The world is a stage, but the play is badly cast.

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    William Barrow
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    «You have to learn the rules of the game. And then you have to play better than anyone else.»
    I più impavidi gli chiedevano per quale motivo non avessero ancora concluso nulla di concreto. William non poteva fare a meno di paragonare quell’impavidità a idiozia: come se un colpo a viso scoperto contro l’intero regime fosse possibile, al momento attuale. A volte il suo progetto gli sembrava troppo ambizioso, troppo machiavellico. C’erano momenti in cui gli tornavano alla memoria le parole di suo padre, e quasi ci credeva. Tu non sei nessuno, William Barrow. Non resisteresti un solo giorno se qualcuno non ti parasse il culo continuamente. Ti sei visto? . La risata vuota del padre risuonava nella sala, e immancabilmente, lo sguardo di Will scivolava sul volto vacuo ed impenetrabile della madre, la quale probabilmente avrebbe dimostrato più affetto per un materasso ad una televendita. Anche non fosse stato affetto, gli sarebbe bastato un briciolo di comprensione, o anche di interesse. Qualunque cosa potesse suscitare una seppur vaga reazione in quella donna dall’aspetto austero e dal cuore gelido. L’unico che sembrava riuscirle a strappare dei sentimenti umanamente comprensibili, era il marito. Lo stesso che la picchiava se l’arrosto era stato servito troppo caldo, o se i fazzoletti non erano piegati come aggradava a Barrow senior.
    Quello era il vero tradimento che Will non era mai riuscito a mandare giù. Quello e la sensazione schiacciante di essere irrilevante per tutte le persone che lo circondavano, come una macchia su un bancone ormai consunto dagli anni.
    Elizabeth era sempre stata come uno di quei palloncini colorati che vendevano alle fiere, o al Luna Park; il suo filo legato al polso del marito. E non importava se questo cercava di liberarsene in ogni modo, il palloncino sfidava la forza di gravità e rimaneva a galleggiare a pochi centimetri dalla caratteristica chioma scura di Simon Barrow. Sparito egli, non aveva più necessità di esistere.
    Dopotutto, William non aveva mai meritato le sue attenzioni. Il figlio non voluto, la delusione della famiglia. Dicevano che il tempo avrebbe guarito tutte le ferite, ma lui non ci aveva mai creduto. Alcune croste erano più persistenti di altre, s’infettavano, si riaprivano, e lui non poteva farci niente. Come nessuno del resto: il tempo non avrebbe cancellato lo sguardo di disapprovazione di Simon prima che si avventasse su di lui, o l’assenza della madre. Era come una di quelle malattie terminali che portano necessariamente allo stremo delle forze, all’esasperazione dell’organismo. Non si cercava una cura, era così e sempre lo sarebbe stato: qualcosa con cui convivere.
    E si era buttato sul progetto dove non sarebbe esistito nessun Simon Barrow per nessun William. Aveva cercato, e trovato, l’appoggio di diverse persone. Quelle stesse persone che di tanto in tanto scorgeva guardarlo con un misto di orgoglio e rispetto, ma che in quel momento rivolgevano su di lui solamente occhiate sprezzanti piene di cose non dette. Come se l’idea di aspettare, fosse stupida. Come se fossero pronti. Non avevano mai letto dei libri di storia? Non sapevano come andavano a finire le Guerre, quando una fazione entrava in guerra malgrado la situazione critica in cui si trovava? Fallimenti. E se c’era una cosa che William non riusciva ad ingoiare con non curanza, erano proprio i fallimenti. Mirava alla perfezione, sempre; se poi di mezzo ci mettiamo le sorti del mondo Magico, era comprensebile la sua ritrosia nei confronti degli ambiziosi progetti dei compagni. Ambiziosi, e alquanto idioti. Se volevano un suicidio di massa, avrebbero dato meno nell’occhio chiudendosi in una casa e dandosi fuoco; almeno non avrebbero rovinato i piani di chi, le cose, preferiva farle con calma e con studiata accuratezza.
    Aveva bisogno di una pausa. L’avrebbe illuso di non avere il peso del mondo sulle spalle.
    Si alzò dalla sedia, facendone stridere le gambe sul pavimento di marmo della sala del consiglio. Il suo posto era capotavola, e a volte pensava l’avessero rilegato lì solamente per non sentire quanto avesse da dire. Pensieri simili lo assalivano solamente nei momenti peggiori, il resto del tempo sapeva che la sua opinione era cruciale in quella battaglia. Dopotutto era lui il capo, ed erano loro ad aver scelto di seguirlo. Gli sguardi puntati sulla cartina del castello saettarono su di lui, il quale si limitò a scrollare le spalle.
    “Vado a prendere un po’ d’aria” Con un vago cenno della mano, gli indicò di rimanere seduti e non seguirlo. Prima che potessero dire alcunchè, si smaterializzò. Come sempre, si trattava di una sensazione nauseante a cui era difficile fare l’abitudine. Era come la sensazione alla bocca della stomaco quando, in prima fila su di un ottovolante, eri il primo a vedere i binari che scendevano in picchiata sotto di te. Per alcuni non era altro che questione di un attimo, ma a Will aveva sempre lasciato la nausea ed un lieve giramento di testa. Quando si smaterializzò ad Hogsmeade, dovette appoggiarsi al lampione vicino, per non cadere a terra come una mammoletta alle prime armi. Non era il suo mezzo di trasporto preferito, Barrow prediligeva la metropolvere, ma senz’altro era il più comodo. Si guardò attorno mentre le fiamme fredde cominciavano ad accendersi, illuminando la via con la loro luce fievole e asettica. Era quasi ora del coprifuoco per la gente perbene, quella che preferiva nascondersi sotto le coperte in attesa che il peggio fosse passato. Per la gente come Will, la giornata era appena iniziata. Alcuni passanti affrettavano il passo, ben sapendo quale fosse la loro posizione nella scala gerarchica: prede. Le prede sapevano di esserlo, e quando potevano evitavano il confronto, conoscendo già quale sarebbe stato l’esito in casi vi fossero incappati. Erano in pochi quelli che avevano capito che il vero obiettivo non era essere predatori, ma avere in sé entrambi le parti: vittima e carnefice. Serviva un minimo di furbizia, in quel mondo che aveva dimenticato perfino di accendere le luci nelle stanze buie.
    Entrò alla Testa di Porco. Quello, il posto definito da tutti il più pericoloso, era probabilmente il più sicuro dell’intera Hogsmeade. Inoltre, da quelle parti si potevano raccogliere più informazioni di quante fosse possibile captare in altre situazioni. Il pub era sempre uguale, dacchè Will ne avesse memoria: luci soffuse, risate impetuose, quell’odore di alcool, legno e fuoco che permeava sempre i locale del mondo magico. La puzza di bruciato era dovuta per di più agli ubriachi dotati di bacchetta, che non avevano alcun timore di usarla. A volte la stupidità dell’uomo raggiungeva vette inverosimili, ed era così sconcertante che , al confronto, non sarebbe stato nemmeno strano vedere Will come il bravo vicino di casa cui chiedere lo zucchero. Era talmente concentrato nella visione d’insieme, che non fece caso al particolare: la gamba di un individuo di dubbia simpatia, esattamente in mezzo al passaggio. Inciampò, e dovette reggersi al tavolo affianco per evitare di cadere in mezzo al pub, gli occhi di tutti puntati addosso. Era un tipo che si arrabbiava facilmente, William. S’irritava per un nonnulla, faceva scenate che rimpiangeva pochi minuti dopo. Quella sera però era troppo stanco, e aveva solamente bisogno di qualcosa che lo mettesse di buon umore: del whisky, ad esempio. Sospirò, cercando di adottare il metodo secondo cui un respiro profondo ti priva di tutti gli istinti omicidi. Sentii una risata alle sue spalle; odiava quelli che si prendevano gioco di lui così apertamente, esattamente come faceva suo padre. Lo facevano sentire un impedito, una persona incapace di reagire, inadatta al mondo. Un inetto messo per caso, e senza scopo, in quel pianeta già sovraffollato da una massa indecente di idioti. Si irrigidì, ma non si voltò neppure. Piantò lo sguardo furente davanti a sé, ben sapendo che ignorare le provocazioni avrebbe fatto irritare il suo nuovo amico ancor di più. Incredibile la capacità del ragazzo di trovare amici nei posti più disparati: e pensare che aveva appena pensato alla Testa come al posto più sicuro in cui passare una serata tranquilla.
    “Ehi, frocetto, l’ho fatto apposta.” .
    Ma dai? Un sorriso amaro increspò le labbra di Will, che si limitò ad avanzare fra i tavoli, nonostante ormai gli avventori avessero perso l’interesse per la loro bevanda e stessero osservando attentamente la scena, curiosi e rapaci come spettatori in un’arena. “Parlo con te, frocetto. Un uomo che non si difende non vale un cazzo, e non è un uomo” .
    Non vali niente, william.
    Non gli interessavano gli insulti, non essendo fondati non gli avevano mai fatto né caldo né freddo. E anche se lo fossero stati, anche avessero avuto ragione, perché mai avrebbe dovuto importargli il tono con cui veniva emessa la sentenza? Ma le allusioni, sale sulla ferita, non poteva sopportarlo. Si voltò fulmineo e si ritrovò a pochi passi da un uomo barbuto, largo almeno il triplo di Barrow Junior: gli bastò un'occhiata per comprendere appieno quanto fosse fregato. Non ebbe il tempo di dir nulla, dato che il vecchio voleva solamente una scusa qualsiasi per attaccar briga (fra l'altro, se aveva scelto come vittima lui, doveva proprio avere un cuore impavido). Lo sguardo di William evidentemente era bastato, perché si alzò in piedi e più velocemente di quanto la stazza potesse far immaginare, gli piantò un pugno sulla mandibola. La forza dell’impatto lo fece vacillare con le mani sul volto, le dita macchiate di sangue. Aveva un anello, il bastardo.Magari era quello di famiglia, proprio come quello di Simon Barrow. Will si terse il sangue con una smorfia, ma non sentiva dolore. Era incazzato come una biscia, schiacciato da ricordi troppo vividi per poter essere cancellati con la buona volontà. Non si accorse di aver estratto la bacchetta e di averla piantata alla gola dell’uomo, più basso di lui di qualche centimetro, finchè non vide la punta conficcata nel collo flaccido del vecchio. “Vattene. Ora” sibilò, a pochi centimetri dal suo volto. Se fossero stati in una altro posto, non avrebbe risposto delle sue azioni. Si conosceva abbastanza da saperlo, anche se la cosa non gli piaceva affatto. Ma lì, dentro la Testa di Porco, proprio non poteva farlo: era uno dei pochi posti dove si sentiva quasi a casa, dove nonostante il proprietario sapesse benissimo chi fosse, non si parlava di lavoro. Spinse ancora un po’ la bacchetta, giusto per fargli capire che faceva sul serio. Lo lasciò andare, e questo –ovviamente- si risedette lanciando qualche altra frecciatina in direzione del ragazzo, ma senza più avvicinarsi, soddisfatto del risultato ottenuto. Will lanciò un’occhiata seccata agli avventori, la cui speranza di un bell’incontro aleggiava ancora nello sguardo. Si sedette al bancone senza proferire parola, a testa alta e cercando di evitare di rispondere alle battute udite alle sue spalle. Sentiva gli occhi puntati sulla sua nuca. “Devo essere più affascinante di quanto pensassi. Whisky della casa” disse con un cenno del capo, poggiando i gomiti sul legno consunto.
