Limiti relativi.

callaway

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    Maeve Winston
    17 Ravenclaw

    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Era così facile. Così dannatamente facile, ed io non riuscivo a farlo. Non capivo il perché, ma c’era qualcosa che mi impediva di andare avanti, che mi diceva che era sbagliato. Ero nella Sala delle torture, fra le mani stringevo una frusta dalle punte di ferro acuminato. La nuova regola era che meno si usava la bacchetta, meglio era per noi apprendisti. Le maledizioni senza perdono erano un lavoro dei più grandi, i lavori sporchi invece toccavano a quelli come me, che ancora non sapevano che farsene della loro vita. La strinsi forte fra le mani, sentendo le unghie della mano premermi nel palmo sempre più duramente, tanto che sentii la debole resistenza delle pelle prima di spezzarsi in piccole mezzelune. Mi guardai attorno per cercare una via di fuga, ma le mura di pietra parevano restringersi sempre di più, soffocarmi. L’odore del sangue impregnava l’aria, e solo per pura fortuna non si trattava del mio. Era di Nathan, un Grifondoro dell’ultimo anno con cui avevo scambiato qualche battuta. Era un tipo a posto. Adesso i capelli biondi erano striati di rosso, i polsi -mi faceva male solo al guardarli - legati ai ceppi appesi al muro. Il suo sguardo non sembrava nemmeno vedermi, tanto che quasi pensai che fosse già morto. Se non fosse stato per il petto che si alzava e si abbassava, probabilmente non mi sarei accorta che invece era vivo e vigile. “Winston, fallo”
    Winston, fallo
    Ma io non potevo. Era come se le mie membra si fossero intorpidite, impedendomi di fare alcunchè. Una posizione gelida ed inarticolata. Ero imbambolata al centro della stanza, tutti gli occhi fissi su di me.. tranne quelli verdi di Nathan. Non sapevo nemmeno il cognome, e quello mi sembrava la cosa più terribile in quella situazione disastrosa.
    Winston, fallo
    Incredibile come tutto potesse cambiare da un giorno all’altro. Fino a poco tempo prima ne sarei stata orgogliosa, ed in quel momento invece non potevo fare a meno di pensare che avrei preferito essere da qualunque altra parte che non lì, a fare una scelta. Scegliere è la cosa che mi è sempre piaciuta di meno, perché ogni volta finivo per domandarmi se avessi preso la strada giusta o meno.
    Winston, fallo
    Sapevo che se non l’avessi fatto, avrei finito per far la sua stessa fine. Sarei finita per terra accanto a lui, a sperare che la persona in piedi di fronte a me decida di risparmiarmi la vita. Che magari il futuro riservasse delle speranze, e che non dovesse essere per forza così. Avrei voluto non dover essere io a fare quella scelta, quel giorno. Ma sapevo di non avere alternative. Chiusi gli occhi ed inspirai lentamente, allentando la presa sulla frusta e lasciandola ricadere sinuosamente affianco a me. Quando riaprii gli occhi, mi accorsi che Nathan mi aveva messo a fuoco. Ora anche lui sillabava quelle parole, seppur gli venisse difficile.
    Winston, fallo
    Con un scatto del polso, feci vibrare la frusta sullo sterno del Grifondoro, che sussultò senza urlare. Ripetei l’operazione più e più volte, finchè della carne non rimase molto. Le spalle gli tremavano, ma non emetteva alcun suono, nemmeno un mugolio. Presi la spada che il mangiamorte mi porgeva, e lo feci. L’azione più nobile, dopo la tortura inflitta. Volevano informazioni, e lui aveva detto che non sapeva niente: il che significava che era ormai inutile. Che dopo il degrado della tortura, non sarebbe più stato buono a nulla.
    Un passatempo.
    Che Dio mi perdoni, ma lo uccisi.
    E non sapevo nemmeno che cognome portasse.
    Mi guardai le braccia. Era da un po’ che ero ferma nella stessa posizione, e le gambe cominciavano a formicolare. Erano sporche di sangue, ancora incrostate della linfa vitale di Nathan senza cognome. Un leggero venticello mi fece alzare gli occhi, e quello che vidi mi lasciò sorpresa. Non mi ricordavo di essere uscita dal castello, non mi ricordavo di come ci ero arrivata, ma senza alcun dubbio ero in Irlanda. Una specie di radura con l’erba piatta e centinaia di alberi intorno a coprirmi da sguardi indiscreti. Nemmeno un fiore decorava quel posto, solo mille sfumature di verde. Mi ricordavo che quel luogo me l’aveva fatto conoscere Liam, l’attuale professor Callaway. Mi aveva raccontato che andava lì quando non ne poteva più del resto, quando si annoiava, quando voleva pensare, quando voleva guardare le stelle, quando voleva ubriacarsi. Liam mostrava agli altri solamente una piccola parte di sé stesso, la peggiore per altro, ma io sapevo che c’era di più. Il punto è che nemmeno io potevo vedere il restante dell’iceberg, nonostante fossimo cresciuti insieme. Probabilmente nemmeno Aaron conosceva le mille sfaccettature di Callaway.
    Eravamo amici. Erano l’unico che non mi avesse mai mentito: spesso ometteva la verità, ma non mentiva. Ed era schietto, ed era.. lui. avevo bisogno di lui in quel momento. Non del professore, del ragazzo: quello che mi aveva fatto assaggiare le sigarette babbane, quello che diceva sempre che ero una palla al piede, quello che mi aveva dimostrato una sincerità disarmante. Quello a cui potevo dire tutto, seppur lui fingesse di non ascoltare nemmeno una parola. Quello che sapeva sempre cosa dirmi per non farmi cadere nel baratro dell’autocommiserazione. Ma adesso che era diventato un mio insegnante, era cambiato tutto; quasi non mi guardava nei corridoi, figurarsi fermarsi a parlare con la sottoscritta. E non l’avrei mai ammesso, specialmente con lui, ma faceva male da morire. Era come aver perso un pezzo della mia infanzia, una cosa che avevo sempre dato per scontato: il mio vicino di casa un po’ scontroso era diventato un professore di Hogwarts, ed io l’avevo perso.
    Il sole tingeva l’orizzonte di rosa, ed io seppi che in quel momento avrei dovuto essere a scuola. Ma non sapevo come tornarci, dato che non ero ancora in grado di smaterializzarmi. E non mi ricordavo come ero arrivata lì, e non mi ricordavo quanto tempo fosse già passato: minuti, ore, giorni? Tornai di nuovo con lo sguardo sulle braccia schizzate del sangue di un Grifondoro, cui unica colpa era stata quella di trasgredire delle regole create solo per far commettere reati.
    Dio, Dio, Dio, l’avevo fatto davvero. L’avevo ucciso. L’avevo privato della sua vita, giocando ad essere qualcuno che non ero. Non avevo mai passato quel limite, mi ero sempre fermata alle torture, ma quel giorno avevano voluto di più. Ed io ancora non ero pronta per avere quel peso sulle spalle, non ce l’avrei fatta. Sarei miseramente crollata, da sola, in una radura irlandese.
    Winston, fallo.
    Ed io l’avevo fatto.
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    Edited by shane is howling - 30/10/2015, 17:56
     
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    Liam Callaway

    21 Durmstrang

    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»



    Non dico che sia sbagliato, Dio non voglia. Ma mi pareva esagerato strappare via i bambini ad una famiglia che teneva troppo a loro per lasciarli andare ad Hogwarts. Mi pareva quasi strazianti doverli uccidere mentre l’undicenne piangeva la scomparsa dei suoi genitori. Un gesto necessario per il bene della comunità, ma non voleva dire che mi piacesse. Le persone pensavano che non avessi un cuore, ma non avevano capito che in realtà io cercavo solamente di non averlo. Cercavo con tutte le mie forze di nasconderlo sotto cumuli di sporcizia, di incartarlo e coprirlo di sudiciume. Perché Liam Callaway una volta non era così. Una volta aveva un cuore, che batteva forte e chiaro nel suo petto scarno.
    Poi ha capito che non serviva a niente avere un cuore, perché chi poteva tenerlo fra le mani non aspettava altro che farlo cadere a terra, e magari calpestarlo. Che poi che senso aveva dare il proprio cuore a qualcuno? Dare la propria fiducia? I miei genitori mi avevano abbandonato. Può sembrare una cosa stupida da dire, ma quel giorno persi qualcosa. Qualcosa si ruppe dentro di me, e cominciai a scavare la fosse dove ho poi buttato tutto, sentimenti, emozioni. Tutto. Che ho poi affogato nell’alcool, che ho poi sommerso di droghe. Perché io ero un bambino, e come tutti i bambini era attorno a loro che avevo creato la mia vita. Certo, non c’erano mai, ma questo non toglieva che un bambino di otto anni non tenesse ai suoi genitori come alla sua vita stessa. Che quando se n’erano andati, senza una spiegazione né un saluto, fu come scoprire che il giorno del tuo compleanno nessuno ti ha organizzato una festa a sorpresa, ma si sono semplicemente dimenticati di farti gli auguri. Le uniche persone che avevo visto fino a quel momento –non conoscevo nulla del mondo al di fuori- erano loro. E mi avevano abbandonato a me stesso, come un giocattolo di cui ci si è stancati.
    La gente mi biasima, ed io li capisco. Loro non conoscono la parte di storia che mi ha reso ciò che sono. O forse non ci sono scusanti per il mio comportamento, ma adoravo credere che ce ne fossero. Spesso fingevo di essermi dimenticato di tutto quanto, ma sapevo di prendermi in giro da solo. Non riuscivo più a fidarmi completamente di qualcuno, perché ormai sapevo quanto potesse essere effimero l’amore. Che parola idiota, amore.
    Sveglia, l’amore non esiste. Non è altro che un invenzione degli uomini per giustificare azioni altrimenti patetiche. Vedere persone che ancora ci credevano era triste: non poteva esistere. Perché se esisteva davvero, era pure ingiustizia che avesse saltato il sottoscritto. Non me lo meritavo? Cosa può aver mai fatto un ragazzino per non meritarsi l’amore? E se di certo non se l’è meritato un bambino, figurarsi se lo meritava il Liam Callaway odierno. Anche fosse, non c’era posto per l’amore in quel mondo. Nella mia vita. Due cose che non potevano convivere insieme, o io o lui. riuscivo ad avvelenare tutto, anche quando non lo facevo apposta. La mia sola presenza corrompeva, e tentava, e bruciava i buoni propositi.
    C’era solo una persona che nella mia vita aveva superato quelle difese così bene da farmi sorgere un istinto di protezione insolito. Un istinto che mi impediva di fulgere al mio massimo e di guastare. Qualcosa che mi spingeva a diventare più cattivo del solito per tenerla lontana. Maeve Winston era piombata nella mia vita quando avevo quindici anni, e dopo sei anni ne faceva ancora parte. Mi sembrava che avesse bisogno di me. O forse ero io ad avere bisogno di lei, ma non l’avrei mai ammesso con nessuno, men che mai con lei. Aveva tutto quello che a me mancava, quello che avevo nascosto così bene. A volte riusciva a scoperchiare quella parte di Callaway che avrei preferito non rivelare a nessuno. Quei frammenti che, evidentemente, aveva colto anche Sales, altrimenti non avremmo mai fatto amicizia. Sapevo quello che stava passando ad Hogwarts,mi aveva stordito di parole nelle fresche serate d’estate passate a Tralee. Sapevo che c’era qualcosa che non la convinceva in quanto la circondava, ma come potevo dirle la verità? Maeve non era come me, o come Aaron. Era un pericolo ambulante per quelli come noi. O forse per se stessa quando c’eravamo noi nei paraggi. Era confusa, e quella confusione non l’avrebbe portata lontano. Io non sapevo che diamine fare: non avrei potuto proteggerla per sempre da quel mondo pieni di merda in cui vivevamo. E, ad essere sincero, non era nemmeno il mio compito. Chi ero io per decidere qualcosa della sua vita? Nessuno. Il punto è, che per una volta, mi sarebbe importato poter avere voce in capitolo. Poter cambiare le cose, almeno per lei. Era un rapporto strano il nostro, non avrei saputo descriverlo altrimenti. A volte avrei semplicemente voluto che mi stesse il più lontana possibile, perché odiavo il Liam che diventavo quand’era nei paraggi. Non sapevo se si potesse definire amicizia, la nostra. Non sapevo se per lei ero un amico, o cos’altro. Non avrebbe nemmeno dovuto interessarmi a dire il vero. Non sapevo perché invece mi interessasse. E non erano cose di cui potevo parlare con Aaron, perché mi avrebbe dato dell’idiota – e come dargli torto? Mi avrebbe detto che mi stavo intenerendo. Al che probabilmente avrei fatto qualcosa di molto stupido di cui avrei potuto pentirmi.
    Poi ero diventato suo insegnante alla scuola di Hogwarts. Questo aveva complicato notevolmente le cose, perché lì non era affatto la Winston che conoscevo. Era una ragazza ricca di qualità che non le avrei mai attribuito, ma anche di difetti di cui non l’avrei saputa capace. Vidi quanto già era corrotta, e seppi che –per una volta- non era colpa mia. Non sapevo se esserne intristito o soddisfatto.
    Quando quel pomeriggio mi arrivò un gufo, feci di tutto per ignorarlo. Nessuno mi mandava gufo, quindi era qualcosa di importante. Di conseguenza, sicuramente qualcosa che non mi sarebbe piaciuto. Ma era così testardo il pennuto, che fui obbligato ad aprire la finestra del mio studio per farlo entrare. La pergamena che aveva legata alla zampa era incredibilmente leggera. La srotolai.
    “Liam, per favore”
    Quella calligrafia l’avrei riconosciuta ovunque, perché quella stupida della Winston mi aveva riempito la casa di post it l’estate precedente. La chiusi nel pugno e la appallottolai. Che diamine voleva dire? Per favore cosa? Ed il fatto che avesse detto Liam e non professor Callaway, poteva significare solo una cosa: aveva bisogno di me. Del vero me, di quella piccola parte che aveva intravisto frugando nella mia vita.
    Avrei dovuto semplicemente buttare la pergamena nel camino ed osservarla bruciare. Avrei dovuto ignorare quel grido d’aiuto. Tutti si sarebbero aspettati una mossa simile da me, e probabilmente sarebbe stata la cosa migliore per tutti. Perfino per lei, anche se mi avrebbe odiato a vita. Anzi, proprio per quello sarebbe stato meglio per lei.

