Guardami cadere.

Arthie

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    lost in the echo

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    « Quelli che non sanno ricordare il passato sono condannati a ripeterlo.»
    I muri erano umidi, le dita si aggrappavano facilmente alle pietre e altrettanto facilmente scivolavano via. L’aria era fresca, fin troppo per la maglietta lacerata della giovane, ed era tutto così buio che la ragazza si chiese se mai avrebbe rivisto la luce del sole. Poteva urlare con quanta voce aveva, ma l’avevano avvisata: nessuno l’avrebbe sentita, nessuno sarebbe venuto a soccorrerla. Ma era tenace, ed ostinata, e terrorizzata, tanto che ogni giorno ripercorreva lo stesso corridoio correndo a perdifiato, scivolando, sbucciandosi mani e ginocchia, finchè gli uomini con la maschera non la prendevano per riportarla alla sua cella. Gli uomini con la maschera: mai avevano detto quale fosse la loro fazione, mai avevano detto per quale lato della guerra combattessero. La rossa non aveva saputo niente da quel suo soggiorno; in compenso aveva conosciuto il dolore, così acuto e sconfinante che aveva finito per farla impazzire, la solitudine, e la perdita della speranza. Cosa rimane quando anche la speranza viene soffocata dalle lacrime e dalle urla? Cosa rimane quando, chiudendo gli occhi, non ci si aspetta più niente dalla vita?
    La risposta era niente. Non rimaneva più niente.


    Lydia si era svegliata, ma aveva così paura di aprire gli occhi e non riconoscere la stanza in cui si trovava che rimase con la faccia premuta sul cuscino, tremando visibilmente. Si ripetè più volte che era stato solo un sogno, ma non ci credeva nemmeno lei. Sempre più spesso capitava che le affiorassero alla memoria delle immagini, dei profumi, dei suoni. E sempre più spesso ne aveva il terrore. Era stata una mossa stupida andare ad Hogwarts, se tutto ciò che stava ricordando (sempre che fossero ricordi) le faceva desiderare di voler dimenticare di nuovo. Però, che fosse masochismo, insana curiosità, o quella sadica vena tipica degli esseri umani di torturare una pellicina finchè non ne usciva almeno una goccia di sangue, la Hadaway non si sarebbe tirata indietro. Ormai era in pista, e nonostante le scarpette facessero un male cane, tanto valeva ballare.
    Come un cerotto, Lydia. Apri gli occhi.
    La stanza che aveva preso al Paiolo Magico era diventata un caos totale: i vestiti erano in tutti i luoghi in cui non avrebbero dovuto essere, così come pergamene e piume. Si ricordava ancora della prima volta in cui si era svegliata lì dentro, tutto così spoglio e vuoto da farle sentire freddo dentro. L’unico modo che conosceva per sistemare le cose, era distruggerle.
    Era mattino presto, così presto che le doleva il cuore al solo pensiero di essere già sveglia. Di certo di tornare a dormire non se ne parlava. Non che avesse propriamente paura, ma una piccola parte di lei le diceva che era più saggio non tentare la sorte un'altra volta, quel giorno.: come poteva dire no alla sua coscienza? Si alzò dal letto e andò in bagno. Rabbrividii quando, guardando la vasca, vide sé stessa con gli occhi chiusi coricata dentro il marmo bianco, con l’acqua che aumentava di livello. Se non si fosse svegliata a breve le avrebbe coperto il naso, le orecchie, le morbide labbra e gli occhi: sarebbe affogata. Il cuore cominciò a battere all’impazzata, mentre l’acqua copriva il viso bianco come la porcellana. Aprì le labbra in urlo muto, ma quando sbattè le palpebre l’immagine era scomparsa. Si appoggiò alle piastrelle, fresche a contatto con la pelle nuda e surriscaldata della rossa, finchè il battito non tornò regolare. E poi rise, in un deja vu che non poteva far altro che farle venire la pelle d’oca, un suono così estraneo e rumoroso in tutto quel silenzio che di punto in bianco le venne da piangere. Si sentiva così sola, chiusa nel bozzolo della sua esistenza priva di passato. Così vuota.
    Quando sorrise allo specchio in frantumi (non si ricordava di averlo rotto, quand’era stato? La sera prima?) solo metà viso ricambiò la sua espressione, lasciandola nel dubbio su cosa stesse mostrando l’altro lato del suo volto.