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    Edited by stupeƒicium. - 19/8/2013, 02:56
     
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    3aH8ELN
    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Il turno da Olivander, quel giorno, era stato più noioso del solito. Servita la Hufflepuff scorbutica e maleducata, aveva trascorso la restante parte del giorno a pensare. Sciogliere le briglie del suo cervello, lo sapeva bene, era sempre controproducente per lui. Aveva bisogno di un’occupazione, di un libro da leggere, di un compito da eseguire. Conosceva bene il silenzio dei suoi pensieri e il rimbombo dell’eco dei ricordi. Gli era così famigliare, quella sensazione di vuoto accentuata dall’assenza di quell’affetto di cui ogni uomo ha bisogno, che quasi non faceva più caso al suo sopraggiungere. Per lui, debole d’una fragilità che solo le foglie d’autunno hanno, era un’amante gentile che d’improvviso gli sfiorava le spalle e, con dita gelidi e sottili, gli copriva gli occhi. Lo accecava, distogliendo il suo sguardo dalla verità, escludendo quella luce, bianca e calda, di cui Evan aveva bisogno.
    Il sorriso di suo fratello, le carezze di sua nonna, gli abbracci di sua cugina. Tutto quello che lo aveva reso un bambino timido, ma felice, era stato sbriciolato. Le mani di sua madre, con suo sguardo severo, gli si erano strette attorno al cuore, stritolandolo piano.
    Aveva reagito come un uomo. Non per maturità, ma per debolezza. Dinnanzi ad un ostacolo troppo alto, aveva cercato di superarlo scavando un fosso sotto quel muro invalicabile. Si era immerso nel nero della terra smossa, umida di sangue versato e lacrime, e aveva scavato con le mani. Fino a ferirsi. Fino ad arrendersi, avendo innanzi a sé solo altro suolo da scostare. Senza forze, poiché la sua alternativa, pur sembrando più semplice, gli aveva causato solo maggiori sofferenze di quelle che, tentando la scalata, avrebbe provato, si era lasciato vincere: incapace sia di risalire che di scendere con coraggio verso il valico dell’Inferno. Aveva abbracciato la stasi, spingendosi sapientemente fino al limite ultimo, ma senza superarlo mai. In bilico, in uno stato di vita apparente, ma morte interiore. E viceversa.
    Martoriava il suo corpo per dimenticare ciò in cui non era riuscito, scrivendo sulla propria pelle i tormenti vissuti e gli incubi che lo tenevano sveglio la notte. Dove non era arrivato, a cosa si era fermato, chi glielo aveva impedito.
    Odiava, però, chi lo aveva salvato tanto quanto chi lo aveva dannato.
    Rifletté sul futuro e rimembrò il passato, per pochi istanti che gli sembrarono, però, lunghi un brano frastagliato d’eternità. Gli occhi di Aaron, suo fratello, diventavano i suoi e, poi, quelli di loro madre Amethyst, mentre il suo stomaco, per la fame e non solo, si contraeva dolorosamente. La voce di sua nonna componeva una dolce cantilena a lume di abat-jour, ma, facendosi più voluminosa e rigida, tuonava come un rimprovero, firmato dal fuoco della maledizione Cruciatus e dei capelli di quella donna che lo aveva partorito. Il tocco gentile di Essence, sua cugina, gli sfiorava la pelle: lo accarezzava, lo stringeva a sé, lo consolava e, intanto, passava un quadrato di stoffa, impregnata di disinfettante, sulla sua prima ferita. Era stata l’ultima persona che lo aveva toccato senza causargli una bruciante sofferenza a livello solo mentale.
    D’improvviso, Evan si ritrovò nel retrobottega. Non c’era nessun cliente da servire, era solo.
    Trasse dalla sua tracolla una lametta. Si assicurava di averne sempre una con sé.
    Si era tolto la camicia bianca e quella sciarpa leggera, con cui cercava in tutti i modi di arginare i tremori che gli causava il freddo del suo essere esangue e la stanchezza di chi non mangia da un paio di giorni. Si era poi sfilato la maglietta leggera. Il suo torace, le sue braccia e il suo stomaco, sebbene portassero i chiari segni di una dieta insana, erano perfetti. Qualche neo, certo, ma la pelle pareva morbida e profumata.
    Sciolse gli incanti Dissimulanti e mostrò, a se stesso, la verità: segni che non avrebbe mai cancellato erano quelle cicatrici che lo ricoprivano, sfidandolo quasi a trovare un luogo, su quel campo di guerra devastato, dove non crescesse ancora un filo d’erba. Dopo un attenta ricerca, lo trovò: all’interno del braccio, a metà tra il gomito e la spalla. Lo spazio sufficiente per un solo taglio. La punta del suo indice risalì piano dal polso, attraversando il lento susseguirsi di ferite oramai già biancastre. Molte di esse, però, ancora erano arrossate, quando non in via di guarigione. Questa era la sua esistenza: un ciclo continuo, fatto di tregue con se stesso e attimi di violenza, poiché realizzazione del per lui più riuscito diversivo dalla sofferenza della testa. Chetava il suo mostro, la sua imperfezione, la sua incapacità, sfamandola con un distillato di ciò che era divenuto. Un ammasso tormentato di carne e rimpianti.
    Vinta l’incertezza iniziale, che dopo tutto quel tempo ancora non era riuscito a superare, fece scorrere la lama sottile sulla pelle. Sarebbe bastata una pressione leggera, per scostare i due lembi e farne sgorgare il solito liquido denso e cremisi. Lui premette con forza, scendendo in profondità. Senza rispetto né dubbio. Senza remora né incertezza. Senza pietà.
    Rimase immobile, aspettando l’intontimento che, per la quantità ridotta di sangue nel suo sistema circolatorio, sarebbe giunto presto. Non lo tradì: l’annebbiamento, fondamentale per spegnere il cervello, non lesinava mai.
    Un rivolo scendeva placido lungo il suo braccio, tracciando strani arabeschi ad ogni ostacolo cicatriziale. Alla fine, però, giunse alle dita, impregnandole di un odore ferroso che mal s’abbinava all’acre effluvio del tabacco bruciato. Stava macchiando il pavimento, mentre si lasciava sgocciolare. Pollock, con una punta di macabro umorismo, avrebbe potuto definirla arte.
    Presto, aveva completamente perso i suoi riferimenti temporali, ritrovandosi in un luogo dove il tempo non era scandito dal ticchettio dell’orologio, ma dal pulsare, sempre più lento, del suo cuore. Il suo petto si alzava e si abbassava piano, mentre le ombre degli oggetti rinchiusi in quella stanza si allungavano, chiaro segno dell’inoltrasi del giorno nel bosco oscuro della notte.
    Non avvertì neppure il trillo gioioso della campanella sulla porta. Era altrove.
    Riconobbe la voce del commesso della Farmacia. Quel ragazzo, di qualche anno più giovane di lui, apparteneva alla Resistenza. Lui, mentendo, gli aveva chiesto di procurargli dell’Essenza di Dittamo per aiutare i suoi compagni massacrati dalle sedute nella Stanza delle Torture. Quello, impietosito e accecato dal proprio istinto di crocerossina, aveva accettato subito. In cambio, Evan gli aveva dato quello che voleva: il suo corpo perfetto e le sue doti di amante. Eppure, il ragazzo si era mostrato migliore di quanto pensasse. Sembrava, infatti, essersi realmente preso una sbandata per lui, lo studentello dal cuore d’oro. Probabilmente lo riteneva un Hufflepuff. Era stato persino a portargli il pranzo, di nuovo. Aveva finto d’apprezzarlo e, poi, aveva avuto uno di quei suoi menage con il water.
    In quell’istante, la sua bugia crollò. L’ipocrisia di quello che gli aveva detto si manifestò con violenza grazie a tutte quelle cicatrici che gli ricoprivano il corpo smunto. Non gli disse una parola.
    Presto, però, avvertì le sue mani. Correvano lungo il braccio ferito, cercando da dove uscisse tutto quel sangue. Quando trovò la lesione, afferrò uno dei barattolini di Dittamo che gli aveva portato e ne cosparse piano la superficie. E sparì.
    Non avrebbe saputo dire per quanto. Quando ritornò, lo costrinse a bere della Pozione Rimpolpasangue che, in pochi minuti, parve dargli un minimo di ristoro. Evan, non appena fu sufficientemente in forze per alzarsi in piedi, si diresse piano verso i servizi del negozio. Piano, si pulì di dosso il sangue. Avvertì il ragazzo che, standogli alle spalle, cercava di aiutarlo, ma non appena sentì il contatto tra i loro corpi, lui si scostò con violenza. Evitò i suoi occhi, con un’espressione nauseata. Era bravo a fingere, eccellente nel nascondere la paura.
    Fu troppo per quel povero commesso ingannato e sfruttato. Vide un bagliore umido nei suoi occhi, ma la cosa non lo toccò minimamente. Lo odiava, come odiava sua cugina Essence e l’infermiere Rosier.
    Non voleva essere aiutato, voleva soffrire, voleva stare male fino a piangere. Voleva piegarsi sulle ginocchia e gridare al pavimento tutto il suo dolore. Voleva strapparsi di dosso quella maledetta pelle e i suoi marchi. Voleva un po’ di quiete.
    Quand’ebbe finito di sistemarsi, comprese che, già da un paio di ore, oramai, era sopraggiunto l’orario di chiusura. Ritornò nel retrobottega e raccolse i suoi abiti. Aveva freddo.
    Indossò la maglietta, la quale, d’un colore cinereo che ben si intonava con il suo pallore, lasciava scoperta la nuova recisione. Era arrossata, segnata da una linea scarlatta e bruciava, ma il processo di cicatrizzazione era già stato avviato dal miracoloso medicamento di cui, ora, aveva una scorta tutt’altro che esigua, grazie al suo spasimante, probabilmente non più tale.
    L’ora del coprifuoco era già prossima e lui, se non fosse stato maggiorenne e se le lezioni ad Hogwarts non fossero state sospese per la breve pausa estiva, avrebbe dovuto affrettarsi per raggiungere l’edificio. Fortunatamente, adducendo la banale scusa d’essere stato impegnato a catalogare il nuovo carico di bacchette che Jared aveva inviato mentre si trovava in vacanza ad Honolulu o chissà dove, non avrebbe avuto alcuna ripercussione. Era fuori per lavoro.
    Si strinse nella camicia bianca a maniche lunghe, troppo leggera per i suoi gusti, e, essendo troppo stanco per nascondere le sue cicatrici, celò l’unica visibile dal colletto a "v" leggermente slabbrato della maglietta con la sciarpa azzurra che, pur dopo molte ore di riflessione, non riusciva a ricordare chi gliela avesse regalata. Nel complesso, solo le ferite oramai cicatrizzate delle mani e dei polsi erano visibili, sebbene coperte dai bracciali e dal tatuaggio. Un risultato che, per il suo stato mentale, riteneva sufficiente.
    Doveva recarsi al Testa di Porco, come d’accordi con Giselle, una delle cameriere. Probabilmente, la giovane donna aveva già contattato Essence, di cui era un’amica di vecchia data, per informarla della sua assenza e, prima che quella corresse lì per cercarlo, era opportuno che lui si presentasse in quello che era il locale più squallido di Hogsmeade. Raccolse le sue poche cose e, dopo aver chiuso il negozio, uscì in strada e si Smaterializzò, frapponendo tra sé e Diagon Alley molti chilometri. La sensazione soffocante, quella volta, lo stordì più del solito, tanto da spingerlo a pensare d’essere prossimo a Spaccarsi. Fortunatamente non fu così, pur non essendo un esperto, avendo appena ottenuto la licenza per farlo.
