Thick Skin, Elastic Heart

leroy!

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    “Ti racconto una storia” Maeve aveva annuito, senza nemmeno comprendere le parole di Leroy. Erano appena tornati dalla battaglia sulle scogliere di Moher, e l’unica cosa che la Winston avrebbe voluto fare era chiudere gli occhi e dimenticarsene. Ma la ferita era ancora troppo fresca: bruciava, e sanguinava, e perché? Una piccola parte di lei continuava a rimanere attaccata alla speranza che, in qualche modo, Liam Callaway si fosse salvato. Continuava a sperare che il fiore rosso sul suo petto fosse stato un scherzo, che quella non era stata l’ultima volta in cui aveva potuto guardare il suo volto. Che Aaron Sales non sarebbe rimasto solo a causa sua. “Ci vediamo domani, Liam” Era una promessa.
    Callaway manteneva sempre le sue promesse.
    Si era sentita strappata a metà, colpevole e vittima, aguzzino che urla di dolore. Che senso aveva dirle che non era stata colpa sua, quando l’unica cosa a cui riusciva a pensare era il corpo dell’irlandese che cadeva? Ma non aveva importanza. Maeve avrebbe dovuto imparare a condividere con quel dolore, una costante spina alla gola che talvolta le impediva di respirare. E mentre Ethienne raccontava della ragazza di cui si era innamorato,Win aveva poggiato la testa sulla sua spalla, le palpebre appesantite dalla fatica. Adrenalina, combattimento, ferite. Dolore. Poco prima di addormentarsi, aveva domandato a Leroy chi fosse la fortunata. Non ricordava la risposta; si era svegliata nel suo letto ad Hogwarts, convinta che fosse stato tutto un brutto incubo. A colazione, gli occhi arrossati e l’assenza di Aaron al tavolo delle insegnanti erano stata una risposta più che soddisfacente a quell’effimera speranza. E lei aveva sentito quel vuoto nel petto, di nuovo, dove non pensava nemmeno ci fosse mai stato qualcosa.
    E la sua estate si era trascinata dietro a rilento. Giorno dopo giorno aveva imparato di nuovo a respirare, a camminare sulle sue gambe senza bisogno di aiuto; come una bambina aveva disimparato tutto, e tutto aveva ricominciato a conoscere. Aveva imparato a fingere che tutto andasse bene, nascondendo dietro i sorrisi tirati il fuoco estinto dietro lo sguardo vacuo. Aveva spento tutto ciò che avrebbe potuto far male, vivendo la giornata senza domandarsi nulla, senza pensare al giorno seguente. Non era andata in vacanza, era rimasta solo a crogiolarsi nel dolce far nulla in Irlanda, la sua Irlanda. Quella dove l’aria era più buona e l’erba più verde, dove le scogliere non erano sporche di sangue, e dove ogni sprazzo d’erba le ricordava chi non avrebbe più potuto schiacciarne i fili sotto le suole degli anfibi. Anche Edan aveva passato l’estate a casa –diceva di no, eppure Maeve era convinta che fosse rimasto per lei-, per cui non aveva avuto tempo di sentirsi sola. Anzi, a volte la solitudine le era mancata. Maeve Winston era quel tipo di persone che ha bisogno di soffrire perché ha paura di dimenticare. Chi dimentica ripete gli stessi errori, e lei era intenzionata a non farlo. Se avesse perso un altro dei suoi amici, il suo cuore semplicemente non avrebbe retto; voleva tendere il braccio prima che minacciassero di cadere nel vuoto, prima di arrivare troppo tardi. ma quello è un kathelvete selvatico! la tua psw speciale è: dimenticano

    Voleva chiedere scusa a Leroy per essere crollata. Non è detto che una persona non si debba mai spezzare, ma non è un buon motivo per farlo nelle braccia di qualcuno; l’aveva messo nella posizione di dover raccogliere i suoi pezzi e metterli insieme, una responsabilità che non avrebbe dovuto avere nessuno se non Maeve stessa. Si era sentita una stupida, e fra le cose che alla Winston piacevano meno c’era sicuramente sentirsi stupida. Per tutta l’estate non era riuscita a vedere Leroy, se non di sfuggita quando aveva sostenuto gli esami; di certo non era un buon momento per colloquiare tranquillamente su argomenti del genere. Si era sentita sciocca nello scrivergli, e troppo imbarazzata; l’orgoglio le aveva impedito di abbassarsi a tanto, basandosi sulla scusa che erano cose da dire in faccia. Cosa vera, ma se non fosse riuscita a prendere un appuntamento in un posto riservato, non sarebbe mai stato possibile. Il che implicava il dovergli scrivere, ed aveva rimandato troppo a lungo.
