Cercando nei ricordi.

Rea & Chad.

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    CHAD MOORE
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    «'cause i'm a rocket man»

    Guardò l'orologio a polso, studiando le lancette mentre queste si muovevano precise, ma lente, al ritmo di quelle dell'orologio nel negozio sotto casa. Chad odiava gli orologi, incapaci di prendere un ritmo adatto alle sue esigenze, ma stavolta sentiva di non aver fretta mentre il ragazzo dall'altra parte gli incartava quei piatti di plastica che contenevano la sua solitaria cena senza Rob.
    Sospirava di tanto in tanto, incapace di ammettere a sé stesso di odiare quella solitudine a cui, in fin dei conti, non era mai stato abituato: prima c'era suo fratello, poi la Tukteni, dopo ancora la redazione del giornale e Deb, e da qualche tempo Robert in casa. Iniziava a trovare deprimente quel ricorrere a piatti già fatti o da take away quand'era solo, e al contempo era abbastanza maturo da capire che non poteva sempre presentarsi a casa degli altri quando si sentiva “soletto”.
    Quindi, “prendiamo ciò che troviamo” – pagò alla cassa e afferrò il sacchetto – “e godiamocelo” per poi salutare in modo amichevole il proprietario e uscire da lì con le braccia cariche.
    Per quanto ci provasse, gli era difficile non tornare coi ricordi alle persone che aveva visto uscire dagli esperimenti di quegli scienziati, fermarsi pensieroso sul marciapiede ad osservare a terra per qualche attimo, prima di rendersi conto di quello che stava veramente succedendo in quel momento. La mattina, negli ultimi tempi, apriva gli occhi con la sgradevole sensazione di essere osservato, o di essere stretto in un posto troppo piccolo; e quindi, di buon'ora, era già per la strada, lontano dalle mura di casa... o in generale, da qualsiasi costrizione potesse assomigliare ad una scatola. Non aveva mai sofferto di claustrofobia, ma dopo aver visto come tenevano babbani e maghi, sentiva sempre una sgradevole sensazione nello stare rinchiuso.
    Eppure, nonostante questo, il suo giudizio non riusciva ad essere così vendicativo nei confronti degli scienziati, tanto meno dare un giudizio avventato: quello che avevano fatto era orribile, senza ombra di dubbio, ma avrebbe di gran lunga preferito assistere a dei processi che non a delle rivolte pericolose o delle vere e proprie cacce.
    Si incamminò verso il proprio palazzo, la mano libera in tasca e l'altra a reggere il sacchetto, chiedendosi se avrebbe avuto il coraggio di tornare a far visita ai pazienti ora ricoverati, o anche solo alle persone che dopo quei tragici anni si ritrovavano a voler riniziare. Forse avrebbe dovuto, e gli avrebbe fatto bene trovare qualcuno da aiutare... ma in quel periodo non riusciva a pensare ad altri, e sentiva che sé stesso meritasse più attenzioni di quante ne ricevesse.
    Aprì il portone di casa trafficando un po' con le chiavi, e una volta nell'ingresso si rese conto che l'illuminazione pareva più tenue, a volte un po' traballante: Chad si perse ad osservare il gioco di una lampada alla parete mentre si avvicinava all'ascensore, chiedendosi se avessero o meno pagato le bollette del condominio... lo sperava, doveva essere andato qualche settimana prima, o Rob l'avrebbe ucciso.
    L'ascensore arrivò subito e lo portò al suo piano dondolando un po', come sempre, eppure Chad in quel momento sentiva una stretta allo stomaco che difficilmente riusciva a condurre al desiderio di voler cenare: c'era qualcosa nell'aria, e il fatto che persino uno come lui se ne fosse accorto, presagiva a qualcosa di veramente diverso. Oppure, era solo dovuto tutto alla fame e ai ricordi oscuri che pian piano iniziavano a riempirgli la mente; del resto, non era vero che un brutto ricordo ne tirava un altro?