    Giunto integro, non poté fare altro che trarre un grosso respiro di sollievo, mentre, intontito, barcollava verso la porta di ingresso del locale. Il cinghiale appeso sull’insegna parve guardarlo storto, ma se lo lasciò scivolare addosso. Si appoggiò al legno massiccio e lo spinse, venendo investito da un odore indistinto e da una calda luce giallognola. Il suo sguardo, subito, venne catturato dall’ennesima rissa, cui Barth, il barista, non fece neppure caso. Un ragazzo di qualche anno più anziano di lui, stava puntando la bacchetta al collo di Jerome Sumfield, evidentemente alticcio. Non era mai stato una persona malvagia, quell’uomo, ma non si era più ripreso da quando i suoi due figli, i gemelli Peter e Jack, erano stati pubblicamente messi alla gogna. Evan, nonostante la sua esperienza, ricordava l’evento con gli aggettivi “truculento” e “sanguinoso”.
    Subito, avvertì un paio di braccia forti attorno al collo, che quasi lo sbilanciarono, facendolo cadere.
    «Finalmente sei arrivato!» lo redarguì Giselle. Alta e dalla corporatura affusolata, la donna, con i suoi capelli biondo platino piuttosto volgari e il seno prosperoso, gli mise una mano attorno ai fianchi e, piano, mentre con una mano gli palpeggiava il sedere, lo condusse verso il balcone. Evan rispose a qualche saluto, ma non si fermò a chiacchierare con nessuno. Con molte delle persone lì presenti, però, aveva bevuto fino a non ricordarsi neppure il proprio nome.
    «Diamine, Evan, sei dimagrito ancora! Tua cugina, poi, mi ammazza» gli disse la cameriera, dopo un attento esame della sua chiappa sinistra. Molti versi animaleschi, a quel gesto, avevano animato l’orda di uomini che, pur provandoci spudoratamente, non avevano mai ricevuto altro che rifiuti. Giselle, infatti, adorava fare la gatta morta. «A proposito, l’hai sentita di recente?», insistette poi, con quella domanda che era un rito, ogni volta che visitava il Testa di Porco.
    Si limitò a rispondergli scuotendo la testa: la evitava da mesi.
    Quella sbuffò e, con forza, lo costrinse a sedersi sull’unico sgabello rimasto vuoto al balcone. Si ritrovò vicino al tipo della rissa.
    «Il solito Succo di Zucca, Evan?» gli domandò Barth e lui sorrise, sincero. Aveva cominciato a frequentare quel locale molto prima d’essere ufficialmente maggiorenne e, il caro buon Bartholomeus, quando ancora Evan era una compagnia giovale, lo aveva preso subito in simpatia. Per questo i due avevano escogitato un metodo per evadere la legge, sebbene di rado quella superasse la soglia vegliata dal Porco.
    «Non troppo succo, Barth» gli disse lui, ricevendo un “come al solito” a mo’ di risposta. Nell’old fashioned rapidamente vennero versate tre dita di Rum di Ribes Rosso e due di Succo di Zucca. Con un paio di cubetti di ghiaccio galleggianti, gli spinse il bicchiere, ora ricolmo, sotto al naso. Stessa sorte toccò ad una confezione di fiammiferi recante il logo ufficiale del pub, su cui era stato scritto a penna l’acronimo “Ed”.
    Lo ringraziò con un filo di voce, stringendo nel pugno la piccola confezione.
    Dalla cucina, nel mentre, giunse Giselle con un cupcake decorato con un frosting particolarmente rosso e delle fragoline di bosco. Evan la guardò male.
    «Penso sia inutile dire “Mamma, non ho fame”» provò a scherzare, ottenendo solo il peggiore cipiglio severo della donna. Pietoso, il barista, nel mentre, si era voltato a preparare una delle famose birre alla spina del Testa di Porco per qualche cliente probabilmente ubriaco.
    Accontentandola, sollevo il dolcetto e, forse realmente affamato, ne prese un morso. Uno spiacevole sapore ferroso investì le sue papille gustative, le quali, non a torto, reclamarono pietà. Trangugiò un sorso dal bicchiere e l’alcol contenuto gli bruciò la gola, disinfettandola da ciò che Giselle gli aveva somministrato.
    «Pozione Rimpolpasangue? Davvero?» le domandò, quasi arrabbiato. Le risparmiò, però, un inutile rimbrotto. Se c’era qualcuno che andava sgridato, in quel locale, era lui. Sapeva quanto facilmente lei si impressionasse alla vista del sangue. Quella, in effetti, era la prima volta che lei vedeva le sue cicatrici, di cui Essence le aveva solo parlato. Probabilmente era già da ritenersi fortunato a non doverla raccogliere da terra. L’ennesima cosa per cui sentirsi in colpa.
    «Ordini della Medimaga» asserì lei, alzando le spalle e andando a consegnare il boccale ad uno dei tavoli vicini alle vetrate, tradizionalmente luride. Ordini di Essence.
    Il giovane Devereux alzò gli occhi al cielo, allontanando da sé l’ingannevole muffin imbevuto di medicinali, pur sapendo, comunque, che prima di uscire da quel posto sarebbe stato costretto a mangiarlo. Istintivamente, si portò un’altra volta alla bocca la sua ordinazione, lasciando che il sapore dolce lo dissetasse.
    «Non dovresti prendertela con Jerome» disse all’improvviso rivolgendosi al suo vicino «Quando non ha troppe birre nello stomaco è un buon uomo».


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    William Barrow
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    «You have to learn the rules of the game. And then you have to play better than anyone else.»
    Non sapeva se si trattasse di un ossessione comune, o se solamente lui fosse affetto da quella strana ed insana curiosità riguardo la vita degli altri. Non che fosse un maniaco depressivo con la tentazione di raccogliere più dettagli possibili su di esse, semplicemente si domandava come fossero. Spesso si soffermava con quegli occhi azzurri come il cielo autunnale ad osservare le persone, chiedendosi se fosse felici, o perlomeno soddisfatte della vita che stavano facendo. Se a casa li aspettasse qualcuno con il sorriso, o se stessero fuggendo dai loro problemi. In un locale quale la Testa di Porco, quelle domande non potevano che assillarlo ancora più prepotentemente: perché si trovavano lì, tutte quelle persone? Cosa li aveva spinti a lasciare la loro casa, per dirigersi in un pub di quelle fattezze? Affogavano i loro problemi nell’alcool, cercando di alleggerirsi le spalle? Avevano forse dei problemi con il gioco, e la moglie li aveva lasciati per quello? O quelle donne dai vestiti succinti, nell’angolo a destra del locale, che si sventolavano il viso arrossato con ventagli colorati: cercavano forse attenzione o non potevano fare altrimenti?
    Lambiccarsi il cervello in cerca di risposte a domande che non avrebbe mai posto, era un vizio che lo perseguitava fin da quando era bambino. Era sempre stato un buon osservatore, di quelli che prima osservano il quadro generale e poi ne traggono una conclusione. E quella conclusione si diramava in migliaia di altre strade, seguendo la tortuosa via delle opportunità e delle possibilità.
    Il rumore del bicchiere che cozzava con il bancone, mi fece spostare lo sguardo sul bicchiere contenente il liquido ambrato, il quale ondeggiava lievemente. I cubetti di ghiaccio tintinnarono fra loro, ricordando a Will il ticchettio di piccoli vetri che si infrangevano a terra. Come quando suo padre, in preda alla rabbia, aveva lanciato una sedia contro la porta a vetri della cucina, infrangendone la superficie. La cosa che più l’aveva spaventato, non era stato il forte fragore dell’oggetto contundente: era stato il rumore dei frammenti di vetro più piccoli, un rumore stranamente delicato in un gesto così violento. Ricordò le lacrime della madre, e le parole del padre, e..
    Scosse la testa con una smorfia, mentre la ferita non ancora rimarginata sul labbro aveva fatto gocciolare il sangue lungo il mento. Lo pulì con un gesto stizzito della mano, mentre si portava il bicchiere di whisky alle labbra. Il bruciore fu subito intenso, non tanto quello dell’alcolico in sé quanto il fatto che fosse venuto a contatto con la parte lesa. Era così familiare, quel sapore, e poteva portargli così tanti ricordi che quasi se ne fece sommergere. Ma se c’era una cosa che non aveva più voglia di fare, era essere sommerso dai ricordi. A volte lo faceva apposta, se li infliggeva masochisticamente e si crogiolava nel dolore che li provocavano, sale sulle ferite. A volte però era così stanco, così tremendamente esausto, da voler semplicemente essere lasciato in pace da tutti, in primis da sé stesso. Proprio in quei momenti però scopriva di non riuscire a fuggire da sé stesso, che volente o nolente le cose tornavano a galla quando meno se lo aspettava.
    Non si poteva combattere contro sé stessi, avrebbe significato perdere in ogni caso.
    Sbuffò, cercando nella vita degli altri qualche particolare che potesse sollevare l’attenzione dalla propria vita. Lo sguardò sfarfallò sui movimenti quasi violenti dei ventagli, che scoprivano labbra rosse e denti gialli. La risata sguaiata di quelle donne giungeva fino alle sue orecchie, ma non lo irritavano quanto avrebbero dovuto. Lo incuriosivano: c’era una nota quasi disperata in quel suono, quasi che ridere fosse l’unica cosa che potesse dissuaderle dal mettersi in ginocchio a strapparsi capelli, e piangere, ed urlare. Ebbe quasi la tentazione di tornare dal vecchio di prima, giusto per avere qualcosa che potesse impegnargli la mente. Il pensiero dei ribelli lo seguiva ovunque, sentiva quella responsabilità pesargli sul petto. Se fosse stato a mollo in un lago, l’avrebbe affogato, ne era certo. Borbottò qualche impropero sotto voce, alzando il bicchiere e scolandosi le due dita di whisky che erano rimaste nel bicchiere. Consciamente, non voleva ubriacarsi. Non era andato lì per quello, anche perché perdere consapevolezza di sé in solitudine, era una delle cose più tristi che William riuscisse ad immaginare. Voleva semplicemente spingersi oltre quella soglia che gli avrebbe impedito di pensare. La differenza sembra inesistente, ma agli occhi di Will la cosa aveva molto senso.
    Il fatto che il mondo magico fosse nelle mani di un tipo come lui, lasciava molto da pensare su quanto tutto stesse andando a puttane.
    L’ultimo anno che aveva frequentato Hogwarts, era andato molto spesso alla Testa di Porco. Vi aveva passato più tempo di quanto potesse ricordare; da quando si era trasferito a Londra, le capatine nel locale erano diminuite notevolmente, ed erano diventate solamente una scusa come un’altra per ficcanasare negli affari più nascosti dei maghi, per carpire informazioni. Nulla di piacevole come quand’era un diciassettenne che voleva solamente far incazzare i propri genitori, o divertire i conoscenti, o semplicemente passare una serata diversa dal solito. Tante cose erano cambiate, ma il whisky era sempre dannatamente buono.
    Alzò un dito e fece cenno al barista di avvicinarsi. “Un altro giro, amico” da come questi s’irrigidì, Will pensò che non adorasse essere definito amico dal primo che capitava nel locale. Probabilmente non vedeva l’ora che il ventunenne si alzasse e se ne andasse, dopo il trambusto con il vecchio, il quale sembrava invece essere un cliente abituale. Gli lanciò un’occhiata da sopra la spalla, e notò che stava ancora sghignazzando alle sue spalle. Si irrigidì impercettibilmente, mentre riportava gli occhi sul legno macchiato qua e là, scheggiato da avventori sbadati.