    Arrivai a Tralee che il sole era ormai oltre l’orizzonte, e le prime stelle decoravano il cielo irlandese. Che poi il cielo era mondiale, non era solo irlandese, ma mi era sempre piaciuto pensare che quello fosse diverso. In qualche modo speciale. Liam, per favore. era lì, per forza. Non mi avrebbe scritto nulla del genere se fosse stata altrove. Il punto era: cosa ci faceva? E perché? E come ci era arrivata, diamine?
    Feci scricchiolare un rametto appena prima della radura vera e propria. La figura di Maeve era raggomitolata al centro di questa, i capelli biondi sciolti sulle spalle. Strinsi i denti avvicinandomi a lei, contenendo a stento la miriade di emozioni che mi affollava la mente. Sembrava vincere su tutte la rabbia. Adoravo la rabbia, mi consolava e mi faceva sentire a mio agio. “Winston, ma che diavolo..” misi in quelle parole tutto lo sprezzo di cui fui capace –ed era tanto, ve lo assicuro. Lo sdegno personificato nel trovare una studentessa in una radura sperduta dell’irlanda. Quando fui abbastanza vicino, notai il sangue raggrumato sulle braccia. Fece breccia in tutta quella rabbia che provavo, una fitta di paura. Paura? Da quando Liam Callaway aveva paura? E di cosa poi? Mica era sangue mio. Soffocai quel sentimento. Non sarebbe stato utile né a me né a lei. “Ti sei ferita con i rami venendo qui?” domandai in tono freddo e distaccato, lanciandole un’occhiata di traverso.
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    Maeve Winston
    17 Ravenclaw

    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Avrei voluto mettermi a piangere. O ridere, non sapevo nemmeno più la differenza fra le due cose. Mi sentivo così stupida che avrei solamente voluto sotterrarmi lì, rimanere sotto il prato verde finchè qualcuno non avesse notato la mia assenza. Di ragazzi ne sparivano tutti i giorni da Hogwarts, non sarebbe stato un problema fare la loro stessa fine.. se non fossi stata Maeve Winston: una come me avrebbe dato di certo nell’occhio più di tanti altri. E poi non potevo crollare, non potevo proprio. Non ero il tipo di ragazza che si chinava in un angolino a piangere tutte le lacrime del mondo, ero più quella che si alzava e faceva piangere il mondo. Quella che quand’era triste, riusciva comunque a tramutare l’emozione in rabbia. Eppure sembrava che tutti i miei propositi, tutte le mie forze, la mia volontà.. che tutto fosse rimasto nella Sala delle Torture, in attesa che qualcosa o qualcuno se ne appropriasse senza il mio consenso. Ero troppo stanca perfino per pensare alle conseguenze di quel gesto. Ero esausta, avrei voluto poter bearmi del sonno per dimenticare tutto e ricominciare il giorno dopo. Ma avere le braccia insanguinate era una gran deterrente contro il sonno, ed essere in un posto sperduto dell’Irlanda noto solo a me e Callaway, non aiutava di certo. Dio, ma come ci ero arrivata fin lì? La forza del pensiero? Lo Scopa stop? Come potevo essermelo dimenticata?
    Alzai lo sguardo, e misi a fuoco gli alberi attorno a me. Quand’ero più piccola mi piaceva andare ad esplorare. Dopotutto non c’era nessuno che si preoccupasse della mia incolumità, o che mi aspettasse a casa in attesa del mio ritorno; era così che avevo scoperto di avere dei vicini di casa. Era così che avevo scoperto Liam. Lui mi odiava, e forse lo faceva ancora. Non sapevo mai inquadrarlo nel modo giusto. Un attimo prima non avrei voluto far altro che rompergli un qualsivoglia oggetto contundente sul viso, quello dopo avrei voluto abbracciarlo e sentire che sarebbe andato tutto bene. Perché non c’era almeno qualcosa, qualcosa di piccolo, che fosse normale nella mia vita? E se quella era la normalità, il contrario cosa implicava? Probabilmente avrei preferito non saperlo mai. Probabilmente avrei dovuto ritenermi fortunata di quel che avevo, o al contrario non avevo.
    Sentii un rumore, ma la cosa non mi toccò più di tanto. Sapevo che avrei dovuto alzare lo sguardo, perché non erano molte le cose che potevano fare un rumore simile in una zona del genere. Si trattava sicuramente di un essere vivente, ma lungi da me l’interessarmi ad uno stupido scoiattolo. E poi i fili d’erba erano così affascinanti, ed ignari di tutto. Loro stavano semplicemente lì, incuranti di chi fossi io, dei miei problemi, dei problemi del mondo. sembravano quasi riflettere la luce rosea del tramonto, ma si trattava solo di suggestione.
    Dei passi.
    E di certo non era uno scoiattolo. Non volevo alzare lo sguardo, non sapevo cosa avrei visto. Come si suol dire, si sa quel che si lascia non si sa quel che si trova. Avrei potuto continuare a fare speculazione sui fili d’erba, dopotutto ce n’erano di cose interessanti da dire. E poi non doveva essere qualcuno di importante, magari un turista che si era perso. Un viandante guidato lì da qualche fuoco fatuo, o solo Dio sa cosa ci faceva lì anima viva.
    “Winston, ma che diavolo..”
    Mi sarebbe tantissimo piaciuto fingere di non riconoscere quella voce. poter dire che era una persona qualsiasi che passava per caso e che, per pura fortuna, conosceva il mio nome. Non alzai lo sguardo, ma sapevo che Liam Callaway si stava avvicinando. Solo lui avrebbe potuto trovarmi in un posto del genere. Avrei dovuto aspettarmelo. Il suo tono di voce era così freddo e distaccato, che trovai mille motivi in più per osservare i fili d’erba. Perché lui, fra tutti, doveva comportarsi così? Perché non poteva essere lui la mia ancora di salvezza? Perché era lui a lasciarmi andare alla deriva? Disegnai cerchi con le dita sull’erba.
    “Ti sei ferita con i rami venendo qui?”
    Ferita con i rami? Ma che diavolo stava dicendo? Sapeva benissimo che non mi sarei ferita con i rami di quegli alberi, li conoscevo a memoria. strinsi con forza i pugni sul terreno, affondando le unghie nel terriccio. Non volevo mettermi a piangere, non lo volevo davvero. Specialmente davanti a Liam. Specialmente davanti a quel Liam. Così mantenni lo sguardo basso per minuti che parvero infiniti. Quando alzai gli occhi blu verso di lui, sapevo già cosa ci avrebbe letto. Avrebbe visto tutto, e avrebbe capito, perché era così che funzionava tra noi. Io per lui ero un libro aperto, e lui per me non era altro che una bella copertina. A volte mi permetteva di scorgere alcune parole, frasi che prese da sole non avevano alcun senso, ma a me erano sempre bastate.
    “Liam.. per favore”
    Non sapevo come continuare la frase. Liam per favore, smettila di fingere. Per favore, smettila di comportarti da idiota. Per favore, dimmi che non è colpa mia. Dimmi che andrà tutto bene.
    Perché? L’ho ucciso. L’ho fatto davvero, io.. ho bisogno di..
    Di cosa avevo bisogno? Di sentirmi dire delle bugie? Di tornare indietro nel tempo? Di un abbraccio? Avevo bisogno di Liam, di quello vero? Di svegliarmi e scoprire che era stato tutto un sogno?
    Abbassai nuovamente lo sguardo, non sapendo che altro fare.
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    Liam Callaway

    21 Durmstrang

    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»



