Lasciarsi andare.

Maeve

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  1. Ethienne Leroy
         
     
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    Ethienne Leroy
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    « L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. »


    C’erano dei giorni in cui tutto diventava fin troppo pesante, persino per Ethienne Leroy che, a soli venti anni, aveva deciso di farsi -sebbene in piccola parte- carico del destino del mondo magico. Giorni in cui la testa stava eretta solo perchè attaccata al collo, troppo pesante a causa dei mille pensieri e delle preoccupazioni che l’affollavano. Giorni in cui la ruota della fortuna cominciava a girare in senso antiorario fino a staccarsi dai cardini e sembrava fuggire via, lontano da lui. Giorni in cui, in sostanza, tutto era più buio di quanto già non fosse.
    E, allora, cosa gli rimaneva da fare? Ogni suo gufo era controllato a vista, le sue lettere venivano aperte e lette perchè il sospetto si era insinuato nella mente di Eris, che iniziava a diffidare da lui. Mi ritrovavo praticamente imprigionato nel posto che fino a poco tempo prima avevo reputato essere una seconda casa, senza la possibilità di una conversazione che potesse essere sincera.
    Ed essere sincero era ciò che forse più mi mancava, da quando tutto era cominciato, perchè quando inizi a mentire fai presto a perderti nelle tue stesse menzogne, dubitando di ciò che ritenevi essere la verità assoluta, e cucendoti addosso il ruolo che avresti solo dovuto interpretare. Chi era Ethienne Leroy? Questa domanda mi assillava giorno e notte, senza che io riuscissi a darle una risposta.
    Non sapevo più chi ero, se l’Ethienne che frusta ragazzi innocenti o quello che cerca di evitare che uccidano i loro compagni, e non esiste niente di più brutto al mondo della sensazione di sentirsi persi.
    Quando questo capitava, mi rimaneva solo una cosa da fare: Fuggire. E quindi correvo fino ai confini di Hogwarts, e mi smaterializzavo nell’unico posto in cui ero sicuro non mi sarebbero venuti a cercare, Hyde’s Park, dove sedevo su una panchina e fissavo per ore e ore i babbani vivere le loro vite, ignari del mondo parallelo al loro che stava vivendo uno dei momenti più bui della sua storia.
    Guardare le loro vite mi consolava, in un certo senso, perchè anche quella più insignificante assumeva ai miei occhi una sfumatura mistica, come di qualcosa che non sarei mai riuscito a raggiungere, ed in quel momento arrivava l’invidia, ed io mi lasciavo cullare da quel sentimento orribile fino a quando il sole non spuntava di nuovo all’orizzonte, ad annunciare l’inizio di una nuova recita.


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    Vede nell'alcool un rifugio sicuro.

    Non sa ancora cosa vuole dalla sua vita.

    Non lo ammetterebbe mai, ma ha un debole per due suoi professori.

    A volte la vita poteva ridursi solamente ad una scelta: nel mio caso, quella scelta era la fuga. Fuga dalla realtà, scelta da autori di tutto il mondo, sia magico che non. Scrittori, commediografi, pittori. Questo avveniva a causa di viaggi con la fantasia, di alcool, di oppiacei. Essendo una persona piuttosto cinica, optavo sempre per la seconda ipotesi. Quei pochi momenti di libertà che mi impedivano di pensare alle cose gravi, alle cose importanti, ed incentravano i miei pensieri solamente sulle piccole cose che vedevo in quel momento: un cespuglio, una panchina, una lucciola. Qualunque cosa era meglio di quella sensazione.. quel vuoto, quello che continuavo a sentire dentro. La mancanza di qualcosa. Mi sembrava che ci fosse un dettaglio che continuava a sfuggirmi di mente.. ed ogni volta che cercavo di afferrarlo, non mi rimanevano fra le mani altro che brandelli senza senso. La mia serata era cominciata, come tante altre, con il giro di ronda al castello. Una volta appurato che nessuno studente girava nel buio del parco della scuola, potei dedicarmi alla seconda tappa: la stamberga strillante. Utilizzai il passaggio dal Platano Picchiatore, quello che avevo scoperto al terzo anno assieme a Lilian Whole. Pura fortuna, ma per noi era stata un illuminazione. Un segno divino, una via di fuga facile ed indiscreta. Sgattaiolai lungo il passaggio, attenta a non sporcarmi la divisa di terra. Salii gli scalini e mi ritrovai in una stanza mal arredata, cui odore di chiuso permeava l’aria. In un angolo, un baule era stranamente pulito. Nemmeno un granello di polvere sopra, e già una cosa del genere avrebbe dovuto destare sospetti. Mi avvicinai lentamente, ascoltando che non vi fossero passi estranei al piano di sotto. Una volta che fui sicura di ciò, lo aprii e sorrisi di fronte al suo contenuto: un cambio –di certo non potevo girare con la divisa di Hogwarts – ed una bottiglia di Idromele. Il sorriso si allargò dopo il primo sorso. Quella bevanda era così corposa da sembrare solida, mentre scivolava lentamente giù per la gola. Ogni sorsata trascinava con sé un pensiero, finchè il mio problema più grosso non fu come spogliarmi della divisa. Era un meccanismo complicato, che implicava più movimenti di quanti non riuscissi a farne in quel momento. Con una smorfia, mi sfilai un lato della camicia, mentre l’altro mi penzolava a terra. Ridacchiai associando quell’immagine a quella di un angelo, cui ala sfiorava melodrammaticamente il terreno ai suoi piedi. Io, un angelo! Indossai quindi una canottiera bianca ed un paio di pantaloni neri, completando il tutto con un paio di ballerine. Non seppi mai come feci, perché un momento dopo ero nuda.. e quello dopo vestita. Diamine, cominciavo a dimenticarmi dei pezzi di vita. Sorrisi alla stanza vuota, mentre il livello della bottiglia si abbassava sempre di più. La luce della luna che filtrava fra le tavole poste alle finestre sembrava più luminosa, più brillante. Una promessa.
    La smaterializzazione non era il mio forte, ma in quel momento non mi parve di aver alcunchè da perdere. Insomma, ce la facevano persone con un quoziente intellettivo molto più basso del mio. Perché io, fra tutti, non sarei dovuta riuscire a farcela? Mi concentrai sul Fiendfyre. Chiusi gli occhi e visualizzai degli alberi dalla corteccia scura, e dalle fronde nodose. Soddisfatta feci la mia giravolta, senza preoccuparmi del fatto che probabilmente mi sarei spaccata. L’ultima cosa che la Stamberga udì, fu la mia risata.