    “Non dovresti prendertela con Jerome”
    Roteai lentamente lo sguardo di lato, trovando un ragazzo che sembrava parlare distrattamente, quasi non stesse davvero prestando attenzione a quanto stava succedendo. Aveva un aspetto emaciato e pallido, seppur molto giovane. Doveva avere qualche anno in meno di lui, o addirittura essere suo coetaneo. Will non poteva certo permettersi di giudicare l’età di qualcuno, dato che nonostante avesse ventenni , da sempre gliene avevano dati meno. Anzi, notevole il fatto che il barista non gli avesse chiesto i documenti. I capelli scuri, in netto contrasto con la pelle chiara, gli ricadevano disordinatamente sulla fronte. Gli occhi erano scuri, e donavano al suo viso un non so che di stranamente inquietante. Nonostante avessero molte cose in comune, non potevano essere fisicamente più differenti. In realtà, a guardarlo meglio, il ragazzo era più massiccio di lui. non che ci volesse molto, d’altronde. Sembrava fuori posto, in quel luogo. Barrow inarcò un sopracciglio, mentre lo sguardo saettava su quelle che avevano tutta l’aria di sembrare cicatrici, sulle mani e su quel poco di polso che era visibile. Strani posti, per ferite simili. non che la cosa lo toccasse particolarmente: se suo padre non fosse stato un mago eccezionalmente bravo a rimarginare le ferite, ne sarebbe stato pieno anche lui.
    “Quando non ha troppe birre nello stomaco è un buon uomo”
    Un buon uomo. Una secca risata amara proruppe dalle labbra di Will prima che potesse fermarla. Scosse le testa: buon uomo, era da molto che non sentiva quelle parole. “Non vorrei sembrare pignolo, ma vorrei farti notare che è stato lui a prendersela con me. Il bravo ragazzo, per intenderci” spostai lo sguardo sul bicchiere che mi era stato posato nuovamente davanti. “E nonostante l’intera situazione mi irriti da morire, non potrei prendermela sul serio con lui” lanciai un’occhiata a quello che il mio interlocutore aveva chiamato Jerome, quasi lo conoscesse da una vita. “E’ un uomo triste, guardalo. Il solo fatto che se la sia presa con me, non esattamente il tipo di macho che si sfiderebbe a duello per darsi delle arie, lo denota” gli feci un cenno con il capo, mentre mi portavo di nuovo il bicchiere alle labbra. Assaporai nuovamente la bevanda, gustandola quasi solo con la punta della lingua. “Comunque, apprezzo la tua preoccupazione nei miei confronti, è quasi commovente. Sto bene, non sono affatto preoccupato dal fatto che quell’uomo potrebbe prendermi e spezzarmi in due in men che non si dica. E il labbro non fa così male, fra poco il taglio si rimarginerà: sopravvivrò”
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    Evan Devereux
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    «In the blood I fulfilled myself»


    Non passarono più di una trentina di secondi, prima che l’avvenente Giselle ritornasse alla carica, avvicinandogli nuovamente il muffin alla Rimpolpasangue. Vide nei suoi occhi un terrificante sguardo assassino che, seguendo l’istinto, decise di non sfidare. Per questo motivo, cercando di gestire il dolcetto in maniera che fosse il più commestibile possibile, raccolse sulla punta dell’indice una discreta quantità di quella crema rossastra che sormontava l’apparentemente goloso cup cake e se lo portò alla bocca. Il sapore ferroso e caldo, a cui era abituato a causa dei suoi insoliti passatempi, raggiunse placidamente l’imbocco della sua gola, scivolando sulla lingua e facendo raccapricciare le sue papille gustative. Ingoiare quella quantità, seppur minima, gli costò una fatica immane. Avrebbe preferito non ricevere quell’imboscata e vedersi servire un bicchiere ricolmo di pozione senza tanti palinsesti artificiosi, ma così non era stato. In fin dei conti, quei due lo conoscevano meglio di quanto pensasse e, soprattutto, il potere di sua cugina Essence doveva essere alquanto poderoso, sulle loro persone.
    Il suo vicino, cui non prestava apparentemente attenzione, rimase in silenzio a lungo, non rispondendo alla sua affermazione, e prediligendo, comprensibilmente, la compagnia del suo whisky. La cosa, invece di spiacergli, quasi lo rese felice: il Testa di Porco non era il luogo adatto a reggere una maschera, soprattutto non alla fine di una giornata spiacevole come quella che lui aveva vissuto. Tra quell’ammasso di segreti, che tutti nascondevano in maniera più o meno efficace, il suo “problema” sarebbe passato inosservato. O quasi.
    Quando ebbe ingoiato tutta la sua malcelata medicina, afferrò il proprio bicchiere per trarne un sorso piuttosto abbondante.
    «Grazie» borbottò all’infelice accoppiata che, oltre il balcone, stava ridendo delle sue espressioni nauseate. E schifate. Presto, qualcuno, notando la sua carnagione pallida e il suo aspetto emaciato, avrebbe associato la sua inusuale dieta all’idea che Evan Devereux fosse un vampiro: incarnato pallido, occhiaie profonde, pelle gelida ed abiti impregnati del nauseabondo odore di sangue ed ospedale. Ma, in fin dei conti, quella bugia sarebbe stata comunque migliore della scomoda verità.
    Nonostante il silenzio, quel tipo lo stava scrutando. Non s’era accontentato di un’occhiata distratta, continuava a percorrere il suo corpo con rapida minuziosità.
    Aveva finto di non notarlo. Si ripeteva che non gli dava fastidio.
    Ma era un bugiardo, come al solito. Più con se stesso che non con gli altri. Odiava quello sguardo su di sé, mentre lo scrutava quasi a volerlo svelare, spogliandolo di quel poco che indossava. Si pentì per un istante di non essersi nascosto, nuovamente, per un meccanismo automatico del suo cervello, dietro i soliti incanti Dissimulanti. Quella sensazione, fortunatamente, durò poco. Era, quella, la serata dei passi in avanti.
    Avrebbe avuto tempo domani, se ciò fosse accaduto, per arretrare nuovamente.
    L’alcol, unito agli effetti positivi della Rimpolpasangue da lui ingurgitata nell’arco della giornata, alzarono la sua temperatura corporea. Per un attimo, dopo mesi, avvertì il sentore della normalità: era estate e lui aveva caldo. Niente tremori, niente bisogno di trovare un altro abito da indossare per scaldarsi senza generare sospetti. Nessuna bugia.
    Quella camicia, seppur leggera, era troppo per quell’afosa serata estiva. Se la tolse con un gesto fluido, pur non privandosi della sciarpa leggera che indossava e che copriva alcune delle cicatrici che meno aveva voglia di mostrare e che, nonostante la sua allegria di quella sera, non era ancora pronto ad ostentare. Il tessuto morbido scivolò sul suo corpo, sfuggendo alle spalle larghe e scendendo lungo le braccia.
    D’improvviso, tutto il suo castello di carta crollò. Era stato lui, con un sospiro, a spazzarlo via.
    Evan Devereux, il ragazzo scostante ed altezzoso, in perenne ricerca di un’ideale perfezione, svanì, cacciato a forza da Ev, il fratello maggiore troppo fragile. Debole.
    Spingersi ad un passo dalla morte, a questo era giunto durante una delle sue tante elucubrazioni, era solo un tentativo, fallito, di dimostrare la propria forza, la propria resistenza, la propria tenacia. Il suo ferirsi, oramai, aveva così tante motivazioni coesistenti da essere, ovviamente, necessario. Perché rinunciare a qualcosa di così fondamentale? Perché smettere di ricercare un appagamento, una consolazione, una scusante?
    Perché alzare le braccia al cielo in segno di resa? Perché ambire alla sopravvivenza, quando così poco aveva da guadagnare dalla vita? Perché, dannazione, tormentarsi di “perché”?
    Mutilarsi lo aiutava a spegnere il cervello, a stare in silenzio.
    Lasciò cadere la camicia leggera sulla sua tracolla, senza alcuna grazia od interesse. Fece quel gesto, fondamentalmente, solo per chinare il capo ed evitare gli sguardi di chi lo circondava. Sapeva che l’espressione scherzosa del barista sarebbe cambiata, alla vista delle sue cicatrici, così come sapeva che la ragazzo, l’amica di sua cugina, si sarebbe portata una mano alla bocca, stupita e spaventata. Era il suo modo, quello, di chiedere scusa. Chinare lo sguardo ed attendere di non essere più un problema.
    In ginocchio sui rovi della Incapacità, perso a constatare la lucentezza scarlatta del proprio sangue.
    In fuga, da sé e dagli d’altri. Un viaggio verso Oriente e la rinascita, un viaggio d’amore perduto.
    I due, oltre il balcone, non commentarono, ma vide chiaramente lo sguardo di Giselle divenire uno specchio d’acqua, liquido di lacrime che non volle versare davanti a lui. Sparì, nel retro, a recuperare chissà quale superalcolico di cui avevano finito la bottiglia.
    Il silenzio, come se tutto ciò non fosse accaduto, venne interrotto dalla voce di quel ragazzo che sedeva al suo fianco.
    Non vorrei sembrare pignolo, ma vorrei farti notare che è stato lui a prendersela con me. Il bravo ragazzo, per intenderci.
    Lui sorrise. Giocò con il proprio bicchiere, tozzo e leggermente squadrato, consunto dai molti lavaggi che avevano lasciato graffi sottili lungo la sua superficie, facendo attenzione a non versarne neppure una goccia. Il dolcetto, ora privo di glassa, attendeva ancora d’essere mangiato. Lui, come al solito, aveva lo stomaco chiuso. Non intendeva mangiarlo, la gola gli bruciava ancora da quando, poche ore prima, i succhi gastrici del suo stomaco vuoto erano risaliti lungo l’esofago. Triste fine, quella della tazza del water nel retrobottega di Olivander.
    Attese che lo sconosciuto finisse di parlare. Sapeva qual’era il suo aspetto, anche se osservando di spalle, mentre litigava con Jerome, non gli aveva permesso di dargli un’occhiata veramente approfondita. Ad occhio e croce, era d’un paio di centimetri più alto di lui. Due centimetri di troppo, visto che, Evan ne era certo, il ragazzo pareva più magro di lui. Forse era il suo essere stretto, segno di una non grandissima sportività, sulle spalle, forse quel suo pallore. In effetti, i due, probabilmente, avevano molto in comune, quella sera. Aveva capelli corti e scuri ed era ricoperto di tatuaggi. Il resto, non aveva avuto modo di notarlo.
    Si portò alle labbra la propria bevanda, traendone l’ennesimo sorso e irrigando la gola riarsa dal calore.
    «Non vorrei sembrare pignolo» esordì, riprendendo ciò che lui aveva detto, mentre sul suo viso si dipingeva un’espressione divertita «Ma giudicare una persona da una sola azione è segno di grande ingenuità».
    Quelle parole, forse dette senza molto tatto, erano l’unica verità che Evan ritenesse potesse essere accettata.
    « “Ingenuo” suona come “stupido”, sulla bocca di chi non è uno sciocco perbenista. E la stupidità, di questi tempi, si paga con la morte. Anche se non sei l’emblema del machismo e sembri mingherlino».
    Finalmente, si voltò verso il suo interlocutore. Si era fatto attendere, in effetti.