    Motivo per cui, all’albeggiare di quel nuovo anno, gli aveva mandato una lettera. Così coincisa e scarna che non sapeva se Leroy avrebbe compreso –e forse un po’ ci contava-
    “Ha mai visto l’Aetas al tramonto?
    -Maeve Winston”

    Aveva preso l’abitudine di andare nel bosco ogni giorno, che fosse per leggere o solamente per rilassarsi. Poggiava la schiena sul tronco di un albero, chiudeva gli occhi, ed ascoltava. Non che ci fosse molto da sentire: alcuni ansiti lontani di chi, nel bosco, andava a fare jogging; il fruscio di qualche animale che si infilava dentro i cespugli; i lontani cinguetti, le foglie che si muovevano lente sul loro ramo. Con l’autunno che si avvicinava a vista d’occhio, il verde aveva fatto presto a diventare color rame, e il terreno si era già coperto di un morbido strato di foglie morte. Così fragili nella loro esistenza, e così belle. Perché le cose belle erano destinate a durare così poco? Un soffio su una candelina di compleanno, la goccia d’acqua sul ramo, la lucentezza dei petali di un fiore appena sbocciato, il profumo sul cuscino, il primo sbattere d’ali di un uccellino che sta lasciando il nido. E mentre tutto con lentezza nasceva e moriva, Maeve rimaneva a guardare quel piccolo angolo di mondo incantata, sempre più propensa a vivere nel suo mondo che non in quello reale. Sentiva la mancanza dei suoi amici, eppure.. era quello di cui aveva bisogno. Un po’ di tempo per sé stessa, per capire perché tutto andasse avanti e lei non ci riusciva.
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    Edited by etc. - 24/9/2018, 00:06
     
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    Aveva portato una Maeve Winston distrutta dentro le mura del castello e poi sulle scalinate dello stadio di Quidditch, sicuro che l’ultima cosa che la ragazza avrebbe voluto era farsi portare in braccio fino alla sua stanza. Anche se in quel momento, nella ragazza rannicchiata fra le sue braccia, Ethienne non riusciva a scorgere nulla della Maeve Winston di cui si era innamorato anno dopo anno, sorriso dopo sorriso, fra uno sguardo rubato e una frase sussurrata o forse solo sognata. La ragazza che teneva fra le braccia era fragile come un ramo spezzato e lui non avrebbe voluto altro che riuscire ad incollare di nuovo tutti i pezzi insieme e farla tornare a sorridere. E poi dirle che l’amava fino a quando non avrebbe avuto più fiato, fino a quando lei non si fosse stancata di ascoltarlo. Ma non l’avrebbe mai fatto, forse per codardia forse per cortesia. Forse perchè soprattutto in quel momento amarla gli sembrava sbagliato, come se amandola stesse inquinando il ricordo di Liam. Il cuore gli batteva nel petto veloce, duro, scandendo con la stessa forza di un tamburo il passare del tempo, ma Ethienne non sapeva cosa fare. Non era mai stato bravo a consolare nessuno, nemmeno se stesso, eppure sentiva che cercare di consolare Maeve fosse un po’ un suo dovere. Perchè era colpa loro, colpa sua, di William e di Keanu. Colpa dei ribelli che avevano permesso ad un gruppo di studenti di partecipare ad una guerra ignorando l’impatto psicologico che la battaglia avrebbe avuto su di loro. Chiudendo gli occhi difronte all’idea che qualcuno avrebbe potuto perdere la vita. E adesso che era successo, adesso che si erano tutti inesorabilmente spezzati, lui si sentiva in dovere di raccogliere almeno le briciole di ciò che era rimasto di loro. Perchè si sentiva in colpa, perchè si sentiva responsabile, perchè l’amava e amare significava anche esserci per tutto e nonostante tutto.