    Mi ricordavo mille versioni di Maeve Winston, ciascuna diversa dall’altra come il sole dalla pioggia. Eppure era sempre lei, ogni volta: glielo si poteva leggere in faccia, negli occhi blu come il mare o azzurri come il ghiaccio. Nel sorriso che, nel bene o nel male, aleggiava sempre sulle sue labbra. Ma quella ragazza raggomitolata su se stessa al centro della radura, non aveva niente a che fare con Maeve. Forse perché non aveva nemmeno alzato lo sguardo, nonostante sapessi benissimo che mi aveva sentito. Forse perché sembrava talmente assorta nel suo mondo da essere inquietante. Avevo capito che qualcosa non andava sin da subito. L’irlandese era permalosa quasi quanto me, ed il fatto che non la salutassi quando la incontravo nel castello doveva essere un atto di insubordinazione enorme. Eppure mi aveva scritto. Mi aveva cercato.
    Liam, per favore
    Ed io come un’idiota ero anche accorso, neanche fosse un’altra di quelle principesse in pericolo che non aspettavano altro che il loro principe. Peccato che sia io sia Maeve non eravamo nessuno dei due: eravamo i draghi fuori dalle mura del castello. Non salvavamo né amavamo essere salvati.
    Così avevo sempre pensato. Eppure a pensarci bene, la Winston mi aveva salvato. Rendersene conto era una cosa così spiazzante, che mi parve di vederla sotto una luce diversa. Maeve c’era quando agli altri non poteva importare di meno del sottoscritto. Era una cosa che le avevo sempre fatto pesare, lei ed il suo curiosare dove non doveva, ma io l’avevo amata apprezzata proprio per quello. Il fatto che lei non lo dovesse sapere era secondario.
    Forse toccava a me salvarla. Ma da cosa? L’unica cosa da cui pensavo dovesse essere salvata ero io. E quello non era decisamente il modo migliore per mettere in atto un simile piano di liberazione.
    Continuò a mantenere lo sguardo fisso nel vuoto, mentre giocherellava con i fili d’erba della radura. Avrei voluto andare lì e togliergli quelle erbacce dalle mani, dirle di guardarmi in faccia e dirmi che diavolo stava succedendo. Non ero famoso per la mia pazienza. Invece rimasi fermo a guardarla, studiando il sangue sulle sue braccia. L’avevano torturata? Non sarebbe stata la prima volta. Non vedevo la necessità per cui richiedeva la mia presenza. Che poi, con tutti gli amici che aveva, perché io? ero forse diverso dai suoi compagni? O forse aveva chiamato me perché non sapeva come tornare a casa. L’amico a cui scroccare i passaggi quando non si sa più come ripercorrere la strada di casa. Quella spiegazione sì che aveva senso, ed io che avevo pensato..Perché mi era sembrato così importante? Perché per una volta mi sembrava che qualcuno avesse bisogno di me? Nessuno aveva bisogno di un ragazzo complicato come Liam Callway. Figurarsi la perfetta Maeve Winston.
    Stavo quasi per andarmene, stanco di quella sceneggiata, quando le sue parole mi giunsero come una preghiera.
    “Liam.. per favore”
    Lentamente tornai ad osservarla. Aveva alzato il viso verso di me, e potevo finalmente guardarla. Non sono mai stato il tipo che apprezzava un determinato colore degli occhi, per me un colore valeva l’altro. Sinceramente, per quale motivo in una ragazza avrei dovuto guardare gli occhi, quando c’era tutto il resto che moriva dalla voglia di essere studiato? Però quella volta li guardai, e lo feci davvero.
    Rammarico. Dolore. Rabbia. Odio. E di nuovo quella preghiera: liam, per favore. Cosa voleva da me? Non poteva semplicemente dirmelo come facevano le persone normali? Nel suo tono di voce colsi qualcosa della Maeve Winston che era spuntata senza avviso nella mia proprietà anni or sono. La cosa mi fece quasi sorridere, e l’avrei fatto se la situazione non fosse stata così maledettamente surreale. Strinsi la mascella, reggendo il suo sguardo. “Cosa, Maeve? Pensi che non abbia nulla di meglio da fare che accorrere in tuo soccorso non appena mi mandi una stupida lettera? Dimmi cosa vuoi, così possiamo andarcene”
    Perfido. Distaccato. Annoiato. Era quello il Liam che conosceva il mondo. Era quello che sarei stato per Maeve Winston, quello che avrei dovuto essere sin dall’inizio. Prima o poi avrebbe imparato ad odiarmi, ad odiarmi sul serio come avevano già fatto tanti prima di lei. Non so se avrei sopportato il tipico sguardo ferito anche nei suoi occhi. Sapevo solo che non volevo diventasse come me: poteva avere di meglio dalla vita.
    “Perché? L’ho ucciso. L’ho fatto davvero, io.. ho bisogno di..”
    L’ha ucciso. L’ha fatto davvero. Non importava chi fosse, importava che avesse compiuto quel passo. Quello per cui avevo procrastinato così tanto, nonostante in sala insegnanti se ne fosse già parlato. Loro vedevano delle possibilità in Maeve, e volevano sfruttarle a loro vantaggio. Io non potevo permetterglielo. Non avrei dovuto, eppure ho fallito. Liam Callaway che fallisce qualcosa che gli importa sul serio, strano! Ero bravo in tante cose, tantissime. Però, prendermi cure delle persone non era fra le mie qualità: non ero capace nemmeno di far crescere una pianta abbastanza da vederne i fiori. Una volta ci avevo provato, per pura curiosità: fallimento totale. E guardando Maeve scorgevo quello stesso fallimento. Sentii una fitta dolorosa all’altezza dello stomaco.
    Maeve Winston aveva ucciso, e non era pronta per farlo. Un fardello così grande per una ragazza così.. piccola. Lo sapevo che non era quel tipo di ragazza. Lo sapevo che non potevamo essere amici.
    Eppure.
    Mi sedetti affianco a lei, stanco di fingere che non mi importasse. Iniziare battaglie con me stesso era sempre esilarante, ma a volte era così estenuante che avrei voluto solamente mandare a quel paese tutti e ricominciare un’altra vita da un’altra parte
    Dio mio, Maeve” poggiai la testa sulla mano e tornai a guardarla. Lei aveva già riabbassato lo sguardo, intenta a studiare solo Merlino sapeva cosa nel terriccio umido. Stavo per fare una cosa stupida, ne ero consapevole. Stavo per mostrare quel lato di me che tenevo nascosto perfino a me stesso per paura che un giorno potesse essere abbastanza coraggioso da mostrarsi da solo al mondo. stava per importarmene sul serio. “Maeve, guardami” le poggiai due dita sotto al mento e le alzai il viso. Eravamo amici da tanto, ma non eravamo mai stati per il contatto fisico. Per me la pelle delicata sotto al suo mento era una cosa nuova; mi avvicinai abbastanza da avere il viso alla sua stessa altezza, in maniera che non potesse veder altro che me. “Dimmi di cosa hai bisogno. Dimmelo. Verità? Bugia? Oppure..” scrollai le spalle ma non accennai a mollare la presa. Questa volta avrei saputo quel che mi interessava conoscere, a costo di sembrare troppo duro.
    Dio, avevo bisogno di fumare. E di Whisky magari.
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Strinsi la presa sui fili d’erba. Magari, se li avessi stretti abbastanza, sarei diventata come loro: parte di un prato, nulla più di un filo che veniva spostato solamente dalla brezza leggera. Non sapevo cosa facevo lì, e soprattutto non sapevo cosa ci facesse Liam Callaway. in quel momento era Liam, o il professor Callaway? Ormai non sapevo più riconoscere la differenza: uno sconosciuto dall’aria familiare, ecco cos’era. Eppure non poteva essere una coincidenza: c’era qualcosa, in quel ragazzo, che mi impediva di perdere l’interesse nei suoi confronti. Non potevo smettere di volergli bene, di fidarmi di lui, neanche volendolo. Sapevo che c’era di più di quanto non mostrasse, lo sapevo, lo speravo, lo desideravo. Perché? Perché non potevo semplicemente metterci una pietra sopra? Non sarebbe stata di certo l’unica amicizia finita in malo modo. La risposta la sapevo, ma non volevo ammetterla nemmeno con me stessa: Liam era più di un amico, lo era sempre stato. L’avevo capito perfino Sales, che quando poteva evitava la nostra compagnia. Lo sapeva perfino Liam, ne ero certa. Il punto era che probabilmente nessuno dei due sapeva che cosa fosse esattamente quel più. Forse non eravamo nemmeno pronti a scoprirlo.
    Mi azzardai ad alzare nuovamente lo sguardo. Lessi sul suo viso la solita espressione imperturbabile, eppure capivo anche quanto mi stesse nascondendo. Era arrabbiato. Era angosciato. Perché? Non riuscii a sostenere la sua occhiata indagatrice, ed abbassai di nuovo gli occhi sulle mie dita intrecciate strettamente fra loro.
    “Cosa, Maeve? Pensi che non abbia nulla di meglio da fare che accorrere in tuo soccorso non appena mi mandi una stupida lettera? Dimmi cosa vuoi, così possiamo andarcene”
    Mi immobilizzai, e smisi perfino di torturare le pellicine vicino alle unghie, dalle quali ormai uscivano alcune goccioline di sangue. Non che avesse importanza, si sarebbe mescolato a quello che già era presente sulle braccia. Vittima e carnefice che divenivano una cosa sola, un’altra volta. Le parole di Liam erano uno stilettata al petto. Dovetti assicurarmi di non avere alcuna ferita fisica, perché mi aveva fatto male sul serio. Non le parole quanto il tono che aveva usato: come se fossi un peso. Qualcosa di troppo perfino per lui. Come se i miei fossero solo capricci insensati. E .. lettera? Mi sovvenne alla memoria la mia mano che vergava in modo incerto alcuni caratteri su di una pergamena. L’avevo indirizzata a lui, quindi ecco spiegato il motivo della sua comparsa. Ed ecco qua un’altra azione incomprensibile dell’irlandese: si presenta, ma si comporta come se non l’avesse mai voluto fare. Ingoiai la rabbia, ingoiai la voglia di prenderlo a schiaffi finchè non ne avessi più avuto la forza. Mi dovetti schiarire la voce, prima di parlare. Non volevo che trapelasse la rabbia, né tantomeno la delusione. “Non eri obbligato a venire. Potevi ignorarmi, come hai fatto così spesso nell’ultimo anno”
    Non volevo suonare lagnosa, per cui mantenni il tono di voce più distaccato e glaciale possibile, cercando di imitare l’intonazione di Callaway. Non che fosse facile: era impossibile essere insensibili come lui. A volte mi ero chiesta se ce l’avesse un cuore, o se qualcosa di artificiale gli permettesse di sopravvivere. Se avesse trovato un modo per spegnere i sentimenti.
    E alla fin fine, la storia era sempre quella: nemmeno a lui importava nulla della sottoscritta. Non sapevo più a chi rivolgermi, non sapevo nemmeno perché il mio primo pensiero fosse stato lui. Mi morsi la lingua per non piangere.
    Ora volevo solamente che se ne andasse. O che mi abbracciasse. Ero ancora indecisa, ma propendevo per la prima ipotesi. Gli rivolsi l’occhiata che la situazione necessitava: principalmente rammarico, ma leggendo fra le righe era chiaro il dolore. Solamente lui riusciva a farmi stare così male con sole così poche parole.
    Ero pronta a dirgli tutto: dirgli di andarsene, che non avevo bisogno di lui. Avevo riposto male la mia fiducia, pensavo che lui fra tutti avrebbe capito. Che lui avrebbe trovato le parole giuste, ma evidentemente mi ero confusa. Credevo che.. credevo un sacco di cose. Forse io e Liam non eravamo fatti nemmeno per essere amici. Su cosa poteva basarsi il nostro rapporto?
    Quando si sedette affianco a me, dovetti impedirmi di scostarmi. Rimasi immobile, aspettando le sue accuse. Dopotutto, era una cosa veramente stupida la reazione che stavo avendo, solamente perché avevo privato un altro essere umano della sua vita. Era così che andava il mondo, l’antica legge vigeva sempre: uccidere o essere ucciso.
    “Dio mio, Maeve”
    Era per quel tono che l’aveva chiamato, ne era sicura. Ne aveva bisogno, come l’ultima speranza a cui aggrapparsi prima di cadere nel baratro. Una fiammella nel buio di una caverna. Ecco il bello ed il brutto di Liam Callaway: poteva essere la caverna buia, o quella fiammella. Questo lo rendeva così dannatamente.. pericoloso. E attraente.
    Ti prego, dillo di nuovo.
    Mantenni lo sguardo fisso sulla mia divisa ormai spiegazzata. La gonna era aperta a ventaglio attorno a me, e stranamente era rimasta incolume: nemmeno una goccia di sangue.
    “Maeve, guardami”
    Non posso. Non voglio. Non devo.
    Ne ho bisogno.

    Quando poggiò due dita sotto al mio mento, mi tolse ogni altra alternativa. Rimasi con gli occhi chiusi ancora qualche secondo, incerta su quale fosse l’emozione meno rischiosa che gli potessi mostrare. Quando infine li aprii, non avevo ancora scelto. Ma trovare il suo viso a pochi centimetri dal mio, di certo non aiutava.
    Io e Liam eravamo amici particolari: non ci abbracciavamo, non ci sfioravamo nemmeno per sbaglio. Pensavo fosse solamente perché entrambi tenevamo molto ai nostri spazi personali, ma quando fu così vicino capii improvvisamente il perché fossimo sempre stati tanto cauti: lui era il fuoco, io la falena.
    Malemalemale.
    Quando parlò, sentii il suo fiato accarezzarmi il viso. Sapeva di menta e fumo, sempre lo stesso profumo da che lo conoscevo. Mi inumidii le labbra, improvvisamente secche.
    “Dimmi di cosa hai bisogno. Dimmelo. Verità? Bugia? Oppure..”
    Avrei potuto dire tantissime cose. Avrei potuto perfino citare una cioccorana, diamine, ma lui si meritava la verità. Io mi meritavo la verità. Che conoscevo fin troppo bene, ma che avevo il terrore di dire ad alta voce.
    Avrei potuto rispondergli che volevo una bugia, una rassicurazione. Ma non lo feci.
    “Te. Ho bisogno di te, Liam”
    Non sapevo cosa queste parole implicassero. Non lo sapevo per me, e non sapevo quali sarebbero stati gli effetti su di lui. Probabilmente avevo sbagliato, ma era tardi per rimangiarsi quanto avevo detto.
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    Liam Callaway

    21 Durmstrang

    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»



