Drink up me hearties

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  1. Allons-y‚ Alonso!
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    Ribelle•Età:16•Casata:Bradipoubriaco
    Andrea Nemo


    Elizabeth.
    Non avrei saputo definirlo, non c’era un aggettivo per quello.
    Beh, forse si. Psicotico.
    Indugiai un attimo sulle parole, quasi incise talmente scritte con tanta foga, di un vivido rosso. Per un attimo, quel colore tanto violento risultò turbante, unito all’aggressività del gesto in sé già urtante.
    Elizabeth.
    Lo stesso nome scritto, graffiato disperatamente sui fogli di un’ innocente ed anonima agendina nera, ripetuto, cancellato e riscritto con sempre più incalzante foga e afflizione, con quel colore rosso che ricordava un altro tipo di fluido ben diverso dall’inchiostro.
    Avrei dovuto comprarmi un’agendina nuova. E sostituire tutte le mie penne rosse con qualcosa dal colore più tenue, tipo il “verde serenità”.
    Le mi nottate, da tre anni a quella parte, erano sempre state alquanto tediose. Non ogni notte, certo, ma fin troppo spesso il sonno diveniva una cupa prigione dalle forti grinfie bramose. Incubi, soprattutto gli incubi erano il problema. Quei dannati orrori che non riuscivo ricordare, che si infiltravano nella mia mente, fluendo nel corso dei miei insipidi sogni, chiedendo prima il permesso, però, con la melliflua voce di un bambino che chieda alla madre di poter dormire con lei, per una sola notte, poiché è spaventato dal mostro che si nasconde sotto il suo letto.
    Quando però gli incubi non si presentavano ,lasciando il mio sogno illeso, talvolta il mio corpo agiva da sé. Piccoli attacchi di sonnambulia, per intenderci, nulla di grave o che, comunque, mi potesse consentire di danneggiarmi e di mettermi in pericolo. Solitamente lasciavo semplicemente qualche traccia ambigua sul mio passato.
    Talvolta psicoticamente.
    Mi assicurai velocemente di non aver lasciato altri inquietanti segnali in giro, cacciai il quaderno nelle recondite profondità di una borsa di tela dalla fantasia orientale, costituita da elefantini indiani neri su sfondo bianco, e la imbracciai.
    I nomi servono solo a catalogare le cose. Se chiamassi una scatola “sacco” non cambierebbe la natura della scatola. Allora perché quel nome,Elizabeth, mi pareva così terrificantemente sbagliato?
    Forse perché non volevo scoprire che non era stato quel nome diverso a cambiare me.

    […un’ora dopo…]



    Io e Stiles ci conoscevamo da un po’. Dopo che chiesi asilo alla resistenza, mi capitò più volte di rintanarmi ad Hogsmeade, per osservare i maghi veri nel loro habitat naturale. Vedendo gli studenti di Hogwarts, in gita o lì per lavorare, mi ritrovai a pensare che fossero un’elite. Poi scoprii che nell’elite vi era un’elite, che comandava ed una classe “inferiore” che doveva sopportare, invece, i soprusi di coloro che si affermavano più puri.
    Stiles era tra i sottomessi. Era una piramide alimentare.
    Pesce grande mangia pesce piccolo.
    Durante le mie scappatine ad Hogsmeade, incontrai Stiles al Tre Manici di Scopa, dove lavorava. Teoricamente non sarei dovuta recarmi lì, dato che i parenti di mia madre erano potevano essere alla mia ricerca, ma solitamente, non mi importava granché di questi “dettagli tecnici”.
    Quel giorno avevamo deciso di incontrarci al Testa di Porco. E’ questo che fa la gente normale, no? Si incontra con gli amici al Pub, ride, scherza. Quello era in effetti la cosa che io e lui sapevamo fare meglio: scherzare. Un punta di sarcasmo condiva ogni nostra frase, rendendo meno drammatiche le notre stelle avverse.
    Sostai davanti la porta del pub, cercando in fretta e furia una sigaretta da accendere. La misi tra le labbra dischiuse, avvicinando l’accendino. Avrei dovuto accenderla? Era un gioco consueto per me e divertente quello, vedere quanto riuscivo a resistere alle tentazioni,quanto tempo sarei rimasta indifferente all’impulso di agire.