    Sentiva le lacrime di Maeve bagnargli la maglietta sulla spalla, fredde ma bollenti come acido, minuto dopo minuto mentre il silenzio diventava sempre più pesante, sempre più opprimente nella mente di Ethienne, che iniziò a parlare della prima cosa che gli venne in mente. E, come al solito, si trattava proprio di Maeve stessa.
    Le raccontò la storia di questa bellissima ragazza che gli aveva rubato il cuore, e la sentì rilassarsi piano piano, fino ad addormentarsi. «Ha un nome questa ragazza?» aveva sussurrato piano, come se fosse già nel mondo dei sogni, prima di chiudere definitivamente gli occhi ed abbandonarsi al sonno.
    «Si chiama Maeve» osservandola, così fragile ma nel sonno ancora così forte, Ethienne aveva sussurrato a sua volta una risposta, prima di prenderla nuovamente fra le braccia e tornare al castello.
    Quella era stata l’ultima volta che avevano avuto una conversazione. Aveva visto Maeve raramente gli ultimi giorni di scuola, osservandola da lontano, assicurandosi che non si stesse lasciando vincere dal dolore ma stando ben attento a non farsi vedere. Temeva che avesse sentito comunque la sua risposta, temeva che per quel motivo potesse odiarlo. E se c’era qualcosa a cui Ethienne era sicuro che non sarebbe riuscito a sopravvivere era l’odio negli occhi della ragazza. L’aveva osservata combattere con tenacia e rispondere con astuzia ed intelligenza ai Mago, e l’aveva salutata silenziosamente guardandola varcare per l’ultima volta i cancelli di Hogwarts, non riuscendo a fare a meno di chiedersi se l’avrebbe mai rivista.
    Poi arrivò l’estate, prepotente come una tempesta di sabbia nel più sperduto dei deserti, e con essa arrivarono un mucchio di responsabilità alle quali Ethienne non era convinto di riuscire a far fronte. Divenne preside, probabilmente il più giovane che Hogwarts avesse mai avuto ed improvvisamente il peso del suo essere ribelle iniziò a gravare inesorabilmente su ogni sua azione. Non aveva più alcun margine d’errore nel suo lavoro, non adesso che aveva assunto un ruolo così importante all’interno della società dei mangiamorte. Poi scoppiò lo scandalo dei babbani, rapiti e torturati per mesi, per anni, da un gruppo di estremisti di cui Ethienne non aveva mai saputo nulla, che erano diventati delle specie di bombe pronte ad esplodere fra le mani dei ribelli quando meno se lo sarebbero aspettato. I giorni iniziarono a susseguirsi sempre più frenetici, mentre Ethienne cercava di affrontare una difficoltà dopo l’altra e prima che riuscisse a rendersene conto Settembre era arrivato, e lui era riuscito in qualche modo a barcamenarsi in tutto quel casino che era diventata la sua vita. Eppure ogni tanto, quando era da solo, quando per caso scorgeva una ragazza biondo platino per strada, quando sentiva un nome così simile al suo, il vuoto dentro al suo petto sembrava riaprisi con la stessa forza di un dirupo, e i ricordi tornavano ad infestargli la mente come una tromba d’aria, le domande senza risposta che si affollavano nei suoi pensieri. Dov’era? Come stava? Cosa stava facendo? L’avrebbe mai perdonato?
    Quando gli arrivò la lettera Ethienne era seduto sulla grande poltrona nera del suo nuovo ufficio, ancora pieno di scatoloni colmi di cianfrusaglie di ogni genere e stava leggendo per l’ennesima volta Peter Pan. Un’altra cosa che gli faceva pensare a lei.