    Scese dall'ascensore e si avvicinò alla porta del pianerottolo, trovando quella zona in ombra, segno che ormai la piccola lampadina era andata a spegnersi, facendo piovere quel piano in un buio macchiato dalle luci provenienti dagli altri o dall'ascensore. Chad non era impressionabile, ma anche mentre trafficava con la chiave sentiva quella soffocante sensazione, e la associò al fatto che stesse di nuovo ritornando in un posto chiuso, piccolo, stretto, da solo.
    La cosa che in realtà gli fece passare quell'inizio di crisi, fu il vedere la porta socchiudersi senza nemmeno dover inserire la chiave nella toppa; rimase esterrefatto ad osservare l'uscio mostrarsi nero, e in quei pochi attimi mille e più idee gli vennero nella mente per quella porta. “Robert?” la prima, pareva la più logica, ma che senso avrebbe avuto per l'uomo lasciare la porta aperta e tenere le luci spente? Inoltre lo sapeva via, e non sarebbe tornato prima senza avvisarlo. Riposando le chiavi, le sostituì con la fida bacchetta e in silenzio aprì ancora di più la porta, tastando lentamente alla ricerca dell'interruttore.
    Potevano essere dei ladri. Così come dei Mangiamorte... ma perché mai qualcuno sarebbe dovuto venire a cercarlo? Non era un ribelle, né aveva mai contestato il regime esplicitamente, o su qualche articolo. “Chi c'è?” fece un passo nella casa, avvertendo una lieve corrente, proveniente probabilmente dalla finestra in salotto che aveva lasciato aperta prima di uscire, sicuro così di far cambiare un po' l'aria in casa. L'aria fresca gli solleticava il colletto, e in risposta Chad strinse la presa sulla bacchetta tanto da sentir male alle nocche, cercando comunque di tenerla ancora celata dietro la giacca, e finalmente, con l'altra mano, sentì le falangi sfiorare la superficie lisca e plasticata dell'interruttore.
    made by mæve.

     
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    174. Un marchio fatto con il sangue, ed il fuoco. Un numero che la identificava come membro del gregge dei Dottori, dove l’avevano torturata e spezzata. L’unica volta nella sua vita in cui aveva pensato di arrendersi; 174 sul braccio, nell’anima, finchè di Rea Hamilton non era rimasto nulla. Guardò il suo riflesso allo specchio; la chioma color cioccolato era tornata brillante e luminosa, il viso aveva riacquistato colore, e gli occhi erano com’erano sempre stati: vuoti. Le parole dei suoi genitori continuavano a tormentarla, ricordandogli ogni giorno che tipo di persona era, malvagia e corrotta, senza speranza. Il dolore che aveva provato nell’udire quelle accuse la prima volta continuava a bruciare, ma come un ricordo lontano. Ripensava a quella bambina e le dispiaceva per la sorte che le era toccata, perché non aveva fatto nulla per meritarselo. Ma lei, oh lei, come pensava di poter competere con la sorella impeccabile, la gioia dei suoi genitori, Charlotte? Era così perfetta, che a volte si commuovevano al solo guardarla, benedicendo Dio per quel dono inaspettato. L’unica pecca nella casa altrimenti immacolata degli Hamilton era sempre stata lei, sempre un gradino sotto l’irreprensibilità di Charlie. Sorrise al suo riflesso, ammaliata da sé stessa come solo le persone vanesie sanno essere. Affascinata da ciò che era diventata, perché tutte le cose marce dentro sembrano sempre più belle: era la mela rossa e lucida che aveva convinto Biancaneve a quell’unico morso. Charlotte, nonostante fosse la sua gemella, era diversa: era buona, bastava guardarla di sfuggita per innamorarsi del suo sorriso; la classica ragazza che tutti avrebbero voluto nel proprio giro di amicizie, perché riusciva a farsi volere bene senza sforzarsi di essere ciò che non era. L’aveva amata per quello, e per lo stesso motivo l’aveva odiata. Charlie aveva tutto ciò che lei non avrebbe mai potuto avere; a volte perfino il Diavolo si sente solo. Andare ad Hogwarts era stato un sollievo, la Hamilton aveva finalmente potuto lasciarsi tutto alle spalle per poter ricominciare da capo. L’inizio non era stato dei migliori, ma si era ripresa alla grande, brandendo l’eredità di Nemesi come sua lancia ed arrivando a lavorare al Ministero della Magia come Pavor. Raramente si era domandata cosa stesse facendo sua sorella, e tutte le volte se l’era immaginata con un libro fra le mani, seduta sul davanzale della finestra in camera e l’ombra di un sorriso all’angolo delle labbra.