    Una doccia, vestiti puliti ed un caffè dopo, Lydia Hadaway passeggiava per le strade di Diagon Alley circondata dal silenzio che solo il mattino prima dell’alba poteva dare, quando tutti erano ancora immersi nei loro incubi personali. Si scoprì a canticchiare fra sé, le gambe fasciate da collant spesse mentre i passi seguivano il ritmo di quella melodia. Indossava una corta gonna blu elettrico, una camicetta bianca ed una giacca dello stesso colore della gonna, un bel contrasto con il colore acceso dei suoi capelli rossi, che quel giorno le ricadevano in morbide onde ai lati del viso. Dimenticato il sogno della notte, sorrise fra sé e sé concentrandosi sulla scuola. Il passo seguente fu una giravolta a Diagon Alley, quello dopo davanti ai cancello del castello di Hogwarts.
    Non seppe mai come arrivò alla Torre dell’orologio. Si ritrovò semplicemente con le mani strette a pugno la balaustra di ferro, ed il ticchettio regolare del grande orologio alle sue spalle. Inspirò ed espirò lentamente, convincendosi che era stata una scelta voluta. Ma certo, lei era arrivata a scuola prestissimo, aveva davvero desiderato fare un giro sulla Torre. Quando alzò lo sguardo, e vide la luce delle stelle sopra di sé, si chiese se elle avessero memoria, o se fossero come lei. Allungò un braccio nella loro direzione, ed un sorriso inarcò le sue labbra rosse. Mancava così poco, perché potesse sfiorarle con la punta delle dita. Così poco, perché potesse scoprire se il loro cielo era il suo stesso. Chissà se alle stelle importava.
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    « Ricordare sarà la salvezza, o l'inizio della caduta.»
    Passi silenziosi e accorti celavano la sua presenza agli altri. Arthea Williams, alias Mnemosine, si muoveva furtiva su un tetto, come una gatta. Il suo obbiettivo camminava ignaro sotto di lei. Lo seguiva da quando, ubriaco a dovere, era uscito dalla testa di porco.
    Ultheas Rockreby, 51 anni, mangiamorte convinto, e braccio di quella grande macchina chiamata “regime”. Come un mastino, girava per i locali alla ricerca di qualche ribelle, ma come un coglione (scusate il termine) aveva finito per ubriacarsi a bestia. E quella notte i ribelli avrebbero potuto anche attraversargli la strada, tanto non li avrebbe riconosciuti. In quelle condizioni Rockreby era una facile preda. Nonostante lo scopo principale di Mnemosine fosse spingere la gente a ricordare, quella sera avrebbe aiutato quel tizio a dimenticare ogni cosa. La voce della genialata di Barrow alla festa si era sparsa. Immaginò che fosse stato Callaway stesso a chiedere a qualcuno di tener d’occhio il ragazzo. Non avrebbe permesso che qualcuno facesse del male a lui, che era la speranza, lui che era tutto.
    A volte si chiedeva se in fondo non ne fosse innamorata. Insomma, una ragazzina di 17 anni, che nutre una così cieca devozione per un ragazzo, un così forte istinto di protezione…tanta lealtà, non era forse assimilabile all’amore? Ma poi ricordava chi era, ricordava il perché di quella devozione. Lui era speranza. Speranza di un futuro migliore. Speranza di riavere indietro la vita che con le sue stesse mani aveva cancellato. Speranza di dare ai posteri un posto migliore in cui esistere, di dargli una vita migliore della sua. Lei era solo un’arma, da usare contro la dimenticanza, contro quel mondo corrotto…Ed in quel mondo non c’era spazio per i sentimenti. Aveva lasciato il suo cuore Glasgow, e lì sarebbe rimasto sepolto. Negli occhi di Jayden, nelle parole di una poesia.
    La sua vittima la riscosse dai suoi pensieri. Aveva rallentato il passo, e si era isolato in un vicolo buio. Era il momento propizio. Con la grazia di una farfalla scese giù da una grondaia. Il tetto non era altissimo, giusto un paio di piani. Ed era abbastanza leggera da non rischiare di precipitare con tutto lo scolo di rame sul quale scivolava silenziosa. Lo sorprese alle spalle, ed in un solo istante gli passò un laccio intorno al collo. Lo teneva saldamente, mentre questi si dimenava rischiando il soffocamento. Ciò che voleva fare però, era solo immobilizzarlo.
    “Oblivion”.
    Sussurrò, puntando la bacchetta alla sua tempia. Lo sentì pian piano rilassarsi, abbandonare la stretta e perdere i sensi. Si faceva pian piano più pesante. Un peso morto tra le sue braccia. Lo adagiò a terra, senza però lasciare la sua consueta firma stavolta. Quell’uomo si sarebbe semplicemente svegliato svuotato.