    Quando aprii gli occhi, la prima cosa che notai fu che ero integra. La seconda, che non ero al Fiendfyre. Nessuna canzone rimbombava nell’aria, nessuna risata giungeva alle mie orecchie. Avrei dovuto essere preoccupata, ma quella mi parve un eccitante avventura, perfetta per evadere dalla monotonia della mia vita. Risi, e al mia risata echeggiò nel silenzio del parco. Era così incredibilmente simile alla cartolina che mi avevano mandato mamma e papà qualche giorno prima! Però, non c’era alcuna scritta in quel parco. Forse avrei dovuto girarlo per trovare la dedica asettica di Wynne, e la firma falsificata da mia madre di Aaron. Ah no, quello si poteva fare solo con le cartoline: quel luogo era vero, i profumi erano reali. Che sciocca!
    Possibile che non ci fosse nessuno da quelle parti? Volevo divertirmi! Non ero fuggita da scuola per ritrovarmi in uno stupido e buio parco da sola! Ma aspetta.. ero nel mondo babbano! Ed era vietato! Ah, com’ero birbante. Un’altra risata eruppe dalle mie labbra, mentre a passo malfermo mi dirigevo verso la strada acciottolata. “Ehi, c’è nessuno? Ho sempre odiato giocare a nascondino” dissi con una smorfia, cercando di vedere se, caso mai, dietro qualche cespuglio si nascondesse una qualche festa mozzafiato di cui non ero a conoscenza. Vidi una testa. Una testa sospesa sopra una panchina. Ah no, c’era anche il corpo! Giustamente, di teste sospese non ne esistevano. Togliendo Nick senza Testa, che però non poteva trovarsi lì. Un sorriso sorse spontaneo sulle mie labbra, mentre la soluzione a tutti i miei problemi mi veniva servita su di un piatto d’argento: perché la testa sospesa pareva proprio essere quella di un ragazzo. Ecco di cosa avevo bisogno, un bel flirt senza problemi. Senza secondi fini, senza qualcuno che cercasse di cambiarmi. Un po’ come il protagonista del libro babbano Senilità. Però lui, della sua Angiolina, si era innamorato. Feci una smorfia, pensando che Angiolina mi ricordava un fringuello. Se mai avessi avuto un uccellino femmina, decisi che l’avrei chiamato Angiolina.
    Non so come, ma mi ritrovai seduta affianco dello sconosciuto, cui viso era in ombra. Anzi, tutto era in ombra: si vedevano solo i contorni, e nemmeno molto bene. Poteva essere un maniaco, uno stupratore, un assassino.. ce l’avevo la bacchetta? Prima che connettessi i pensieri alle azioni, avevo già allungato le gambe sopra le sue, mentre il capo era già andato a posarsi sopra la sua spalla. “Ciao” dissi con il sorriso malandrino che mostrava sempre più i denti bianchi come perle, probabilmente la cosa più luminosa in quel parco.

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    Edited by winston‚ - 6/8/2013, 02:13
     