    Non appena riconobbe la calligrafia piccola ma ordinata, non troppo particolareggiata di Maeve, il suo cuore iniziò a battere all’impazzata. Gli aveva scritto, e non per congratularsi che fosse diventato preside come in molti avevano fatto, ma per chiedergli un incontro. Passato l’entusiasmo iniziale, mentre usciva dall’ufficio per andare a cambiarsi, Ethienne iniziò a domandarsi perchè gli avesse chiesto un incontro. Era riuscita ad elaborare l’odio che provava per lui e adesso era pronta a sputargli addosso tutto il dolore che le aveva fatto provare? Ethienne aveva davvero paura che fosse questo il motivo dell’invito, eppure non riusciva a trovare la forza per rifiutare. Era attratto da lei come una falena dalla luce, e per quanto provasse a resistere sapeva che non sarebbe riuscito ad evitare di correre da lei, anche se fosse stato per farsi urlare addosso.
    Raggiunse il bosco quando il sole iniziò a tramontare, tingendo il mondo di rosso. Non sapeva dove avrebbe potuto trovare Maeve, ma era sicuro che sarebbe riuscito a trovarla ovunque fosse. L’aetas era un posto magico, un angolo di paradiso a pochi passi dalla cittadina di Hogsmeade, ma Ethienne non ci era mai venuto spesso. Troppo affollato, di giorno, pieno di bambini, mamme, sportivi che non perdevano alcuna occasione di allenarsi e troppo triste la notte, con i rami che creavano ombre buie sul terreno, piangendo lacrime di foglie. Stava vagando da quasi mezz’ora quando la vide, i capelli biondi mossi dal leggero vento che sembravano seguire i movimenti delle foglie poco sopra di lei, le guance rosse e gli occhi -oh, quegli occhi!- che tante volte aveva sognato, che si guardavano intorno. Non sembrava lo stesse aspettando, e per un attimo Ethienne si domandò se il biglietto non fosse stato tutto uno scherzo, e per un attimo il cuore di Ethienne si fermò, incapace di sopportare un pensiero del genere. E, per un attimo, Ethienne elaborò l’idea di voltarsi e scappare. Ma poi alzò la gamba destra e fece un passo verso di lei, le foglie sotto i suoi pieni scricchiolarono, annunciando il suo arrivo. Sul suo volto, nei suoi occhi, che non vedevano l’ora di incontrare quelli di lei, un sorriso timido .

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    Respirò a pieni polmoni, fintanto che non ci fu più spazio, fino a che non fece quasi male. L’autunno aveva un odore particolare, di attesa; una promessa nei colori caldi delle foglie che continuavano a caderle vicino, vibrando nell’aria come se facessero resistenza alla forza che le spingeva inesorabilmente a terra. Ne prese una prima che toccasse il suolo, e questa si spezzò sotto le sue dita leggere: così fragile. Rimase a guardare la luce che filtrava dalla spaccatura sottile, chiedendosi se le assomigliasse. Certe ferite semplicemente non si rimarginano, ma lasciano comunque entrare il sole; ci si impara a convivere, con le fratture, ci si impara a respirare attraverso. Un respiro profondo. L’Aetas l’aiutava a pensare, ed a non pensare al tempo spesso: riusciva a visualizzare sé stessa oggettivamente, come uno spettatore lontano, ad analizzare la situazione senza entrare in conflitto con sé stessa. Tutto ciò che succedeva lì dentro sembrava rimanere chiuso fra i bozzoli dei fiori che aspettavano la primavera, nascosto sotto i tronchi spessi e le radici profonde. La Winston dell’Aetas, forse, era una Winston migliore, una ragazza che accettava ciò che era senza porsi domande su ciò che avrebbe dovuto essere. Maeve, mentre il vento le faceva scivolare le ciocche bionde davanti agli occhi, comprendeva che la vita era un ciclo: alcune cose morivano per tornare più belle in Primavera, altre lasciavano quella Terra con un soffio di vento, ma il freddo non riusciva mai a spazzare via la vita. Tornava, incessantemente, fregandosene del gelo, godendo di quel briciolo di sole che perfino l’inverno regalava. Si abbracciò le gambe al petto e vi poggiò la fronte, sospirando piano, cercando di metabolizzare ciò che