    Non pensava l’avrebbe più rivista. Non pensava tante cose, Rea, e di certo mai avrebbe immaginato che sarebbe stata rapita da un gruppo di fanatici. Figurarsi perdere la magia, ciò che ai suoi occhi l’aveva sempre resa speciale, a dispetto di ciò che i suoi genitori pensavano di lei. Distrutta aveva visto che la carte che componevano il suo castello cadere una ad una, inesorabilmente; prima che fossero tutte perdute, era riuscita ad afferrarne una: l’asso. Non aveva più la sua magia, ma ne aveva una del tutto nuova. Era ancora speciale. Era ancora Rea Hamilton, ed un numero sul braccio non avrebbe cambiato le cose. Il mondo magico era suo, esclusivamente suo: l’unico luogo dove non doveva subire l’influenza di Charlotte, rimanendo continuamente in competizione con l’eccezionalità della gemella. Ma no, lasciargli degli spazi suoi sarebbe stato chiedere troppo all’umanità. Perché a Rea non era bastato passare la sua infanzia a vedere i meravigliosi vestiti che fasciavano il fanciullesco corpo della sorella, mentre lei era costretta come una lebbrosa nella camera più lontana dagli altri abitanti della casa; vederla giocare dalla finestra, mentre lei era obbligata a non uscire dalla sua stanza; sopportare lo sguardo adorante dei suoi genitori, e lo sbalzo di temperatura che quegli occhi subivano quando tornavano sulla sua figura. Sua sorella non aveva fatto nulla per far cambiare idea ai suoi genitori? Non aveva mai cercato di mettersi in contatto con lei? Perché non c’era stata, quando il buio si era fatto sempre più allettante, quando la sua mano non aveva potuto far altro che stringere quelle dita confortanti e farsi trascinare nell’abisso?
    Ormai era troppo tardi. Charlotte era arrivata a contaminare anche ciò che le apparteneva di diritto, un mondo di cui non poteva né avrebbe mai potuto far parte. Era anche lei nei laboratori dei Dottori. Quella piccola, infinitesimale forse, parte umana che con gli Spankman era riuscita a far sopravvivere, desiderava ancor più ardentemente la vendetta verso quei maledetti Ribelli: non solo avevano permesso a Charlie di insinuarsi nei suoi spazi, ma le avevano anche fatto del male. Solo Rea poteva vantare quel diritto, e nessun altro.