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    Il mio lavoro non era poi così complicato. Si trattava di trovare gli studenti che stavano iniziando a capire e portarli, senza che loro se ne accorgessero, a contatto con ciò che il mondo magico era stato un tempo, lasciando poi a loro la decisione: Mangiamorte o resistenza?
    Mesi e mesi di lavoro si riducevano alla fine ad una sola scelta, a poche parole ed un gesto che ne valeva più di mille. Ciò che faceva veramente male, però, era il fatto che fossero più i ragazzi che non riuscivo a salvare che quelli che portavo dalla mia parte, anche perchè molti si lasciavano sopraffare dagli eventi, ed entravano in un tunnel da cui non potevano più uscire.
    E, maledizione, avevo fallito un’altra volta e con una delle persone che mi stavano più a cuore. Maeve Winston aveva ucciso un suo compagno, e questo era proprio il punto di non ritorno.
    Speravo di averle messo la pulce nell’orecchio settimane prima, quando ci eravamo incontrati in Sala Duelli ma evidentemente non avevo fatt abbastanza e, adesso, la vedevo scivolare sempre più lontano da me senza che ci potessi fare nulla.
    Mi presi la testa fra le mani, impedendomi questa volta di sbatterla contro qualcosa -non mi ero ancora ripreso dall’ultima volta- e strinsi forte, senza preoccuparmi di ciò che le persone avrebbero potuto pensare. Mi avrebbero scambiato per un ubriaco, o molto più probabilmente un barbone ma non mi importava granchè.
    Un fruscio al mio fianco mi distrasse dia miei pensieri e per poco non caddi dalla panchina quando mi ritrovai l’oggetto dei miei pensieri a pochi centimetri del viso, per fortuna in ombra ed in parte coperto dal cappuccio.
    “Ciao”
    Disse, con un sorriso che avrebbe indotto chiunque a baciarla lì, senza pensarci due volte, e mi resi conto che non mi aveva riconosciuto.
    Merda, pensai, chiedendomi cosa fare. Farle capire che ero il suo insegnante l’avrebbe molto probabilmente spaventata a morte, perchè era contro le regole andare nella Londra babbana, ma non dirle la mia identità era meschino.
    «Non dovresti parlare con persone che non conosci, soprattutto se non riesci a vedere il loro volto ed in un parco, da sola, in piena notte» dissi alla fine spostandomi un poco più lontano da lei.


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    A pensarci bene, Angiolina sarebbe stato bello anche su di un pesciolino. Uno di quelli bianchi con le pinne che parevano ali frastagliate, che avevo visto in un documentario quand’ero più piccola. Quand’ero da sola a casa, non sapevo mai cosa fare: leggevo, guardavo un po’ di televisione –quando i miei genitori si ricordavano di pagare le bollette babbane, cosa che non sempre facevano - , eppure le cose da fare prima o dopo finivano. Stavo seduta sul divano in cucina, a fissare la porta finestra che dava sull’entrata nell’attesa che uno dei miei genitori varcasse la soglia. Stavo lì delle ore, forse dei giorni interi. Eppure, non arrivava mai nessuno. Nemmeno il giorno del mio compleanno, si presentavano a casa. Erano talmente immersi nel lavoro, da essersi dimenticati della sottoscritta. A volte mandavano dei biglietti.. a volte nemmeno quello.
    Il sorriso sul mio volto si era spento, mentre concentravo i miei pensieri su cose spiacevoli come la mia infanzia. Sapevo perfettamente che ce n’erano state di peggiori, mi bastava guardare alcuni miei compagni ad Hogwarts, ma questo non rendeva la mancanza dei miei genitori meno straziante alla me più piccola. Misi il broncio, irritata di aver deviato i miei pensieri su quel sentiero minato. Quando lo sconosciuto di fianco a me parlò, quasi sobbalzai: le mie gambe erano allungate su di lui, la mia testa sulla sua spalla, eppure mi ero scordata della sua presenza. Mi sovvenne il motivo di quella serata: svagarmi. Divertirmi. Mi serviva una distrazione, e quel parco buio sembrava offrirmela su di un piatto d’argento. Il bello degli effetti dell’alcool, è che non mi preoccupavo più delle conseguenze delle mie azioni. Facevo quello che mi passava per la testa nel momento esatto in cui lo pensavo, senza pormi le solite stupide domande su quello che sarebbe successo dopo.
    “Non dovresti parlare con persone che non conosci, soprattutto se non riesci a vedere il loro volto ed in un parco, da sola, in piena notte”
    Dio mio, quanto erano stupidi quei babbani. Una ragazza praticamente si avvinghiava a loro, e questi si scostavano e facevano i bravi samaritani. Di sicuro in quel momento una ramanzina era l’ultima cosa che volevo. Con la sua solita fortuna, aveva beccato un ragazzo –perché di questo si trattava- probabilmente prossimo al matrimonio e fedele alla sua fidanzata. Sbuffò, dando una pacca sulla panchina su cui erano seduti. “Sai, a me son sempre piaciute le panchine. Sai quante cose son successe qui sopra, a quante storie hanno assistito? Ormai hanno molta più esperienza del mondo di quanta ne potremmo mai avere noi” la voce si abbassò pian piano, finchè non divenne un sussurro. Poi alzai lo sguardo verso il mio interlocutore. Non riuscivo a vederlo bene in viso, ma di sicuro era l’ultimo dei miei problemi. Corrucciata, posai le mani sui miei fianchi. “Papà, sei tu?” borbottai nel tono più sarcastico che mi riuscì senza tentennare. Mi avvicinai nuovamente, e giusto per fargli un dispetto mi appiattii ancor di più contro di lui. “E poi non ho chiesto il tuo permesso” gli sussurrai all’orecchio, per poi lasciare un bacio delicato sulla mascella. Aveva davvero un buon profumo. Persi nuovamente interesse per la conversazione con il ragazzo della panchina, poiché la mia attenzione era stata attirata da una lucciola. Sin da che avevo memoria, avevo sempre adorato le lucciole. Non sapevo il motivo, forse per l’atmosfera che creavano: sembrava di essere in una favola. Sorrisi. “Le persone vogliono sempre troppo da me. Cose che io non posso dare, capisci? E poi, hanno tutti questa strana idea che io debba essere salvata” scrollai le spalle in direzione della lucciola, mentre una smorfia di disappunto mi distorceva i tratti del volto.