razionalmente riusciva a ragionare con lucidità. Mente e cuore prendevano decisioni troppo diverse: era la differenza fra essere e divenire, tra destino e libertà, fra un balsamo che lenisce le ferite ed un cerotto che cerca di fermare il sangue, fra pensiero e parola. Fra ciò che avrebbe voluto fare, e ciò che realmente faceva. Un rumore attirò la sua attenzione, facendole alzare il capo. A pochi passi da lei, in piedi, Ethienne Leroy accennava l’ombra di un sorriso. Sentì il cuore balzarle in gola, ma si costrinse a deglutire e a ricambiare l’espressione sorpresa ed imbarazzata del ragazzo. Non era sorpresa perché aveva capito il messaggio, ma perché si era presentato realmente. Aveva pensato che una volta che l’avesse visto, le parole sarebbero sgorgate spontanee dalle sue labbra, anche se non sapeva cosa con esattezza, ed invece rimase immobile a guardarlo senza nemmeno sapere come salutarlo. Non era più un suo professore, e non lo era più da un pezzo, eppure c’era una tensione elettrica nell’aria che quasi Maeve avrebbe preferito che lo fosse ancora. Ripensò al ballo di Natale, quando la Hamilton aveva giocato ad obbligo o verità, e Leroy facendo partire l’orchestra le aveva lanciato un’occhiata indecisa; a quando a Londra il suo profumo le aveva inebriato i sensi e la Corvonero aveva pensato che non ci fosse nulla di più bello. Ripensò a quando, al campo da Quidditch, le aveva portato Peter Pan; a quando in Irlanda le sue braccia erano state l’unica cosa ad impedire al suo corpo tremante di andare in mille pezzi, ed il battito del suo cuore regolare contro il proprio petto l’unico suono a coprire i gemiti strozzati che uscivano dalle sue labbra socchiuse. L’aveva vista quando lei aveva pensato di non avere, né meritare, più niente, eppure era lì davanti a lei. I suoi occhi azzurri non erano mai stati freddi, quando la guardava: le lasciavano una languida sensazione di calore al petto, ed il desiderio irrazionale di poggiare la propria testa sulla sua spalla per sentirlo più vicino. Poche persone le davano sicurezza, ma incomprensibilmente Ethienne era fra quelle. Era l’unico che la faceva sentire.. speciale, anche se non diceva niente. Perché a lui importava di lei, Maeve lo sapeva, solo non sapeva che genere di importanza le desse. In passato sentiva di aver provato una sensazione simile, ma era stato più un bisogno che un senso di benessere, un bicchiere d'acqua in mezzo al deserto e non un tè fresco a bordo piscina. Ogni volta che cercava di pensarci le sembrava di sbattere contro un muro trasparente, ed un vuoto le si allargava nel petto a macchia d’olio facendola sentire un po’ più triste senza una ragione apparente. “Ciao” Disse infine, sorridendo piano per paura di cadere. Gli fece cenno di sedersi accanto a lei, stringendosi più forte le gambe al petto. Si schiarì la gola, e parlò senza guardarlo. “Mi piace venire qua, ci sono tante cose da vedere e da sentire. Si può fingere, anche solo per un minuto, che tutto possa aggiustarsi” Si morse il labbro, abbassando gli occhi verso le proprie ginocchia. “Volevo dirti tante cose, sai, eppure adesso mi sento una stupida” Rise piano, scrollando il capo e lasciando scivolare i capelli a dividere lei ed Ethienne. La corvonero aveva sempre avuto una gran parlantina, e non era abituata a trovarsi senza parole. Si sentiva una dodicenne al suo primo appuntamento, e dire che quello non era nemmeno un appuntamento. O forse sì? Deglutì cercando di inumidirsi la gola secca. “Non ho più avuto l’opportunità di ringraziarti.. per esserci stato. Non era compito tuo. Mi dispiace” Alzò gli occhi verso di lui, sentendosi fragile quanto la foglia che aveva raccolto poco prima, e che adesso giaceva ignara vicino a lei, ma con lo sguardo deciso e schietto. Era pur sempre Maeve Winston, e non aveva più intenzione di mostrarsi debole a nessuno. Se dava di sé un immagine solida, magari avrebbe cominciato a sentirne la concretezza anche lei, e non avrebbe continuato a passare le dita sopra un’ombra.