    Aveva fatto qualche ricerca, ma non aveva incontrato alcuna persona intenzionata a dirgli dove sua sorella fosse; sospettava che temessero un efferato omicidio, o torture che poco bene avrebbero fatto alla psiche –apparentemente lesionata- di Charlie. Che dire, la conoscevano troppo bene. Ma non si arrendeva così facilmente: Chad Moore pareva essere uno degli ultimi ad averla vista, e non ci volle più che un giorno di ricerca e qualche domanda posta con il giusto tono per scoprire dove abitasse. E, oh, entrare non fu difficile; proiettò all’esterno l’immagine del ragazzo, che aveva potuto studiare in foto, e chiese alla portinaia se gentilmente poteva aprirle la porta. “Ho dimenticato le chiavi a casa, sono proprio sbadato!” “Che voce strana, si sente bene?” Rea aveva tossicchiato e si era massaggiata la gola. “Ho solo mal di gola”Ah, il signor Robert non c’è?” Il coinquilino di Moore. Sperava di no. “No, è andato via qualche giorno”

    Troppo facile, quasi noioso. Curiosò in giro per l’appartamento, stranamente ordinato per appartenere a due giovani uomini; nulla di interessante, ovviamente, per cui non le rimase che aspettare. Lasciò la porta socchiusa, e con la flebile luce che entrava dalla finestra grazie al lampione, si godette il comodo divano dei due ragazzi, poggiando le scarpe con il tacco sul tavolino. Faceva troppo caldo per la giacca di pelle, per cui se la tolse e la piegò affianco a sé, rimanendo in canotta grigia e semplici pantaloni neri, attillati come piaceva a lei. Oh, sì, i suoi genitori avrebbero disapprovato, se solo gliene fosse importato qualcosa. Sentì il rumore dell’ascensore, e le chiavi tintinnare davanti alla porta accostata. Non si scompose, aspettando. “Robert?” Sorrise nel buio, inclinando il capo di lato. “Chi c'è?” Fece schioccare la lingua con disapprovazione. “Riprova e sarai più fortunato. O ti arrendi già?” La luce le ferì gli occhi, abituati all’oscurità. “Dovresti trattare meglio i tuoi ospiti, potevi cominciare accendendo l’abat-jour
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    La voce che accolse il suo arrivo l'aveva letteralmente spiazzato, perché era quella di una donna, una donna per di più che non riusciva a riconoscere. Non che ne conoscesse molte a Londra -a dirla tutta nemmeno in America era così circondato da ragazze- però si aspettava sicuramente un timbro che avrebbe potuto ricollegare ad un viso.
    Invece, quando le dita premettero sull'interruttore, Chad si ritrovò di fronte ad una ragazza che in un primo momento, così a freddo, non seppe riconoscere, o quanto meno associare ad un nome. In quel momento a dirla tutta notò soltanto la posizione comoda che questa aveva assunto, manco si trovasse a casa propria.
    A farlo irritare ancora di più, fu anche sentirla lamentarsi per l'aver acceso la luce. Non avrebbe dovuto? “Non aspettavo ospiti” – mormorò come se la dimenticanza fosse sua, restando immobile di fronte alla porta però incapace di mantenere ancora a lungo quella posizione vigile. Gli faceva male la schiena alla lunga, e con ancora quel leggero stupore si limitò a tenere la bacchetta a portata di mano e fare qualche altro passo in casa propria.
    Osservò la donna dall'aria molto tranquilla, forse vagamente annoiata come se per lei fosse di routine, e Chad non poté fare a meno di farlo notare ad alta voce mentre chiudeva lentamente la porta, ancora sospettoso “è tua abitudine entrare in casa altrui e metterti comoda?” era un'osservazione sincera, curiosa, non era capace di imprimere tanta malignità nelle proprie parole... non con giovani e belle donne spaparanzate sul proprio divano.
    A proposito, ci conosciamo?” perché forse avrebbe anche potuto accettare un'intrusione di fronte ad una persona di sua conoscenza, ma non era preparato all'eventualità di una sconosciuta, per di più a cena. Almeno se si fosse trovato davanti una perfetta sconosciuta, avrebbe potuto liberarsene senza apparire troppo maleducato e cafone... la verità era che non vedeva l'ora di mettersi sul suo divano, a mangiare la cena di fronte al proprio televisore, sorbendosi qualche cretinata babbana unicamente per poter sentire qualche voce rimbalzare fra le pareti. Dio com'era diventato triste.
    Ma comunque, in questo favoloso programma da domenica sera, una giovane ad occupargli il divano non era prevista. Provò a guardarla, a guardare attentamente i suoi occhi, il suo sguardo sveglio e malizioso quasi, doveva essere una di quelle caratteristiche che rendevano reali ed uniche le persone, quei particolari di fronte ai quali diviene spontaneo dire “ok, è certamente lei”; poi osservò i capelli, di quel nocciola brillante e intenso, vivido, altra peculiarità che avrebbe dovuto aiutarlo.