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    Edited by winston‚ - 6/8/2013, 01:34
     
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    Ci sono quelle cose che non dimenticherai mai, come parole, gesti, avvenimenti che ogni tanto fanno capolino nella tua testa e ti costringono a ripensarci, a riviverli e, per la maggior parte, erano tutte cose che avrei voluto dimenticare, come i volti di coloro che avevo ucciso, i pianti delle loro famiglie e i tendersi delle manine dei bambini che avevo, così spesso, lasciato senza genitori.
    Ma, ogni tanto, c’erano anche cose belle, come le corse nel prato con Elaine ed Elizabeth prima che andassi ad Hogwarts, o l’odore della torta al cioccolato di mia mamma e dei libri che papà custodiva nella sua grande biblioteca o ancora i litigi fraterni che ingaggiavo con le mie sorelle per un nonnulla, ma che all’epoca mi sembravano importantissimi. Adesso non potevo più vederla, la mia famiglia, perchè erano babbani e i babbani erano feccia, animali destinati al macello e se mi fossi messo in contatto con loro avrei, con molta probabilità, rovinato per sempre la loro vita.
    La sensazione delle gambe di Maeve Winston sulle mie, della sua testa appoggiata alla mia spalla in modo naturale, come se quello fosse sempre stato il posto giusto in cui metterla ero certo che sarebbe stato un’altro di quei ricordi, una volta che questa strana notte sarebbe finita.
    Sarebbe stato, tuttavia, un ricordo rovinato dall’amarezza della consapevolezza che lei non aveva la minima idea di chi io fossi e il dubbio se svelarle o meno la mia identità continuava a tormentarmi.
    Ascoltai i suoi sproloqui attentamente, cercando di respirare il più piano possibile per non darle fastidio e lottando contro il desiderio di allungare una mano e scostarle i capelli dal volto, e alla fine giunsi alla conclusione che Maeve era completamente sbronza, oltre che intenzionata a far cadere il mio autocontrollo.
    Quando mi baciò leggermente sulla mascella non potei fare a meno di irrigidirmi percettibilmente, e feci per spostarmi ancora più in la, anche se sarei molto probabilmente caduto, quando le sue parole mi fermarono.
    “Le persone vogliono sempre troppo da me. Cose che io non posso dare, capisci? E poi, hanno tutti questa strana idea che io debba essere salvata”
    Fu come ricevere un pugno in pieno petto, perchè quelle parole, pronunciate in tono innocente e con la mente annebbiata, non erano altro che la conferma del mio fallimento con lei, del fatto che fosse oramai troppo tardi.
    Avrei voluto alzarmi e correre via, nonostante la sensazione della sua vicinanza mi inibiva completamente, ma non lo feci. Non potevo lasciarla ubriaca e triste in un parco pieno di babbani, altrimenti avrebbe combinato qualche disastro.
    «Non so cosa le persona pretendano da te, ma per quanto riguarda l'essere salvata ti basta dimostrare che non importa quante volta tu cada, ma bensì che tu riesca a rialzarti da sola dopo ogni volta»
    Fallo, Maeve, rialzati e combatti. Perchè è evidente che non vuoi il mio aiuto.