    «Non mi stavo preoccupando per te, comunque» lo informò, con un sorriso sulle labbra «Ma non mi stavo preoccupando neppure di Jerome». Bevve ancora.
    L’ennesimo silenzio. Troppi pensieri, nella sua testa, poiché questa già si riempiva nuovamente.
    «Sono sempre gli altri, le vittime indirette, a sopportare i peggiori patimenti».
    D’improvviso, le sue dita, che alla luce giallognola del Testa di Porco gli sembrarono meno magre di quanto pensasse, si posarono sul mento del ragazzo, facendogli girare il volto. Non c’era stata violenza in quel gesto, quanto la fermezza che, a volte, era costretto ad usare con il suo fratellino.
    I suoi occhi sapevano di nebbia.
    Guardò con attenzione la ferita sul suo labbro. Si poteva dire che lui, di quelle cose, fosse quasi un esperto.
    «Confermo, sopravvivrai. Ho visto di molto peggio».
    Sul suo corpo, ma anche su quello di altri. Per sua colpa, ma anche per colpa di altri.


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    William Barrow
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    «You have to learn the rules of the game. And then you have to play better than anyone else.»
    Il mondo era un continuo fluire e defluire, una massa indistinta che cristallizzava e si scioglieva nuovamente, senza nemmeno darti il tempo di farti un’idea della forma che avrebbe preso. Per Will non si trattava d’altro che di una palla di plastilina pronta ad essere modellata a suo piacimento, quasi non avesse aspettato altro che la pressione delle dita sottili da pianista, per avere un senso. A volte riusciva a vedere tutto con una chiarezza disarmante, semplicemente sapendo quale sarebbe stato il comportamento adatto da utilizzare, come avrebbe dovuto modulare la voce per dare la giusta intonazione. Eppure, nella maggioranza dei casi, ignorava tutti i buoni consigli che dava a sé stesso, pensando che sarebbe stato un po’ come mentire, un comportamento ipocrita che nella vita di tutti i giorni preferiva non adottare. Almeno non nelle situazioni semplici. Le persone che lo conoscevano per quel che era, pensavano che quando fosse in giro per Hogsmeade o simili, Will fingesse. Che fingesse di essere un ragazzo normale, in preda a dilemmi normali, mentre una bevanda normale campeggiava fra le sue mani: ma si sbagliavano. Quando non era necessaria alla sua sopravvivenza, cercava di mantenere la sua identità intatta. Che uomo sarebbe diventato, se avesse cominciato a cambiare pure quella? se avesse cominciato a diventare egli stesso una parte della plastilina, chi l’avrebbe modellato?
    E mentre tutto cambiava, c’erano cose che rimanevano sempre uguali.
    Il Whisky Incendiario che in quel momento gli bruciava sulla lingua, ad esempio. Barrow ricordava perfettamente la prima volta che l’aveva assaggiato. Inspirò l’aroma della bevanda, rimembrando la figura di sua madre: una donna affacciata alla portafinestra della cucina, aspettando un uomo che non l’amava, cercando di affogare quel poco di umano che le era rimasto nell’alcool. Avrà avuto all’incirca nove anni Will, quando cercò di capire cosa ci fosse di tanto attraente in quella bevanda, da far scordare ad una donna i suoi doveri di madre. Pensò che magari contenesse qualcosa di magico, qualcosa che potesse spiegarne il comportamento. Ne assaggiò un dito, e non apprezzò affatto. Undici anni dopo, capiva perfettamente cosa vi aveva trovato di tanto interessante Elizabeth: riusciva a far passare tutti i problemi in secondo piano, rendendo urgente solamente un problema alla volta, quasi vi fosse stato un elenco da rispettare nei minimi dettagli prima di affrontare il problema successivo. Così, anziché trovare i soliti dilemmi ammassati dietro la porta in attesa che solo uno di loro fosse risolto per poter balzare all’attacco, Will si ritrovava doverne affrontare solo uno. Un problema alla volta è gestibile. E tutto perdeva importanza, quasi che dalle sue scelte non dipendessero le vite di persone che gli avevano affidato la loro esistenza su un piatto d’argento.
    Si chiese se il ragazzo di fianco a lui fosse plastilina, o se fosse quello che la modellava. Chissà se anche lui vedeva il mondo cambiare, e comprendeva come con una piccola pressione avrebbe potuto cambiarlo in meglio, o se semplicemente fosse vittima anch’egli della continua trasformazione. Forse era solamente un problema di Barrow, che trovava qualsiasi scusa -che fosse plausibile o meno- per motivare il fatto che lui fosse differente dagli altri. O meglio, per convincersi di essere diverso. Sotto sotto, erano tutti uguali: ciascuno inseguiva i propri ideali, senza porsi il problema di ciò che fosse giusto o ciò che fosse sbagliato. Una sottile discrepanza fra le due cose, così sottile che spesso era difficile inquadrarla. Chi diceva che ciò che faceva Will fosse giusto? Lui. Chi, cosa fosse sbagliato? Sempre lui. E allora, chi conosceva davvero la differenza? Nessuno. Will adorava credere che quel nessuno potesse essere lui, ma quasi non si prendeva sul serio.
    “Non vorrei sembrare pignolo, ma giudicare una persona da una sola azione è segno di grande ingenuità”
    Inarcò un sopracciglio, mentre un debole sorriso veniva nascosto dal secondo bicchiere di whisky. Avrebbe voluto dirgli che aveva ragione: una piccola parte di Will avrebbe perfino voluto crederlo. Che una sola azione non bastasse a giudicare un uomo, ma aveva visto troppo per ignorare la vera risposta. Poi, ovviamente, dipendeva sempre dai punti di vista. L’ennesima situazione in cui il bicchiere veniva posto fra i due, ed entrambi avrebbero dovuto giudicare se fosse stato mezzo pieno o mezzo vuoto.
    ““Ingenuo” suona come “stupido”, sulla bocca di chi non è uno sciocco perbenista. E la stupidità, di questi tempi, si paga con la morte. Anche se non sei l’emblema del machismo e sembri mingherlino”
    Barrow si portò la mano al cuore esterrefatto, l’espressione melodrammatica di chi avesse ricevuto un orribile notizia. “Così mi offendi, ragazzino. Ingenuo e stupido sono due cose molto diverse, pensavo che queste cose a scuola ve le insegnassero ancora” disse, facendo nuovamente scorrere lo sguardo sul suo interlocutore. Si era privato della camicia, rendendo visibili altre cicatrici sulle braccia. A lui non importava un granchè, ma per un momento si chiese cosa ne pensasse l’individuo stesso che le aveva sul corpo. Se se ne fosse vergognato, le avrebbe coperte; se ne fosse andato fiero, le avrebbe mostrate al suo arrivo, come un trofeo. Forse era semplicemente abituato, e non gli facevano più né caldo né freddo. Era fondamentale come uno vedesse sé stesso, per lasciare qualcosa o meno nei pensieri degli altri. Aveva visto la cameriera trovare una qualche scusa per fuggire nel retrobottega, ma non aveva prestato grande attenzione all’intera situazione. Non erano affari suoi, e nella maggior parte dei casi era dannatamente bravo a non immischiarsi nella vita altrui. Fin troppo.
    Stupido è qualcuno che crede ancora che soffiare via i petali di un fiore possa far avverare un desiderio. Un ingenuo è qualcuno che sa perfettamente che il desiderio non si avvererà, ma soffia comunque. Come vedi, la differenza è sottile ma esiste. “ si inumidì le labbra sovrappensiero. Un ingenuo poteva essere stupido, uno stupido non poteva essere ingenuo. “ In ogni caso, giudicare qualcuno alla prima occhiata è uno dei miei passatempi preferiti.” Si avvicinò come se dovesse rivelargli un segreto, inclinandosi in avanti e mantenendo poggiati i gomiti sul bancone. “Chiamami pure stupido, ma preferisco sbagliarmi sulla prima impressione, piuttosto che scusare chiunque faccia qualcosa di poco carino. Preferisco definire una persona triste, e ricredermi in un secondo tempo. Come credi che ci sia arrivato a vent’anni?” si raddrizzò e prese il bicchiere, alzandolo in alto quasi volesse fare un brindisi. Con chi, poi, non si sa. Forse a sé stesso. Un sorriso ed un sopracciglio inarcato, prima di berne un altro goccio.
    “Non mi stavo preoccupando per te, comunque. Ma non mi stavo preoccupando neppure di Jerome”
    Fece schioccare la lingua. “Così, ferisci sia me che..” si interruppe quando le dita del ragazzo afferrarono il suo mento, girandolo verso di se per osservare l’entità della ferita. Grande mossa, per evidenziare il sarcasmo di poco prima, quasi non fosse stato comunque evidente. Non potè trattenersi dall’irrigidirsi visibilmente, mentre la mano stringeva il bicchiere di whisky tanto da far diventare le nocche bianche. Si chiese se avesse potuto rompersi, ma fu solo un attimo. Quando mai qualcuno come William aveva rotto uno spesso bicchiere di vetro, solamente stringendolo nella mano? Si trattenne, per amor proprio, dal chiudere gli occhi. Ma l’occhiata che rivolse al suo interlocutore non fu affatto amichevole.
    Una mano al bavero della camicia lo strattonava in alto, tanto che per stare in piedi doveva alzarsi sulle punte: Will era alto, ma suo padre lo era di più. L’altro mano una presa ferrea sotto il mento, in modo che Will non potesse distogliere lo sguardo dalla scena in salotto. “lo vedi quello che hai fatto, idiota? Così impari a non scendere quando tuo padre entra in casa. Guarda!” Elizabeth era raggomitolata a terra, il labbro sanguinante, lo sguardo vacuo studiava gli intarsi del tappeto che aveva tanto insistito per comprare. William aveva guardato.
    E ora non poteva fare a meno di osservare il ragazzo seduto sullo sgabello di fianco a lui. Strano come le situazioni potessero cambiare, mentre le sensazioni rimanevano sempre le medesime.
    “Confermo, sopravvivrai. Ho visto di molto peggio”
    La presa non era forzata come quella di Simon, volendo avrebbe potuto distogliere lo sguardo. Era bello avere la possibilità di scegliere: non se n’era reso conto per molto tempo. La gente sottovaluta quel tipo di fortuna, ma essere privati di un alternativa rende ogni decisione, anche quella migliore, la peggiore che avresti mai potuto fare. Quando le dita lasciarono il mento, lentamente si volse di nuovo verso il bancone, perso in ricordi che sperava ormai sotterrati. Ma quei piccoli bastardi finivano sempre per tornare a galla, pronti a divorarti il cuore nel momento stesso in cui gliene davi una minima possibilità. Forse Will, un cuore, nemmeno ce lo aveva più. Eppure il dolore si faceva sentire come la prima volta: l’impotenza, l’inettitudine, l’amarezza. In compenso con il passare degli anni era diventato più bravo a nasconderlo, come se bastasse ignorarlo perché passasse.
    Ti ringrazio per la diagnosi, ora mi sento molto più tranquillo” Si passò di nuovo la lingua sul labbro, facendo una smorfia quando il sapore del sangue si mischiò a quello del whisky. “Hai qualcosa di strano, ragazzino. Però..” aggrottò le sopracciglia. Will che dava dello strano a qualcuno, era davvero l’apoteosi dell’ironia. “Strano buono. E per favore, non ripropormi la frase di circostanza del senti chi parla, ormai è scontata e banale” Probabilmente il Whisky stava cominciando a fare i suoi effetti, perché si sentiva quasi in pace con il mondo. “William, ma in realtà puoi chiamarmi come vuoi” disse sempre in direzione del tipo al suo fianco. Sapeva che l’informazione era superflua, e immaginava non interessasse un granchè al ragazzo, ma stranamente aveva voglio di dirlo a qualcuno. Di dire che lui era William, il cognome poco importava, e che lui esisteva a prescindere degli altri. Che anche in un locale in cui nessuno lo conosceva, lui esisteva per sé stesso.