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    Ethienne Leroy
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    Non si accorse di aver trattenuto il respiro, come un’adolescente alle prime armi, fino a quando lei non gli parlò. Senza rendersene conto aveva continuato a camminare, attirato da Maeve come una falena dalla luce, e quando oramai non era che a pochi passi lei aveva alzato lo sguardo e l’aveva salutato. Ethienne si ripeté il saluto nelle mente almeno una decina di volte, cercando di trovare una qualche traccia di rancore, odio, delusione ma si rese conto che, comunque, non gli sarebbe importato. L’importante era essere lì, starle accanto e, anche se lei gli avesse urlato contro ogni genere di insulto, lui già sapeva che non si sarebbe mosso. Perchè l’amava troppo.
    Deglutì, cercando di trovare la voce per salutarla a sua volta, ma quando aprì la bocca per dirle qualcosa stranamente non ne uscì alcun suono. Si vergognava, il rimorso per tutto ciò che le aveva fatto era come un filo spinato che si stringeva attorno al suo cuore. L’aveva fatta partecipare ad una guerra, lei che per lui era sempre stata un angelo, e non passava giorno senza che Ethienne si pentisse di ciò che avevano fatto. Erano ragazzini, maledizione, e loro non ci avevano pensato due volte a farli scendere sul campo di battaglia. Non passava giorno senza che Ethienne non pensasse a lei, anche se sapeva di averla persa per sempre.
    E adesso che lei l’aveva chiamato, lui non aveva il coraggio di parlarle. Dov’era finito il ragazzo sicuro di se, quello che con gli amici si vantava delle sue conquiste? Dov’era finito l’Ethienne che si buttava a capofitto in qualsiasi situazione, incurante delle conseguenze? Abbassò gli occhi, incapace di sostenere lo sguardo di Maeve, e si guardò le mani screpolate. L’Ethienne che senza porsi domande era entrato nella resistenza, consacrando la sua vita alla vendetta, al coraggio, all’amore, era andato in pezzi. E l’unica persona in grado di ricostruire ciò che era stato era lì, davanti a lui, inconsapevole della sua importanza.
    Gli sembrava così fragile, rannicchiata ai piedi dell’albero. Avrebbe solo voluto avere il coraggio di correre da lei e abbracciarla. E scusarsi, e dirle che l’amava. Che per lei ci sarebbe stato sempre. Invece, quando provò a muoversi, si accorse di non esserne in grado. Rivederla dopo tanto tempo l’aveva paralizzato, e un leggero rossore si diffuse sul suo collo e sulla punta delle orecchie, mentre lei rincominciava a parlare.
    “Mi piace venire qua, ci sono tante cose da vedere e da sentire. Si può fingere, anche solo per un minuto, che tutto possa aggiustarsi” La sua voce, non troppo alta, lo raggiunse come una carezza, piacevole e calda ma al tempo stesso fu come una stilettata al cuore, la conferma di tutte le sue supposizioni. Era la verità, e come spesso accade, era troppo dolorosa per riuscire a sopportarla. La osservò mentre gli faceva cenno di andare a sedersi accanto e lei , e sentì le sue gambe rispondere all’invito senza che potesse farci qualcosa. La raggiunse in pochi passi, e si lascio lentamente cadere al suo fianco. Aveva le mani sudate, il cuore impazzito, la mente colma solo del pensiero di lei, che riprese a parlare prima che Ethienne riuscisse a formulare una frase di senso compito.
    Allungò un braccio e posò la sua mano su quelle di lei, che dopo aver parlato si era come chiusa in un bozzolo. Quello era il momento di parlare, di dire qualcosa, Ethienne lo sapeva. Ma cosa dirle? Di nuovo, le parole uscirono senza che lui avesse il controllo.