    Quand’ero più piccolo, avevo all’incirca tredici anni, stavo ore e ore a fissare il soffitto bianco della mia camera. Non che fosse particolarmente interessante, ma era pur sempre un punto di partenza. Su quella tavolozza bianca disegnavo storie che non avrei mai avuto il coraggio di raccontare in giro, rivedevo il giorno in cui i miei genitori se ne andarono, con un masochismo quasi ossessivo. Cercavo di vedere nel piccolo Callaway la pecca che li avesse convinti che non valeva la pena vivere con me, che era meglio fuggire lontani per aver salva la pelle. I due anni a Durmstrang erano bastati per farmi capire che il mondo non era giusto, ma il particolare dell’abbandono continuava ad essere l’apoteosi dell’ingiustizia ai miei occhi. Speravo ancora che un giorno sarebbero tornati, che si sarebbero scusati. Che avrebbero capito il loro errore, che sarebbero stati orgogliosi di vedere i miei progressi. Che li avrei convinti a rimanere. Ma il tempo passava, e di loro non c’era ancora nessuna traccia. Un giorno, guardando sempre il medesimo muro, notai una crepa che, ero sicuro, il giorno prima non c'era. Bastò quel piccolo particolare a farmi cadere addosso la realtà, come un macigno troppo pesante per le spalle gracili del Callaway di allora. Per sopportarlo, avevo faticato tanto. Avevo lottato, mi ero addestrato, avevo sudato e sanguinato fino a diventare quello che ero alla veneranda età di ventun anni. Quello su cui le persone non si ponevano interrogativi, quello che sapevano solamente fosse pericoloso. Mi ero costruito attorno una corazza dura ed impenetrabile: se nessuno aveva bisogno di me, nemmeno io avrei avuto bisogno di loro.
    Accettiamo l’amore che pensiamo di meritare. Io non mi meritavo proprio nulla, e di certo non quello sguardo smarrito da parte di Maeve. Fra tutte le persone, perché proprio lei? Era una delle poche persone cui mi ero ripromesso di non far del male, potendo scegliere. Avevo cercato di evitarla, sperando che comprendesse che tipo di ragazzo fossi. Avevo capito che c’era qualcosa, nel nostro rapporto, che stava prendendo la strada sbagliata. Se non potevo tornare indietro, speravo almeno di costruire altre strade lontane dal mie stesso sentiero.
    Pensavano tutti che fossi uno stronzo, e avevano ragione. Lo ero il 99% delle volte, con chiunque mi capitasse a tiro. Era quell’1% a fregare sia me che loro, convinti di poterlo avere ed ampliare ad un 2, un 5, un 10 magari. Ma si sbagliavano, non potevano farlo. Ero io che non volevo cambiare, che mi intestardivo a rimanere com’ero malgrado tutto. Pensavo che sarebbe stato più facile ignorare il grido d’aiuto di Maeve, una volta arrivato a destinazione. Se non gli avessi dato retta, sarebbe stato meglio per entrambi: ma quell’1% non me l’avrebbe mai perdonato.
    “Non eri obbligato a venire. Potevi ignorarmi, come hai fatto così spesso nell’ultimo anno”
    Stupida ragazzina. Non so chi fosse più stolto dei due, ma il mio amor proprio propendeva verso di lei. Strinsi i denti e distolsi lo sguardo, incapace di sostenere quella non poi così muta accusa. E lei non poteva capire che l’avevo fatto per lei, che essere mia amica le faceva più male che bene. Avvelenavo ogni cosa, lei non avrebbe fatto eccezione. Eppure ero abbastanza egoista da cadere in quel tranello, da fregarmene per qualche secondo e mostrarle un attimo di debolezza. Ci sono momenti nella vita in cui ti trovi a dover fare una scelta: Maeve aveva fatto la sua. Io cosa avrei fatto? I suoi occhi erano strazianti, e nemmeno la mia armatura poteva proteggermi da una lama così ben costruita, fatta di attimi condivisi e parole sussurrate nel buio. Quando le presi delicatamente il mento fra il pollice e l’indice, la vidi tentennare. Sapevo di aver esagerato, sapevo di star superando il limite che mi ero imposto tempo prima. Ma avevo scoperto che i limiti sono molto più malleabili di quanto mi aspettassi, più tendenti all’infinito di quanto avrei creduto. Non aveva nemmeno il coraggio di guardarmi negli occhi, e per un attimo ebbi paura di quello che avrebbe potuto mostrarmi. Nessuno è invincibile, qualcuno finge solo di esserlo.
    Una domanda complessa, per una risposta ancor più difficile. Avrebbe potuto rispondermi un infinità di cose, e le avrei accettate di buon grado. Avrebbe potuto chiedermi di portarla a Las Vegas, ed in quel momento l’avrei fatto. Mi ero lasciato prendere dalla situazione, e per una volta avevo permesso a quell’1% di prendere possesso. Ma lei non poteva fidarsi di me, non poteva fidarsi di quel piccolo barlume di umanità, che riusciva a spegnersi con così poco. Non se lo meritava. Aveva bisogno di qualcuno che fosse sempre al 100%, o perlomeno all’80. Era una brava ragazza, forse ancora troppo innocente per quel mondo così pieno di rancore. L’avevo sempre saputo, anche quando fingeva di essere dura come la pietra. Erano tante le cose che avevo sempre saputo: ad esempio, che saremmo arrivati a quel punto. Il momento in cui erano solo pochi centimetri e poche parole non dette a separarci. Come se ci fossimo incontrati solamente per avere quell’istante, e null’altro avesse importanza.
    Te. Ho bisogno di te, Liam”
    Aveva bisogno di me. Mi ero ripromesso di non aver bisogno di nessuno, e avevo cercato di assicurarmi che per gli altri fosse lo stesso. Evidentemente avevo abbassato la guardia. Ma se Maeve, la mia Maeve, aveva bisogno di me, non potevo ignorarla. Era qualcosa di più forte della mia già debole forza di volontà. Solamente lei riusciva a farmi quell’effetto, ed era per questo che avevo sempre evitato di arrivare ad una determinata intimità. Eravamo entrambi in bilico lungo un confine, ma potevamo ancora stare dalla parte giusta.
    Lo sai cosa mi stai chiedendo, Maeve?” sospirai, sconfitto. Odiavo essere sconfitto, adoravo eccellere in ogni situazione. Lì però non c’era una battaglia, c’erano solo due superstiti che cercavano di salvarsi a vicenda da un baratro che minacciava di ingoiarli. I motivi erano differenti, l’esito era il medesimo. Decisi di essere sincero quanto non mi ero mai permesso di essere: avevo fatto la mia scelta.
    Lo sai che sono un figlio di puttana? Che non sono la persona che tu vuoi credere che io sia? Tu non sai troppe cose di me, Maeve, per farti un’idea di chi io sia. Ho strappato bambini alle loro famiglie, e ne ho gioito. Ho sorriso torturando ed uccidendo, bagnandomi del sangue di persone innocenti. E anche adesso, mentre te lo sto dicendo, non mi importa” mi avvicinai di qualche centimetro, la distanza che ci divideva si faceva sempre più sottile. “Non me ne frega niente. Non m’interessa del dolore che ho causato, non provo disgusto per la Sala delle Torture. Tu non puoi avere bisogno di uno come me. Nessuno ha bisogno di uno come me, anzi: hai bisogno di una persona che ti tenga alla larga da tutti i Liam Callaway del mondo” incoerentemente con le parole che stavo pronunciando, le accarezzai delicatamente la mandibola, fino ad arrivare alle labbra. Erano morbide, nonostante le avesse morsicate con forza. “Mi ubriaco e vado a letto con ragazze che non conosco. Mento sempre, non mi ricordo nemmeno più l’ultima volta che son stato completamente sincero con qualcuno. Tu sei l’unica cosa buona che ci sia nella mia vita, Maeve Winston. Non puoi rovinarti per uno come me” feci un respiro profondo, ma non ritrassi le mani dal suo viso. “Adesso sai cosa mi stai chiedendo?”
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    Maeve Winston
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Ero cresciuta da sola.
    Ero era cresciuta da sola, fin quando non avevo conosciuto Liam.
    E adesso, il ragazzino che mi aveva a stento sopportata stava a pochi centimetri da me, mentre a dividerci c’erano interi paesaggi di parole che nessuno dei due avrebbe voluto pronunciare. Egli sapeva bene quanto me, glielo leggevo negli occhi, che quella sera avrebbe cambiato tutto. Mi ero rivolta a lui, quando avrei potuto chiedere a chiunque altro. L’avevo fatto senza pensarci, semplice come respirare. Sapevo che lui mi avrebbe capito anche se non avessi detto niente, perché con lui era sempre stato così. A prima vista sembrava un ragazzo freddo e superficiale, scalfibile tanto quanto potrebbe esserlo la superficie del diamante più puro. Ma quello che sembrava diamante era già stato scalfito, e anziché sembrare rovinato, ai miei occhi non faceva altro che essere più luminoso.
    E questo era dannatamente male. Conoscevo Liam, ma solamente la parte che lui aveva voluto conoscessi. Era un manipolatore: per questo il suo comportamento mi spiazzava, troppo naturale rispetto a quello cui ero abituata; un seduttore nato, qualunque cosa facesse: colpa della sua grazia naturale, del modo in cui gesticolava e di come muoveva le labbra,tutto dannatamente studiato. O forse no? E, soprattutto, era un bugiardo. Anche se, Merlino mi perdoni, avevo voluto poche cose nella mia vita quanto volevo che il suo comportamento fosse sincero quella volta.
    Ecco, non capivo. Odiavo le cose che trascendevano la mia comprensione, preferivo di gran lunga avere tutto sotto controllo. Non potevo.. non potevo e basta. Non sapevo come reagire alla sua vicinanza improvvisa, al contatto delle sue dita sotto al mento, ai suoi grandi occhi suri che sembravano ingoiare veleno e sputare miele.
    “Lo sai cosa mi stai chiedendo, Maeve?”
    Il senso di torpore ed apatia venne scosso da un improvviso moto di rabbia, mentre stringevo i denti ed i pugni. No, ovviamente non lo sapevo. Ma che stupide domande stava facendo? Non vedeva quanto fossi smarrita, quanto non sapessi nemmeno da che parte ero girata? Non sapevo cosa volevo, né cosa gli avevo appena chiesto. Non sapevo se volevo una risposta, se volevo che mentisse, se volevo che mi riportasse a casa, se volevo credere che fosse solo un incubo. Non sapevo nulla, se non che Liam Callaway, dimentico di essere docente, mi stava facendo davvero arrabbiare.
    Anzi, mi faceva arrabbiare il fatto che sapesse benissimo cosa gli stavo chiedendo: di essere il Liam che avevo imparato ad amare. Era impossibile non affezionarsi ad un tipo come lui, il quale lasciava sempre mille domande in sospeso e ti spingeva a chiederti per quale motivo non aveva risposto nemmeno ad una di esse. Quello che con poche parole riusciva a distruggere un castello costruito su anni di parole sussurrate nell’oscurità, e che con un solo sorriso lo ricostruiva. Quello che, se gli toccavi le sue sigarette, rischiava di perdere il senno, ma che rimaneva impassibile di fronte alla tortura più cruenta. Quello che con la sua freddezza nascondeva un Liam buono, ne ero sicura. Volevo esserne sicura.
    Scossi la testa mentre Liam mi elencava tutte le sue qualità. Improvvisamente mi alzai in piedi, graffiandomi il mento sottratto improvvisamente alla sua presa ferrea. “Lo so, Liam, lo so!” gridai. Sapevo per certo che non mi avrebbe sentito nessuno, in quel posto. C’eravamo solo io, lui, e le domande in sospeso. “Mi hai forse preso per un’idiota? So chi sei, Liam. A volte ho perfino pensato che un cuore nemmeno ce lo avessi. Ed io, io” sottolineai l’ultima parole con una risata forzata. “Sarei l’unica cosa buona? Guardami, guardami ora e ripetilo! Questo sangue” con una mano mi sfregai violentemente il sangue incrostato dal braccio. “Non è mio. Capisci? Siamo macchiati dallo stesso sangue. il fatto che tu non faccia una piega, non vuol dire che ti piaccia. Io so, che io sia dannata, lo so che non sei solo questo. Altrimenti, perché saresti venuto? Perché ci tieni a me, Liam? Io non ho nulla da offrirti. Non ho nemmeno il tuo ostentato disinteresse con cui proteggerti dal mondo esterno. Io non sono buona quanto tu credi che io sia. Forse sei tu, che non mi conosci affatto” abbassai lo sguardo improvvisamente adirato su di lui.
    C’erano cose che non avevano bisogno di essere capite, dovevano solo essere vissute. Ero arrabbiata con lui perché stava rendendo le cose difficili, mi stava mettendo di fronte ad una consapevolezza che non ero pronta ad accettare. Era come essere forzati a riconoscere la propria immagine allo specchio, quando non si aveva alcuna voglia di vedere in quei tratti sé stessi. Cominciai a passeggiare nervosamente avanti e indietro, allontanandomi sempre di più dalla sua slanciata figura sul prato. “Anzi, ti dirò di più: grazie. Forse hai ragione te. Probabilmente sono io che negli altri vedo sempre troppo, sono una stupida; ho pensato che..” mi interruppi. “niente, non ho pensato un bel niente” sussurrai alzando gli occhi al cielo, conscia che quello stupido monologo era almeno riuscito ad allontanarmi dall’apatia iniziale. Probabilmente era questo che serviva per uscire di volta in volta dal baratro: problemi nuovi da affrontare. Mi presi la testa fra le mani. “Qual è il tuo problema, Liam Callaway? Perché non puoi semplicemente accettare ciò che gli altri ti offrono? Pensi forse di non meritartelo? Non sei diverso da tutti gli altri, sei solo uno fra i tanti. Io, sono l’eccezione. Io, che per un omicidio sento di aver ucciso anche me stessa. E vorrei essere come te.. Dio, se lo vorrei! Ma non ci riesco. Non mi sono mai ritenuta buona, ma non ce la faccio. Dimmi cosa devo fare. Fai qualcosa, anziché fissarmi con quell’espressione vacua! Sei l’uomo delle risposte, giusto? Bene, dammene una” mi fermai di fronte a lui, senza però abbassarmi al suo livello, lasciando che torcesse il collo per riuscire a guardarmi negli occhi. Gioendo di quel senso di superiorità dato dalle diverse posizioni in cui eravamo. Le parole uscirono prima che me ne potessi accorgere razionalmente. Ormai ero un fiume in piena, ed ero pericolosa persino per me stessa. Con uno sguardo di sfida, di cui probabilmente sarebbe stato fiero, fissai Liam Callaway. “Mi vuoi bene?”
    Anche se sono ancora sporca del sangue di qualcun altro?
    Anche se io non ti posso offrire niente?
    Anche se tutto questo non ha alcun senso?
    Anche se fino all’altro ieri litigavamo per chi prendeva il bicchiere più pieno di whisky?
    Anche se, quando mi guardi, vedi solo la ragazzina con cui sei cresciuto?
    Anche se in questo mondo non c’è spazio per l’amore?
    Anche se ti ho insultato?
    Se non mi vuoi bene, almeno non odiarmi per favore. Non potrei sopportarlo.