    Dannatamente in pace con il mondo.
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    Evan Devereux
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    Con un cenno della testa, accompagnato da uno sguardo piuttosto loquace, Evan attirò l’attenzione del barista, chiedendoli, tacitamente, se potesse fumare all’interno del locale. Da anni, oramai, la cosa era vietata all’interno dei luoghi pubblici, ma il Testa di Porco non era il tipo di pub che soleva scandalizzarsi per una sigaretta. Tutt’altro. Una cupola di fumo denso, che ad intervalli regolari era diradata da un incanto lanciato quasi in maniera distratta da uno degli inservienti della celebre birreria di Hogsmeade, aleggiava sopra le testa, rese leggere dall’alcol, della clientela. Se non ricordava male, il proprietario era un estimatore della pipa, oggetto, per lui, tanto insolito quanto interessante. Certo, non avrebbe abbandonato le sue sigarette per quell’artificio così antico da parere un manufatto storico, ma ne era comunque attratto.
    Così come era affascinato dai libri antichi, ricchi di pagine ingiallite dall’usura infrenabile del tempo e abbellite da disegni sapientemente fatti a mano con colori sgargianti. Così come era stregato dai racconti degli anziani, che molto hanno visto, molto hanno imparato e tanto hanno di che raccontare. Ricordava ancora, con una fitta al petto, le lunghe ore trascorse sulle ginocchia di sua nonna.
    Rimembrava il potere delle sue parole, la forza del suo incedere placido, la melodiosa cadenza della sua voce stanca e resa roca dal troppo parlare. Rimembrava quei suoi capelli canuti, raccolti a scoprire un viso dolce, nonostante il segno impietoso dei molti inverni vissuti. In quelle sue rughe, dove le lacrime dei suoi occhi parevano perdersi, lui aveva letto più verità di quelle che mai nessun libro gli avrebbe svelato. Il volto di quell’anziana donna, seppur segnato da quella terribile malattia che, dopo anni di stremante lotta, l’aveva vinta, era una delle più belle pagine del Libro della Vita.
    Nulla, di quello che segnava quel viso, poteva essere rintracciato nel suo. Evan Devereux disprezzava quella vita che gli era stata imposta, costringendolo ad affermare che si trattasse di un dono. Lui, quel vivere dannato, non lo avrebbe mai voluto. Volentieri, se gli fosse stato possibile, lo avrebbe restituito a quella donna che glielo aveva offerto, sperando che lei, a differenza sua, avesse il coraggio di andare fino in fondo.
    Questo pensava, mentre attendeva che Barth, il barman, afferrasse uno dei molti posacenere che teneva sotto il balcone. Glielo porse con aria furtiva, temendo che Giselle ritornasse dal retrobottega armata di una qualche mannaia, per potergli troncare la testa con un colpo netto e ben assestato.
    Fortunatamente, la donna non si vide e così anche lui, che aveva abbandonato il cupcake a metà, poté agire senza sentire il suo sguardo astioso sulla pelle. Afferrato un pacchetto sgualcito dalla tracolla, prese con le labbra una sigaretta. Per un attimo, soppesò il suo compagno di chiacchierata, che quasi non stava ascoltando, per poi far scivolare la confezione sdrucita sul legno lucido, così che anche lo sconosciuto potesse favorirne. La fiamma generata da un accendino Babbano d’argento bruciò l’estremità della sigaretta che aveva tra le labbra, infiammando le foglie di tabacco più scoperte al terribile mondo esterno. Era un vero peccato che da quelle ceneri, le quali si sarebbero presto ammucchiate nella pittorica testa di cinghiale di cristallo cava all’interno, non sarebbe rinata, poi, una fenice. Era un vero peccato come, da cose schiave della nullità, non potesse mai nascere nulla di buono. Si sentiva come cenere: ricordo di qualcosa di magnifico, depredato, vinto e massacrato fino a divenire poco più che polvere.
    Posò con parsimonia l’oggetto d’acciaio tra la sua persona e quella del ragazzo che aveva seduto al proprio fianco. Non avrebbe dovuto farlo: un Purosangue non avrebbe mai dovuto mostrarsi con qualcosa di Babbano tra le mani. Eppure, non gli importava: c’era qualcosa, nell’accendersi una sigaretta con un colpo di bacchetta, che rendeva quel gesto molto meno poetico. Prometeo aveva dato la propria libertà per donare all’uomo il fuoco, chi era lui per deprecare quel gesto eroico usando una magia d’incendio?
    Una boccata di fumo gli riempì il petto. Quel sapore, quel odore, quel sentore aveva realmente il potere di inebriarlo. Ambrosia, quasi un divino premio di consolazione. Annegò il tutto nell’ultimo sorso di rum, che svuotò il bicchiere.
    «Me ne faresti un altro?» chiese educato, rivolgendosi all’imponente figura maschile che gli stava innanzi. Alla fine di quel secondo giro, probabilmente non sarebbe stato altrettanto sicuro sui contorni di quell’uomo, ma la cosa, invece di causargli una qualche forma di ribrezzo, lo esaltava. Quando era ubriaco sentiva molto meno dolore, anche se i tagli che si infieriva erano meno precisi. Ferite slabbrate e troppo profonde, per cui il giorno seguente si sarebbe persino maledetto.
    «Dimentichi il contesto» disse, all’improvviso, riallacciandosi al pensiero del suo compagno di bevute «Ciò che ci circonda è fondamentale. Al buio, rosso e blu sono il medesimo colore» continuò, posando la testa, segno di una certa stanchezza, sul pugno chiuso, il gomito impuntato contro lo spigolo del balcone. «Nell’oscurità, un pugno è solo un sibilo nell’aria. Un fruscio che potrebbe terminare con un pugnale, stretto tra le dita della mano, conficcato tra le scapole. O con un setto nasale deviato».
    Rispose al suo teatrale invito ad un brindisi alzando a sua volta l’old fashioned, finalmente riempito di altro rum. Avrebbe dovuto forse esclamare un “salute”, ma sarebbe stato ridicolo. Quei due, insieme, avrebbero spinto chiunque a pensare che qualche reparto del San Mungo era stato fatto evacuare per una pestilenza di Vaiolo di Drago. Si trattenne, per bontà all’altro, visto che per sé di rado ne aveva.
    «Non sei stupido, ma avventato» gli rispose, anche se, in fin dei conti lo sapeva, quel ragazzo non cercava alcun responso. Aveva, nel viso, la convinzione di chi sa sempre come comportarsi, nelle situazioni che meritano una certa freddezza. «E la cosa, in effetti, mi stupisce». Anche lui, in effetti, aveva tratto le proprie conclusioni, da quando aveva fatto la sua conoscenza e i risultati, stranamente, erano fin troppo spesso contrastanti.
    «Comunque, no, non ci insegnano nulla di tutto ciò, ad Hogwarts». Da anni, oramai, la scuola di Magia e Stregoneria più celebre del Regno Unito non spiegava più, ai suoi studenti, come affrontare la vita: venivano addestrati a combattere, piegati sotto i colpi della tortura. Veniva insegnato loro come morire. Con onore, secondo i dettami della Howe.
    Lo sentì irrigidirsi sotto la sua presa, mentre il suo sguardo si faceva vacuo. Lo liberò da quella presa appena se ne accorse, pentendosi di averlo toccato. In effetti, lui odiava profondamente chi, d’improvviso, lo sfiorava senza chiedergli il permesso. Aveva avuto diverse reazioni violente, in passato, grazie a quella sua avversione al contatto, dovuta ad un autolesionistico bisogno d’attenzioni. Una volta, gli era costato espulsione da scuola: un vero peccato, la Mahoutokoro, se paragonata ad Hogwarts, era un piccolo paradiso in terra.
    L’ennesimo respiro attraverso il filtro della sigaretta. La regolarità di questo gesto era una di quelle poche punte di lucidità di cui Evan aveva reale bisogno. Il resto era illusione e follia: poteva chiudere gli occhi e fingere d’essere un’altra persona, in un tempo diverso, in un luogo lontano centinaia di chilometri.
    Alle parole che seguirono di quello che disse di chiamarsi William, lui rispose con una risata allegra.
    «Non ti preoccupare, non ti dirò che sei strano. Mia madre si è prodigata anni per darmi un’educazione esemplare» rispose, sorridendo gentile «Sei un frocetto guerrafondaio, molto preso dalle tue elucubrazioni mentali» continuò, poco dopo, ritornando al suo bicchiere di rum «La leggera forma di afefobia, poi, indica un trascorso decisamente infelice. Violento, probabilmente. La reazione esagerata allo sgambetto di Jerome, invece, suggerisce un forte desiderio di rivalsa, ancora non completamente soddisfatto. Senti la necessità di mostrarti forte, sempre e comunque, anche se non lo sei. O non credi di esserlo» le sue mani, mentre tra l’indice e il medio della destra fumava ancora la sigaretta, si posarono sullo sgabello, in mezzo alle gambe aperte di Evan «Prima, mentre parlavamo, ti sei sminuito, con un’ironia pungente. Crudele. Chi è impietoso con se stesso è un insicuro che cerca di mascherare la propria debolezza: attira l’attenzione altrui sui propri punti deboli, illudendosi così d’averne un pieno controllo, anche se in realtà lo fanno soffrire». La sua voce, quella sera, non aveva alcuna inclinazione, né cattiveria né scherno. Era quello il vero volto di Evan, quando egli aveva il coraggio di privarsi della sua maschera. Freddo ed insensibile al dolore, proprio ed altrui
    «Eppure, ti mostri spavaldo e sicuro di te» lo guardò negli occhi, quelli che già lo avevano attirato in precedenza, durante quel piacevole colloquio «Interpreti un personaggio, costruito quasi alla perfezione. Quindi no, non sei strano. Sei solo un ragazzo forse troppo pensieroso»
    Trasse l’ultima boccata dalla propria sigaretta. Il tabacco ardeva ancora scarlatto. Poggiò con cura il mozzicone nel posacenere, facendo attenzione a non spegnerla.
    Immerse la punta del dito indice della mano destra nel rum, inumidendolo leggermente. Con un gesto lento e misurato, sfregò la pelle del polso sinistro con la sostanza alcolica. Attese pochi istanti, necessari a che il liquido si asciugasse, lasciando la zona disinfettata. Una precauzione quasi ridicola, visto ciò che stava per fare.
    Impugnato ciò che rimaneva della sigaretta tra pollice ed indice, vi soffiò piano riattizzandola. Quando vide una sfumatura cremisi lo premette con forza contro la carne, fino a spegnerlo.
    Depose l’oggetto, improvvisato metodo di dolore auto-inflitto, dove lo aveva trovato e, con un respiro, allontanò la cenere dalla ferita, circolare e ben circoscritta. Qualche traccia grigio scura rimase bloccata nella carne viva portata allo scoperto. Giselle, appena ritornata dal retrobottega, rimase sconvolta, senza dire una parola.
    «Allora, quanto mi sono avvicinato alla verità?» domandò, rivolgendosi nuovamente al suo interlocutore.
    Si mordeva piano l’unghia del pollice. Curioso. Ma vuoto.
    «Comunque, piacere, Willie»


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    William Barrow
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    «You have to learn the rules of the game. And then you have to play better than anyone else.»
