inutilità di quel gesto: aveva bisogno di fingere di poter essere utile, nel suo piccolo. Aveva passato anni a studiare la malattia, mesi nei laboratori di biochimica a testare possibilità. Era una questione di principio, la sua.
    Era il viscerale bisogno di poter sorridere al soffitto in un labile ce l’abbiamo fatta - sapere che i suoi, i loro, sacrifici, non erano stati vani. «ade…» Non ricambiò l’occhiata di Grey, le dita a tirare lo stantuffo della siringa. «veloce e indolore» rimbeccò ancora, parlando più a sé stessa che alla zia: inutile che la cronocineta tentasse di far valere la propria gerarchia d’anzianità, considerando che Adelaide aveva due anni in più rispetto a lei. Aveva già accennato a quando uno scherzo smetteva d’essere divertente, mh? Più di una volta, mai abbastanza. Ignorò il battito pesante sulla lingua, il senso di nausea a torcerle le viscere. Riusciva a sentire i denti tremare da quanto il cuore picchiava violento contro le costole, eppure decise di fingere che fosse tutto nella norma. Se si fosse lasciata distrarre, se avesse lasciato che fosse quel malessere, a definirla, Ade non l’avrebbe più fatto.
    Non sarebbe scesa da quel palco.
    Non avrebbe preso la cura.
    Non sarebbe tornata a casa.
    Scese gli scalini rapida, ripetendosi che si trattava d’un compito come un altro – vene come altre, sangue come altro. Quarantacinque respiri. Tolse la sicura all’ago, gli occhi blu puntati sulla nuca di Al: era un tatuaggio, quello a spuntare dal colletto della camicia? Non ricordava l’avesse, nel suo tempo. Era sempre stata così vicina, la Cura, e da sempre perduta. Un respiro profondo, a svuotarle i polmoni d’ansia e tristezza. Prenditi i tuoi addii, ragazza.
    Che strano modo di salutare, Adelaide. Fai qualcosa, l’aveva supplicato, poco prima.
    Eppure lo sapeva, la Milkobitch, che nessuno avrebbe potuto farlo per lei. «non importa, faccio io» sussurrò appena, alzandosi sulle punte per premere veloce e secca l’ago nel braccio di suo nonno: inutile dire che non ebbe tempo di cordiali convenevoli quali il disinfettare l’ago od usare un laccio emostatico; trattenne il pugno di lui con una mano, e con l’altra estrasse rapida un poco del suo sangue. Quel poco che le bastava a farsene una ragione. Non lo guardò, non chiese scusa – a cosa sarebbe servito? Un paio di secondi erano tutto ciò di cui aveva avuto bisogno, prima di perdersi nuovamente fra la folla, ombra fra le ombre. Provetta nel marsupio, cuore in gola.
    Cinque respiri in meno.
    Non aveva importanza.
    Si rifugiò nei pressi del palco, il capo chino e la canottiera nera a confonderla con l’ambiente circostante. Non c’era nulla che potesse attrarre l’attenzione, in quel piccolo fagotto umano ch’era la Milkobitch: non raggiungeva il metro e sessanta, e da seduta era praticamente invisibile. L’unico dettaglio degno di nota era forse l’ampia gonna un tempo bianca, ora sporca di sangue e fango stretta gelosamente fra le gambe. Inspirò, espirò.
    Quarantrè respiri.
    Prenditi i tuoi addii, ragazza. Poteva farlo? La risposta era indubbiamente no - perché non avrebbe avuto alcun senso, perché loro non potevano sapere, perché la bilancia del valore di quel saluto avrebbe pesato troppo dalla propria parte, e poco dalla loro. Perché non erano più gli stessi, e gli addii, Adelaide, se l’era già bruciati una volta. L’avrebbe fatto comunque?
    Il rimpianto nasceva dall’incapacità di conoscere il momento esatto di una partenza prematura – il non avere mai la certezza di quando un addio fosse tale. L’aveva provato sulla propria pelle più di una volta, la medium. Conosceva il senso di vuoto a spandersi nel petto, le vertigini malgrado gli occhi chiusi, il dolore senza ferite. Conosceva il magone in gola e le ciglia sporche di lacrime, i denti ad affondare nel cuscino. Era la sua occasione: la sua certezza, la sua consapevolezza. Perché sapeva, Adelaide Milkobitch, che quella sarebbe stata la sua ultima, ed unica, opportunità. Quindi, riformuliamo la domanda: l’avrebbe fatto?
    Quaranta respiri.
    Fu in piedi prima ancora di rendersene conto, il cuore a spostarsi seguendo le uniche orme del quale avesse bisogno - casa. E lo vide subito, senza bisogno di cercarlo, senza doversi alzare sulle punte per trovare la chioma ramata in mezzo alla folla di gente alla ricerca di una via di fuga: li spinse via tutti, Adelaide, giungendo finalmente di fronte a suo fratello. BJ. E quella volta decise che resistere non avrebbe avuto alcun senso, perché sarebbe stata l’ultima volta. Ancora nell’impeto della corsa, allargò le braccia allacciandole alla vita del ragazzo, le spalle a tremare di bisogno e non detto. Incuneò la testa sul suo petto, schiacciando il naso contro il tessuto sottile della sua maglia.
    Te lo ricordi, BJ, il cappello delle feste?

    Non era raro trovare BJ impegnato in attività losche, come amava definirle dall’alto dei suoi cinque anni. Losche, una parola che aveva appreso da poco e che aveva iniziato ad utilizzare del tutto fuori contesto, un sorriso maldestro a curvare le labbra ed illuminare gli occhi scuri. I tre fratelli Hamilton avevano modi differenti di comprendere l’utilizzo di qualcosa, tutti spinti dallo stesso medesimo bisogno di conoscenza: Adelaide lo smontava, studiandone con dita delicate ogni frammento; CJ ci picchiava sopra la testa di suo fratello finchè non si rompeva, quindi giustificava la sua ignoranza con una strette nelle spalle ed un ‘ormai è rotto’; BJ lo osservava senza neanche sfiorarlo, annotando righe disordinate sul suo blocchetto - anche quando non sapeva ancora scrivere, ed allora imitava le lettere d’altri. Aveva cinque anni, l’empatico, eppure riusciva a rimanere fermo per delle ore - «faccio cose da grandi» vantava, tenendo gelosamente per sé l’artefatto in questione.
    Ma quel giorno, fu diverso. Maneggiava qualcosa, il bambino – non era mai un buon segno. Adelaide aveva sentito l’odore di colla fin dalla stanza accanto, e fu proprio quel sentore a trascinarla nella camera del fratello, le sopracciglia corrugate mentre sostava sull’uscio a guardarlo. «che fai?» non alzava mai la voce, la Milkobitch. Ogni sua domanda pareva un sussurro a sé stessa, tenue come il primo bocciolo in primavera. «cose» Ade sbuffò, avvicinandosi alle spalle del minore in famiglia – o del mezzano, scuole di pensiero. «è un…» «non è finito!» «…cappello?» Fu il turno del bambino sbuffare, un broncio pronunciato mentre sollevava le iridi nocciola su di lei: «non è per me» Sul tavolino, fra cartoncini colorati e forbici dalla punta arrotondata, svettava quello che pareva un cappellino da festa – quelli conici, con l’elastico a trattenerlo sulla testa. «cioè, non solo» Spinse la sedia all’indietro mostrandole una scatola al proprio fianco, dove già giacevano… «sei cappellini» un’Adelaide di sette anni puntò l’indice sul lavoro in corso fra le mani di BJ. «sette» Erano tutti storti, tutti diversi.
    L’Adelaide d’un tempo non comprese l’ironia del ritrovarsi la perfetta metafora della sua famiglia in formato dècoupage.
    «perchè?» una domanda sciocca da porre a BJ, che quei perché pareva averli impressi nell’iride: era quello degli interrogativi inopportuni, e quello più creativo nel trovar proprie risposte ai suoi stessi quesiti. Aveva sempre la replica pronta, ed un problema nuovo a premere sotto la superficie. Prese cauta uno dei cappellini, fingendo di non notare il sorriso orgoglioso del bambino. «per il compleanno» le sussurrò, lasciando che una risata allegra scivolasse dalla bocca dischiusa. Ade sorrise pur senza aver compreso, semplicemente perché non si poteva far altro. Il compleanno di chi? «di dj» ed allora vide che quel che teneva fra le dita, era un copricapo di dimensioni troppo ridotte per una testa umana. «la capra?» sbuffò una risata, e BJ la guardò senza capire. «non è una capra. È dj» Con la stessa ovvietà con la quale bj era bj - dj, era dj. «voglio che sappia che le vogliamo tanto bene, e che è un membro assai moltissimo rispettato dalla nostra losca famiglia» con quell’impuntarsi piccato, ch’era tutto sua madre. «cj la prende sempre in giro, ma non voglio che pensi male di noi. Non siamo tutti così, a me piace» Lo disse senza guardarla, concludendo l’opera d’arte sul tavolo. «anche a me piace» «ma tu non le hai organizzato una festa per il suo compleanno» Ade sporse il labbro inferiore all’infuori, ma tacque al sorriso sghembo di lui rivolto al completato cappellino. «penso che tutti debbano sapere quanto siano importanti e quanto li amiamo, altrimenti che senso ha?» ed aveva solo sette anni, Adelaide Milkobitch.
    E ne aveva solo cinque, BJ.
    «ti piace?» le porse la sua opera con lo sguardo pieno di sorpresa ed esaltazione tipico dei bambini, l’eccitazione a disegnare una piega buona sulle labbra. Con quella semplicità ch’era ovvia, scontata.
    «molto.»