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    mangiamorte• 21 • storia della magia
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    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»
    Dio, stavo così bene, così dannatamente bene, prima che quella stupida ragazzina cominciasse a fare i capricci. Giocava con cose troppo grandi per lei, che nella sua limitata mente di diciassettenne non arrivava a comprendere. Avevo solo quattro anni più di lei, ma vedevo tutto molto più chiaramente. Avevo la capacità di estraniarmi da tutto e vedere il così definito quadro completo, vedevo dove avrebbero dovuto inserirsi i tasselli, e cosa avrei dovuto fare per farli arrivare al posto giusto.
    E poi era arrivato quel maledettissimo pezzo di puzzle, che non aveva un suo spazio predefinito. Si scavava a forza il luogo in cui stare, cambiando gli eventi, cambiando tutto il quadro generale, per un semplice capriccio dettato dagli ormoni. Io potevo decidere cosa fare della mia vita, ma non potevo farlo anche per gli altri, nonostante la cosa mi dolesse alquanto.
    Gesù, ero l’incoerenza fatta persona: un momento prima le dicevo che ero un assassino, quello dopo la accarezzavo con quelle stesse mani che avevano grondato sangue innocente. Sono sempre stato convinto di avere avuto il pieno controllo sulla mia vita; mi ero semplicemente illuso di non poter essere umano, almeno per un po’. Gli umani provavano un sacco di cose, e lo facevano tutte insieme: amore, odio, lealtà. Ma non sarebbe stato più facile spegnere tutto? Godersi ciò che Madre Natura mi aveva dato grazie al fascino dei Callaway, e lasciar da parte le ancore emotive che quelle barche avrebbero portato con sé? Avevo avuto una sola eccezione in vita mia, Aaron Sales. Con lui avevo la certezza di esistere, perlomeno. E non c’erano Callaway sbagliati o giusti, c’era solamente Liam. Il fatto che nemmeno io sapessi chi fosse, era un dettaglio alquanto rilevante nel quadro d’insieme.
    Ma se il quadro era stato smontato, dove potevo leggere le mie certezze? Dove potevo vedere chi ero, e cosa avrei fatto? Di certo non sarei diventato quello che leggevo negli occhi di Maeve. Quella ragazzina non si accorgeva di quanto fosse trasparente la sua espressione, e vi assicuro che quel che vidi non mi piacque affatto. Non capiva, semplicemente non poteva capire.
    Lo sguardo della Winston divenne deciso, mentre si sottraeva alla presa delle mie dita e si alzava in piedi con irruenza. Rimasi accucciato per terra, dove fino ad un attimo prima era seduta anche la ragazza, alzando gli occhi scuri e cercando di capire dove diamine volesse andare a parare. Alzò persino la voce, ma la cosa non mi preoccupò affatto: non c’erano case nelle vicinanze, quindi poteva urlare quanto voleva. L’unico che l’avrebbe udita ero io: poteva anche sgolarsi, se l’avesse fatta sentire meglio. Repressi un sorriso, conscio che quella fosse la Maeve Winston che si era presentata a casa mia spuntando dal nulla, tenace come solo i ragazzini possono essere. Riconobbi nella posa dura delle labbra, la ragazza a cui avevo lentamente e poco cautamente lasciato un posto nel mio cuore: quella combattiva, quella che reagiva. Quella che non rimaneva inerme davanti al suo destino, ma lo prendeva fra le mani e lo modellava a suo piacimento.
    “Mi hai forse preso per un’idiota? So chi sei, Liam. A volte ho perfino pensato che un cuore nemmeno ce lo avessi. Ed io, io”
    Che un cuore nemmeno ce lo avessi.
    L’avevo pensato anche io, ma il fatto che l’avesse detto lei mi alterò alquanto. Chi era lei per decidere o meno quanto ancora di umano ci fosse nella mia persona? Che ne sapeva lei di cos’era un cuore? Di cosa poteva nascondere? Era solo una.. stupida. Strinsi i denti e continuai a guardarla, ma il mio sguardo si fece meno amichevole ogni istante che passava. Divenne duro come la pietra, scuro come l’ossidiana.
    “Sarei l’unica cosa buona? Guardami, guardami ora e ripetilo! Questo sangue”
    Se pensava che fosse quello a renderlo meno buona ai miei occhi, sbagliava di grosso. Dio santo, aveva ucciso qualcuno! E quindi? Succedeva ogni giorno, in ogni momento. Prima o poi sarebbe dovuto succedere. Quel sangue, quello che lei indicava con tanta stizza, era solo un altro simbolo della sua forza. Ma, Dio, quella donna era testarda come un mulo. Continuai a guardarla, ma rimasi a bocca chiusa. Volevo attendere che finisse il suo monologo, prima di interromperla e farla tacere una volta per tutte.
    “Non è mio. Capisci? Siamo macchiati dallo stesso sangue. il fatto che tu non faccia una piega, non vuol dire che ti piaccia. Io so, che io sia dannata, lo so che non sei solo questo. Altrimenti, perché saresti venuto? Perché ci tieni a me, Liam? Io non ho nulla da offrirti. Non ho nemmeno il tuo ostentato disinteresse con cui proteggerti dal mondo esterno. Io non sono buona quanto tu credi che io sia. Forse sei tu, che non mi conosci affatto”
    Non sei solo questo. E un attimo prima mi diceva che pensava non avessi un cuore. La coerenza non era di casa, in famiglia Winston. Ma non la corressi, rielaborai invece quanto mi aveva detto: non potevo darle torto. Lei, di suo, non poteva darmi niente. il punto è che, in realtà, io non le avevo chiesto assolutamente niente. Dato che lei sembrava convinta del contrario, la lasciai sfogarsi un altro po’. Perché ci tenevo a lei? Quella era tutto un altro paio di maniche, ed io non me l’ero mai sentita di dare una risposta a quella domanda in particolare.
    “Anzi, ti dirò di più: grazie. Forse hai ragione te. Probabilmente sono io che negli altri vedo sempre troppo, sono una stupida; ho pensato che..”
    Inarcai sarcasticamente un sopracciglio, ma non completò mai la frase. Sarei morto senza sapere cos’aveva pensato: probabilmente era meglio così. E di nuovo non potevo darle torto: indubbiamente lei vedeva troppo negli altri. Riusciva persino a vedere qualcosa nel sottoscritto. Non dico che non ci fosse, ma avevo impiegato anni per nascondere tutto sotto la sabbia; non pensavo che proprio lei fra tutti sarebbe riuscita a scorgerlo, e pensare che con lei ero stato sempre più cattivo che con altre ragazze.
    Qual è il tuo problema, Liam Callaway? Perché non puoi semplicemente accettare ciò che gli altri ti offrono? Pensi forse di non meritartelo? Non sei diverso da tutti gli altri, sei solo uno fra i tanti. Io, sono l’eccezione. Io, che per un omicidio sento di aver ucciso anche me stessa. E vorrei essere come te.. Dio, se lo vorrei! Ma non ci riesco. Non mi sono mai ritenuta buona, ma non ce la faccio. Dimmi cosa devo fare. Fai qualcosa, anziché fissarmi con quell’espressione vacua! Sei l’uomo delle risposte, giusto? Bene, dammene una”
    Con una lentezza esasperante, alzai gli occhi al cielo e li puntai di nuovo seccamente sulla sua persona. Cosa c’era che non andava in me? Ma si rendeva conto di quello che diceva, almeno? Lei, era l’eccezione. Ma che brava ragazza. Stupida ed egocentrica. Non voleva un espressione vacua? Che peccato, era l’unica che le avrei fornito, fintanto che non mi avesse lasciato il tempo di parlare.
    “Mi vuoi bene?”
    Non avrei potuto immaginare una domanda simile, altrimenti mi sarei preparato meglio. L’espressione vacua lasciò spazio ad un espressione stupita, subito sostituita dalla rabbia. Avrei voluto farla tacere con la forza, così magari avrebbe evitato di ficcarci in quel guaio. E invece no, faceva domande scomode. Avrei dovuto occuparmene molto, molto tempo prima. Mi alzai in piedi, decidendo che fosse arrivato il mio momento.
    “Tu, sei un’idiota. Il mio problema? Adesso sono io ad averne uno? Ma ti sei guardata allo specchio, recentemente?” mi allontanai di un passo per poterla guardare meglio. “ E senti quello che dici? Io non accetto ciò che gli altri mi offrono, perché è un’arma a doppio taglio, stupida ragazzina” risposi, passandomi le mani fra i capelli e trattenendomi dal stringergliele al collo. “Accettare qualcosa e non dare niente in cambio, è un debito che non voglio avere. Ed io, non voglio dare niente a nessuno.” Mi fermai e la guardai, cercando nel suo sguardo un minimo di comprensione. “Non volevo..” precisai, quasi in un sussurro a me stesso. “Cercherò di spiegare brevemente la situazione, così magari ti entra in quella zucca vuota. Ci sono poche cose di cui ho paura, di cui ho davvero il terrore. E sono un vigliacco: le paure non le affronto, preferisco non risvegliarle. Io ho paura ..” Dio, non glielo stavo dicendo davvero. “ .dell’amore” sputai la parola fra le labbra. “O di quello che si narra tale. Perché scivola via dalle mani quando proprio pensi di averlo stretto abbastanza: e se cade, si rompe. Non esiste incanto né rimedio babbano che possa ripararlo. Io non lo voglio. Non lo voglio per me, nè le voglio rivolgere a qualcun altro: questo avevo deciso per la mia vita. Ero un ragazzino cocciuto, e fiero della mia decisione” mi interruppi, guardando un punto lontano nell’orizzonte. Mordendomi il labbro e scuotendo la testa, tornai a rivolgermi a Maeve. “Un giorno è arrivata una ragazzina, ed ha cambiato completamente la mia visione del mondo. Lei sorrideva, e donava, e.. lo faceva perfino con me, che nessuno aveva mai amato” non c’era rammarico nella sua voce, era solo un dato di fatto. Sentii il sangue scorrermi più veloce nelle vene, ed il cuore battere contro la gabbia toracica. Ma perché diamine stavo dicendo tutto quello? Rivolsi la rabbia che avrei dovuto volgere a me stesso, contro la giovane corvonero. “Lo capisci cos’hai fatto? Hai creato un mostro. Incapace di amare come dovrebbe. Tu, sei tu non hai un cuore” ogni parola era un passo verso di lei, e quando conclusi a superare i nostri copri non v’erano altro che pochi centimetri. “Sai qual è la cosa bella?” risi, un suono incredibilmente triste. “Che a me non importa. E ti dirò di più” mi chinai abbastanza da sfiorare con le labbra il suo orecchio “Tu hai creato questo” mi spostai lentamente, fino ad avere gli occhi alla sua stessa altezza. “Tocca a te distruggerlo” Respiravamo la stessa aria, ma io ero stanco di fingere che quello mi bastasse. Avvicinai le labbra alle sue, passando le mani sulla sua nuca e stringendola con più forza di quella necessaria.
    Merda, mi ero innamorato di Maeve Winston.
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Spesso le persone ignoravano quanto il peso delle loro azioni, o delle loro parole, potesse stravolgere la vita di un singolo individuo. Come una frase buttata lì per caso potesse assumere mille e più significati, come un gesto fatto ingenuamente potesse far crollare perfino i castelli meglio costruiti.
    Come una sequenza di frasi mai completate potesse portare ad una reazione a catena tanto vasta da cambiare la vita di due persone, in un modo così drastico da lasciarli privi di una direzione in cui andare. C’era qualcosa di sbagliato, e qualcosa di fin troppo giusto, nell’essere in quella radura assieme a Liam. C’erano un sacco di cose che avrei voluto dirgli, rinfacciargli, rivelargli, sussurrargli, urlargli, domandargli. E la scelta era così vasta che era come pescare in un calderone bollente dove gli ingredienti erano immiscibili fra loro, ingredienti che non potevano coesistere gli uni senza gli altri. E alla fine ero stata più sincera di quanto avrei voluto essere: mi ero spogliata di quanto avevo sempre presunto di essermi avvolta addosso, e giacevo lì, nuda di fronte allo sguardo di un predatore. E stavo lì, come una candela accesa in un granaio che brucia. Lì, come una foglia sull’oceano: incosciente di come avesse fatto ad arrivarci, ma incapace di tornare indietro. E quello che vedevo negli occhi di Liam, era così grande che avrei voluto voltarmi e fuggire, e fingere che non fosse successo niente, e abbracciarlo, e chiedergli scusa, e dirgli che non avrei dovuto dirlo, e dirgli che non lo pensavo.
    E lo vedevo allontanarsi lentamente, e avrei voluto riportarlo indietro. Vedevo nei suoi occhi il mio riflesso: una ragazza che aveva tutto da dire e non aveva parole per farlo. E come al solito riuscivo a dire la cosa sbagliata, perfino in un momento in cui nulla era giusto. Errori fra gli errori, come un circolo vizioso da cui era impossibile uscire.
    E mi guardava, e non diceva niente. E mi giudicava, e mi perdonava, e mi condannava senza mai cambiare espressione.
    La domanda mi sorse così spontanea dalle labbra, che non avrei potuto ritrattarla nemmeno volendo. Ma mai mi sarei immaginata una reazione sensibile. Avevo pensato che magari avrebbe riso, prendendomi per sciocca. Se avessi anche solo vagamente immaginato tutta quella rabbia, avrei portato quell’interrogativo nella tomba.
    Tu, sei un’idiota. Il mio problema? Adesso sono io ad averne uno? Ma ti sei guardata allo specchio, recentemente? E senti quello che dici? Io non accetto ciò che gli altri mi offrono, perché è un’arma a doppio taglio, stupida ragazzina”
    Ovviamente ero io la stupida, l’idiota. Non che mi fosse mai passato nell’anticamera del cervello che Liam Callaway avrebbe incassato, e accettato di buon grado tutti gli insulti che gli avevo rivolto. Era un classico che affibbiasse a me tutti quei simpatici epiteti: ma perlomeno, stava di nuovo prendendo piede la rabbia. Avrei potuto tenergli testa.
    Se solo avessi capito quanto mi aveva detto: un’arma a doppio taglio?
    “Accettare qualcosa e non dare niente in cambio, è un debito che non voglio avere. Ed io, non voglio dare niente a nessuno.”
    Certo, che sciocca.
    “Non volevo..”
    Un tuffo al cuore. Ma potevo aver capito male, dato che si era trattato di un semplice sussurro. Probabilmente avevo capito quello che avrei voluto sentire in quel momento: capitava, a volte. Mi morsi l’interno della guancia, e mi impedii di abbassare nuovamente lo sguardo a terra. Se voleva giocare sporco, come avevo fatto io d’altronde, gli avrei retto il gioco. Non avrei interrotto il contatto visivo nemmeno se ne fosse costata la vita.