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    Andrew "Stiles" Stilinski
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    « Il fine di uno scherzo non è quello di degradare l'essere umano ma di ricordargli che è già degradato.»
    Stiles quella notte fu svegliato dall’urlo di Richard, primo anno, Tassorosso. Dormiva nel letto affianco al suo, ed era spesso vittime di torture, esattamente come il Prefetto. Era un affarino piccolo e lentigginoso, dalla faccia rubiconda e gli occhietti lucidi. Gli aveva sempre ricordato un pupazzo di neve, motivo per cui quando non c’era lo chiamava Giovane Olaf, ed a volte temeva che si sarebbe sciolto in lacrime. Piangeva, tanto e spesso. A Stiles le lacrime non erano mai piaciute, ma era anche vero che non sapeva resistere al loro potere persuasivo. Si tolse le coperte –facendo cadere a terra un irritato Kripto, il rospo non salterino – e si sedette sul letto del ragazzino, cercando di fare in modo di non svegliare nessun altro.
    “Che succede, Richie? Ancora quell’incubo?” Il bambino annuì, nascondendo il mento sotto le lenzuola. “Sai che non è reale..” “Sì che lo è” squittì il marmocchio, a voce abbastanza alta da far guizzare lo sguardo di Stilinski in giro per la stanza per controllare che nessun altro l’avesse sentito. “Domani la professoressa Queen ha detto che devo andare nella Sala delle Torture, che lei sarà ben felice di darmi una lezione di persona” E lo guardò, con quegli occhi sofferenti, mentre le lacrime minacciavano da un momento all’altro di bagnare le guance paffute.
    Lo sapeva, lo sapeva che sarebbe finita così.
    “Ho fatto cadere il calderone, e la pozione le ha rovinato le scarpe, e..” Si stava agitando vistosamente, per cui Andrew gli chiuse le labbra fra l’indice e il pollice. “Shh, Richie, così svegli tutto il dormitorio! A che ora?” Domandò sottovoce, passandosi la lingua sul labbro inferiore. “Le 14
    Lo sapeva, lo sapeva che sarebbe finita così.
    Non andare, Richie. Ci penso io”

    “Stilinski?” Stiles aveva bussato all’ufficio della professoressa, e dopo aver aperto la porta era rimasto lì davanti alla cattedra ciondolando le braccia, rimpiangendo improvvisamente la sua scelta. “Dov’è Nolan?” Richard Nolan era il Giovane Olaf, Richie. “Non ha colpa, professoressa” Represse un sospiro. “L’ho pagato per rovinargli le scarpe perché secondo me, quel colore, non si addiceva al suo bellissimo piedino. Insomma, un piede del genere merita una calzatura degna della sua elegante forma”
    La Queen non aveva apprezzato il commento di Stiles, ma perlomeno si era arrabbiata abbastanza da aver spostato il centro della sua furia da Nolan a lui. Era quello il bello degli insegnanti: la loro rabbia era liquida, e si spostava con fluidità da una vasca all’altra.
    Stiles era una vasca con l’idromassaggio, ai loro occhi. Con tante bolle profumate.