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    Capiva perché l’alcool creasse assuefazione. La sensazione dei sensi annebbiati, quella leggerezza, era impagabile. Anche le emozioni sembravano non avere gravità, e galleggiavano a fiori di pelle. Mi sentivo come un libro cui pagine fossero visibili anche attraverso la copertina, trasparente e brillante per la sua innocenza. Nonostante io, di innocente, non avessi proprio niente. Ed anche i pensieri che mi avevano attirato fin lì non erano esattamente puri e casti quanto la mia immagine poteva evocare. Eppure era tutto così.. facile. tutti i problemi mi avevano assillata fino a quel momento, rinchiusi in qualche recesso della memoria. le parole sorgevano spontanee alle labbra. Le soluzioni sembravano sempre a portata di mano, pronte ad essere raccolte. Alzai lo sguardo verso il cielo, in cui si scorgeva un infinito tappeto di stelle. Allungando le mani, potevo quasi convincermi di sfiorarle con le dita. Potevo credere di potermele avvolgere attorno come una coperta. Chissà quante persone in quel momento stavano guardando quelle stesse stelle, immaginando un futuro migliore, sognando il loro amore. Amore, che cosa stupida. L’argomento principale di ballate, di poesie, di romanzi. e per cosa poi? Qualcosa che non esiste. Sinapsi che trasmettono messaggi al cervello, e che spingono le persone a compiere le azioni più idiote. Amare significa affidarsi completamente ad una persona, affidargli il proprio cuore. Come si può avere così poco rispetto di sé stessi, da fare una cosa del genere? Io, al mio cuore, ci tenevo parecchio. Non vedevo alcun motivo per affidarlo a qualcuno, soprattutto senza avere la certezza di sapere che l’avrebbe trattato con le adeguate cure. Poteva anche prenderlo e sotterrarlo, e dimenticarlo. Dimenticare il cuore di qualcuno doveva proprio essere una brutta cosa. Dimenticare i sorrisi riposti con fiducia a chi avrebbe dovuto custodirli come un bel segreto.
    La verità era che avevo paura di innamorarmi. Da sbronza, potevo ammetterlo con me stessa. Avevo il terrore di regalare il mio cuore alla persona sbagliata. E cosa poteva dare una persona più del proprio cuore? Più che affidare una parte della propria anima? Dava tutto, tutto sé stesso. Ed io ero una maniaca del controllo, non potevo pensare a qualcosa che volesse sfuggirgli.
    Non mi accorsi di star disegnando pigri cerchi con il dito sulla panchina, finchè non incontrai la resistenza creata da qualcosa inciso sopra. incuriosita vi passai le dita sopra, cercando di individuarne il significato nonostante il buio lo impedisse. Chiusi gli occhi per concentrarmi solamente sulla sensazione tattile: s..p..e? r.. a..m? z..e.. no, A. speranza.
    Speranza.
    Quando alzai gli occhi, mi stupii nuovamente del profilo del ragazzi di fianco a me, di cui avevo nuovamente dimenticato l’esistenza. Con quel buio non potevo distinguere i contorni, ma sembrava avere un naso dritto e morbide labbra. Chissà come sarebbe stato avvicinarmi e posare le mia labbra sulle sue, sentire se quell’idea di morbidezza fosse data solamente dall’aspetto o se fossero così realmente. Mi chiesi distrattamente perché mi sembrassero familiari, ma cancellai l’idea passandovi sopra un’immaginaria spugna imbevuta di acquaragia. Passai una mano sul suo viso, delicatamente, sfiorandolo appena. In realtà mi accorsi del mio gesto solamente quando vidi la mano alzata in direzione dello sconosciuto. Non mi ero resa conto di aver mosso un solo muscolo, ma evidentemente l’avevo fatto. Sentii la mano solleticata dalla barba di qualche giorno, ed un sorriso ebete mi si dipinse in volto. Chiusi di nuovo gli occhi, assaporando solamente la sensazione tattile. Era un esercizio che avevano insegnato a scuola, malgrado l’avessero fatto per ben altri scopi. Quando parlò, ritrassi la mano.
    “Non so cosa le persona pretendano da te, ma per quanto riguarda l'essere salvata ti basta dimostrare che non importa quante volta tu cada, ma bensì che tu riesca a rialzarti da sola dopo ogni volta”
    Scrollai le spalle, senza però allontanarmi dalla sua figura in ombra. Mi morsi il labbro, cercando una risposta che potesse spiegare la mia situazione senza svelare troppo.
    Sai, non lo so nemmeno io. a volte mi sembra che quando le persone mi guardano, vedano solamente quello che vorrebbero vedere. E che farebbero di tutto perché quello fosse reale, e per portarmi ad essere come sognano che io sia. E non gli importa cosa sia più giusto per me, cosa vorrei io.. importa solamente quello che loro vorrebbero che io volessi. Il fatto è che non tutto si aspettano le stesse cose da me. Ed io sono stanca di mostrare abilità diverse a tutti, per renderli felici. Tutto quello che faccio, lo faccio per loro. Se loro non avessero un’opinione di me, esisterei? Ed è chiaro che cado, chi non cade?” risi amaramente. “Non so se quello che faccio in seguito possa definirsi rialzarsi. Però sono ancora qua, e vorrei rimanerci per molto” mi interruppi, e fissai il mio sguardo nel vuoto, senza guardare nulla in particolare. “Vorrei che le persone fossero fiere di me, capisci? Mi piace quando nei loro occhi colgo quello sguardo orgoglioso. Lo stesso sguardo che vorrei vedere nei miei genitori. Immagino che loro siano fieri di me.. ma non me l’hanno mai dimostrato. Ed io potrei sempre sbagliarmi” alzai lo sguardo, improvvisamente insicura, verso il mio interlocutore. Non sapevo se era l’identità sconosciuta a farmi parlare, o l’alcool in corpo. Al momento però non mi interessava: ogni parola sembrava fuoriuscire dalle mie labbra con naturalezza, liberandomi da un peso che non sapevo di avere.

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    Non sono mai stato bravo a dare consigli e, per quanto questa -nella mia situazione attuale- possa sembrare un'affermazione fuori luogo è la pura e semplice verità. Io non sono un bravo consigliere, semplicemente perchè neanche a me nulla di quello che mi circonda mi è chiaro. La confusione, l'incertezza e la paura sono sensazioni talmente forti che, quando le provi, sembrano spazzare via tutto il resto dei pensieri e dei sentimenti, lasciando posto solo a loro stesse dentro la tua mente, ed io mi ero ridotto ad essere loro schiavo, fedele servitore in tutto ciò che facevo. Con che coscienza, quindi, avrei mai potuto aiutare Maeve Winston in questo momento, avendo dalla mia anche la consapevolezza che si stesse confidando completamente ubriaca?
    Non potevo farlo, decisi, mentre trattenevo il respiro al tocco delle sue mani sul mio viso, vergognandomi di me stesso per i piccoli brividi che la sua mano fredde mi dava a contatto con la pelle.
    La mano di Maeve esplorò il mio volto per qualche minuto, poi lei riprese a parlare. Osservavo i suoi comportamenti aspettandomi di vederla cedere da un momento all'altro, sicuro che prima o poi sarebbe crollata, eppure non potei non ammettere con me stesso che tutto ciò che stava dicendo era più che sensato e che, anche se più tardi rispetto al lei, anche io mi ero ritrovato al suo stesso bivio.
    Quando finì di parlare mi chinai verso di lei, dimentico del fatto che fino a quel momento non aveva potuto vedere la mia identità, fino a quando non fummo a pochi centimetri.
    «Le parole, Maeve Winston, hanno più importanza di quello che tu credi.» mormorai «le parole sono armi, si, ma a doppio taglio. Le parole, se dette alla persona sbagliata, seppur con tutte le buone intenzioni, possono nuocerti quindi stai sempre attenta a quello che dici, ma soprattutto a chi lo dici»


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    Non lo ammetterebbe mai, ma ha un debole per due suoi professori.