    William studiò attentamente il contenuto del suo bicchiere, che di nuovo lasciava intravedere il tristissimo e desolato fondo del bicchiere. Finiva sempre tutto troppo in fretta, non si aveva nemmeno il tempo di rendersene conto finchè non si era giunti alla conclusione. Molto patetico, in effetti. Non che lui facesse eccezione: aveva vent’anni, ed era in un bar pieno di gente rissosa e ragazzini vissuti, in cerca di un po’ di conforto e di comprensione dentro un bicchiere di Whisky Incendiario. La sua giovinezza era sputtanata per un ideale che molti deridevano, e in cui nessuno credeva davvero seriamente. Era un po’ come la religione: è quasi d’obbligo sentire di crederci quando si viene messi all’angolo, ma nessuno va alla ricerca di Dio per avere la salvezza. Fin troppo comodo. Come se la vita avesse avuto un telecomando per poter andare avanti e indietro a piacimento, o cambiare programma poiché quello attuale era noioso: bisognava alzare il culo e fare davvero qualcosa, ma sembravano capirlo in pochi. E così Barrow si ritrovava in quel buco a crogiolarsi nell’alcool, rimpiangendo i tempi in cui tutti pendevano dalle sue labbra e facevano solamente quello che approvava egli stesso, a conversare amichevolmente con un tipo che, più parlava, più si rivelava essere strano. Non sapeva se la cosa fosse positiva o negativa.
    Osservò il giovane prendere un pacchetto di sigarette dalla tracolla, e con l’entusiasmo con cui glielo porse facendolo scivolare fluidamente sul bancone non potè non accettare l’offerta. Ogni gesto fatto dal fanciullo al suo fianco sembrava essere un peso, quasi che la vita stessa fosse difficile da accettare. Quasi che gli stesse facendo un favore, a parlare con lui. La cosa l’avrebbe irritato alquanto, se solo gliene fosse importato. Se fosse stata una riunione in cui i ribelli l’ascoltavano con un solo orecchio solo per farlo felice, li avrebbe schiantati tutti e chiusi in uno sgabuzzino finchè non rinsavivano e non prestavano più attenzione alle sue parole. Era maledettamente egocentrico, William Barrow. Ma alla Testa di Porco, l’attenzione del tipo lo interessava marginalmente; probabilmente avrebbe anche parlato da solo, da lì a qualche bicchiere. Prese la sigaretta e la portò fra le labbra, osservando con la coda dell’occhio l’oggetto argentato con cui l’altro stava accendendo la sua. Will non impazziva per gli accendini, per cui lasciò l’oggetto a metà fra loro e prese dalla tasca della giacca la scatola di piccoli fiammiferi con cui era solito andare in giro. La sua indole da piromane mancato adorava sfregare la capoccia del fiammifero sulla parte ruvida, vedere la scintilla ed il fuoco che subito ne nasceva . Avvicinò la fiamma alla punta della sigarette, e questa dopo una boccata prese subito ad ardere, lasciando dietro di sé una scia di fumo grigio che lentamente, quasi avesse tutto il tempo del mondo, saliva verso l’alto a far compagnia al fumo di altre decine di sigarette fumate da altrettante labbra dipendenti. O pipe, ne era pieno; lo disgustavano, ma chi era lui per dire agli altri cosa fare?
    “Dimentichi il contesto.Ciò che ci circonda è fondamentale. Al buio, rosso e blu sono il medesimo colore”
    Will inarcò un sopracciglio e roteò lentamente gli occhi nella direzione del fumatore accanto a sé. A volte capitava che gli altri parlassero e lui si estraniasse del tutto, perso nei meandri di pensieri talmente effimeri che non aveva nemmeno il tempo di toccarli con mano prima che questi sparissero. Eppure non gli sembrava di essersi distratto, quindi la seconda opzione era che il giovane avesse già bevuto qualche bicchierino di troppo, perché la sua uscita trionfale era fuori luogo quanto un arrosto di maiale a merenda.
    Così, non rispose.
    “Nell’oscurità, un pugno è solo un sibilo nell’aria. Un fruscio che potrebbe terminare con un pugnale, stretto tra le dita della mano, conficcato tra le scapole. O con un setto nasale deviato”
    Barrow cambiò idea: probabilmente non era solo l’alcool in corpo, il ragazzino doveva aver mischiato anche qualche erba magica che non si coltivava nelle serre di Hogwarts. Cercò di seguire il filo del discorso, ma decise che annuire con sentimento sarebbe stato altrettanto consono alla situazione. Aspirò una boccata dalla sigaretta e lasciò uscire il fumo in piccoli cerchi che mano a mano si allargavano sopra il suo capo, diventando ovali ed infine sciogliendosi in fili come gli altri.
    “Non sei stupido, ma avventato. E la cosa, in effetti, mi stupisce”
    Era sempre un piacere sentirsi dire che pareva stupido, e che stupiva scoprire il contrario. Davvero, l’alcolista anonimo stava guadagnando punti agli occhi dell’ex corvonero: William rischiava davvero di arrossire, con tutti quei complimenti. Un sorriso di circostanza gli incurvò le labbra, mentre nuovamente portava loro vicino la sigaretta.
    “Comunque, no, non ci insegnano nulla di tutto ciò, ad Hogwarts”
    Si inumidì le labbra, dove aleggiava ancora l’ombra del sorriso precedente. Barrow ricordava perfettamente quello che insegnavano a scuola: istruivano degli assassini in ambienti asettici. Facile torturare qualcuno quando questi è legato con delle manette nella Sala; facile uccidere qualcuno quando sei obbligato a farlo. Perché se ti privano della scelta, non puoi pensare di fare altrimenti. Non puoi permetterti di pensare alla vita che stai troncando, a quello che il malcapitato lascia di sé al mondo; non puoi chiederti se ha detto ti voglio bene a sua madre prima di lasciare casa sua, o se l’ultima volta le ha sbattuto la porta in faccia e non ha più avuto il tempo di chiederle scuse. Quando invece ti si pongono davanti tutti questi interrogativi, e quando devi scegliere se privare qualcuno o meno della sua esistenza, lì muori un po’ anche tu. Ed alla fine la vita si riduceva a quello: un mero crocevia di scelte, cui non saprai mai la risposta giusta.
    Non gli domandò cosa invece gli insegnassero a scuola, ritenendolo un aneddoto superfluo e per nulla rilevante a quella conversazione altresì emozionante.
    “Non ti preoccupare, non ti dirò che sei strano. Mia madre si è prodigata anni per darmi un’educazione esemplare”
    William si stava trattenendo fin troppo, evidentemente il whisky non aveva ancora fatto il suo dovere, poiché altrimenti gli avrebbe spiattellato quanto quella famigerata educazione esemplare fosse stata mal assorbita dalla sua giovane mente. Della sere: qualquadra non cosa.
    Quello che non si sarebbe aspettato andando alla Testa di Porco, era di trovare uno psicologo. E gratis, per di più! L’apoteosi del piacere: se avesse avuto anche il lettino, in cui non gli sarebbe spiaciuto affatto fare un sonnellino, l’avrebbe reso davvero un bimbo felice.
    Sei un frocetto guerrafondaio, molto preso dalle tue elucubrazioni mentali. La leggera forma di afefobia, poi, indica un trascorso decisamente infelice. Violento, probabilmente. La reazione esagerata allo sgambetto di Jerome, invece, suggerisce un forte desiderio di rivalsa, ancora non completamente soddisfatto. Senti la necessità di mostrarti forte, sempre e comunque, anche se non lo sei. O non credi di esserlo. Prima, mentre parlavamo, ti sei sminuito, con un’ironia pungente. Crudele. Chi è impietoso con se stesso è un insicuro che cerca di mascherare la propria debolezza: attira l’attenzione altrui sui propri punti deboli, illudendosi così d’averne un pieno controllo, anche se in realtà lo fanno soffrire. Eppure, ti mostri spavaldo e sicuro di te. Interpreti un personaggio, costruito quasi alla perfezione. Quindi no, non sei strano. Sei solo un ragazzo forse troppo pensieroso”
    Non lo interruppe nemmeno per un attimo, curioso di quanto colui che l’aveva appena redarguito sul non giudicare alla prima impressione, data la notevole bontà d’animo di quella montagna di Jerome, avesse elaborato un minuzioso profilo psicologico di William Barrow. La coerenza. Si picchiettò il mento con l’indice, mentre di sottecchi lanciava occhiate al giovane Freud. Prima di rispondere alcunchè, bevve un altro sorso di Whisky sperando in aiuto, se non divino, almeno alcolico.
    Poi però osservò le mosse del ragazzo; Dio santissimo, lui aveva bisogno di una mano. Cercare di comprendere gli altri era spesso sintomo di una mancanza interiore: non voler riconoscere in sé stessi ciò che nell’altrui persona appariva così cristallino. E mentre Freud Junior, con minuziosa cura, riaccendeva soffiandovi sopra la brace della sigaretta e schiacciava quest’ultima contro la carne, William pensò di aver di fronte uno psicopatico. Uno di quelli che, in un momento d’ira, prendono un piccone e te lo piantano nel cranio. Fu un pensiero così rapido che non vi credette nemmeno lui, mentre invece si accendeva un barlume d’ira probabilmente fomentato dal whisky che entrava in circolazione. Quanti ragazzi aveva visto Will con tracce di bruciature, che ancora si vergognavano a mostrare, poiché inflitti da aguzzini che volevano solamente umiliarli? E quanto avrebbero dato quelle vittime per non averle più sulla pelle? E invece, dinanzi a lui, quasi fosse la cosa più normale del mondo, il ragazzino si era appena spento la sigaretta su un braccio. Scelta sua, continuava a ripetersi il ribelle. Bevve un altro sorso di whisky e distolse lo sguardo, mentre un’idea sull’origine delle cicatrici scorte prima sulla pelle del ragazzo cominciava a formarsi nella sua mente.
    “Allora, quanto mi sono avvicinato alla verità?”