    La osservava con quell'attenzione che in un altro contesto sarebbe apparsa indiscreta e fastidiosa, ma che ora lui stesso sentiva di giustificare: ed ecco che, se guardata un po' meno negli occhi sottili, il suo viso prendeva lentamente le sembianze di qualcuno che effettivamente aveva già visto, nemmeno troppo tempo fa.
    Doveva essere per forza qualcuno legato agli esperimenti, peccato avesse visto e intravisto così tante facce, sentito così tanti nomi che ora per Chad era parecchio difficile catalogare e ricordarli tutti: per non contare che quei ricordi a volte lo sconvolgevano tanto che tirarli fuori nelle serate in solitudine era da tabù... ma la giovane voleva giocare ad “Indovina chi”? Bèh, lui stette al gioco, e dopo pochi attimi di acuta osservazione, solo un nome gli scivolò lentamente dalle labbra “Char...lotte” – lo pronunciò con titubanza, per diversi motivi, fra cui il non riuscire a riconoscere al cento per cento il volto della giovane in quello che ora gli stava di fronte, e perché da quello che ricordava Charlotte Hamilton era chiusa al sicuro in qualche ospedale. A pensarci bene, quella ragazza se la ricordava molto bene, decisamente troppo; aveva seguito il suo “caso”, sapeva che ormai i dottori che l'avevano presa in cura definivano la sua mente come compromessa dalle torture subite, una cosa già vista che però non smetteva di commuovere, ma ormai era da tempo che non andava più a trovarla. Ciononostante aveva deciso di “tenere d'occhio” la sua situazione: per questo gli pareva così improbabile avercela ora davanti. “Sei davvero Charlotte Hamilton?” le assomigliava molto, ma c'era comunque qualcosa di così diverso in quello sguardo che lo convinceva di un fatto. Charlotte non avrebbe potuto essere lì.
    Fece altri passi nella stanza, tenendo d'occhio la ragazza mentre posava sull'altro tavolo, quello più alto, la busta col sushi comprato al negozio sotto casa. Aveva tante domande, prima fra tutte come diavolo fosse entrata lì, la seconda perché cavolo stesse occupando il suo divano. E la terza, forse la più importante, come l'avesse trovato e per quale motivo. Non credeva di aver lasciato il suo indirizzo, né altre “tracce”. Ma lei era lì, e voleva evidentemente qualcosa di cui Chad, per ora non aveva idea di che si trattasse.
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    Poggiò la testa allo schienale e roteò gli occhi verso Moore, sbattendo più volte le palpebre. Poggiato sulle gambe un vecchio numero del Vanity Witchcraft: banale, a suo parere, dato che nessuno di quelli articoli accennava a lei. Il massimo che aveva trovato era stato un vago accenno ad una ragazza dai capelli castani, spaventata: una babbana, a dire dell’articolo. Charlotte, probabilmente, il che implicava un ulteriore spreco di inchiostro. “Non aspettavo ospiti” Gli sorrise accondiscendente, aggrottando un poco le sopracciglia perfettamente delineate. “Mi piacciono le sorprese” Sussurrò, sfogliando distrattamente le pagine del giornale che poggiò poi sul tavolino di fronte a sé. Si rilassò languidamente sul divano, mentre lo sguardo vigile saettava sulla mano del ragazzo pronta vicino alla bacchetta. In realtà, se lui l’avesse impugnata, avrebbe potuto fare ben poco; le illusioni erano utili, ma non avrebbe potuto controbattere ad un offensiva. Il trucco era non farlo sapere, così come non aveva fatto sapere a nessuno che non possedeva più la magia necessaria per utilizzare una bacchetta. Nella sua mano era un inutile e vuoto legnetto, ed ogni volta che la stringeva fra le dita si sentiva un po’ più malinconica per aver perso una parte così importante di sé stessa. Da Olivander, quando l’aveva riconosciuta, si era sentita così speciale. L’aveva scelta, proprio lei! Ed oramai non era che un ramoscello ben lavorato. Triste. “è tua abitudine entrare in casa