    Te lo ricordi, BJ, quando mi hai insegnato ad amare? Era bastato così poco per segnare il cuore d’una bambina, il petto gonfio d’orgoglio per quel fratello dallo sguardo sincero e gli intenti più puri. La purezza, ecco cos’aveva BJ – cos’avrebbe sempre avuto. La sincerità nella sua forma più morbida, ovattata agli angoli per non scalfire con durezza superfici troppo tenere. La genuinità di un gesto fatto per amore, non per ricevere qualcosa in cambio: aveva sette anni, Adelaide Milkobitch, quando comprese l’importanza di esistere. Non importava come, non importava cosa, ma con chi.
    Altrimenti, che senso avrebbe avuto?
    Non aveva mai buttato il proprio berretto di carta, conservato gelosamente nel proprio cassetto – quello delle cose speciali, che bastava aprirlo per sentirsi malinconici. Strinse la presa su BJ, malgrado il Serpeverde non potesse più capirla: serviva a lei, quell’abbraccio.
    Era per lei, quell’addio. «non lasciare che ti cambino» le persone, quel mondo: ti prego, BJ, non lasciarti sporcare. Hanno bisogno di te - ho bisogno, di te.
    E non l’avrebbe compresa, ma non aveva importanza.
    S’impresse ancora il suo profumo sulla pelle, prima di allontanarsene.
    Amami di nuovo, in questa vita – se potrai, se potrò. Addio, BJ.
    Un passo indietro, gli occhi ancora nei suoi – due passi, tre. Al quarto cominciò a correre, lo sguardo a cercare d’incastrarsi sul profilo tagliente dell’altro gemello.
    «cj?» fu appena un sussurro, eppure lui parve sentirlo; Adelaide rimase immobile ad osservare il fratello poco distante, la camicia stropicciata e sporca di sangue nuovamente a coprire parte del torso snello e macchiato, di tagli e tatuaggi. Le iridi così scure da apparire più verdi del solito, le labbra strette in una linea dura.
    Te lo ricordi, CJ, quel giorno sul tetto?

    Lo sapeva che l’avrebbe trovato lì. Spinse la porta antipanico dell’ultimo piano del palazzo, quella che s’affacciava sul terrazzo in mattonelle. Il vento freddo di Dicembre le punse le guance, costringendola a serrare le palpebre ed inspirare secca fra i denti, le mani già nascoste nelle tasche del cappotto. CJ Hamilton, una sottile giacca anti-vento, stava in piedi nell’unico luogo eroso dagli anni nei quali non v’era la ringhiera scura che percorreva il perimetro del tetto. La schiena rigida, i piedi a sfiorare il bordo. Adelaide si umettò le labbra, gli occhi alzati al cielo. Suo fratello faceva parte di quella categoria di persone per il quale se altri riuscivano a farlo, doveva farcela anche lui: così soffriva di vertigini, come la madre, eppure s’affacciava sul vuoto a viso scoperto, un sorriso sghembo a piegare le labbra sottili.
    Solo che non stava sorridendo, quel giorno.
    Gli si avvicinò e rimase in silenzio, il fiato piccoli sbuffi di vapore a mischiarsi con le volute di fumo della sigaretta di CJ. Tacque perché sapeva che chiedergli qualcosa, non avrebbe significato ricevere una risposta - anzi: non parlava molto, l’Hamilton dagli occhi verdi, finchè le parole non divenivano veleno a sfrigolare sui denti.
    «ho una brutta sensazione» non la guardò, CJ. Tenne il capo chino sulla strada sottostante, il volto privo della maschera di storta ironia che tanto amava indossare. Faceva effetto, quel CJ – quell’adulto nel corpo di un ragazzo da poco diciottenne, lo sguardo duro e la mascella serrata. Così sottile e così spesso, nell’occupare più spazio di quanto quell’esile fisico asciutto gli consentiva. «riguardo a cosa?» domandò cauta, muovendo appena le labbra. Si trattava di un CJ, dopotutto: la sua preoccupazione poteva vacillare dall’uscita imminente con BJ ed i genitori, al tabaccaio sotto casa che ogni giorno minacciava di chiudere battenti. Lui si scosse nelle spalle, un piede a pender pigro sull’abisso sotto di loro. Quando d’istinto Ade allungò un braccio, CJ rise amaro e tagliente – quelle risate che parevano granelli di sale sulla neve, a picchiare sul fondo di cemento sciogliendo l’ostacolo. «in generale» le rispose, ancora roco di quello sprazzo di penosa ilarità. Perché fai così? «perché sono così, ade» «sai che odio quando mi leggi nella mente» Non le rispose, stringendosi pigro nelle spalle. Fu strano, perché solitamente a quel punto della conversazione le rivolgeva un dolente sorriso a metà, sopracciglia inarcate, e stroncava sul nascere il resto della comunicazione – non quel giorno. Rimase lì, pur continuando a non guardarla. Lì, gonfio di atona rabbia ingiustificata, a sfidare le proprie paure masticandosi il cuore fra i denti.
    «non voglio andare» ammise, così piano che se in quel momento Adelaide avesse inspirato, non l’avrebbe sentito. Corrugò le sopracciglia, le braccia incrociate sul petto. CJ era sempre il primo ad offrirsi come accompagnatore quando mamma e papà dovevano uscire - ’mi annoio’ giustificava languido, sorridendo piano. Nessuno l’aveva mai obbligato contro la sua volontà. «non andare» semplice, concreta, ed alquanto ovvia - dov’era il problema? E lui rise ancora, il mento infossato nel collo e le spalle a tremare; reclinò il capo all’indietro, sputando quella risata afflitta alle nuvole sopra di loro. «è facile, per te» per me? «per te. Per bj» «di cosa stai parlando?» solo allora si volse verso di lei, stagliandosi contro il profilo di una Londra ancora addormentata. «lo sai» le sorrise stanco, gli occhi a posarsi su tutto tranne che su di lei. Lo sapeva? «non sono come voi, adelaide. Non suono un fottuto pianoforte, e non cucino fottuti pancake» E quindi? «per voi è sempre stato più facile» «cosa?» «vaffanculo. cristo, ade, vaffanculo» ed avrebbe ribattuto, se solo il tono di voce di lui non fosse stato un lamento frustrato, spezzato a metà, che costrinse il fratello ad allacciare le dita dietro la nuca. «è questo il problema, tu non vedi – tu, voi. neanche ci fate fottutamente caso a quanto siete – dio!» una nuova risata gli scosse la gola, ed Adelaide colse la sottile linea di disperazione che separava un sorriso dal pianto. «cj-» «cj un cazzo, ade.» cominciò a passeggiare nervosamente per il tetto, le guance lievemente arrossate. «qual è il problema?» ed allora la guardò. Lo fece sul serio, con quei brillanti occhi chiari ad inchiodarla sul posto. Era lì, in quello sguardo opaco, la differenza dei gemelli: quando BJ ti guardava, ti dava sempre qualcosa - quando lo faceva CJ, sembrava sempre togliertelo. «io, cristo. Sono io, il problema» un ghigno flebile, le bionde sopracciglia arcuate. «non voglio andare» «non farlo» «è l’unica cosa che so fare» «non è vero» «è l’unico modo per…» lasciò la frase in sospeso. Quando nuovamente sputò una risata atona al pavimento, Ade comprese che stava ridendo di sé stesso.
    Rimasero in silenzio, il freddo a premere nelle ossa.
    «so di non essere come voi. so di essere un problema – andiamo, Adelaide, non diciamoci cazzate: so cosa chiunque su questa cristo signore di terra pensa di me, e so che hanno ragione» prese un’altra sigaretta, le dita a tremare così forte che solamente al terzo tentativo riuscì ad accenderla. «è l’unico modo per rendermi utile» Comprese il punto di quella faccenda nell’udire la patetica scusa di CJ, il cuore a sgretolarsi dietro le costole. «sai che non è vero» «cosa? Il rendermi utile?» «no.» Lo guardò, e CJ ricambiò l’occhiata. Lo vide deglutire, sbattere le ciglia e sorridere brusco. «è stupido?» Non lo era. Aveva creduto per anni che volesse imparare, che gli piacesse l’adrenalina delle brevi missioni nelle quali s’inseriva a tanto cuor leggero – che lo facesse per proteggerli, a suo modo. Non aveva mai capito.
    Oh, CJ.
    Quando lo abbracciò lui non si oppose, ma non ricambiò la stretta. «sei mio fratello» «lo so» «sei il fratello di bj» esitò, il petto a sollevarsi sotto il suo orecchio. «lo so» «e sei loro figlio, cj» quando non rispose, lo strinse un po’ più forte. «sai che sono sempre fieri di te» bisbigliò, in un filo di voce. Lo sapeva, vero?
    CJ si limitò a ridere secco, le mani ad allontanarla mentre scuoteva debolmente il capo. «devo andare, o se ne andranno senza di me» dita alla fronte, sorriso sghembo. «cj-» ma lui non ribattè, quando si chiuse alle spalle la porta del terrazzo.