    La speranza frega gli esseri umani: li illude che ci sia qualcosa di buono da seguire, mentre non vi è altro che una scia di cenere. Avrei potuto chinarmi e raccoglierla fra le mani, osservandola scendere lentamente e depositarsi a terra con delicatezza. Ed in quel semplice gesto, in quella poca cenere, c’era quel che rimaneva di un uomo distrutto, un uomo che si è avvicinato tanto alla speranza da finire per bruciarsi, come Icaro con il sole. Io avevo abbandonato ogni speranza tempo prima, eppure questa non aspettava altro che fossi sbronza, che avessi abbassato le difese, per tornare a galla e sommergermi. In pochi attimi bruciava tutto, lo inceneriva: e la mia cenere avrebbe riempito le strade di qualcun altro, monito ed invito per tutti gli ingenui che ancora volevano seguire quel percorso.
    Ed io sentivo la speranza come una scintilla che non aspettasse altro che paglia su cui fare fuoco. Quale miglior opportunità di una buia serata in un parco, con uno sconosciuto a pochi centimetri di distanza? Potevo fingere che non ci fosse un domani, che quello non avrebbe avuto alcun peso sul giorno seguente. Potevo vivere la vita come veniva, senza domandarmi se il mio comportamento fosse adeguato e corretto quanto gli altri si aspettavano dalla sottoscritta. Per una volta nella vita, mi sembrava di essere nel posto giusto, al momento giusto. Fu una sensazione strana: come se un qualche tassello di cui non ero a conoscenza avesse finalmente trovato il suo posto, cambiando le carte in tavola e rendendo la vittoria un gioco da ragazzi.
    “Le parole, Maeve Winston, hanno più importanza di quello che tu credi.”
    Una fredda pugnalata di consapevolezza. Conosceva il mio nome. Si era avvicinato tanto, che un raggio di luna riusciva a colpirne perfettamente i lineamenti del volto, cesellati perfettamente. Ci misi qualche secondo a riconoscere nella curva morbida delle labbra, la familiarità che prima avevo voluto cancellare: Ethienne Leroy. Insegnante ad Hogwarts, responsabile dei Corvonero. La pugnalata però si fece sempre meno pungente, fino ad essere indolore, come quando si sente il formicolio dovuto ad una gamba o ad un braccio addormentati. Non m’importava che ruolo avesse nella scuola, in quel momento. Chi fossi io. Ethienne Leroy: da quando aveva messo piede ad Hogwarts come insegnante, avevo sentito una strana attrazione nei suoi confronti. Com’era giusto che fosse, l’avevo sempre ignorata: ma in quel momento non capivo quali fossero le motivazioni che mi avevano spinto ad ignorarla.
    “le parole sono armi, si, ma a doppio taglio. Le parole, se dette alla persona sbagliata, seppur con tutte le buone intenzioni, possono nuocerti quindi stai sempre attenta a quello che dici, ma soprattutto a chi lo dici”
    Scossi la testa e risi. Una risata allegra e spensierata, come si addice ad una diciassettenne. Una risata che ad Hogwarts non avrebbe mai avuto voce, soffocata dalle grida di dolore della sala delle torture.
    “Sa una cosa, professore? Dovrebbe importarmi, invece non è così. Lei non mi frega” scrollai i capelli biondi. “Se fosse a posto con la coscienza, non sarebbe qui. Lei ha qualcosa da nascondere. Come tutti” mi interruppi, alzando gli occhi al cielo, sperando che quella strada non portasse alla morte. Era un gioco pericoloso, e nessuno mi aveva mai spiegato le regole. “Come me” abbassai di nuovo lo sguardo in quello finalmente luminoso di Leroy. Se fossi stata sobria, sarei schizzata in piedi all’istante, implorando pietà e dicendo che era stato tutto un malinteso. Ma non lo ero. Per cui, avvicinai le labbra a quelle dell’insegnante. “Possiamo nasconderlo assieme, se le va. Non lo verrà mai a sapere nessuno” aggiunsi maliziosa, con un pizzico di serietà nella voce. Lentamente, stavo cominciando a mettere a fuoco le cose. Qualcosa mi diceva che tutto ciò era profondamente sbagliato, ma la sensazione che invece fosse giusto continuava a dirmi che non potevo avere torto.