    Aveva provato il tacco tanto disprezzato della professoressa sullo stinco, e la coscia, e la schiena. Se avesse detto in giro quanto soffriva ogni volta che si sedeva, avrebbe praticamente servito su un piatto d’argento le battute che solitamente caratterizzavano egli stesso. Ma non era quello a far male: il taglio sulla fronte, quando ha sbattuto sulle manette per terra. Quello sì che faceva male, ed era anche difficile da nascondere. Non che ne avesse bisogno: vedere Stiles senza bende e cerotti era un po’ come vedere qualsiasi altro studente girare senza i pantaloni della divisa.
    La sala comune era deserta, quando Stiles vi entrò per togliersi la divisa e mettersi dei vestiti normali. Si tolse il maglioncino –rovinato- la camicia –macchiata- i pantaloni –strappati- , e stava cercando qualcosa da mettersi quando una voce lo colse alle spalle. “Stiles sfigato”
    Quando si girò, non vide nessuno. Sto impazzendo.
    “Stiles culo!” Fulmineo si girò nuovamente, tenendo i jeans stretti nei pugni. Nessuno avrebbe avuto il tempo di spostarsi così velocemente, a meno che non avesse avuto i superpoteri, il giratempo, o il mantello dell’invisibilità. Ma andiamo, chi con un dono del genere lo userebbe per fare scherzi così stupidi? Stiles escluso, chiaramente.
    Stiles è stupido” Questa non era neanche originale, dai. Arricciando le labbra e sospirando sonoramente, si volse un ultima volta: per terra, proprio vicino al suo letto, un dannato topo lo stava guardando con occhietti neri e intelligenti. Fece un salto all’indietro – ecco perché non era stato smistato fra i Grifondoro, per altro- e vide chiaramente le labbra da roditore della cosa muoversi. “Stiles sfigato”
    Non era un topo, non aveva la coda, e.. un furetto? No, aspetta. I furetti non parlano. Un Jarvey.
    “Fantastico, perfino i roditori ora mi prendono per il culo. Spero che ti abbiano abbandonato, figlio del demonio” Con l’indice e il medio, puntò dai suoi occhi a quello dell’animale, che sembrava guardarlo e sorridere. "Abbandonato” Ripetè lentamente, quasi che faticasse a dire quelle parole. Forse quello non gliel’avevano insegnato. Che l’avessero davvero lasciato al suo destino, in quella scuola piena di gatti malvagi? “Stiles figlio del demonio”
    E lui che stava quasi per provare pena.
    Vestirsi con un furetto che vi fissa e si prende gioco di voi non è divertente quanto possa sembrare. “Smettila” Disse con una smorfia sofferente, mentre i jeans sfregavano sulle escoriazioni fresche. “Smettila” Ripetè il roditore allungato. “Basta, non sei divertente” “Tu non sei divertente” Tu non lo sei” “No tu”
    Per l’amor del cielo, stava litigando con un furetto. “Non hai niente di meglio da fare che importunare il sottoscritto?”
    Vi fu un minuto di silenzio, che Stiles si godette con gioia e piacere, mentre si infilava la maglietta azzurra a maniche corte. “Stiles culo” Concluse soddisfatto il piccoletto.
    Divertente.

    Quando arrivò fuori dalla Testa di Porco, Andrea era già arrivata. Quella ragazza era spuntata dal nulla, da un giorno all’altro; il ragazzo non l’aveva nemmeno mai vista al castello, ma non aveva potuto fare a meno di trovare nel suo animo divertito senza essere divertente un’anima affine. Più o meno, ecco. I loro discorsi sfociavano sempre in discussioni senza senso, perché non si capiva mai quale dei due fosse serio, o se almeno uno dei due lo fosse. Tutto ciò che la ragazza diceva, Stiles lo prendeva con le pinze, lo colorava, lo rotolava nelle praline di zucchero, ed infine rispondeva con una mela caramellata.
    Sai cosa fa una sardina al sole?” Le domandò quando fu abbastanza vicino, alzando lo sguardo sul cielo azzurro coperto solo da qualche rada nuvola. Sì, loro erano le sardine, nella testa metaforica e contorta di Stiles. Delle sardine sardoniche. Delle sardine salate al punto giusto.
    Le sardine si salano?
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    Andrea Nemo