    Era una cosa orribile da fare, ne era consapevole. Ma era l’unico modo per lasciarlo vivere, per non fargli del male fisico. Will doveva restare al sicuro.
    Si avviò, facendo per andarsene, quando sentì le gambe cedere. Non le muoveva. Panico.
    Si voltò riuscendo a malapena a riconoscere la figura di un uomo, che doveva essere colui che aveva lanciato l’incantesimo delle pastoie alle sue gambe, prima di cadere a terra.
    In un attimo lui fu su di lei. Poteva sentire l’odore forte del suo sudore opprimerle le narici, il suo peso impedirle i movimenti.
    Chi diavolo era quel tizio? Da dove era sbucato?
    Un dolore allucinante la investì, all’altezza della fronte, come una sassata.
    Era stordita. I battiti del suo cuore erano accellerati, i suoi sensi rallentati dal colpo. Tutto si faceva come ovattato. Che fosse quella, la fine di Mnemosine, e di Arthea stessa??
    Riuscì con fatica a liberarsi, a prendere la bacchetta e a schiantarlo lontano da lei. Restò per un attimo a guardare quella figura, col fiato rotto, e la testa che le girava a mille. Sentì il sangue caldo rigarle la faccia. Un sicario, non uno dei migliori. Qualcuno la voleva morta. Doveva stare attenta a ciò che faceva. Un solo errore avrebbe messo in pericolo anche Will e gli altri.
    Evitò di restare ancora sul luogo del misfatto, ma prima di andarsene volle lasciare un ricordino al suo aggressore, affinchè si ricordasse con chi aveva a che fare. Una bella “M”, incisa sulla carne con un coltello, sulla mano sinistra. Quel segno avrebbe permesso anche a lei di riconoscerlo, se mai l’avesse rincontrato.
    Il colpo ricevuto alla testa però iniziava a farsi sentire. Dovette sfilarsi la maschera per constatare i danni. Il sangue fluiva dl suo sopracciglio destro.
    Siccome smaterializzarsi in quelle condizioni sarebbe stato un azzardo, optò per una passaporta. Una di quelle che aveva fortunatamente trovato nella stanza delle necessità. Un semplice portachiavi che l’avrebbe ricondotta nei pressi di Hogwarts. Doveva rientrare al castello prima dell’alba.
    Ma i guai erano appena iniziati.
    Strinse la passaporta e scomparve da quel vicolo.
    [...]
    L’ingenua Mnemosine, senza maschera, non atterrò sull’erba come si aspettava, ma su della fredda pietra. Il freddo pungente le lasciò immaginare che fosse all’esterno, ma aguzzando la vista si rese conto che non era così. Era ad Hogwarts.
    Oh merda!
    Pensò, mentre pian piano si rendeva conto di essere in cima alla torre dell’orologio. Forse la barriera magica era venuta meno, forse quella passaporta era più potente di altre. Non sapeva come fosse finita lì.
    Ma il problema più grande era il non essere sola.
    Una cascata di capelli rossi si parava a pochi metri da lei. O forse era il sangue che le colava a farglieli vedere rossi. Sarebbe morta quel giorno. Un’altra esecuzione pubblica. Stavolta era nei guai fino al collo.
    Tirò fuori la bacchetta, con la sensazione di disagio che le attanagliava lo stomaco. Era senza maschera, e nonostante le lenti a contatto viola, il vestiario non proprio da studentessa e capelli raccolti, era abbastanza riconoscibile.
    Restò immobile, con la bacchetta puntata verso quella possibile nemica, mentre la testa continuava a girargli all’impazzata. Avrebbe solo voluto tornarsene al suo dormitorio a vomitare e leccarsi le ferite. Ma purtroppo era incappata in un intoppo bello grosso.
    "Non ti muovere"... Sibilò a bassa voce, cercando di risistemarsi la maschera in faccia con la mano libera. Beh, aveva comunque una maschera di sangue in faccia, così, di riserva.