    Cercherò di spiegare brevemente la situazione, così magari ti entra in quella zucca vuota. Ci sono poche cose di cui ho paura, di cui ho davvero il terrore. E sono un vigliacco: le paure non le affronto, preferisco non risvegliarle. Io ho paura ..”
    Non potei nascondere un’espressione sorpresa. Liam stava dicendo a me qual era il suo punto debole? Mi stava rivelando una sua debolezza? E io che avevo cominciato a pensare che fosse indistruttibile. Che sotto la corazza non ci fosse altro che altra corazza, e ancora, e ancora.
    dell’amore. O di quello che si narra tale. Perché scivola via dalle mani quando proprio pensi di averlo stretto abbastanza: e se cade, si rompe. Non esiste incanto né rimedio babbano che possa ripararlo. Io non lo voglio. Non lo voglio per me, nè le voglio rivolgere a qualcun altro: questo avevo deciso per la mia vita. Ero un ragazzino cocciuto, e fiero della mia decisione
    Mi vennero in mente parole che mi aveva detto in quella stessa radura tempo fa. Quando mi aveva raccontato che dei suoi genitori non aveva più avuto notizie. L’aveva fatto con lo stesso tono con cui io avrei potuto parlare delle arance in Sala Grande, ma era stato un dettaglio in più sulla vita di quel ragazzo che tanto faceva pensare e nulla diceva. Non avevo mai pensato a quanto la cosa avesse potuto influire sulla sua vita: ero stata un’egoista. Chi si aspetterebbe un comportamento diverso, da Maeve Winston? Avevo accusato Liam di essere insensibile: a carte scoperte, non sapeva chi avesse torto e chi ragione. Cercai di non soffermarmi troppo sull’uso del tempo verbale passato. Magari era una coincidenza. Un modo di dire. Poteva non significare nulla.
    Nulla.
    “Un giorno è arrivata una ragazzina, ed ha cambiato completamente la mia visione del mondo. Lei sorrideva, e donava, e.. lo faceva perfino con me, che nessuno aveva mai amato”
    Che nessuno aveva mai amato. Cos’era accaduto a Liam Callaway? da che lo conoscevo, ancora non aveva scoperto che fine avessero fatto i suoi genitori. Lui non sembrava darci importanza, e io non vi avevo mai prestato attenzione, troppo presa dai meii racconti. Non lo avevano amato abbastanza? Ma non poteva essere colpa sua. O forse sì? Ma quali genitori non amano il proprio figlio? Quanto avrei voluto conoscerlo prima, sapere com’era. Chissà se l’avrei amato comunque, o se da subito mi aveva attirato il fatto che nessuno se ne prendesse cura. Magari inconsciamente avevo deciso che sarei stata io la prima.
    Oppure era stato tutto un enorme fraintendimento, e dopo anni ne pagavamo le conseguenze.
    Lo capisci cos’hai fatto? Hai creato un mostro. Incapace di amare come dovrebbe. Tu, sei tu non hai un cuore”
    Scossi la testa, incapace di comprendere fino in fondo la situazione in cui c’eravamo cacciati tanto incautamente. Forse, alla fin fine, aveva ragione: ero io a non avere un cuore. Forse ero stata talmente concentrata su me stessa, da non rendermi conto che avevo perso quella cosa che mi rendeva tanto bella ai suoi occhi: un cuore.
    O forse lui era ancora il bastardo senz’anima, ed io stavo diventando troppo suscettibile.
    “Sai qual è la cosa bella?”
    Scossi nuovamente la testa, temendo però la sua risposta. Il suono di quella risata mi aveva spaventato: conteneva un mondo di cose che io non avrei mai voluto immaginare, figurarsi conoscerle. “Che a me non importa. E ti dirò di più” Non gli importava di cosa? Di essersi ripromesso di non amare? O che io non avevo un cuore? O entrambe le cose? Ormai era così vicino che mi era difficile persino pensare. Eravamo amici da tanto tempo, ma non ci eravamo mai spinti oltre a causa di quello: non era mai stata un’amicizia serena, la nostra. Sentivamo che c’erano dei limiti, che superata una certa distanza non si sarebbe potuti tornare indietro. Sentivo che la sua pelle mi chiamava, sentivo che il suo profumo era quello che avevo sempre voluto sentire. Sentivo che non era abbastanza vicino. Eppure non andava bene. Eppure era tutto perfetto.
    Tu hai creato questo” Rabbrividii quando le sue labbra mi sfiorarono delicatamente il lobo. Si allontanò di qualche centimetro, finchè i suoi occhi color della notte non furono alla mia stessa altezza. Ecco cos’eravamo, io e lui: notte e giorno. costretti ad inseguirsi tutta la vita senza ma raggiungersi. L’uno non poteva esistere senza l’altro, ma non avrebbero mai potuto completarsi a vicenda. Eppure, mentre Callaway era così vicino, avrei rischiato. “Tocca a te distruggerlo” Perché da quando avevo dodici anni, e non ero altro che una ragazzina ingenua;
    da quando avevo dodici anni, e avevo posato lo sguardo sullo strafottente sedicenne della casa accanto;
    da quando avevo dodici anni, e avevo sfiorato delicatamente le sue cicatrici mentre giaceva abbandonato al sonno in una pozza di sole,
    ero innamorata di Liam Callaway. Proprio io, che all’amore non avevo mai creduto. Io, che sopra ogni pelle che aveva sfiorato la mia avevo cercato il suo profumo, che in ogni bacio avevo cercato il suo sapore senza nemmeno sapere che fosse lui quello che mi mancava. Io, che avevo sempre scacciato l’idea per paura di farmi troppo male.
    Perché Liam Callaway faceva male. Sentivo che la sua vicinanza bruciava come una fiamma, ed io non ero altro che uno stoppino che nulla poteva se non accendersi.
    Ma non potevo.
    Quando le sue labbra sfiorarono le mie dapprima delicatamente, e poi con più forza, non avrei voluto far altro che stringerlo ancora di più e godermi qualche attimo di pace. Era come aver raggiunto una tregua dopo anni di guerra, ma la firma al trattato di non belligeranza non l’avevo ancora apposta.
    Lo spinsi via, strappando la sua mano dalla mia nuca –anche se sembrava fatta per stare lì- strappando quell’amore che ancora doveva sbocciare.
    “Non possiamo. E io ti odio” Non avevo staccato un attimo gli occhi dal suo viso. Improvvisamente avevo il fiatone, e non sapevo perché. Senza pensarci sollevai una mano e gli tirai uno schiaffo sulla guancia: il suono secco fu udibile fino a casa mia, ne ero certa. “E ti odio anche di più, perché distruggerti ucciderebbe anche me. E ti odio perché siamo arrivati a questo punto. E ti odio perché siamo uguali, e diversi al tempo stesso.” Eppure mi ero avvicinata di nuovo, e non mi ricordavo nemmeno di aver mosso un passo. E invece avevo alzato il viso verso di lui, ed io me ne accorgevo solamente quand’era troppo tardi. Ormai sussurravo sulle sue labbra. “E ti odio perché ti amo, Liam Callaway, ma amarti mi distrugge.
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    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»
    Mi sentivo quasi svuotato. Era una sensazione strana, come se tutto quello che avessi sempre tenuto dentro avesse lasciato il mio corpo per andare chi sa dove, lasciandomi come un involucro cui contenuto non aveva più peso nella società. Mi ero sentito freddo tante volte, così distaccato dal mondo da sembrare vuoto; ma quella stanchezza emotiva, diavolo no. Volevo quasi lasciar fare tutto a Maeve, e prendere ogni sua decisione come la cosa giusta da fare. Volevo smettere di pensare, e agire secondo quanto gli istinti più radicati nell’uomo imponevano. Volevo chiudere gli occhi e scoprire che era stato un errore, che Liam Callaway non aveva fatto quel passo falso. Che poi, con tutti gli sbagli che in vita mia potevo fare, ed erano ben tanti, dovevo per forza innamorarmi dell’unica ragazza che non volevo avere? Non dico potevo: lo leggevo nei suoi occhi, leggermente da sociopatica in quel momento, che avrebbe potuto ricambiare. Il punto è che per una volta, una sola maledettissima volta, volevo fare quello che era giusto per la vita di qualcun altro, e non la mia. Egoisticamente però volevo godermi appieno quel momento, sapendo che non si sarebbe ripetuto, sapendo che dovevo fare quanto era in mio potere per ricordarmi di quelle sensazioni che nessuna mi aveva mai fatto provare.
    E mi sentivo così patetico che stentavo a riconoscermi. Forse perché quella era una parte del Liam che avrei potuto diventare se le cose non fossero andate com’erano andate. Se i miei genitori fossero stati presenti, se mi avessero dimostrato .. qualcosa. Però non ero quel Liam, e non potevo permettermi di diventarlo. Per me, per lei, e per quel fottutissimo mondo magico che si ostinava a pensare che niente stesse cambiando.
    Quando però sfiorai le labbra di Maeve, sentii che per quello avrei potuto anche fingere per il resto della mia vita che tutto andasse bene. Era lì che avrei sempre voluto essere, sin da quando l’avevo vista sbocciare e da bambina divenire una giovane donna sotto i miei occhi. Quando le sue labbra si erano fatte più rosee e carnose, in attesa solamente di qualcuno che sapesse cogliere il bene che aveva da offrire. La Winston non era adatta a quella vita; l’unica cosa che potevo fare per lei, era sperare che trovasse qualcuno più adatto di me a proteggerla da quella merda. Non avrei potuto farlo io: io ero quella merda.
    Si allontanò di scatto, troppo presto per i miei gusti. “Non possiamo. E io ti odio” I suoi pensieri non erano che un eco dei miei. Preferii non soffermarmi su quale fosse il motivo per cui lei pensava che noi non potessimo avere una storia; il suo unico limite probabilmente era il rapporto insegnante studentessa, da brava alunna qual era. Che tristezza, pensare che quello era invece il mio problema minore; come se insegnare in una stupida scuola fosse la mia aspirazione più grande nella vita. Il fatto che mi odiasse non mi sfiorò nemmeno, sapevo che non ci credeva nemmeno lei. Sorrisi amaramente, socchiudendo gli occhi per poi scuotere la testa: l’intera situazione era talmente innaturale da essere perfetta nella sua imperfezione. Non avrei chiesto di meglio, e mi sentivo un idiota.
    Lo schiaffo fece male, più perché non me l’aspettavo che per l’atto in sé. Strinsi la mascella e rimasi impassibile, voltando leggermente il capo per l’impatto come per il peggiore dei film. Sembravamo due attori costretti a recitare la scena da un regista sadico e con un pessimo senso dell’umorismo.
    “E ti odio anche di più, perché distruggerti ucciderebbe anche me. E ti odio perché siamo arrivati a questo punto. E ti odio perché siamo uguali, e diversi al tempo stesso.”
    Ogni parola faceva male come una pugnolata, e bene come una doccia fresca in una giornata d’estate. Con lei era sempre stato così: tutto ciò che faceva male, era quello che faceva più bene. Non seppi come replicare, dato che da una parte le davo ragione: anche io mi odiavo per tutta quella situazione. Avrei voluto odiare lei, ma ci avevo provato troppe volte con scarsi risultati: è difficile chiudere la porta in faccia all’unica persona che viene a bussare con il sorriso sulle labbra, felice per il semplice fatto di vedervi. Però io e lei non eravamo uguali, nemmeno lontanamente. Lei, malgrado quanto aveva detto, in me vedeva solo del buono, ma si sbagliava; io mi accettavo com’ero, sadico e ingiusto. Non ero diverso da come dimostravo di essere. Quella piccola parte che lei si era intestardita a scoprire, non era un iceberg che lasciava trapelare solo la punta, nascondendo sotto acque profonde il resto: era semplicemente una piccola, e sacrificabile, parte.
    “E ti odio perché ti amo, Liam Callaway, ma amarti mi distrugge”
    Lei amava solo quella parte: io l’amavo tutta, anche con la parte sadica e ingiusta che lei fingeva di non vedere in me. Ogni parola si era fatta più vicina, e ormai le nostre fronti quasi si sfioravano. Avrei potuto respirare la sua stessa aria fino a che non vi fosse più stato ossigeno, avrei potuto rimanere così per un sacco di tempo. L’avevo desiderato così tanto. Così tanto, e potevo approfittarne così poco che volevo godermi tutto quello che quell’attimo poteva offrirmi. Una sola parola avrebbe causato il contatto fra le nostre bocche, così vicine; sapevo che era quello che voleva anche lei, eppure mi crogiolai ancora un attimo in quell’attesa esasperante. Lei mi amava, il che era un bel problema: potevo sopportare di amare qualcuno e non essere ricambiato, dopotutto era già successo con le due persone che mi avevano messo al mondo. Potevo ignorare quel dolore, e potevo soffocare l’impulso egoistico di fregarmene e tenerla tutta per me. Ma per il suo amore? Sapevo cosa dovevo fare, purtroppo. Lo sapevo con ogni cellula del mio corpo, in un modo così netto come avevo saputo poche cose nella mia vita. Sorrisi lentamente, mettendo da parte quei pensieri, lasciando uscire quella parte di cui lei ingenuamente si era innamorata. Le presi una ciocca di capelli e gliela misi dietro l’orecchio, quindi sfuggii alle sue labbra poggiando le mie sull’incavo del collo. Risalii lentamente sfiorandole il collo con piccoli baci che non facevano altro che sfiorarle delicatamente la pelle, finchè non giunsi all’orecchio, dove sussurrai nel tono divertito che avevo sempre usato per stuzzicarla: “Sapevo che non avresti resistito al mio fascino, sei fin troppo prevedibile Winston.” Zigomo, guancia. Mi soffermai sopra le sue labbra, gli occhi scuri che luccicavano maliziosamente. “Chiedimelo per favore, e magari posso perdonarti lo schiaffo di prima e concederti un’altra possibilità. E poi osano dirmi che non sono magnanimo”