    Te lo ricordi, CJ? Avrei dovuto trattenerti, ora lo so. Avrei dovuto costringerti a guardarmi negli occhi, a credermi - Dio, rimpiango di non averlo fatto. CJ era un enigma per tutti, irrisolvibile a sé stesso – quelli che bisognava abbracciare un po’ più forte, quelli che bisognava convincere che meritassero tutto l’amore del mondo, perché di loro non lo facevano mai. Si era sempre ritenuto diverso, quando non lo era stato mai. Sbagliato, quand’era stata una delle cose più giuste della sua vita. L’aveva visto crescere, eppure Adelaide non aveva mai compreso, fino a quel momento, quanto suo fratello avesse bisogno di loro. Così indipendente, disinteressato, apatico.
    E quel giorno, quello del tetto, i loro genitori erano morti. Gli avevo detto di non farmelo fare.
    Quel giorno, Adelaide, aveva perso anche suo fratello.
    «mi dispiace» non gliel’aveva detto all’epoca, Ade, così glielo disse in quel momento. Lo strinse a sé sentendo il battito irregolare a vibrarle sotto la guancia, le palpebre serrate ed il respiro incuneato in gola. «trova un modo per amarti, cj: te lo sei guadagnato» Ti supplico, CJ: perché su quel tetto, suo fratello, le aveva insegnato la sconfitta - nel modo più duro e feroce, quello che crudele artigliava le ossa. Nella piega arrogante della bocca, le aveva insegnato che i sorrisi erano la miglior menzogna degli onesti. Le aveva mostrato che non si doveva essere oro puro per essere luminosi - che anche il vetro sporco di sangue, poteva brillare della luce più pura. Le aveva insegnato quell'amore disperato del quale Adelaide non aveva mai conosciuto l'esistenza, e l'aveva fatto nel modo peggiore, spezzandole il cuore a metà lì dove faceva più male.
    Si allontanò di un passo, consapevole che quelle scuse non le avrebbe comprese, ma non aveva importanza. Indietreggiò ancora, gli occhi fissi nei suoi pregando che almeno quella richiesta fosse ascoltata - almeno quella, almeno sempre
    Deglutì. Amati quanto ti amerei io. Addio, CJ.
    Si strappò fisicamente da quel contatto visivo, deglutendo aria e lacrime. Si inserì in una fila di gente poco distante per tornare a mescolarsi fra la folla, il cuore a pompare sangue e veleno nell'organismo. Ho quasi finito, ti prego, ho quasi finito.
    La vide, bella come sempre. I capelli castani a scivolare disordinati sulle spalle, una risata ironica a brillare opaca sulle labbra, mentre gli occhi si abbassavano sulle proprie mani. Si avvicinò ad Heidrun con le lacrime ad appannarle la vista ed un agrodolce sapore ferroso sulla lingua - cinque anni. Razionalmente sapeva che aveva avuto ragione, poco prima: non era sua madre, quella Run. Non era quella che le aveva insegnato quanti giorni avessero i mesi, o che ogni sera le aveva letto le storie del Baldo Giovane, ridendo ad ogni capitolo come fosse la prima volta che scopriva della sua esistenza - sempre. Ma la ragione aveva poco a che fare con la familiare forma del suo viso, o con il calore della sua pelle sulla propria. Se l'ha fatto Jek, posso farlo anche io: mostrò i palmi aperti in segno di resa quando lei infine la inquadrò, le labbra costrette a piegarsi verso l'alto.
    Ed annullò la distanza fra loro, il viso a perdersi fra le sue braccia - perché lei, lei avrebbe ricambiato sempre, un abbraccio. Strizzò le lacrime e chiuse le mani a pugno sui suoi vestiti, pregando così di poterla trattenere a sé un po' di più.
    Ti ricordi, mamma, della mia paura più grande?