    Non mi capacitavo della motivazione secondo la quale le persone agissero in quella maniera. Sempre tanto indaffarati e presi da sé stessi da non accorgersi del lato comico delle cose. Concentrandosi, tutto ha la capacità di strapparci un sorriso: spesso non lieto, piuttosto amaro, ma pur sempre un dannato sorriso.
    Il senso dell’umorismo che mi contraddistingueva appariva, agli occhi della stragrande maggioranza della gente, immotivato e spropositato. La mia mente si sforzava di trovare risvolti ironici anche nelle cose più semplici, anche nelle cose più delicate, cogliendo lì immagine della vita non in bianco e nero, ma piuttosto come una scala di grigi. Ed i grigi sono incredibilmente più spassosi dei neri e decisamente meno dolorosi dei bianchi.
    La vita era una nemica di cui avevo incredibilmente rispetto per gli ineccepibili metodi di attacco che utilizzava. Le sadiche tonalità con cui essa condiva ogni evento erano intrise di quel certo sarcasmo temibile, di un umorismo nero formidabile. Ironia della sorte, si dice. Ironia della Morte, piuttosto.
    Giocherellavo con la sigaretta spenta, increspando la piega delle labbra e facendole cambiare, di conseguenza, inclinazione.
    Gettai uno sguardo al cielo, soffermandomi sulle sporadiche nuvole colorate vagamente dai riflessi di luce, quasi alla ricerca di un qualcosa nascosto all’interno di esse. E’ incredibile come una condensa d’acqua possa prendere degli aspetti così incredibili.
    Avvicinai nuovamente l’accendino all’estremità della sigaretta. Feci scattare l’affarino in latta che, puntualmente, si rifiutò di collaborare. Feci scattare più volte il pollice alla ricerca della scintilla che mai sarebbe venuta. La storia della mia vita.
    Ripensai alla me di tre anni fa. La bambina dalla pelle pallidissima poiché non le vera permesso di vedere la luce del sole, la bambina che nessuno reputava in grado di usare la magia. Una bambina che per qualche ragione era stata risparmiata e che, per qualche motivo, aveva ricevuto la grazia di un dono dal passato.
    Ah, il passato. Di così facile innegabilità da esser semplice da rinnegare.
    A volte mi chiedo chi sarei potuta diventare, se non mi fosse stata tolta quella parte dei ricordi legati alla mia prima infanzia. Ricordo solo un mondo dai colori vivaci, visualizzato da dietro la patina di un vetro appannato, ricordo la povere, piccoli gesti quotidiani, ricordo il silenzio. Tanto silenzio.
    Troppo silenzio.
    Rinuncio a malincuore alla mia sigaretta, la rimetto tra le altre, nel pacchetto, ed abbandono l’accendino nelle profondità della borsa, dove lo sento cozzare conto la copertina dell’agenda incriminata.
    -Sai cosa fa una sardina al sole?- increspo le labbra in un sorrisetto beffardo. Eccolo lì, Stiles, il mio amico dal sarcasmo in acciaio inossidabile.
    -Ciao a te, Andrew.- sottolineai la sua carenza nei saluti, lanciandogli un’occhiatina quasi a dire “sei così scortese”.
    La cadenza su quel nome, Andrew, si fece più evidenziata che mai. Dio, se detestava quel nome.
    E dio, quanto amavo chiamarlo con quel nome. Dopotutto eravamo Andrea ed Andrew, Andrew ed Andrea, forti e potenti dei! Soli contro il mondo a sbaragliare i cattivi con l’unico potere delle battute squallide.
    E se non eravamo dei, forse eravamo Batman e Robin. Effettivamente mi sarebbe stato bene un costume da Batman.
    Sospirai, mentre da bravo cavaliere sospingevo la porta del Testa di Porco così da farlo entrare.
    Il locale non era mai stato il più eccelso per pulizia e servizi, ma lo preferivo al Tre Manici di Scopa, cosa che solitamente non mancavo di fargli presente.
    -Mi pentirò di quello che sto per dire, non è vero?- dissi, simulando previo sconforto per lo squallore a cui sarei stata sottoposta. – Avanti, dimmi che cosa fa una sardina al sole.-
    Mi feci strada tra i tavolini in legno scuro, occupati dalla più varia clientela, da ragazzini con più o meno la nostra età, ad omoni barbuti e baffuti con le pance gonfie e tese da bevitori. Ricordavano un po’ la versione ubriacona del Babbo Natale babbano.