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  9. Ethienne Leroy
         
     
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    Ethienne Leroy
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    « L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. »


    Troppo vicina, semplicemente troppo vicina. Quando era un ragazzino, e d’estate frequentavo il campus in cui insegnava mio padre i ragazzi più grandi mi avevano insegnato un sacco di cose sulle ragazze, pillole di saggezza che all’epoca -per me, che ero poco più di un bambino troppo timido anche solo per avvicinarmi ad un esemplare del genere femminile che non fossero le mie sorelle- erano diventati dei veri e propri dogmi, che avrei seguito per molti anni a venire. Una di queste pillole di saggezza adduceva ad una distanza limite, oltre la quale scattava automaticamente il bacio. Solo che io mi ero sempre chiesto quale fosse, quella distanza, come sarei riuscito a capire di aver oltrepassato il limite e fu quando riuscii ad osservare le mille sfaccettature degli occhi chiari di Maeve Winston, quando notai le piccole righe che le increspavano la fronte, come se stesse facendo uno sforzo, che prima non ero riuscito a vedere e quando sentii i suo alito caldo sul mento capii che era una questione di millimetri, che la distanza era stata superata, e che forse io non ero abbastanza forte per tirarmi indietro.
    Dopo che l’avevo provocata, dopo che lei aveva capito chi io fossi, Maeve si era mostrata per quello che era veramente, come solo chi è sotto il giogo dell’alcool riesce a fare e, seppur inconsapevole, mi aveva fatto una delle rivelazioni più importanti che avrebbe mai fatto. E, non contenta di ciò, aveva sfoderato il suo acume corvonero e aveva compreso in parte uno dei miei più grandi segreti.
    «Io penso che siano anche quelle parti di noi che nascondiamo agli altri a renderci particolari. Che senza i segreti le persone perderebbero il loro fascino. Quindi si, anche io ho qualcosa da nascondere, e accetto la tua proposta»
    Stringendo le labbra fra loro, e facendomi forza, mi allontanai da lei quel tanto che bastava per tenderle la mano, e uscire così dal pericolo di un bacio. Non era così che doveva succedere. «affare fatto?»


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    did you know that ..

    Non crede nell'amore.

    Vede nell'alcool un rifugio sicuro.

    Non sa ancora cosa vuole dalla sua vita.

    Non lo ammetterebbe mai, ma ha un debole per due suoi professori.

    Avrei potuto contare sulle dita di una mano, sempre che mi ricordassi dove fosse la mia mano, le persone che si sarebbero ritratte alla promessa di un bacio della sottoscritta. E per una volta, non si trattava solo di vanità, o di un elogio alla mia bellezza: si trattava della semplice realtà fra uomo e donna. Erano in pochi a rifiutare le labbra di una fanciulla, quando questa si presentava così generosa da offrirle su di un piatto d’argento. Dire che la mia autostima ne uscì intaccata, sarebbe l’eufemismo del secolo. Finsi di non irritarmi, e probabilmente non me la presi particolarmente solamente perché vedevo ancora il mondo avvolto da un alone di gioia pura, chiaro segno che ero ancora sotto l’influenza del benevolo Dioniso.
    “Io penso che siano anche quelle parti di noi che nascondiamo agli altri a renderci particolari. Che senza i segreti le persone perderebbero il loro fascino. Quindi si, anche io ho qualcosa da nascondere, e accetto la tua proposta”
    Merlino, quanto parlava Leroy. In classe, o nei corridoi per dire altro, non mi era mai parso così loquace. Evidentemente, doveva nascondere qualcosa di davvero grosso, se accettava di stringere un patto con una studentessa sbronza in un posto sicuramente fuori dal castello oltre il coprifuoco. Qualcosa di abbastanza grosso da farmi capire che, se l’avessi saputo, probabilmente poi avrei dovuto morire. Solita logica spiazzante. Chissà perché, per colpa dei segreti delle persone dovevano sempre essere gli altri a morire. Uno pensa che avendo un segreto, debba essere il solo a pagare le conseguenze delle sue azioni: e invece, erano sempre le persone che non c’entravano nulla con le scelte compiute dal bugiardo.
    In poche parole, un bello schifo.
    Mi allontanai stringendo le labbra fra loro con disappunto, mentre osservavo la mano testa di Leroy chiedendomi se per caso non sarebbe stata più utile in un dormitorio come appendino per i cappotti. L’occhiata torva che gli lanciai avrebbe dovuto farlo desistere dal provarci un’altra volta: non avevo messo il broncio, ma il dovergli stringere la mano dopo che mi aveva così impunemente ripudiata, sarebbe stato proprio un brutto scherzo del destino.
    “Affare fatto” biascicai, alzando gli occhi al cielo nel modo più regale che riuscissi a permettermi. Avendo perso il poco di divertimento che si prospettava da quella serata alternativa, pensai di poter ripiegare nuovamente sul mio nuovo amico Bacco-Dioniso (a seconda dei punti di vista, non vorrei mai che qualche sostenitore della religione romana si offendesse), giusto per mantenere un po’ più elevato il tono della serata.
    Perfetto, professore, io direi che il modo migliore per sancire un accordo è quello di brindare. E non le permetto assolutamente” Ripetei l’occhiataccia di poco prima. “di dirmi di no. Ad una ragazza non piacciono tropi rifiuti in una serata” In realtà, alla sottoscritta non andava giù nemmeno un rifiuto in tutta la vita: manie di protagonismo, a me!
    Mancava solo una cosa: l’alcool con cui brindare. Un problema non secondario, in effetti. Sbuffai e cominciai a guardarmi attorno, cercando una soluzione al problema più grosso della mia vita. Un sorriso mi sorse spontaneo sulle labbra: ero sicura che al mondo ci fossero cose più urgenti che richiedevano la mia attenzione, ma in quel momento l’ostacolo insormontabile era dato dall’assenza di alcool. Amavo quella sensazione.
    “Non sono sicura di dove siamo, ma sono convinta che da queste parti ci sia un bar. Sono altresì convinta che sia io che lei non abbiamo uno spicciolo, e raggiungo l’apice della serata aggiungendo che, segreto per segreto, non penso che si arrabbierà qualcuno se prendiamo in prestito qualcosa.” Mi alzai in piedi e mi picchiettai il medio sul labbro. “Anzi, l’ideale sarebbe trovare un bar chiuso, così non disturbiamo nessuno e possiamo fingere di essere a casa nostra.”
    Feci cenno ad Ethienne Leroy di alzarsi. “E’ lei qui lo stratega: faccia strada” e con un ampio movimento del braccio indicai il buio attorno a noi.