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Non avrei immaginato che avrei detto a Liam Callaway che ero innamorata di lui, principalmente perché non lo sapevo nemmeno io. Era uno di quei pensiero che si era sempre sforzato di venire a galla, ma che avevo affogato con quante più forze sotto litri e litri d’acqua fatta di preoccupazioni futili e pensieri innocui. Mai che fosse morta, però: appena riaffiorava la buttavo di nuovo sotto, eppure quel giorno non ce l’avevo fatta. Uccidere un ragazzo.. privarlo della sua vita, maledizione! Nathan non avrebbe più potuto andare alla Testa di Porco, o giocare con le gobbiglie con i suoi amici. Non avrebbe più potuto innamorarsi, e tutto per una mia scelta. Mi aveva lasciato più debole e provata di quanto avrei mai immaginato. Sapevo da sempre che era una scelta inevitabile, un azione di cui prima o poi avrei dovuto macchiarmi le mani: era un reato se avevo sperato che il poi fosse dannatamente poi? E in un momento in cui ero così fragile, avevo contattato inconsapevolmente la persona di cui avevo più bisogno. Se me l’aveste chiesto razionalmente, Liam non sarebbe stato nemmeno fra i primi dieci. Evidentemente quand’ero sotto shock la pensavo diversamente.
    E ora che gliel’avevo detto, e lui non riduceva la distanza fra le nostre labbra come a me invece sarebbe venuto naturale, mi sentivo ancora più stupida. Non potevo aver frainteso le sue intenzione, ma magari.. magari avevo esagerato. Lui non aveva mai ammesso, né mai aveva fatto capire, che fosse innamorato di me. Suonava patetico perfino dirlo, specialmente dalla sottoscritta. E specialmente se riguardava Callaway. Sicuramente l’attrazione c’era, ma quella era sempre stata presente sottopelle. Come uno di quei miraggi d’estate, quando l’aria calda tremolava sopra l’asfalto: se guardavi direttamente non riuscivi a vederlo, ma con la coda dell’occhio potevi coglierlo.
    Prese delicatamente una ciocca di capelli biondo platino, sistemandomela dietro l’orecchio in un gesto così tenero e intimo che mi si strinse il cuore. Amavo quel sorriso lento e malizioso che gli incurvava le labbra, divertito ed al tempo stesso insicuro. Volevo sfiorarlo con le dita, e fare in modo che rimanessero così per sempre. Invece rimasi ferma, cercando di controllare il battito impazzito del mio cuore. Si avvicinò, ed io chiusi gli occhi. Incurante della mia bocca, posò dei baci sulla pelle delicata del collo, salendo lentamente sugli zigomi: non era decisamente facile tenere a bada il battito cardiaco, in una situazione del genere.
    “Sapevo che non avresti resistito al mio fascino, sei fin troppo prevedibile Winston”
    Quella situazione era nuova, ma non del tutto: io ero pur sempre Maeve Winston, e lui il Liam Callaway con il quale ero cresciuta. Non mi sentivo in imbarazzo, nemmeno ora che avevamo superato il limite previsto. Risi a bassa voce, scuotendo leggermente la testa, ma non troppo da distrarlo dal suo piacevole compito. Ogni ragazza amava i baci sul collo, e se erano deposti da un ragazzo come lui, potevate forse darmi torto se mi godevo quel tocco?
    “Chiedimelo per favore, e magari posso perdonarti lo schiaffo di prima e concederti un’altra possibilità. E poi osano dirmi che non sono magnanimo”
    Quello era il ragazzo di cui mi ero innamorata. Posai le mani sul suo petto, e le feci risalire lentamente fino ad allacciarle dietro la nuca. Passai le dita sui serici capelli castani, morbidi esattamente come mi ero immaginata, e avvolsi lacune ciocche attorno alle dita. “Fottiti, Callaway” Premetti le labbra sulle sue con decisione, sicura che quella volta non si sarebbe allontanato, né io l’avrei lasciato andare.
    Avevamo superato il limite, che altro poteva succedere di male?
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    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»
    Oramai eravamo in pista, e tanto valeva ballare. Solo Dio sapeva quanto avevo desiderato in quel modo Maeve Winston, sentire il suo profumo, assaporare la sua pelle. Avrei potuto passare così il resto del mio tempo, che sicuramente non era molto fra alcool, fumo e ribelli, e ne sarei stato felice. Se solo Aaron avesse saputo, probabilmente mi avrebbe ucciso seduta stante. Anzi, forse non ci avrebbe creduto nemmeno lui a questo piccolo brandello di umanità, lui che di me conosceva molto più di quanto avrebbero potuto vantare i più informati.
    Quando rise sottovoce, e la sentii avere i brividi sotto le mie labbra, avrei voluto che tra noi potesse funzionare. L’avrei voluto davvero: poter uscire con lei come fanno i ragazzi normali, portarla a ballare e vederla alzare le braccia verso un cielo aveva smesso di prestarci attenzione tempo prima, vederla sorridere e ridere con la testa reclinata verso l’alto. Quell’espressione tipica di una persona felice che ha il mondo in mano, e può farne ciò che vuole. Il punto non era se mai avrebbe avuto quell’espressione: sapevo che in futuro lei sarebbe stata felice. Sapevo anche che se mai fossi stato lì in quel momento, non sarei stato altro che una figura ancor più scura del buio a bordo pista. Una figura che ormai aveva perso tutto, e che continuava ad esistere solamente per non dare soddisfazioni a chi desiderava con tutto il suo cuore che Liam Callaway morisse. Avrei voluto prendere la sua mano e intrecciare le mie dita alle sue; tenerla stretta finchè non si fosse addormentata. Abbracciarla fin quando non avesse smesso di piangere, svegliarla in caso avesse avuto un incubo. Avrei voluto sfotterla per come si sarebbe vestita al nostro primo vero appuntamento, avrei voluto accompagnarla al lavoro e deriderla perché lavorava da Madama Piediburro. Avrei voluto vedere sul suo viso quel broncio che di offeso non aveva nulla, e che mi avrebbe spinto ad un sorriso esasperato. Avrei voluto stringerla e non lasciarla più andare, fare incetta del profumo del suo shampoo, baciarla sulla fronte e prometterle che tutto sarebbe andato per il verso giusto.
    Ma sapevo che non sarebbe mai potuto succedere. In un’altra vita, forse: ma in quella ero Liam Callaway. Liam non poteva permettersi un tale trasporto verso qualcuno, sarebbe stato come metterle dietro la schiena un cartello rosso su cui era scritto uccidimi, e ucciderai anche lui.
    Se lei fosse morta per colpa mia, non me lo sarei mai perdonato.
    Posò le mani sul mio petto, e con una lentezza che trovai esasperante le fece scivolare fin dietro al mio collo, avvicinandosi abbastanza da non lasciare altro spazio fra i nostri corpi. Attorcigliò alcune ciocche dei miei capelli fra le sue dita e tirò leggermente, come se si domandasse se fossero veri o no. Che era più o meno quello che pensai io quando posò le labbra sulle mie: era vero, o no?
    Fottiti, Callaway”
    Sorrisi sulla sua bocca, e parlai senza allontanarmi nemmeno di un millimetro. “Forse volevi dire fottimi. in quel caso, sappi che ci sono poche cose a cui un uomo può dire di no, e una richiesta simile non è fra quelle”
    Ma era finito il tempo delle parole, perché non c’era più niente da dire. La attirai ancora più a me e le feci aprire delicatamente le labbra, prima di insinuare la mia lingua a cercare la sua. Approfondii il bacio, sentendo ogni parte di Maeve come mai mi ero permesso anche solo di pensare. Dicono che tramite un bacio le persone si scambiano l’anima: sperai fosse falso, perché la mia non sarebbe valsa l’acquisto. Un’altra cosa che avevo sentito, era che tramite il bacio si poteva capire, infine, se fra le due persone c’era feeling o meno.
    In quel caso avrei dovuto sposarla, come minimo. Feci scivolare le mani sui suoi fianchi e passai il pollice sulla pelle delicata della vita. Non potei trattenere un sorriso genuino, che capitava assai raramente provassi l’impulso di fare, mentre mi allontanavo giusto il tempo di riprendere un po’ d’aria. Mi sentivo come un adolescente alla sua prima cotta, nudo, anche se ero vestito, perché avevo spogliato di ogni strato ciò che ricopriva la mia umanità. E il cuore batteva così forte, che lei dovette sentirlo per forza. Ma non mi importava: in quel momento, lei era mia.
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    C’erano così tante cose che avrei voluto dire, fare. Però in quel momento non me ne ricordavo nemmeno una. Non ero nemmeno più preoccupata per il ragazzo che avevo ucciso, e la cosa non mi dava assolutamente fastidio. Perché lì, in quel momento, avevo appena detto ad un ragazzo che lo amavo, e lui mi stava ricambiando con le attenzioni che di certo non avrebbe riservato ad una sua amica.
    Speravo, almeno.
    Cosa c’era di meglio? Sentire di appartenere finalmente e qualcuno, e sapere che ti appartiene a sua volta. Non avevo mai creduto nell’amore, e me ne rammaricavo. Se solo l’avessi fatto, se solo avessi creduto alle dicerie, non sarebbe stato tutto così dannatamente travolgente, e nuovo. Ogni punto della pelle che Liam mi sfiorava mi faceva correre brividi in tutto il corpo, sentivo caldo e freddo contemporaneamente, e non sapevo chi era più eccitato fra i miei ormoni ed il mio cuore. Dio mio, Liam era abbastanza per tutti e due. Per tutti e due in una vita intera. Non mostrava mai molto di sé stesso, ma quando lo faceva , chi vi assisteva non poteva non rimanerne affascinato. Non poteva che desiderare di vederne un po’ di più, come una droga. Sapere che invece l’aveva mostrato solamente a me, mi faceva sentire la ragazza più felice e fortunata sulla faccia della Terra.
    Anche le difficoltà che avevo visto prima nel nostro rapporto sembrarono evaporare, quando con una battuta sarcastica aprì delicatamente le mie labbra per approfondire il bacio.
    Non mi sembrava mai abbastanza vicino: lui mi stringeva a sé, ed io lo stringevo a me come avessi voluto fondermi con lui. E forse in quel momento, se avessi potuto farlo l’avrei fatto, e sarei sparita con un sorriso ebete sulle labbra.
    Mi sentivo un’idiota. Ma andava bene, perché era Liam: l’avevo sempre aspettato senza nemmeno saperlo. Come quando prima di addormentarsi si sente quel buco all’altezza dello stomaco, ed hai la netta sensazione che manchi qualcosa, pur non sapendo di cosa si tratti. E’ una sensazione così vivida che viene persino voglia di controllare che tutto sia a posto. E alla fin fine nemmeno raggomitolarsi su stessi ed abbracciarsi le ginocchia serve per lenire quel dolore, quel vuoto. E non sai nemmeno come porvi rimedio.
    Ormai l’avevo capito: quel posto era di Callaway. Ed io avevo fatto finta di niente per troppo tempo.
    Quando si separò da me con il fiatone, ricambiai il sorriso stupido che aveva sulle labbra, ridendo brevemente mentre il rossore non aveva alcuna intenzione di lasciare le mie guance. “Cosa ci siamo persi, per orgoglio, in questi anni” Mi feci sfuggire, prima di maledirmi mentalmente di aver aperto bocca. Quella si che era un uscita stupida.
    E a proposito di uscite stupide.
    Aggrottai le sopracciglia ed il mio sguardo si fece più serio, mentre lentamente la consapevolezza mandava via gli effetti devastanti del fascino di Callaway. “Tu non l’hai ancora detto, Callaway. Dimmelo”
    Dissi improvvisamente insicura, seppur le nostre fronti si sfiorassero. Quello non era un contatto da amici. Non erano due persone che si volevano bene. Ma avevo bisogno di sentirmelo dire.
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    «Il ricordo della felicità non è più felicità; il ricordo del dolore è ancora dolore.»
    Perché le donne erano così difficili? Perché non potevano farsi bastare quello che avevano? Volevano sempre qualcosa in più, volevano essere rassicurate sul trucco, sui vestiti, sui capelli, anche quand’erano perfette. Che bisogno aveva Maeve Winston di sentirmi pronunciare quelle due paroline, quando glielo stavo già dimostrando più di quanto non avessi mai fatto in vita mia? Non che non avessi mai baciato una ragazza, o anche approfondito la sua conoscenza in altri modi, ma con Maeve era tutto diverso. Dannazione, doveva sentirlo anche lei. Non mi sembrava di essermi mai sbilanciato tanto in pubblico da far credere di essere, sotto sotto, un essere umano come loro. Mi ritenevano un robot, o solo Merlino sapeva cosa. A lei avevo fatto vedere, metaforicamente, tutto quanto. Più intimo rispetto al levarmi la camicia, e farle scorrere le dita sul mio ventre, diamine. Perché non poteva andarle bene così? Avevo già fatto la mia scelta: sapevo cosa avrei dovuto fare. Sapevo cosa sarebbe successo. E sapevo che una parte di me avrebbe sempre cessato di esistere. Volevo solamente godermi quel poco che mi era concesso, era un reato?
    E non volevo dirle che l’amavo. Lo sapeva, che bisogno c’era di dirlo ad alta voce? Un conto era pensarlo e saperlo, un altro vivere il resto della mia esistenza sapendo di averle detto che l’amavo, e che lei non l’avrebbe saputo.
    Aspirai l’aria fra i denti, chiudendo gli occhi giusto un attimo, prima di rovinare un momento che sfiorava la perfezione. Avrei spezzato quel piccolo equilibrio, incrinato la campana di vetro dietro cui ci stavamo proteggendo. Non volevo farle una cosa del genere: avrei voluto vedere ancora quel sorriso sulle sue labbra, sentire di nuovo la risata argentina e maliziosa. Per essere il figlio di puttana odiato da tutti, stavo davvero perdendo dei colpi.
    Eppure mi volevo troppo bene per concederle anche quello.
    Quando aprii gli occhi e vidi i suoi così grandi e vicini, due pozze color del cielo che mi imploravano di dirlo, quasi cambiai idea. Liam, per favore.
    “Perché? Perché devo dirlo, Winston? Non ti basta questo? Cristo, pensi che io sia sempre così? Tu più di tutti dovresti sapere che non è vero” Poggiai la fronte sulla sua e chiusi nuovamente gli occhi, sospirando piano. “Maeve, per favore” Ricalcai le sue parole nel tono più sommesso che Dio mi aveva concesso, quasi non riconoscendomi nel sentire che la mia voce si era rotta sull’ultima parola. “Non chiedermelo
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    «Forse sono i nostri errori a determinare il nostro destino. Senza quelli che senso avrebbe la nostra vita?»