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    « Il fine di uno scherzo non è quello di degradare l'essere umano ma di ricordargli che è già degradato.»
    Andrea gli rivolse quel sorriso che non era un sorriso, una smorfia che si avvicinava ad un sorriso senza però esserlo realmente. “Ciao a te, Andrew” Stiles le lanciò un’occhiataccia, lasciando ricadere le braccia sui fianchi e facendole ciondolare nervosamente, come quando da piccolo suo padre gli diceva che no, non avrebbe potuto volare con un ombrello. Odiava essere chiamato Andrew, perché Andrew è un nome da Andrew. Solo due tipi di persone potevano chiamarsi così: gli atleti di colore che mangiavano kinder bueno, a cui suonavano alla porta per fregarglielo con un bel andrewww iuhuuu!, oppure i vecchietti con la canottiera bianca sotto la camicia che fumavano la pipa fuori dai bar messicani. Per gli altri era un affronto, ed un peso non da poco, avere un nome del genere. E Andrea lo sapeva. Lo sguardo che gli rivolse gli fece intendere che ella non aveva apprezzato l’esordio di Stiles quanto invece aveva fatto il Tassorosso. “Andrewa, non essere pignola. Ciao” Alzò la mano a ‘mo di saluto, con un entusiasmo per cui perfino la Regina Elisabetta sarebbe parsa vogliosa di salutare, con quel suo roteare leggiadro della mano nell’aria.
    Stilinski non si smentiva mai: fu infatti Andrea ad aprire le porte della Testa di Porco ed a fargli cenno di entrare per primo. Incredibile. Se si fosse trovato in una favola, Stiles sarebbe stato il principe che fuori dalla torre di Raperonzolo aspettava che fosse lei a costruire un ascensore, perché figurarsi se lui si sarebbe arrampicato su dei capelli; oppure Eric della Sirenetta, il principe più inutile di sempre perché si sa, il culo se l’era fato Ariel, mica lui. Entrò ammiccandole con un sorriso smagliante, per poi aspettarla poco dentro. La tracolla continuava a sbattergli sulle gambe, e probabilmente una volta al castello avrebbe trovato i lividi: cosa piffero ci aveva messo dentro perché pesasse così tanto? Spezie, aceto, olio ed insalata?
    Si guardò attorno. Quel locale gli metteva i brividi, preferiva di gran lunga i Tre Manici di Scopa, ma la signorina non si sentiva a suo agio dove la polvere non regnava sovrana. In effetti anche a Stiles sarebbe dispiaciuto andare all’altro pub, ci passava già fin troppo tempo lavorando, ma a prescindere la sua amica avrebbe dovuto preferire i Tre Manici; insomma, non c’era paragone. E invece!
    Mi pentirò di quello che sto per dire, non è vero? Avanti, dimmi che cosa fa una sardina al sole”
    L’allegria di Andrea Nemo riusciva sempre a mandarlo in estasi. Una gioia di vivere invidiabile, ma nulla avrebbe ammortizzato l’entusiasmo di Stilinski verso una battuta così poco divertente. Le indicò un tavolino lontano dalla gentaglia (e con gentaglia intendeva i ragazzini, gli uomini barbuti avevano sempre avuto la sua ammirazione) e le allontanò la sedia dal tavolo per farla accomodare, alzando le sopracciglia più volte. “Del tè, signovina?” Dopodichè si accomodò nella sedia di fronte, allungando le gambe sotto al tavolo. “Certo che te ne pentirai” Si piegò sul legno appoggiandovi i gomiti, e lasciò qualche secondo di suspense. “S’acciuga” Concluse infine, sapiente, ritirandosi e lasciando ricadere la schiena sulla sedia. Soppresse una smorfia dolorante, data la ferita ancora fresca che tirava sulle scapole.

    Oggi mi è successa una cosa stranissima” Le disse sfogliando il listino prezzi alla ricerca di qualcosa che non lo facesse tornare ad Hogwarts strisciando. “Mi sono ritrovato in camera un simpatico Jarvey abbandonato. Non è che vuoi essere la sua nuova mamma? E’ una creaturina davvero adorabile, andreste davvero d’accordo” Sorrise e chiuse il menù, inclinando leggermente il capo a destra. “Cosa mi racconti di interessante? Ucciso qualche piccione geneticamente modificato che voleva conquistare il mondo, in mia assenza?”
    Sarebbe stata davvero una brutta persona, se si fosse liberata di un cattivo senza di lui. Sapeva da quanto tempo voleva testare il suo mantello rosso.
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    Andrea Nemo