altrui e metterti comoda?” Ricambiò l’occhiata diffidente del giornalista con uno sguardo leggermente curioso, come se le avesse fatto una domanda incredibilmente sciocca. “Ovviamente no, ma il tuo –o meglio, vostro- appartamento è.. accettabile. Pulito perlomeno. Confortevole” Fece spallucce guardandosi attorno. Non era una delle vecchie topaie dov’era abituata a scovare i ribelli per lavoro; il divano era degno di accettare il suo delicato peso, Chad Moore avrebbe dovuto esserne lusingato, anziché rivolgerle quell’occhiata -nemmeno troppo-accusatoria. Non che non fosse lecito, dopotutto lei era entrata di soppiatto a casa sua, ma poteva andargli peggio. “A proposito, ci conosciamo?” Sospirò piano, squadrandolo dall’alto in basso. Non era un tipo particolarmente fotogenico, o semplicemente rendeva meglio dal vivo; trovava quell’aria confusa adorabile, e nonostante sapeva fosse più grande di lei, le ricordava un poco Spank. Il fisico era asciutto ma poco allenato, il viso forse un po’ troppo infantile, ma aveva dei capelli che sembravano morbidissimi. Non era il suo genere, ma abbastanza interessante da attirare la sua attenzione. “Che shampoo usi?” Domandò incuriosita, ignorando la domanda del ragazzo e piegando il capo verso sinistra. Rea Hamilton sapeva sempre apprezzare la bellezza quando la vedeva, che si trattasse di paesaggi, animali, persone (indipendentemente da sesso, età o razza), o quadri. Ma non era quello il motivo per cui si trovava lì; aveva la brutta abitudine a distrarsi facilmente, catturata dai particolari perdeva spesso di vista il quadro generale. Si lasciò osservare senza fare una piega, quasi vedendo gli ingranaggi che si arrovellavano nella ricerca di una risposta: chi era? Non distolse lo sguardo imbarazzata, come sarebbe stato opportuno fare secondo gli insegnamenti dei suoi genitori. Lei non era Charlotte Hamilton, la ragazza timida che abbassava gli occhi e li rialzava arrossendo. Inarcò le sopracciglia e fece schioccare le labbra, in attesa. “Char...lotte” Il più infinitesimale dei sorrisi prese forma sulle labbra rosee di Rea, lo sguardo malizioso che non tradiva risposta a quella domanda implicita. Quello sicuramente confermava il fatto che Chad conoscesse sua sorella. In effetti dovette un poco nascondere la stizza provata nel sentire quel nome. Nel mondo magico era solita essere riconosciuta subito, dopotutto lei era l’unica Hamilton in circolazione; non era più abituata ad essere confusa con Charlie, e il fatto che le stesse rubando la scena le piaceva sempre meno. “Sei davvero Charlotte Hamilton?” Sbuffò irritata, alzandosi e dando le spalle al biondino. Il loro appartamento era ordinato, eppure non trovava gli alcolici. Avrebbero dovuto essere da quelle parti, possibile che due ventenni non avessero nemmeno una bottiglia di Whisky in casa? Tirò le tende e guardò fuori dalla finestra, dove il suo riflesso svettava cupo fra la luce della stanza ed il buio all’esterno. Riconosceva solo i contorni, i capelli mossi fino alle spalle, il fisico snello. Volse il capo per guardare di sottecchi Moore, scuotendo la testa con disapprovazione. “Mi deludi, in qualità di giornalista mi aspettavo qualcosa di meglio. Io sono quella bella” Concluse ironica con un sorriso malizioso, volgendo di nuovo i suoi occhi al proprio riflesso. Lei e Charlotte erano identiche, eppure avevano un tipo di bellezza diverso: Charlie era il fuoco dei primi uomini, quello che illuminava le loro notti altrimenti buie; Rea era la fiamma che consumava tutto ciò che intralciava il suo cammino, lasciando solo cenere. “Non mi offri da bere?” Domandò voltandosi corrucciata, incrociando le braccia e poggiando la schiena al muro.
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3 replies since 7/9/2014, 00:44   143 views
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