    «non riesci a dormire?» Ade dondolava sui talloni sulla soglia della porta, cinque anni e lunghi capelli corvini a fondersi con la notte attorno a lei. Scosse debolmente il capo, affrettandosi a raggiungere il letto dove sua madre aveva spostato le lenzuola; si rannicchiò al suo fianco, entrambe con le coperte fin sopra la testa. Potevano rimanere così per ore, Adelaide ed Heidrun, le fronti l’una contro l’altra e le piccoli mani della Milkobitch sepolte in quelle di lei. Talvolta sua mamma le raccontava una fiaba, altre le narrava com’era andata la sua giornata – oppure taceva, e lasciava che fosse la voce sottile di Ade a farsi strada nel buio. Parlavano piano, loro due, in quei segreti lasciati lambire sul materasso. Quel giorno tacquero, il corpo di Ade scosso da piccoli, irrazionali, tremori: continuava ad assicurarsi di essere coperta, avvicinandosi maggiormente al calore confortante del corpo di sua madre. «ho paura» ammise in un soffio, vibrando al suono della sua stessa ovattata voce. Non le rispose, il palmo a raccogliere il viso di lei con delicatezza. Adelaide non comprendeva perché il buio avesse occhi - non riusciva a capire le parole che, talvolta, le sgusciavano dalle labbra senza ch’ella ne avesse una reale intenzione. Sua madre le aveva detto che avrebbe imparato, che era ancora troppo piccola - che quello era solo un assaggio, ed un giorno sarebbe stato tutto molto più chiaro. Strofinò la guancia sulla sua mano, occhi chiusi e narici aperte nell’inspirare il suo profumo. «di cosa?» «della morte» un sospiro, una carezza leggera. «hai visto qualcosa?» Ade scosse il capo. «hai paura di morire?» vide il sorriso sulle labbra di Run, ma non lo comprese. «non lo so. tu?» come non comprese la fiacca risata che le fece tremare le spalle, o il pugno premuto sulla bocca per soffocarne il suono. Si irrigidì e si trascinò ancora più vicino, la testa raggomitolata sul petto di lei ad udire il cadenzato battito del suo cuore. «no, bambina. È probabilmente una delle poche cose che non mi fa paura» «hai paura di tante cose?» inarcò le sopracciglia, le iridi blu sollevate su quelle verdi di mamma. «un po’, ma non dirlo in giro» bisbigliò, le labbra premute sulla sua testa. «non ha senso avere paura della morte, ade: è come avere paura della pioggia, o del sole – non abbiamo tempo per preoccuparcene, se vogliamo vivere» «non morirai mai?» un sorriso amaro, un sopracciglio arcuato. «non vedo perché dovremmo preoccuparcene ora – non preferiresti uno spuntino?» Ade corrugò la fronte offesa, allontanandosi di poco per poterla guardare meglio negli occhi: «non sono murphy, non funziona con me» non sapeva perché tutti, ogni qual volta si tirasse fuori l’argomento cibo, lo dicessero, ma ci aveva messo meno d’un battito di cuore per adottare quella risposta come propria - anche solo per vedere il sorriso nello sguardo di sua madre, le guance debolmente arrossate: aveva solo cinque anni, Ade, eppure già sapeva che per avere quel sorriso, avrebbe potuto spingersi fino in capo al mondo. Fino a prenderle una stella, se fosse servito. «ho paura che voi ve ne andiate. Per sempre» specificò, quando il silenzio nuovamente cadde su di loro. «non potete lasciarmi sola» gli occhi le punsero di lacrime, quelle grosse e bitorzolute che spesso ruzzolavano sulle guance morbide dei bambini. Sua madre le asciugò le gote con il pollice, un bacio a perdersi fra la cascata d’inchiostro dei suoi capelli. «a me sembra di essere piuttosto viva» riconobbe il sorriso sul proprio cuoio capelluto. «e sono quasi certa che anche papà sia vivo. Ehi, gemes» sollevò le coperte per far uscire le teste di entrambe, e reclinò il capo all’indietro. «sei vivo?» «no» «mi dispiace ade, penso che papà sia morto. Vuoi riportarlo in vita?» Ade annuì, arrampicandosi sui cuscini. «ne sei sicura? Perché io personalmente ne farei anche a men-ahia» annuì ancora, un sorriso a curvarle le labbra. «allora apri la mano – così – non perdere la concentrazione, mi raccomando» porse il palmo verso l’altro lato del letto, le sopracciglia corrugate: prendeva sempre sul serio quel che le veniva detto, Adelaide Milkobitch. «ora glielo domando di nuovo – quando ho finito, chiudi il pugno» «non-» «gemes, sei vivo?» Con efficienza, seguì le istruzioni; nel momento in cui serrò le dita, suo padre volò giù dal letto. «stronza» Dischiuse la bocca e si osservò stupita il pugno, un paio di sbalorditi occhi blu su sua madre. «sono stata io? Ora è vivo?» «sì, ce l’hai fatta!» «e cos’ha detto?» «che ci ama tanto» Adelaide rotolò sull’altro lato del letto, e si affacciò sorridendo oltre il materasso. «sono felice che tu non sia più morto, papà» lui ricambiò, debole e stropicciato, premendosi una mano sugli occhi. «anche io» allungò pigramente un braccio per darle un buffetto. «vuoi provare l’ebrezza di riportare in vita anche mamma?» «ma lei è viva» «per ora» «eee noi ce ne stavamo giusto andando – vuoi andare a controllare anche i tuoi fratelli?» Annuì, le labbra strette in una determinata linea sottile. Salì in piedi sul materasso, dove sua madre la raccolse tenendola stretta al petto. «allora non perdiamo altro tempo».
    La luce che filtrava dalle tapparelle serrate illuminava a malapena i profili dei due bambini addormentati. Dopo tre anni, Ade ancora non si capacitava di come potessero essere così… piccoli. Apriva la mano e lasciava che loro vi posassero la propria, notando così la differenza fra le dita. Li osservava muoversi impacciati da una stanza all’altra, correndo anche dove non avrebbero dovuto – ed i pianti acuti, e le risate cristalline. «sono miei?» aveva domandato, quando li aveva visti la prima volta. «se non ti piacciono, te ne facciamo di nuovi»- e poi CJ le aveva stretto il dito, e poi BJ le aveva rivolto un sorriso pregno di bava e piccole bolle. «loro sono okay» aveva sancito, dall’alto dei suoi due anni e mezzo.
    Li guardò con la meraviglia di quella prima volta, Adelaide. «secondo te sono vivi?» sì. No. sentì il cuore galopparle nel petto, i pugni stretti sul pigiama di sua mamma. «scopriamolo subito - questa è la mia parte preferita:» ma il sorriso che Run rivolse ai gemelli, Ade non lo capì. «SIETE VIVI?» Perfino la Milkobitch sobbalzò, a quel grido nell’oscurità. CJ spalancò gli occhi e rotolò istintivamente di lato, finendo impacciato sul materasso dell’altro – il braccio allungato sopra di lui, la bocca dischiusa, il torso piegato in posizione di difesa. BJ si sollevò a sedere di scatto, gli occhi pieni di lacrime. Al primo singhiozzo, CJ lo colpì con uno schiaffo - e smise subito, BJ -, le labbra strette fra loro e le sopracciglia corrugate. «è solo mamma, scemo» scemo! «fanno sempre così, sai?» sussurrò Run all’orecchio di Ade, prima di puntare un ammonitore dito indice contro il biondo: «e vacci piano con le parole, cowboy» soffiò un bacio ad entrambi, Heidrun. Adelaide rimase solamente ad osservarli, sentendo un calore insolito alla gola. Cos’era? «sei felice, ora che siamo tutti vivi?» ecco, cos’era.
    Adelaide annuì. «sì, mamma»

    So che non puoi ricordare, mamma, ma lo faccio io per te. Una notte come tante, un cuore come tanti – e quei sorrisi, semplici e genuini. Perché quella sera comprese davvero, Adelaide Milkobitch, cosa significasse vivere: sentire le loro voci, vedere i loro petti alzarsi ed abbassarsi. Aveva solo cinque anni, eppure quella lezione le rimase - lì, dove nessuno guardava mai. Una certezza sulla lingua, nello sguardo che posò geloso su di loro ogni giorno: perché aveva visto la vita, la medium, e se n’era appropriata, innamorandosene in ciascun momento come fosse stata la prima volta.
    O l’ultima.
    Che non aveva senso preoccuparsi di quando la vita non ci sarebbe più stata, perché non se ne aveva il tempo - allora si era goduta ogni istante, ogni risata, ogni mano fra i capelli. «ho mentito, prima» sussurrò, le labbra sulla sua maglia, stringendo così forte le palpebre da far male. Aveva mentito una vita prima, un secondo prima – le pareva di aver editto il suo regno su menzogne, malgrado fosse sempre stata convinta di essere rappresentante di onesta sincerità. «non è colpa tua» non lo è mai stata. Deglutì, si allontanò quanto bastava per poterla guardare negli occhi. Cinque anni. «so che ci hai provato. so che ci stai provando» il come facesse a saperlo, avrebbe dovuto essere indubbio: poteva non essere la stessa donna che le aveva mostrato per la prima volta il cielo, ma Adelaide la conosceva: era fatta così, lei – un po’ male, ma soprattutto bene. «ci ho provato anche io» confessò, sotto voce. A proteggere i gemelli, a prendermi cura di loro. a combattere ogni giorno, a sopravvivere. Inspirò tremula, la bocca piegata in ciò che avrebbe dovuto essere un sorriso. «continua così -» mamma. Ma se lo tenne in gola, deglutendolo in quel ghigno che non riuscì ad apparire genuino. Quegli occhi tristi, Adelaide Milkobitch, li aveva avuti sempre – il sorriso le si addiceva di rado, ed era stata la sua rarità a renderlo prezioso. Prima che potesse risponderle, prima che potesse trattenerla, Adelaide se ne andò.
    E questa è la seconda volta, che ti dico addio – per sempre.
    Il tempo le scorreva rapido nelle vene, ogni respiro memore di quanti pochi gliene mancassero, in quella vita che non le apparteneva. Avrebbe voluto fare molte più cose, Ade, cogliendo le briciole di quell’annata come il miglior vino invecchiato, ma non poteva: si limitò a cercare ancora, i piedi sollevati sulle punte.
    Si limitò a trovarlo, ancora.
    E fu sempre la stessa greve soddisfazione, un balsamo su ferite che non s’era resa conto di avere. Suo padre non era mai stato il suo eroe, cresciuta sin da bambina con la certezza di non averne bisogno – che lo sarebbe stata di sé stessa, Ade, senza dover dipendere da alcuno. La languida sensazione alla bocca dello stomaco non era data neanche dal senso di protezione, dato che le era stato insegnato a difendersi da sé. Era sempre stato altro, quel caldo sciogliersi delle costole: la cieca, sbagliata fiducia, che non avrebbe mai potuto accaderle nulla, finché fosse rimasta con lui. Non che niente le avrebbe fatto del male, ma proprio che niente si sarebbe avvicinato - come confidare sui rami d’un albero perché non facessero passare la pioggia, o sul lumino notturno per impedire ai mostri di nascondersi nell’ombra. Se chiudeva gli occhi, Ade poteva ancora fingere di essere quella bambina - che se fosse riuscita ad avvicinarsi abbastanza a Gemes, lui sarebbe riuscito a sistemare tutto. Un pensiero irrazionale, memore di una vita in cui Adelaide non aveva avuto nulla di cui temere. Espirò, si avvicinò cauta d’un passo. Sollevò gli occhi su suo padre, Adelaide, sentendo la tristezza sporcarle le iridi zaffiro.
    Ti ricordi, papà, il nostro primo segreto?