    Avrebbe dovuto cancellare la memoria anche a quella ragazza? Ragazza che tra l’altro, sembrava avere un volto familiare…

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    Ma che diavolo stava facendo? Stava davvero sorridendo al cielo come la protagonista di uno di quei romanzetti rosa, o di quei film di serie B, che concludono sempre con una bella stella cadente? Ritrasse la mano quasi avesse paura di essere vista da qualcuno, e si guardò accuratamente attorno per assicurarsi di essere l’unica. Un conto era che lei sapesse di non essere completamente stabile mentalmente, un altro che se ne rendessero conto anche gli altri. Aveva ottenuto un lavoro, era una persona semi rispettabile, e sorridere alle stelle non avrebbe fatto altro che alimentare le voci che giravano sulla cattedra di Divinazione e tutto ciò che ad essa era legato. Nonostante si sentisse una completa idiota, il cielo continuava ad attirare il suo sguardo come un magnete. Sapeva, anche se non ricordava come, che da qualche parte nel mondo c’era chi sosteneva che una volta morti, gli esseri umani fossero destinati a diventare stelle. Lydia non era ancora morta, per cui non sapeva quale fosse la risposta giusta, ma il pensiero di diventare una palla di fuoco nel senso più letterale del termine non la rallegrava affatto. Un punto caldo nell’universo così freddo, circondato dal nulla, troppo lontano per essere toccato da chiunque. Esattamente come si sentiva Lydia in quel momento. Non seppe bene quando, ma l’espressione estasiata era stata sostituita da una smorfia seccata, con sopracciglia corrugate e bocca semi aperta. Si lasciò andare ad un debole grido soffocato, frustrata da quel mondo che pareva così estraneo. Abbassò la testa e fece ricadere i capelli rossi al di là della balaustra, come una bandiera color sangue, mentre la fronte poggiava sul ferro freddo. Dio mio, era davvero in alto su quella torre. Chissà cos’avrebbe provato a tenersi in equilibrio su quella piccola protezione. Una vocina le urlava di provare, che male avrebbe fatto? Quella vocina che la spingeva sempre a fare la cosa sbagliata, a fare quello che l’avrebbe messa in pericolo; quella la quale sosteneva che più una cosa faceva male, più l’avrebbe fatta sentire viva, parte di quel mondo che sembrava averla masticata e sputata via come un chewing gum che ha perso il gusto. Era assorta soppesare quell’idea, quando un rumore simile ad uno strappo si fece strada dietro di lei. Istintivamente si voltò verso il centro della Torre impugnando la bacchetta, dove una figura era appena comparsa dal nulla -ma come diavolo era possibile? . Non vi era abbastanza luce da distinguere chi fosse, ma da quel che riuscì a vedere si trattava di una ragazza con un mantello –oddio, un’altra allucinazione- ed il volto coperto da uno strato di qualcosa che.. gocciolava. Le arrivò un odore metallico alle narici, ed istintivamente la sua memoria corse al corridoio buio e freddo, al suono delle porte che sbattevano, e le sue urla..
    “Non ti muovere"
    Lydia non sapeva niente del suo passato, ma era abbastanza certa di una cosa sul suo presente: odiava prendere ordini. Ed era sicura di un’altra cosa: conosceva quella voce, malgrado non sapesse associarla a nessun volto. Oppure si trattava seriamente di un’altra allucinazione, un ricordo distorto venuto a galla nel momento più impensabile, come la Hadaway riversa nella vasca quella mattina. Almeno quella non aveva parlato, però. Non si disturbò di soppesare la minaccia nemmeno per un secondo. “Lumos” Agitò la bacchetta con un fluido movimento del polso, e subito una luce bianca ne scaturì illuminando la nuova arrivata. Sussultò, perché quello che la ricopriva era sangue. Una parte di lei voleva correre a soccorrerla, più o meno, l’altra invece continuava a dire che c’era qualcosa di troppo strano in quella situazione, irreale.
    Si tappò il naso, chiuse la bocca, e tentò di respirare. Di nuovo non sapeva come faceva a saperlo, ma era a conoscenza dell’esistenza dei sogni lucidi, e di questi sapeva che per riconoscerli c’erano diversi possibili accorgimenti. Non era riuscita a respirare, quindi quasi sicuramente quello non era un sogno. Stappò le vie aeree boccheggiando e si appoggiò con la schiena alla balaustra, lanciando un’occhiataccia alla mascherata. “Ti racconto una storia. C’era una volta una ragazza che un mattino, accidentalmente, si era svegliata troppo presto; decise così di andare prima al lavoro, e di approfittare del fatto che fosse in anticipo per farsi una passeggiata” Si poggiò un dito sul mento, pensierosa. “Il resto non è divertente, ti dico solo che finisce con una ragazza insanguinata ed una bacchetta puntata contro la persona sbagliata. Se hai intenzione di mettere giù quel legnetto, posso cercare di aiutarti. Altrimenti possiamo conversare fin quando non perderai i sensi”. Sorrise languidamente, come se entrambe le opzioni per lei andassero bene. Come se l’intera situazione fosse normale. Il sorriso morì sulle sue labbra, quando si accorse di quel che aveva detto. “No aspetta, che dico! Perché sei mascherata, e come Morgana ci sei arrivata qui sopra?” Chiese sospettosa, muovendo qualche passo di lato.
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