    Si grattò distrattamente un sopracciglio, e si voltò completamente verso il suo interlocutore, poggiando un gomito sul bancone. “Dipende dai punti di vista. Premetto che apprezzo la tua analisi non richiesta, è sempre interessante sapere cosa gli altri pensano del sottoscritto. Specialmente dato il soggetto in analisi, notevole di per sé” si inumidì le labbra ed aspirò dalla sigaretta, ormai quasi a metà. “ Innanzitutto, non mi piace la definizione frocetto, trovo che sia denigrante: preferisco di gran lunga colui che apprezza l’essere umano in ogni sua forma, e ti consiglio, se vuoi continuare questa tua carriera improvvisata, di segnartelo da qualche parte. Non tutti i clienti hanno un senso dell’umorismo come il mio. Sul guerrafondaio, non ho nulla da ridire. Come saprai, la guerra è sempre la soluzione. A meno che tu non preferisca stare a guardare e girarti i pollici mentre tutto intorno a te si modifica, incurante di quanto la situazione possa modificare la tua modesta persona” Fece spallucce, roteando il bicchiere fra le mani. “La diplomazia non è il mio forte, e da quanto vedo nemmeno il tuo. Ovviamente sono preso dalle mie elucubrazioni mentali, altrimenti non penserei nemmeno e sarei un sasso. Come hai scoperto prima con grande stupore, e mio rammarico, non sono uno stupido. Tu devi essere proprio un bravo ragazzo, se non ti secca quando la gente ti tocca. Ho passato abbastanza tempo nella Sala delle Torture, da non sentire la mancanza di mani estranee sul mio corpo. Ovviamente, dipende dal contesto, ma questo” indicò con un vago cenno della mano il locale. “Decisamente non è il più appropriato. L’istinto di rivalsa è intrinseco in ogni uomo che veda in sé stesso un predatore e non una preda. Se in te non è presente, mi farei qualche domanda” Lanciò uno sguardo al cerchio ancora rosso sul polso del giovane. “O forse, hai già le tue risposte. Ovviamente devo sempre mostrarmi forte, altrimenti divento preda, cosa che preferirei evitare. Mi piace il tuo modo di pensare, ma sai ancora troppo poco degli esseri umani per poter avere un’analisi completa su di essi. In special modo su di me: ci hanno provato in tanti, non sei il primo e non sarai l’ultimo.” Barrow si avvicinò abbastanza da invadere gli spazi personali dello studente. “Come potrai notare nel corso della tua vita, sempre se vivrai abbastanza, le persone sono ironiche con sé stesse solamente se sono sicure della propria identità. Sarebbe scialbo e privo di gusto ironizzare su qualcosa che non si conosce e, nel mio caso, non si apprezza. Quindi la mia ironia, e la mia spavalderia, coincidono per il medesimo significato: so chi è William, e sono abbastanza sicuro di me stesso da potermi permettere che gli altri, invece, pensino il contrario” Un mezzo sorriso divertito gli increspò un angolo delle labbra, mentre soffiava l’ultimo filo di fumo sopra la testa del ragazzo. “Non ho bisogno di interpretare un personaggio, sono i personaggi che si basano sul sottoscritto per mettere in scena il loro atto. E sono pensieroso perché è solo il pensiero a decidere cosa un uomo è o non è” Tornò a sedersi comodamente sullo sgabello, incrociando le caviglie una sull’altra. Prese il mozzicone di sigaretta rimasto fra il pollice e l’indice. “In conclusione, direi che hai le capacità, ma non ti applichi. E ora, Freud” gli porse la sigaretta ancora fumante. “Vuoi spegnere anche questa sul braccio, o a questo giro preferisci un tizzone?” chiese con un sorriso ingenuo. Chi era lui, in fondo, per giudicare gli hobby altrui?
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    Evan Devereux
    Slytherin • 17
    «In the blood I fulfilled myself»


    Finì ciò che rimaneva del suo rum con un sorso. Gli bruciò la gola. Capovolse l’old fashioned sul poggia bicchiere, marchiato con il volto di un cinghiale dall’aria ubriaca, come si conveniva al Testa di Porco, e lo fece scivolare verso Barth. Aveva finito di bere, per quella sera.
    L’orologio appeso alla parete lo avvisò che l’orario del coprifuoco era scattato e che lui, Caposcuola Slytherin, avrebbe dovuto trovarsi a letto, o a fare la ronda. Sapeva che se qualcuno lo avesse scoperto lì, cosa non poi così improbabile viste le abitudini alcoliche di buona parte del corpo docenti, la Sala delle Torture lo avrebbe accolto, violenta e maledetta. Istintivamente, si accese un'altra sigaretta. Si voltò per annuire a quello che il suo compagno di chiacchierata stava dicendo, ma lo fece per mera educazione. Sentiva le sue parole, i suoi insulti, ma aveva altre preoccupazioni. Frugò nella sua tracolla fino a trarne la spilla che identificava il suo incarico, oltre alla sua casata. Appena uscito da quel locale se la sarebbe appuntata al petto, così che, una volta superati i confini di Hogwarts, nessuno avrebbe potuto contestare il fatto che si stava adoperando per portare a termine i suoi compiti. Trovatala, schiacciata sotto un tomo pesante di Erbologia che aveva studiato un po’ durante il suo impiego da Olivander, la abbandonò nei pressi del suo accendino d’argento.
    Carpì altre informazioni da tutta quella sequela di parole che il tizio gli stava rifilando, anche se l’attenzione che gli stava prestando era relativa, così come era stata prima quella di lui. Avrebbe voluto ascoltarlo con più dovizia, ma d’improvviso, quella che in un altro scenario, in un universo alternativo, avrebbe chiamato “preoccupazione” lo colse. Certo era che, Willie, carinissimo orsacchiotto punk, amava due cose: se stesso e le parole vuote di significato. Onomatopee di una convinzione necessaria a vivere, di una bugia.
    Era arrivato a parlare del suo essere predatore, quando Evan, intercettando lo sguardo di Giselle, le domandò, muovendo solo le labbra, se ci fossero notizie di Aaron. Quella, ancora piuttosto scossa dallo spettacolo che lui aveva messo in scena, scosse la testa, dispiaciuta. Sentì la mano di lei posarsi sulla sua spalla, mentre, reggendo un grosso boccale colmo di birra scura, si dirigeva verso un tavolo lontano.
    Non c’erano più notizie di suo fratello da oramai almeno un anno: nessuna informazione, né sulla sua posizione né sulla sua salute. Poteva essere morto e lui, in quello stupido angolo di campagna inglese, non lo avrebbe saputo. I vermi potevano già aver cominciato ad intaccare il suo cadavere, mentre lui, lì, sprecava la propria esistenza in un locale sudicio con un ragazzo evidentemente infastidito dalla sua presenza. Avrebbe voluto concedersi, per una sera soltanto, un briciolo di verità, ma, di nuovo, questa l’aveva schiacciato al suolo. Un piede pesante gli schiacciava il petto.
    Il desiderio di toglierselo di dosso lo bruciava, come quel liquido rossastro che gli scendeva giù nella gola, ma non poteva nulla. Inedia, apatia, tedio: queste tre parole lo caratterizzavamo. Viveva per la vendetta, ma, nell’attesa del suo sopraggiungere, del momento adatto a colpire, restava immobile. Vinto dalla violenza, accecato da una delirante necessità di perfezione. Tentava d’essere inappuntabile e, ogni volta, la sua natura umana lo contraddiceva: mai all’altezza delle aspettative, mai abbastanza. Non gli restava più nulla, se non la polvere del pavimento gelido, su cui si risvegliava ogni giorno, dopo una sera passata a farsi del male, e le urla: quelle di sua madre, affilate e crudeli, e quelle di suo fratello, sofferenti. Queste ultime, in vero, erano quelle che più lo ferivano. Più della lama che solcava la sua carne, come un vascello il mare.
    Attese che il ragazzo, occhi cupi e mondo sulle spalle, terminasse la sua omelia. Sentì una divina vocazione e il bisogno di chiedergli la concessione del perdono. Sentì chiaramente il delirio nella voce di lui.
    «In realtà, ho sempre preferito Jung» gli disse, accennando un sorriso cordiale. Un sorriso finto, sbrigativo. Doveva ricominciare a vestire i propri panni, pesanti e asfissianti, come il nodo di una cravatta troppo serrato. «Freud sarebbe stato capace di ricondurre al sesso anche una gastrite, se gli si fosse stata data la possibilità di provarlo».
    Trasse un respiro di tabacco, anelandone il profumo acre che contrastava con la dolcezza che l’ultimo sorso di liquore aveva lasciato alla sua bocca.
    Il modo in cui gli aveva offerto “un altro giro”, gli ricordò sua madre: quella donna di rado imponeva violentemente. Il suo modo di fare era subdolo: lo poneva dinnanzi ad una scelta, mettendo sul piatto opposto della bilancia qualcosa a cui lui teneva più di quanto tenesse a se stesso. Suo fratello, il più delle volte. Evan si ritrovava costretto a versare un tributo di sangue che fosse sufficiente a ripagare il dazio.
    Era, in fin dei conti, la stessa teoria alla base del trattamento che la Howe riservava ai suoi studenti: ferisci l’altro, o sarai ferito; storpiati lo spirito, se non vuoi che ad essere picchiato sia il tuo corpo.
    Tutte quelle fandonie, tutte quelle scusanti che il ragazzo aveva estratto dal suo cilindro, erano parole che aveva già sentito: castelli costruiti sul nulla, volti a spostare l’attenzione dal fatto che, nella grande maggioranza dei casi, Willie non aveva mai negato le sue costatazioni. Aveva risposto con cattiveria, spostando l’attenzione su di lui, tentando di fargli del male. Era come sue madre, come la Howe.
    Fu un fremito che gli corse lungo la schiena: l’istinto di autoconservazione, quello adottato con sua madre che gli aveva permesso di evitare che suo fratello divenisse la vittima delle attenzioni indesiderate della donna e quello assunto con la Howe che gli aveva permesso di non finire mai legato alla parete della Sala delle Torture.
    “China il capo e accetta. Il Tiranno è la Legge”
    Essere puniti ora, sul nascere, non avrebbe fatto sì che ribellarsi ancora causasse una pena ancora più aspra. Era questo il principio in base al quale Evan viveva, quello per cui il dolore del suo corpo era un eccellente palliativo a quello della sua mente.
    «Lavorerò sulla mia diplomazia, applicandomi con tenacia, ma per ora spero potrai soprassedere sulla mia lingua biforcuta» disse senza troppo sentimento «Le “mie risposte” non mi rendono particolarmente capace di reggere l’alcol» scherzò, con un cenno che, chiaramente, indicava le sue molte cicatrici. Ironizzo su di sé, con una ironia che, nel petto, gli fece dolere qualcosa. Servile dinnanzi all’autorità.
    «Dove?» gli chiese, prendendogli educatamente dalle dita il mozzicone ardente. Amethyst sarebbe stata fiera di lui: mai fare scortesia a chi è tanto generoso. Aveva già trovato un posto, poco sotto il polso sinistro, se lui gli avesse lasciato libertà di scelta.
    Attese che il dolore per la nuova bruciatura scemasse, poi, senza premurarsi d’altro, afferrò la bacchetta e riformulò gli incanti di dissimulazione. Metodico e preciso, prese dallo schienale della sedia la camicia bianca e la indossò, avendo cura d’abbottonarla fino al colletto e di non trascurare i polsini. La porzione di collo scoperta venne celata dalla sciarpa azzurra e dal nodo rapido che aveva fatto di questa. Si appuntò la spilla al petto, controllando che fosse perfettamente disposta. Si passò, poi, una mano nei capelli, cercando di pettinarli. Non vi riuscì, erano pur sempre le ultime ore di una giornata complicata.
    D’improvviso apparve, sul suo viso, il suo celebre sorriso finto, quello che aveva riservato già qualche volta a quello sconosciuto. Intimamente lo temeva: non si sarebbe stupido di scoprire che era il figlio non riconosciuto della Preside di Hogwarts. Voleva andare via da quel luogo, via dalle sue chiacchiere futili, via da quel senso di onnipotenza che si portava appresso. Via da lui. E da quella sensazione stomachevole.
    «Il prossimo giro, glielo offro io» esordì Evan, informando il barista mentre gli lasciava qualche galeone di troppo sul balcone, a cui, per un attimo si appoggiò. «Giselle, se dovesse cambiare qualcosa, informami subito».
    Era una raccomandazione che, oramai, le faceva da troppo tempo. Raccolse la sua tracolla, dove all’interno tintinnarono le boccette dell’Essenza di Dittamo che si era procurato quel giorno.
    «Buonanotte» disse, rivolgendosi ai due. Rivolse un cenno di saluto, accompagnato da un tirarsi di labbra, anche al suo compare.
    Mentre attraversava lo stanzone del pub, la sigaretta reclamò per l’ultima volta la sua attenzione. Appena fuori, la spense al suolo, pestandola piano. La luna, quella notte, rischiarava il cielo.
    Silenzio.


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