    Le bastò sedersi sulla stretta panchina del pianoforte, per sentirsi già adulta. Drizzò la schiena, osservò con teorico interesse i tasti bianchi e neri ad intervallarsi sullo strumento. Le piaceva l’idea che se avesse premuto uno di quei pulsanti, ne sarebbe uscito un suono – uno diverso ad ogni bottone, che insieme ad altri era in grado di formare una melodia. Ma soprattutto, le piaceva sapere che quei tasti li aveva sfiorati suo padre, prima di lei. Lo faceva sembrare così semplice, così naturale: Adelaide, a sei anni, non sapeva se le piacesse la musica, o se fosse il fatto che era lui a suonare, a fargliela piacere. Sollevò un dito sopra la tastiera, il respiro trattenuto nei polmoni.
    Premette impacciata uno dei tasti - diiiiiiiiiiiin- sentendo il cuore fremere di eccitazione e paura, a quel rumore improvviso. Lo fece di nuovo – una, due volte; forse perfino tre, mentre un lento sorriso andava formandosi sulle labbra di lei, gli occhi a posarsi placidi sulle proprie dita. «sai che nota è?» Si immobilizzò, i battiti sulla lingua. Non c’era alcuna legge che le impedisse di sedersi lì, o di provare i suoni bizzarri di quello strumento, eppure ad Adelaide era sempre parso proibito, qualcosa che lei non poteva ancora comprendere. Con lentezza, si volse: Gemes Hamilton la osservava con la spalla premuta contro il muro, le braccia incrociate sul petto, ed un corvino sopracciglio inarcato. Lo guardò con la solita timorosa meraviglia, i capelli a scivolarle sulle spalle mentre scuoteva il capo. «io…» la voce flebile, a spegnersi nel suo nascere – aveva sbagliato qualcosa? Non avrebbe dovuto? Abbassò corrucciata lo sguardo sulle proprie mani, ora posate distratte in grembo. I piedi dondolavano pigri nell’aria, gambe troppo corte per giungere fino al pavimento. Sentì lo spostamento d’aria al proprio fianco quando lui si sedette vicino a lei, un sospiro a spettinarle la chioma scura: «un sol. E questo è un la» gli lanciò un timido sguardo di sottecchi, prima di porre la sua completa attenzione alla posizione delle dita. «come fai a saperlo?» era cresciuta in un mondo di magia, Adelaide Milkobitch, eppure nessuna da lei conosciuta pareva anche lontanamente essere paragonabile a quella. Suo padre si strinse nelle spalle, un sorriso modesto che si addiceva assai poco agli ombrati occhi blu – così simili ai suoi, da sembrarle uno specchio. «pratica. Un giorno li saprai riconoscere anche tu» Davvero? Si morse il labbro inferiore, i polpastrelli a sfiorare esitanti i lucidi tasti del pianoforte. «me lo insegni tu?» sorrise prima ancora di ricevere risposta, incapace di tenere per sé l’allegra curva della bocca. «ovviamente.» e dire che ovvio, per la piccola Ade, non lo era mai. Quando alzò lo sguardo su di lui, lo vide sorridere. Fu per quel sorriso, decise Adelaide, che avrebbe imparato a suonare - e sarebbe diventata la migliore: che la musica era bella, sì, ma quella mica le sorrideva. La sinfonia da sé non era uno stimolo sufficiente per convincerla ad iniziare quel percorso, ma l’idea che avrebbe potuto passare del tempo con papà, e che l’avrebbe avuto solo per lei, sì – il motivo del quale ogni artista aveva bisogno, prima di essere tale. Allungò le dita e premette i pulsanti di prima: «sol. la» ripeté ad alta voce, giusto per ricevere un altro di quei sorrisi - un’altra di quelle carezze a sfiorarle piano la testa. «si vede, che hai preso tutto da me» e non avrebbe dovuto sentirsi speciale, ma lo fece comunque. Lo guardò di sottecchi, un sorriso a premere agli angoli della bocca. «mi suoni qualcosa?» domandò piano, la voce sottile. Voleva preservare quel momento così com'era, imprimersi nella pelle ogni dettaglio di quell'effimero istante - che aveva solo sei anni, Adelaide Milkobitch, ma sapeva quanto ogni battito dietro le costole fosse delicato. Sgusciò sotto il braccio sollevato di suo padre, sistemandosi cauta sulle ginocchia - una smorfia, quella della Milkobitch, a cui era impossibile dire di no. E finsero entrambi che il sospiro a rotolare dalle labbra di Gemes fosse esasperazione, e finsero entrambi che il suo tacito acconsentire fosse uno sforzo - che un po' ci voleva sempre, quel sentirsi un eccezione. Si appiattì sul petto per non essere d'intralcio, e per sentire il vibrare atono del cuore dietro la testa - gli occhi chiusi, un sorriso leggero sulle labbra. Quando le dita di suo papà iniziarono a scivolare eleganti sulla tastiera, drizzò le spalle e reclinò il capo: «la conosco?» che un po' ce l'aveva sempre, Ade, d'interrompere qualcosa per colmare la propria vorace e morbosa curiosità. Sentì il torace tremare di una risata tenue, la gola a grattare appena. «tanto tempo fa, una ragazza l'ha scritta per me» «mamma?» «tua madre a malapena sa scrivere il proprio nome» i polpastrelli a premere sui tasti, cadenzando la voce quasi fosse parte integrante della melodia. «una mia vecchia conoscenza» ed il tono ironico con cui sottolineò conoscenza, le fece corrugare le sopracciglia. «e perché ti ha scritto una canzone?» «perchè sono bello» Ade strinse le labbra poco convinta. «e perché mi amava - possiamo darle torto?» intrecciò le dita sotto al mento, gli occhi ora ben aperti. Erano sempre favole, per la medium, le storie dei propri genitori - favole nel quale sapeva, senza che nessuno l'avesse mai specificato, di essere il lieto fine. «quindi è un po' mia mamma?» osservò, il cipiglio sincero ed egocentrico tipico dei bambini: che ne sapeva, Adelaide Milkobitch, che in una vita si poteva amare più di un qualcuno. Che ne sapeva, a sei anni, che non tutti coloro che facevano parte del passato, rimanevano nel presente. Suo padre sorrise al pianoforte, un sopracciglio inarcato. «se ci tieni. Non sarò io a giudicarti, se vuoi cambiare quella attuale» ci pensò davvero, Ade. Si morse l'interno della guancia, un espressione concentrata sul nulla ma piena di tutto. Non era in grado di cogliere il sarcasmo, pur divenendone in futuro una degna portavoce: a quell'epoca, tutto era di vitale importanza, per la Milkobitch - tutto necessitava di essere compreso, di essere onesto. Così ci pensò sul serio, prima di scuotere vivacemente il capo: «no, mi piace quella che ho» sancì, le dita intrecciate ora sulle gambe. E lui sorrise pacato, quelle smorfie un po' incredule ed un po' scettiche che curvavano grevi le labbra. «già, anche a me. Però non dirglielo» «perché?» «perché lo sa, ed io odio darle effettivamente ragione» ed era troppo giovane per comprendere quel tassello di verità che avrebbe contribuito, un giorno, a costruire quel che sarebbe stata: qualcuno che non diceva mai, perché odiava dar effettivamente ragione.
    Fu in quel momento che giunse un boato dall'altra stanza: ecco cosa succedeva a lasciar da soli i gemelli. «devi andare di là?» domandò, sperando egoisticamente che la risposta fosse negativa. Suo padre sospirò, le braccia distrattamente avvolte alle sue spalle. «CIGEI non è divertent-AHIA» «stai fermo!» scosse le spalle, udendo le grida provenienti dalla camera: «nah, direi che sono vivi» una risata gorgogliò dalla cucina al salotto dov'erano loro, umida di quei quattro anni già impastati di pongo e fango. Adelaide fece appena in tempo a volgere il capo nella direzione del suono, che... «...signore caro» un fulmine dai capelli biondi e disordinati sfrecciò al loro fianco su di un rotolo fatto di materassini arrotolati, il precario equilibrio mantenuto con le braccia allargate nell'aria, e la risata a rombare come il principio di una tempesta. Fu dal rotolo che giunse un sottile «non è PER NIENTE DIVERTENTE», mostrando così una testa scura a spuntare dall'estremità del rotolo: «bj?» «PAPÀ DIGLI DI SMETTERLA» E CJ sorrideva, in piedi su suo fratello: «per me lo è» un altro sospiro di suo padre a scompigliarle i capelli. «perché» che non fu proprio una domanda, così nessuno rispose. Con un gesto morbido della mano, fece galleggiare in aria il cordone dorato della tenda - e senza alcun preavviso, senza neanche alzarsi, lo arrotolò attorno al busto sottile di CJ, sordo alle repliche del bambino.
    E vorrei dire che fatti del genere non fossero quotidiani, ma sarebbe bastata l'espressione pacata di Ade, per smentirmi: «e ora si va a dormire.» «MA SEMBRIAMO SALAMI» «perché lo siete.» «ci fai rotolare fino in camera?» «no.» Ma lo fece comunque, Gemes, e mentre Adelaide attendeva pazientemente seduta sulla panchetta del pianoforte, le risate dei gemelli le piegarono involontariamente le labbra in un sorriso: che era impossibile, e si sapeva, resistere a quello squillante scampanellio. «dicevamo?» E finsero entrambi che il sospiro a rotolare dalle labbra di Gemes fosse esasperazione, perché lo sapevano che non lo era, ma non si poteva dar effettivamente ragione. «stavi suonando» picchiettò sul posto accanto a sé, uno sguardo di sottecchi a domandare silenziosamente un'altra canzone. E lui si sedette, e lui suonò ancora, mentre Ade poggiata alla sua spalla combatteva il sonno ad appesantirle le palpebre. «questa è britney spears» riconobbe ad occhi chiusi, piegando la bocca in un sorriso: che aveva solo sei anni, Adelaide Milkobitch, ma era cresciuta a pane e crepitanti stazioni radio anni novanta.
    «non l'avevi mai fatta» perché Ade le sapeva tutte, le melodie ad intiepidire i muri di casa. Ed ancora la risata pigra di suo padre a scuoterle la schiena - quelle un po' incredule, quelle un po' ciniche. «perché tua madre non lo sa, e non deve saperlo» «perché?» «perché non bisogna mai mostrare le proprie debolezze» e solo con il senno di poi, con la vita di poi, Adelaide comprese quella risposta - eppure l'aveva sempre saputa, appena sotto pelle. A sei anni si limitò a sorridere, gli occhi pigramente sollevati su di lui: «quindi è il nostro segreto?» un sussurro.
    Quella serata, quel pianoforte, quel frammento d'assurda quotidianità. Pezzi di un cuore che Adelaide aveva solo da crescere, da comporre come una sinfonia - ma le cui note, erano sempre state li. «è il nostro segreto» che si aveva sempre bisogno, di sentirsi un po' speciali - l'eccezione a tante regole. «non lo dirò a nessuno» e non l'avrebbe fatto. «croce sul cuore»