    -Andrewa, non essere pignola. Ciao-
    Sbuffai. Non era però un sospiro dovuto alla stanchezza: risultava più come una sorta di scherno verso il mio amico, sbuffo accompagnato dall’inevitabile incresparsi delle mie labbra in un sorrisetto sbilenco.
    -Stai un po’ zitto ed entra.- sbottai tenendogli aperto l’uscio, ma anche quel richiamo risultava tutt’altro che minaccioso anche se, d’altronde, non volevo che lo fosse.
    Seguii Stilinski verso un tavolo pericolosamente vicino ad un Babbo Natale che emanava un olezzo misto tra naftalina, alcool e omogenizzato alle pere, ma apprezzabilmente distante dai ragazzini in pieno giubilo ormonale. Teoricamente, data l'età, anche noi eravamo considerabili adolescenti dagli 'ormoni schizzati, ma ero giunta alla conclusione che questi ultimi fossero rimasti vittime del nostro barbarico sarcasmo,che aveva soffocato ogni voglia ed istinto adolescenziale.
    Ero una jedi dell'ironia.
    Anche se, a dirla tutta, mi ero sempre vista più come Han Solo, piuttosto che come Skywalker jr. O, ancora meglio, Chewbecca. Si, essere Chewbecca non doveva essere male: alto, peloso senza doversi preoccupare dei peli e, soprattutto, incredibilmente più amato dei personaggi principali nonostante sappia solo ruggire. Perché, diciamocelo, Chewie è un figo.
    Giunti al tavolo mio sarcasmico si prese la briga di scostare la mia sedia dal tavolo, con un gesto di grande cavalleria tale da essere disposta ad uccidere, pur di riuscire ad immortalare quel momento.
    Così mi accomodai al mio posto mentre da qualche parte nella mia testa l'ammiraglio Ackbar sbottava "IT'S A TRAAAAP".
    Ah, la pop culture. O meglio: ah, la geek culture.
    Arrivata al fronte, come tredicenne non vi era granché da farmi fare. Così mi affidavano piccoli incarichi leggeri, giusto per farmi credere che fossi effettivamente utile a qualcosa e mi restava parecchio tempo libero, accompagnato da una noia insormontabile. Un giorno trovai un vecchio fumetto marvel, di un ribelle natobabbano. Fu l'inizio della fine.
    - Del tè, signovina?- arricciai il naso in un'espressione disgustata degna di una principessina con la puzza sotto il naso. - No, per me solo sangue di puffola pigmea.- sfoderai il mio tono più aristocratico - Tiepido, due zollette di zucchero.-
    Abbandonata la messinscena, mi sistemai comodamente, vale a dire con una gamba piegata contro il mio petto, il piede sulla sedia e la testa poggiata al ginocchio. Come solo una vera signora si siederebbe. -Certo che te ne pentirai- tre... due... uno... -S’acciuga.- colpita ed affondata.
    Mi portai la mano alla fronte, in un gesto di fragoroso sdegno -Vorrei farti notare quanto la tua vita rispecchi lo squallore della una battuta. Ma provo troppa compassione per te, ora come ora.- Che nella mia lingua voleva dire: "Ti voglio bene, Stiles. Ma la battuta faceva comunque schifo allo schifo".
    -Oggi mi è successa una cosa stranissima. Mi sono ritrovato in camera un simpatico Jarvey abbandonato. Non è che vuoi essere la sua nuova mamma? E’ una creaturina davvero adorabile, andreste davvero d’accordo.- lo squadrai per un istante -Non lo so. E' buono da mangiare?-
    Tornai a tuffarmi nella lettura impegnativa del "menu".
    Seguirono degli istanti di silezio, durante la sacra scelta della consumazione, rituale infrangibile e degno di assoluta devozione. Fino a quando Stiles non riprese parola, irrompendo nella religiosità del silenzio. -Cosa mi racconti di interessante? Ucciso qualche piccione geneticamente modificato che voleva conquistare il mondo, in mia assenza?-
    -Nah, niente piccioni. Ma credo che ci sia un gruppo di gatti che tramano per prendere il controllo del ministero.- cinsi con le braccia la mia gamba piegata -Comunque nulla di nuovo. Le sigarette costano tanto, ho scoperto che c'è gente a cui piace DAVVERO il cioccolato bianco ed ho avuto uno schizzo-attacco.- buttai lì. "Schizzo-attacchi" era la maniera gentile che usavo per definire le miei imprese nottambule. Ne avevo accennata qualcuna in precedenza, a Stiles.
    -E tu? Il tuo costume da Robin è pronto o te lo devo cucire io?- posai il io sguardo sul cameriere che si accingeva a raggiungere il nostro tavolo.

    -jaime©



     
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