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  11. Ethienne Leroy
         
     
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    Ethienne Leroy
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    « L'uomo è nato libero, ma dovunque è in catene. »


    Si dice che quando si rimugina troppo sulle cose si finisce per ingigantire la loro importanza. Si dice che fissando tutti i nostri pensieri su un solo oggetto esso assuma ai nostri occhi un valore che in realtà non ha, come qualcosa di troppo prezioso per essere toccato e Maeve Winston era questo. Era troppo preziosa perchè io potessi toccarla e sporcarla con tutto il male che avevo fatto ma, d’altra parte, se non l’avessi aiutata il suo destino era già segnato e io non potevo permetterlo.
    Avevo passato anni ad osservarla in segreto in sala comune, chiedendomi come potesse una figura così angelica all’apparenza essere in realtà così pronta a fare del male nei fatti, ma poi mi ero risposto che lei non era un angelo comune: come uno di quegli angeli che si trovano nel purgatorio, che aiutano le persone a passare oltre, a dimenticare i mali che hanno compiuto in vita e lasciarsi tutto alle spalle, Maeve aiutava i ragazzini nella loro transizione perchè, dopo aver passato un po’ di tempo con lei non erano più bambini, erano diventati uomini.
    A quell’epoca non capivo un cazzo. Imparai a mie spese che certe ipotesi potevano fare male, imparai a mie spese che lei non era un’angelo ma che era semplicemente corrotta come tutti noi e da quel momento l’amai, se possibile, ancora di più e soprattutto ancora più in segreto. Perchè se prima che mi risvegliassi una possibilità per noi c’era, nella situazione in cui mi ero andato a ficcare sarei finito molto probabilmente per fare del male ad entrambi.
    Così, quando mi si presentò la ghiotta occasione di baciarla come sognavo di fare da tempo la lasciai andare via come una foglia trasportata dal vento, con la consapevolezza che molto probabilmente non sarebbe più successo.
    Tentò di nascondere la delusione, che penso fosse più dovuta al rifiuto in se che alla persona che l’aveva rifiutata, ma ad un’occhio esperto -di lei- come il mio non sfuggì il suo disappunto, e mi morsi un labbro per evitare di concentrarmi sulle mie mani che sembravano salire di loro spontanea volontà verso il volto della ragazza, come se volessero afferarle il mento e portare nuovamente le sue labbra a pochi millimetri dalle mie.
    Con un atto di estrema forza costrinsi le mie mani a cambiare direzione e gliela porsi, anche se lei non se ne curò, preferendo lanciarmi un’occhiataccia da ragazza rifiutata. Inarcai un sopracciglio scuro, e mi trattenni dal sorridere, perchè ero sicuro che queste reazioni così esplicite erano dovute più all’alcool che le girava in corpo che alla mia presenza o alla situazione in cui ci eravamo cacciati.
    “ Perfetto, professore, io direi che il modo migliore per sancire un accordo è quello di brindare. E non le permetto assolutamente di dirmi di no. Ad una ragazza non piacciono tropi rifiuti in una serata”
    Disse improvvisamente la Winston, rianimandosi. Era come se tutto quello che fosse appena successo le fosse scivolato addosso come il sapone, e doputotto ero io lo scemo che ancora me ne stupivo, che ancora non avevo capito che a lei non interessavo minimamente in quel senso.
    Senza che avessi la possibilità di replicare la ragazza iniziò un monologo durante il quale mi spiegò brevemente i suoi piani per concludere in bellezza la serata, ma non c’era niente che potesse dire per distogliermi dalla decisione che avevo preso: era giunto il momento di tornare a Hogwarts. Le cose si stavano facendo pericolose, ed avrebbero potuto scoprirci da un momento all’altro e, per quanto a me non interessava, non sarei riuscito a sopportare la vista di Maeve appesa alle manette della sala delle torture con la schiena squarciata dalla frusta che, con molta probabilità, sarei stato io ad impugnare.
    Così, decisi di fingere di assecondarla. Mi alzai in piedi e le feci un mezzo sorriso, poi senza soffermarmi a pensare troppo le afferrai la mano ed iniziai a camminare.
    “Se i miei calcoli non sono sbagliati, Winston, dietro quest’angolo dovrebbe esserci un vecchio bar..” Dissi, come se fossi veramente convinto di ciò che stavo dicendo e, non appena svoltammo l’angolo le strinsi un po’ più forte la mano e ci smaterializzai appena fuori dal cancello.
    “Mi dispiace, Winston” Sussurrai al suo orecchio, prima di voltarmi ed entrare a grandi passi dentro la scuola.


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