    So che non puoi ricordare, papà, ma lo faccio io per te. Perché Adelaide Milkobitch aveva sempre avuto tanto, aveva sempre avuto tutto, di suo padre. Era più meschino e sottile nei suoi insegnamenti - erano quelli che entravano nelle vene, che si facevano propri ancor prima di comprenderli. Perché sin da bambina, quando a malapena sapeva pronunciare il proprio nome, Ade aveva voluto, essere come lui - perché le era parso sempre un po' più difficile comprarsi i suoi sorrisi, ed allora aveva fatto in modo di meritarseli tutti.
    Così annullò la distanza fra loro e strinse a sé un ignaro Gemes Hamilton, la fronte a premere sul suo petto e le spalle a scuotersi di silenti singhiozzi: perché quel che Adelaide era, lo doveva tutto a lui. Era un fronte più placido, lei, un'arma affilata solo da un lato e smussata dall'altro - eppure di quello, si trattava. Perché le aveva insegnato ad amare piano, ma a farlo nel modo giusto: che si prendeva sempre, ma si accettava di rado - una differenza appena percettibile quanto ovvia agli occhi della Milkobitch. Che ci si dava a pochi e per pochi, ma alla fine si dava tutto - si misurava, si sceglieva razionalmente di dosare l'indosabile per pretendere di avere un minimo di controllo. Perché le aveva insegnato che non c'era bisogno di dirlo - che chi voleva e poteva capirlo, lo faceva da sé.
    Perché BJ le aveva insegnato che non si amava per ricevere, e sua madre che era amare, a renderli vivi; perché CJ le aveva mostrato che l'amore poteva far male, ma era stato suo padre, a dirle il perché: che fosse una debolezza, non gliel'aveva mai detto nessun altro. Di quelle buone, badate bene - perché ad un certo punto la differenza esisteva, e scalpitava: che era un bene prezioso da custodire gelosamente, perché mostrandolo avrebbe perso il suo significato. Perché non si diceva, si viveva. Ed Adelaide era cresciuta così, amando pochi ma facendolo con tutto il cuore - amando tutti, ma facendolo con poco cuore.
    Con presupposti del genere, avrebbe dovuto aver costruito un muro di diamante, attorno al proprio cuore: ed invece c'era qualcosa che non aveva mai compreso, dalla sua famiglia.
    Non dai fratelli, non dai genitori - dagli zii, i nonni, gli amici o i cugini.
    Nessuno le aveva mai detto che non potesse scegliere, chi amare: forse, se l'avesse saputo, sarebbe stata preparata.
    O forse, non lo sarebbe stata mai. «grazie» singhiozzò appena, la gola serrata.
    Grazie di avermi resa ciò che sono, perché non mi cambierei per nulla al mondo - e tanti di quei grazie che non le sarebbe bastata una vita intera, e che lasciò invece galleggiare nelle iridi blu. Sapeva che lui non avrebbe compreso, ma non aveva importanza: aveva solamente bisogno di dirlo, almeno una volta, quel grazie a premerle nella trachea.
    Croce sul cuore. Addio, papà.
    Un ultimo sguardo, un ultimo respiro. Sfilò al suo fianco prima di essere trattenuta da parole vuote e domande asciutte, prima che gli occhi cominciassero a sanguinare lacrime e cuore: perché aveva ancora un addio, Adelaide.
    Almeno uno - almeno sempre.
    E non si stupì affatto, nel vedere lo sguardo corrucciato della ragazza - o la linea sghemba delle labbra, a sorridere di qualcosa che agli altri sfuggiva. Poteva aver cambiato pelle, Ronan Barrow, ma non poteva cambiare il cipiglio irriverente ad incupirgli lo sguardo azzurro - quello mai. Così Ade lo riconobbe, in quel contenitore tascabile: riuscì a vederlo com'era stato, com'era dentro: ed ignorò la giovane età, ed ignorò il sesso opposto a quello di nascita - non aveva alcun dubbio, che lì sotto ci fosse il suo Ronan: da qualche parte, da qualche vita.
    Così annaspò alla ricerca d'aria, le dita a scivolare tremule sul suo viso - ed un sorriso, nel poterlo finalmente fare senza doversi sollevare sulle punte. Ed una smorfia più amara, in quel cuore ancora a sanguinare, mentre placida le rivolgeva un ghigno.
    Ti ricordi, Ronan, il nostro primo bacio?