    «Io perdo la facoltà di parola ogni volta che ti vedo» ammise, per poi zittirsi ed arrossire violentemente. Ritirò la mano, fece un paio di colpi di tosse e distolse lo sguardo, voltandosi dalla parte opposta a quella dov’era Maeve. «Cioè, volevo dire, ecco.. Non sei stupida Maeve. Sei una delle ragazze più coraggiose e intelligenti che io conosca. Quindi dimmi, dimmi tutto quello che mi devi dire» Il tono della sua voce, era basso, lievemente triste. Strinse le mani a pugno. Era pronto, e sarebbe rimasto.

    INDIZIO 3
    La nascita fu sotto una cattiva luna
    480-9, il numero della sfortuna
    L'arte magica manca
    Ma una cosa è certa, non arranca


    “Non ho più avuto l’opportunità di ringraziarti.. per esserci stato. Non era compito tuo. Mi dispiace”
    Fu come se il suo cuore si fermasse per qualche istante, il tempo di capire bene le parole di Maeve. Lo stava forse ringraziando? Dopo tutto quello che le aveva fatto? Si voltò verso di lei, che adesso lo guardava, e per un attimo gli parve di vedere la vecchia Winston. La osservò confuso. Tutto si era aspettato, eccetto dei ringraziamenti. Inclinò lievemente la testa di lato, passandosi la lingua sulla labbra. Le sue parole l’avevano completamente spiazzato. «Era il minimo che potessi fare. Se non vi avessimo permesso di partecipare, nulla di tutto questo sarebbe successo» Sussurrò, guardandola timidamente. Accanto a lei non si sentiva il preside, non si sentiva il grande stratega. Accanto a lei si sentiva fragile come una piuma trasportata dal vento: leggero, ma allo stesso tempo sapeva che quello era il suo posto.

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    Edited by shane is howling - 7/11/2015, 18:19
     
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    Maeve si morse nuovamente il labbro, incapace di alzare lo sguardo verso Ethienne. L’aveva solo ringraziato, ma c’erano troppe cose in sospeso fra loro due perché un mero grazie potesse bastare. Non avevano più avuto l’opportunità di stare soli, e la Winston si era spesso interrogata sul perché. Ad un occhio esterno poteva non destare sospetti: che motivo avrebbero avuto di incontrarsi, fare due parole, ridere di quella volta ad Hyde’s Park quando la bionda, con più alcool che sangue in corpo, aveva tentato di sedurlo? Nessuno. Apparentemente non c’era nulla a legare quei due ragazzi, non c’erano nulla che potesse giustificare la tensione che aleggiava fra loro. Eppure, quella esisteva e persisteva. Ricordava la prima volta in cui avevano avuto un approccio ravvicinato: arrabbiata, confusa, mentre le parole del ragazzo come un balsamo lenivano ferite che Maeve neppure sapeva di avere. E poi c’era stata la parentesi al parco, di cui fortunatamente non ricordava ogni particolare; Ethienne l’aveva riportata a casa. Ethienne riusciva sempre a riportarla a casa, a dire la cosa giusta senza nemmeno farlo intenzionalmente. Aveva un sorriso genuino, Leroy, e Maeve voleva solamente esserne parte. Quand’era con lui, i problemi che le sembravano insormontabili svanivano, si asciugavano, si ripiegavano e trovavano una via d’uscita. Al ballo, quando lui aveva ballato con Lilian, la sua migliore amica, aveva pensato di odiarlo. E forse un po’ aveva odiato anche lei, perché riusciva a godersi qualcosa a cui lei non aveva nemmeno il coraggio di avvicinarsi. Perché Ethienne Leroy prometteva, nei suoi gesti impacciati, una sicurezza a cui lei non riusciva nemmeno ad aspirare, una promessa che non era sicura di saper mantenere. Così diverso da chiunque avesse mai conosciuto, perfino alle persone che più si erano avvicinate ad essere il suo tutto. Le bastava ripescare i ricordi, quelle briciole di cristallo che ancora le pungevano il petto, di Liam Callaway. Per Maeve, Liam era stato