    Non mi sembrava di avergli chiesto troppo. Sapevo che dire le cose ad alta voce le rendeva incredibilmente reali, come se il solo pronunciarle le rendesse concrete sotto i miei occhi. Forse era infantile da parte mia, ma avevo bisogno di sapere concretamente cosa Liam provasse per me. Quel bacio non dimostrava niente. Quella conversazione, dannazione, rappresentava un insieme di parole da cui non si poteva trarre un ragno dal buco. Volevo sapere se mi amava come io amavo lui, o se fossi un altro di quegli stupidi giochetti che adorava tanto fare. Avrei avuto bisogno di una buona dose di fiducia, e perdonatemi se in quel periodo scarseggiavo assai della materia prima. Tutto quello che credevo fosse reale si era dimostrato essere un incubo, scivolando sotto i miei piedi e lasciandomi cadere nel vuoto.
    Come in quel momento. Era possibile avere una persona così incredibilmente vicina, e sentirla terribilmente lontana? Nonostante le nostre fronti ancora si toccassero, e fossero pochi i centimetri a separarmi dalle sue labbra, sembrava che fra noi ci fosse un intero continente. E solo per due parole non dette.
    “Perché? Perché devo dirlo, Winston? Non ti basta questo? Cristo, pensi che io sia sempre così? Tu più di tutti dovresti sapere che non è vero
    Mi irrigidii. Il tono della sua voce aveva una nota quasi urgente, come se avesse bisogno che io gli credessi. Ma non potevo farlo. e non era così che funzionava nei libri, dannazione. Lì quando finalmente una donna si dichiarava, l’uomo rispondeva anche io, o ripeteva quelle semplici lettere: ti amo. E alla donna scoppiava il cuore di gioia; il tutto si concludeva con un bacio, che sembrava sancire la promessa silenziosa che non sarebbe stato l’ultimo. Anche il mio cuore scoppiava, ma pareva su punto di esplodere. Non potevo credere di essere stata tanto vicina a quello che tutti sognano almeno una volta nella vita, e di essermelo lasciato sfuggire da sotto il naso.
    “Maeve, per favore. Non chiedermelo”
    Volevo davvero, davvero tanto acconsentire. Fingere che non avesse evaso la domanda, fingere che non mi importasse, e riportare le mie labbra sulle sue. Ma anche l’avessi fatto, nulla sarebbe stato come un momento prima, dove tutto mi sembrava possibile e giusto. Nulla. La sua voce era quasi un sussurro, e non potei non notare l’uso del per favore, davvero improprio per lui.
    Ma non bastava.
    Mi inumidii le labbra e mi allontanai di un passo, eludendo il suo sguardo e concentrando l’attenzione su tutt’altro. Come i fili d’erba, ad esempio: anche prima erano così interessanti?
    Perchè ne ho bisogno.Perché no?” risposi invece con un altro interrogativo, prima di potermelo impedire. Se avesse risposto che non voleva mentirmi, sarei scoppiata a piangere come una bambina che il giorno di Natale scopre che Babbo Natale non ha lasciato alcun dono. Patetico, ma purtroppo era la realtà.
    “Dio mio, Liam.. cosa stiamo facendo?” Mi passai una mano sulla fronte e gli volsi le spalle. Se avessi chiuso gli occhi, l’intera faccenda sarebbe evaporata, o si sarebbe ingigantita finchè anche respirare non fosse diventato difficile?
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