    «quello è lo scorpione» l’erba era umida di pioggia recente, ma nessuno dei due parve farci caso. Un gomito poggiato al suolo, il braccio destro steso di fronte a sé ad indicare la costellazione. «e la stella più brillante si chiama antares» Inarcò le sopracciglia e sorrise piano, gli occhi ancora nel cielo. «tipico di quel cazzone, appassionarsi di astronomia solo perché porta il nome di una cazzo di stella» Ronan sbuffò greve inveendo sul fratellastro Icesprite, la notte illuminata dalla brace rossa della sigaretta stretta fra i denti. I capelli scuri di lui le solleticarono la spalla, quando scosse il capo. Era un giorno d’estate qualsiasi, di una vita qualsiasi, di un Ronan ed un’Adelaide qualsiasi senza un CJ qualsiasi.
    La prima volta che s’era ritrovata il Beaumont - Barrow al proprio posto, steso sul prato inglese privo d’alcuna pretesa, aveva cercato di ignorarlo: si era seduta lontana, il capo reclinato verso l’alto e le labbra serrate.
    Così aveva fatto la seconda notte.
    E la terza.
    Alla quarta, Ronan le si era coricato vicino, un braccio piegato sugli occhi. «ti do fastidio?» «un po’» «meglio»
    Alla quinta, Ade aveva cominciato a portare una coperta più grande sulla quale stendersi. «c’è posto per me?» «no» «rude»
    Alla sesta, le aveva indicato un punto nel cielo stellato: «quella è la cintura d’orione» Adelaide aveva inarcato entrambe le sopracciglia, un’occhiata scettica nella sua direzione - il sorriso di lui un ampio lampo di denti bianchi, le palpebre socchiuse. «non guardarmi così, non sono mica un’idiota» non lo era? quale novità. «buono a sapersi» ed un poco, nel ricambiare il sorriso, lo pensò davvero. «ora posso baciarti?» «alle ragazze non piace che glielo si domandi» osservò, sbattendo languidamente le ciglia. «di solito non lo faccio, ma con te mi sembra sempre di dover chiedere il permesso» Allora si volse verso di lui, lasciando che i capelli corvini divenissero una tenda di seta fra sé e Ronan: «chiedimelo di nuovo» «posso baciarti?» «no»
    Alla settima il cielo era coperto, ma loro rimasero lì comunque. Un rito, una costante in mezzo al caos. Adelaide aveva bisogno di quei momenti lontana da tutti – le piaceva, rimanere sola. Semplicemente, non avrebbe mai creduto che avrebbe preferito rimanere sola con Ronan. «ho sempre sognato di avere una stella» aveva ammesso, con quella voce sottile che si usava sempre quando calava il sole. Quella più intima, intrisa della profondità della quale il giorno la privava. «io sono una stella, ma non mi vuoi comunque» «sei un idiota»
    All’ottava, Ronan le aveva domandato il perché. «cosa te ne fai, di una stella?» «la voglio perché non posso averla» perché si aveva sempre bisogno di quel che non si poteva ottenere - e necessitava di un obiettivo, Adelaide, di un sogno che non potesse mai tradirla. Di una promessa stampata secoli prima della sua nascita, ancora a brillare nel cielo. «tu non vuoi nulla che non puoi avere?» Ronan si limitò a guardarla. Adelaide fu la prima a distogliere lo sguardo.
    Ed era la nona notte, quella – una coperta per entrambi, un cielo per due.
    «la vedi quella vicino? È libra» ma il Barrow non guardava le stesse stelle di Adelaide – quella notte, quella prima, e quella prima ancora. «ho un regalo per te» Fu così inaspettato che la Milkobitch distolse lo sguardo dalla stellata per portarlo su di lui, le sopracciglia corrugate. «perché?» Ronan si strinse nelle spalle, uno sguardo pigro e divertito a carezzarla, e le dita a cercare qualcosa nella giacca. «chiudi gli occhi» «no» «come ti pare» Sospirò lui, chiudendo qualcosa nel pugno. «mi è costata molto impegno e fatica, quindi sappi che se deciderai di buttarla, mi spezzerai il cuore» Le lanciò qualcosa che Ade osservò caderle in grembo. «si chiama ronan – ovviamente, non che avesse bisogno di introduzioni: basta guardare gli occhi, per riconoscere la mia eccezionale bellezza» La medium strinse il pezzo di carta fra le mani e lo avvicinò al viso. Ci mise un po’, a riconoscere la sensazione a scioglierle le costole. A comprendere che la fitta allo stomaco, non aveva nulla a che vedere con la posizione scomoda sul prato. «è cristallino che il talento artistico in famiglia l’abbia io – fottiti, Lynch» Ronan sollevò il dito medio di fronte a sé malgrado il fratello non fosse presente, un sorriso a baluginare derisorio sulle labbra sottili. Adelaide osservò la stella fra le proprie mani, piccola - lo schizzo distratto su un angolo di quaderno; soffermò gli occhi e il cuore sul disegno più orribile che avesse mai visto.
    E le labbra si tesero in un sorriso, ed il sorriso divenne risata - quant’era che non rideva, Adelaide? E continuò a ridere, aumentando d’intensità ogni volta che lui puntava i pregi della propria opera, o sottolineava la sua mancanza di tatto nel prenderla così, perché non c’è niente da ridere. «questo è il ringraziamento per aver esaudito il tuo sogno? Ingrata» Le scoccò un’occhiataccia macchiata del più sottile dei sorrisi mentre la Milkobitch, ormai priva di forze, giaceva abbandonata al suolo con le lacrime agli occhi. «chiedimelo ancora» domandò leggera, lasciando che la domanda gravitasse pesante sulle labbra, rotolasse pigra e dolente sulla lingua. Ancora l’ombra di un sorriso, sulla bocca di lei. Lui non le domandò cosa, ruotandosi verso di lei. Piegò il gomito e poggiò a guancia sopra il palmo, il capo reclinato. «no» No? No? Dopo aver insistito per giorni, per mesi!, non- dio, era proprio un Ronan. L’ilarità evaporò dagli occhi di Ade, mentre impettita rimaneva ad osservarlo. L’aveva sempre saputo, che il suo era solo un gioco. Cristo, come aveva fatto ad essere così stupida da cascarci? Lei, che s’era sempre sentita superiore ed intoccabile - e lo era stata. Quel rifiuto le bruciò l’orgoglio, e qualcosa di più. «sei veramente un miserabile pezzo di-» e le labbra di lui furono sulle proprie, calde e dal lontano sapore acre della sigaretta, e dolce dell’alcool. «alle ragazze non piace che glielo si domandi» le sussurrò ironico sulla bocca, prima che Adelaide attorcigliasse le dita fra i corti capelli d’inchiostro di lui. «taci, cazzo»

    Te lo ricordi, Ronan, di essere stato il mio primo amore? Quello che giunge a cuore impreparato, che riempie i buchi di un petto lacerato e stringe i lembi di pelle con bende pallide e sottili. Quello che ti ammicca nel buio della notte come un fuoco fatuo - quella trappola in cui cadi pur conoscendo l'inganno. Adelaide, Ronan, l'aveva amato davvero. Non subito, non il primo mese, e neanche l'anno dopo: era stato un lento progredire di quella che un'amicizia non la era mai stata, la naturale conclusione di quel che alla fine, sin dall'ignaro inizio, era destinato ad essere - almeno, per lei. Lui era più leggero, più lascivo - più divertito, che divertente. Una sfida, un gioco. Chissà se se n'era reso conto, quando non lo era stato più: Adelaide non l'aveva fatto. E l'aveva amato, e lo amava ancora, di quel genere d'amore che lasciava il segno sulla pelle, dove le dita avevano impresso la propria forma. E quelle labbra che ancora bruciava del loro ultimo bacio, Adelaide, fra le lacrime, le premette sulla fronte di quella ragazza, quella Ronan. Perché «ti amo anche io» e non se l'erano mai detto, perché la verità aveva sempre avuto un prezzo troppo alto. E pianse, la Milkobitch, con la bocca sulla sua pelle - pianse della sua pelle, Ade- perché «ma dobbiamo andare avanti» lui, lei, loro. Perché erano uno di quegli amori destinati a morire giovani, almeno in quella vita: quelli che consumavano finché c'era carne da consumare, e poi lasciavano cenere dall'amaro sapore di ciò che era stato - che avrebbe potuto essere, ma non sarebbe stato mai.
    In un'altra vita, magari, avrebbero avuto un'altra possibilità.
    Un'altra Adelaide Milkobitch, un altro Ronan Beaumont Barrow. Un altro pianoforte, sempre le stesse stelle - che almeno quelle, non cambiavano mai.
    Perché il loro tempo era scaduto, ormai. E che Adelaide lo sapesse e Ronan no, non avrebbe fatto alcuna differenza.
    Sii felice, Ronan. Che farà male, Dio se farà male non averti, ma non rimpiango di essermi innamorata di te: quello mai. Addio, idiota.
    Il suo d'un tempo, il qualcun altro di adesso. E che Sunday De Thirteenth, di quel saluto, non se ne sarebbe fatto niente, non aveva alcuna importanza.
    Perché sapeva, Adelaide Milkobitch, che quella sarebbe stata la sua ultima, ed unica, opportunità: almeno una volta, nel suo unico per sempre. Se li era presi, quelli addii: l'aveva fatto.
    L'aveva fatto?

