only illusions are real
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Nina Dobrev as Rea bitch, please hamilton Seven devils all around me Uno squallido bar pieno zeppo di babbani. Ecco dove si trovava Rea Hamilton, un covo di gente ingrata ed ingenua, che nulla sapeva del mondo e tutto pensava di sapere. Per trovarsi lì, con le gambe incrociate sotto il tavolino rotondo, aveva perfino dovuto utilizzare i mezzi babbani: uscita da Diagon Alley, se l’era fatta a piedi fino in centro, e solo per uno stupido ribelle. Il suo lavoro al Ministero diventava di giorno in giorno più pesante, a causa delle sue.. mancanze. Di fatti la mora non possedeva più la magia che caratterizzava tutti i maghi, e la bacchetta fra le sue dita affusolate altro non era che un ramo riccamente decorato, creato dal Signor Olivander in persona ma utile quanto una qualsiasi fronda impugnata per strada. Creare illusioni era utile, ma non in tutto: non poteva smaterializzarsi, non poteva disarmare l’avversario, non poteva controbattere ad uno schiantesimo. Sbuffò, inclinando il capo all’indietro e lasciando scivolare al di là dello schienale la ricca chioma color cioccolato. Aveva già dovuto declinare l’invito a dolce compagnia almeno un paio di volte, rivolgendo a tutti un sorriso tirato ed un lento sbattere di ciglia; il terzo che si presentò al suo tavolo per chiedere se il posto era occupato, però, era un ragazzo dall’aria giovane e sbizzarrina, con capelli spettinati ad arte e barba incolta di due giorni. Gli occhi scuri risaltavano in confronto al chiaro dei capelli, un colore un po’ stopposo tipico di tutti i londinesi. Lo invitò ad accomodarsi, e dopo qualche smielato convenevole –“Mi chiamo Charlotte, sono scozzese” ripeteva con un sorriso smagliante, cercando di imitare la pseudo spontaneità della sorella. Dio, ma come faceva? Lei doveva resistere all’impulso di schiacciare il giovane corpo dell’uomo di fronte a sé sotto ad un tacco a spillo per ottenere ciò che desiderava. Purtroppo non era fattibile fra così tanti.. civili, per cui doveva ricorrere al piano B: non essere te stessa, Rea; sii lei. Charlotte - si era fatta offrire un bicchiere di vino bianco, scadente fra l’altro. Purtroppo era una colpa che non poteva imputare al ragazzo, ma solo allo squallore di quella grigia città, e quel bar da due soldi. La triste realtà. Se c’era una cosa che odiava del suo lavoro, erano gli appostamenti. Doveva cercare di non attirare l’attenzione, il che le veniva difficile per natura, e rimanere costantemente in allerta. Nello specifico stava cercando in mezzo a quel mare di gente Rufus Delaney, un mago di mezz’età che ancora era convinto di averne venti, e si stringeva dentro vestiti palesemente troppo piccoli per la sua stazza. Il lavoro d’ufficio non era il suo forte, per cui aveva atteso che qualcuno facesse il lavoro per lei, per poi imparare ciò che avrebbe dovuto sapere: aveva appreso infatti che sembrava si portasse dietro sempre un cagnolino, un babbano reduce degli esperimenti. Rufus puzzava di ribelle lontano un chilometro, ma ciò che aveva realmente fatto interessare i Pavor a lui era stata la non curanza con cui aveva disubbidito agli ordini: gli era stato intimato di non aiutare in alcun modo i feriti che trovava alle porte del Ministero, eppure lui intestardito continuava a portarli al San Mungo. Sperava per i ribelli che non fosse uno dei loro, e che fosse semplicemente un idiota, altrimenti il suo lavoro sarebbe stato vertice di una massa di ritardati. Sorrise quando identificò il babbano fra la folla. Si volse verso il suo interlocutore interrompendolo a metà frase; poggiò delicatamente le labbra sulle sue per farlo tacere. “Sei più carino quando non parli” Disse in un sussurro, per poi voltarsi e dimenticarsi istantaneamente il suo volto. Ora aveva un nuovo obiettivo: le persone si pongono sempre delle mete, e nel momento in cui le raggiunge ne inserisce delle altre. La vita era un maledetto palazzo senza ascensore, e con più piani di quanti sembrassero all’esterno. Sapeva che l’uomo era vedovo, ed aveva visto una foto della moglie; abbassò il capo, e quando lo rialzò era lei: capelli biondi, occhi cerulei e pelle fin troppo pallida, malaticcia. L’uomo si era venduto ai laboratori per pagarle le cure, ma la donna era morta sola al suo capezzale. Se l’avesse toccata, avrebbe sentito i lineamenti diversi rispetto a quelli della moglie, ma guardandola era identica a lei in tutto e per tutto. Un cambiamento che solo lui avrebbe potuto vedere, mentre tutti gli altri avrebbero semplicemente visto Rea avvicinarsi all’uomo e parlargli accorata. Indossava una camicia bianca –troppo grande per lei, rubata in qualche armadio di cui non ricordava il proprietario- pantaloni neri aderenti e scarpe con il tacco, mentre si faceva spazio fra la folla. “Seguimi” Sussurrò sotto voce, mimando l’espressione più spaventata in cui riuscì a cimentarsi, per poi sparire nel vicolo buio lì vicino. Non aveva bisogno di voltarsi per capire che l’uomo l’avrebbe seguita; Rea, purtroppo, conosceva fin troppo bene la debole indole umana. Il pensiero di poter riavere sua moglie.. in quel momento la Hamilton teneva il cuore dell’uomo in una mano, e nell’altra il coltello pronto a trafiggerlo.
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