    No, non l'avrebbe fatto: perché invece, importanza, l’aveva sempre avuta. «tutto okay?» non si era mai alzata, Adelaide. Non aveva mai raggiunto i suoi fratelli, i suoi genitori, o Ronan: raccolta in sé stessa, ancora seduta sul palco, si era limitata ad infossare il mento fra le ginocchia, supplicando così le labbra di non tremare - e li immaginò tutti, quelli addii. Li assaporò sulla lingua, gustandoli come avrebbe fatto con la sua caramella preferita. Avrebbe voluto fossero reali, ma non sempre ciò che si voleva, si poteva altrettanto facilmente ottenere. Sarebbe stato inopportuno, abbracciarli - avrebbe dato nell'occhio, quella quieta selezione.
    E non avrebbero capito, loro.
    Non ha senso, Ade.
    Adelaide Milkobitch aveva avuto un suo tempo per poter essere in orario - per poter dire addio, per poter dire tutto. Dove non l'aveva fatto, pregava non ce ne fosse stato bisogno: certe cose, si sapevano e basta. Ade sperava che tutti loro, i suoi loro, avessero saputo quanto li avesse amati.
    E sperava che in quella vita, potessero comprenderlo ancora.
    Si rese conto di aver pianto quando le guance tirarono, nel bieco sorriso che sollevò su una Tupp dannatamente giovane: sua cugina la guardava con grandi occhi verdi pieni di sincera preoccupazione, la mano allacciata a quella di Cash. La osservavano entrambi, i separati gemelli Hamilton.
    Ade sospirò, lo sguardo a posarsi sulle persone ancora presenti nella radura.
    CJ era con Ronan, gli occhi di ambedue sul vicino BJ; Run aveva un braccio sulle spalle di Todd, le mani impegnate ad applaudire il sorriso sghembo, e del tutto riposato, di zio Jeremy, mentre lo indicava scuotendo il capo ad Al: la vide poi ruotare gli occhi alla propria sinistra, le sopracciglia inarcate. Seguì il suo sguardo fino a Gemes, che ricambiò brevemente l'occhiata di lei prima di riportare l'attenzione su Eugene e Jade, l’espressione pigra del Jackson a scontrarsi distratta con l'esasperazione della bionda.
    Era tutto okay?
    «sì» si schiarì la voce, le iridi blu a posarsi calde sui cugini. «sì, è tutto a posto» e quella volta, ed in quel sorriso, lo pensò davvero.
    Trenta respiri.
    Si alzò in piedi raggiunta alle spalle da Grey, e di fronte da due sudati, ed affaticati, Jekyll e Hyde. I loro sguardi bruciavano, ribollivano umidi; le labbra ci provavano, a piegarsi in sorrisi: non funzionava - non lo faceva mai. I cuori pesanti, loro quattro. La bocca a tremare. «dov’è cliff?» chiese, privandosi delle domande che avrebbe invece voluto loro volgere: li avete visti? Voi avete salutato? Anche il vostro petto sanguina? I due fratelli si scambiarono un’occhiata. «pensavamo fosse con voi»
    Venti respiri.
    Adelaide Milkobitch drizzò la schiena, lo sguardo duro a posarsi pragmatico sugli zii: sapeva che per loro Heathcliff era come un cugino, era parte della famiglia, ma non avevano tempo, di cercarlo. Se ne rendevano conto? Sapevano cosa significava? Così fu dura, così fu schietta, in quello sputo di voce che riuscì a racimolare: «non possiamo aspettarlo,» Un affermazione amara, ma pur sempre sincera – qualcuno, dannazione, doveva pur dirlo: «dobbiamo andarcene» gli occhi a scivolare su di loro già resi opachi dalla risposta letta nella curva delle labbra, in quella delle spalle. Non guardò Grey, Adelaide, mentre la consapevolezza diveniva cenere nei polmoni.
    «non possiamo andare via senza quell’idiota di cliff» Hyde ricambiò l’occhiata della Milkobitch, dandole modo di vedere la menzogna dipinta in essi. Non era per Cliff, che Hyde Joyce Crane Winston sarebbe rimasto - ma era una scusa sufficiente per permettergli di lavarsi la coscienza, giusto?
    Avrebbe voluto odiarlo, ma non ce la faceva: perché non riusciva a biasimarlo, Adelaide. Perché in quei respiri contati a gravarle sui polmoni, si rese conto che avrebbe voluto rimanere anche lei: che magari non sarebbe più stata figlia, o sorella, o nipote, ma avrebbe potuto essere almeno loro amica. Per un istante, uno solo, si lasciò cullare dall’idea di rimanere.
    Un balzo serale nel pub preferito di mamma, un conveniente sgabello libero proprio al suo fianco: è libero? Sì, figurati. Cosa bevi? Quel che costa meno -una risata, due.- tu? Qualsiasi cosa abbia una cannuccia colorata -un’altra risata, altre tre. Io sono Run, comunque; non ti ho mai vista in giro – o se l’ho fatto, ero sbronza. Tu chi sei?
    Un impiego nel cinema dei sobborghi di Londra, la divisa perfettamente stirata mentre, sotto ad un berretto, sorrideva a suo padre: non c’è molta gente, stasera. Lo so, altrimenti non sarei venuto. Vieni spesso, qui? Abbastanza – ora mi dai il biglietto? Botteghino chiuso, ma offre la casa: ti do fastidio se vengo anche io? La sala è grande, e nessun film è divertente se non c’è un pubblico ad ascoltare le mie critiche.
    Una panchina in città dove gli skateboard sfrecciavano veloci, il piede di suo fratello a sfiorare appena l’asfalto, ed un pacchetto di sigarette stretto nel pugno: hai da accendere? No. Peccato, avevo un po’ d’erba in avanzo. È una proposta? Solamente se hai un accendino. Allora sì, ce l’ho.
    Un asciugamano steso al centro di una radura erbosa, i gomiti poggiati sulla stoffa e gli occhi a studiare i movimenti agili di BJ: non dev’essere divertente, lanciare la pallina contro un albero. C’è di peggio. Vuoi una mano in più? Non vorrei disturbarti. Figurati, nessuno disturbo: mi piacerebbe imparare qualche tiro, se ti va. Affare fatto.
    Dieci respiri.
    «mi mancherete. Siete degli stupidi» Adelaide chiuse gli occhi, mentre Grey abbracciava i propri fratelli. Cercava di non udire il proprio cuore, di non prestar attenzione ai battiti - più cercava d’ignorarli, più le incrinavano le costole.
    Missione, Lancaster. Si inumidì le labbra.
    Nove respiri.
    «aiutateli» - tutti.
    Otto respiri.
    «proteggeteli» – tutti.
    Sette respiri.
    «amateli» – tutti.
    Sempre.
    Ricambiò le strette pregando che capissero - che ricordassero. Che un giorno avrebbero riferito a CJ della volta in cui s’era rotto l’incisivo cadendo dalla bicicletta, o di quando BJ si era involontariamente tinto i capelli d’un rosa pastello. Di quando mamma per Carnevale li aveva vestiti dalle gemelle di Shining, o di quando papà dimenticava uno dei due al parco. Dei nomi scritti in fronte per riconoscerli, delle calamite nei vestiti per farli aderire fra loro e non perderli.
    Sei respiri.
    «fatelo per me»
    Cinque.
    Le lacrime a pungerle gli occhi ed indurirle il cuore. Quindi era così, che avrebbe detto addio?
    Quattro.
    Li cercò una volta, un’ultima volta, con lo sguardo: Ronan, Heidrun, Gemes - CJ, BJ; li intravide nella folla, li udì in briciole che ingoiò avida. Li prese - i loro occhi, quegli ultimi respiri.
    Tre.
    Sorrise, portò una mano al petto. Con il pollice, disegnò una croce sul cuore - perché le promesse stavano lì, dove nessuno poteva strappartele.
    Due.
    Indice e medio alla fronte, l’addio militare ad un esercito invisibile.
    Uno.
    «e dite loro che -»

    C'era una volta una bambina dagli occhi blu ed il sorriso triste, sporca di quel presuntuoso ottimismo di chi aveva tutto, e non poteva perdere niente. C'era una volta Adelaide Milkobitch, una vita di mattoni d'amore e macerie di sangue - una vita di morti, fatta di momenti vivi.
    C'era una volta un destino dal precario senso dell'umorismo, dita ad artigliare fili e ad intrecciarli stretti alla gola - a bloccare i polsi, lasciando intatti gli occhi ad abbeverarsi di istanti immutabili: un fato che obbligava a guardare, soffocandoti con la consapevolezza di non poter cambiare nulla.
    C'ero una volta io.
    Un altro tempo, un'altra vita - la stessa Adelaide. Questa è la storia di come non ho potuto abbracciarli, almeno una volta. Di come non ho potuto dire loro che li amavo.
    Perché mi hanno insegnato l'amore più puro, e quello più disperato; perché mi hanno insegnato che ogni respiro è un piccolo addio, e che le promesse sono tutto ciò che di noi lasciamo.
    Ho promesso loro che sarei andata avanti, ed è quello che intendo fare.
    Perché mi chiamo Adelaide Milkobitch, e questa è la storia di come ho detto addio: non facendolo mai, ed avendolo fatto sempre.
    Mi farò bastare questi sguardi sottratti al tempo, memorie che non avrei mai immaginato di poter avere. Mi farò bastare il ricordo del vostro sorriso, delle vostre labbra sulla pelle, del vostro profumo. Mi farò bastare la voce, nenia nella notte e prima carezza del mattino: mi farò bastare quel che ho avuto, perché è stato tutto.
    E dite loro che-
    E dite loro che avrei voluto questa fosse la mia vita, ma non lo è. Avrei voluto fosse il mio tempo, ma non lo è.
    Non lo è più, non lo è ancora.
    Così torno a casa, quel che casa lo era e lo sarà anche per voi; torno a respirare il futuro, lasciando il passato dov'è destino rimanga - dove ho fede cambi, per voi e per noi.
    Racconterò di quest'ora, davanti al calore delle fiamme d'un camino. Mi prenderò un po' di tempo per me stessa, una buona canzone in sottofondo ed una tazza di tè stretta fra le mani. La deglutirò piano, quest'ora con voi - la masticherò con lentezza, cercando di capirla.
    E quando infine mi chiederanno "com'erano?" potrò rispondere "come sempre: complicati, e meravigliosi" e quando mi domanderanno "com'è stato?" potrò sorridere, ed essere sincera: "come essere a casa"
    Almeno per me, almeno per sempre.


    | ms.



    utenti avvisati mezzi salvati: è lunghino e non ne vale così tanto la pena. ciao addio a mai più
     
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