tante cose. Un amico, un confidente, un nemico, un compagno. Per un breve momento aveva pensato che tutto quello potesse bastarle, che una sola briciola di quel ragazzo le sarebbe bastata per andare avanti una vita. Ma i sorrisi sbiechi dell’irlandese, che per lei era e sarebbe sempre stato casa, bruciavano. Si trattava di un calore che superava il piacevole conforto e sconfinava nel dolore fisico, che attirava come una fiaccola al buio per poi rendersi conto che il sentiero da essa indicato portava alla ghigliottina. Ma anche Ethienne emetteva luce, e calore. Forse più flebile, rischiava di passare inosservata, ma quella luce c’era sempre stata. Non sei sola, le aveva detto al ballo d’inverno dell’anno prima. E lei non era stata in grado di rispondere a quella domanda senza interrogativo. Continuava a pensare e ripensare al proprio braccio sospeso sul vuoto, ad afferrare aria nella speranza di cogliervi un po’ di Liam. Ma c’era un altro braccio, e c’era sempre stato, protratto verso di lei. Perché anche lei aveva rischiato di cadere più di una volta, eppure qualcuno l’aveva sempre afferrata prima che toccasse il fondo. E lei non aveva nemmeno mai avuto il coraggio di ammetterlo a sé stessa, di stringere quella mano, permetterle di essere salvata.
    Quando il ragazzo poggiò una mano sulla sua, sentì le guance –traditrici- avvampare. Rimase qualche secondo a guardare la sua mano, più grande ma fine, sulla propria, piccola e bianca come uno spicchio di luna. Espirò lentamente ed infine, senza ancora alzare lo sguardo, girò la propria mano ed intrecciò le loro dita, come fosse la cosa più naturale da fare. Non strinse la presa anche se avrebbe voluto farlo, ancora concreta in un mare troppo calmo per non preannunciare tempesta, lasciando solamente che i suoi spazi completassero e riempissero i suoi vuoti. “Io perdo la facoltà di parola ogni volta che ti vedo” Rise inclinando il viso verso l’alto, concedendosi infine una lunga occhiata a Ethienne. “Sì, mi hanno detto che faccio quest’effetto” Scrollò il capo senza lasciare che la risata scivolasse via, senza lasciare che il battito irregolare si facesse troppo palese. Era una cosa così dolce, che la sua vecchia e cinica parte avrebbe solamente voluto prenderlo dalle spalle e scrollarlo con violenza. Sveglia Leroy, sveglia! Avrebbe voluto aggiungere un non ti aspetto per sempre, ma era davvero così? Lo stava aspettando? Tutti quei silenzi imbarazzati, quei sorrisi e le parole a mezza voce, significavano quello?
    Non sei stupida Maeve. Sei una delle ragazze più coraggiose e intelligenti che io conosca. Quindi dimmi, dimmi tutto quello che mi devi dire .
    Le aveva detto che era coraggiosa, ed intelligente. Una parte di lei voleva rispondergli ironicamente, Devi conoscere davvero poche ragazze, ma sarebbe stato stupido e sciocco continuare a girare intorno al nocciolo della questione. Perché non era solo per dei ringraziamenti che Maeve gli aveva chiesto di incontrarla lì: non potevano continuare a fingere che non ci fosse niente fra loro, che non ci fosse qualcosa da spiegare, qualcosa da fare. Perché aveva perso così tanto, Maeve, che voleva aggrapparsi con ogni forza ad ogni brandello di vita. Era viva, ma non le sembrava di esserlo poi così tanto. Scrollò il capo. “Non dirlo, non è vero. Sarebbe successo tutto in ogni caso, e noi meritavamo di essere lì: è anche la nostra battaglia, è anche una nostra scelta. Io dovevo essere lì, dovevo fare qualcosa. Ho passato diciassette anni a fingere che tutto fosse normale, che non ci fosse nulla da cambiare. Che fosse un mondo perfetto” Una risata amara le incurvò le labbra. “Ma non è così, Ethienne. Niente è perfetto. Questo è un mondo che ha bisogno di essere salvato, e… io voglio fare qualcosa. Voglio un futuro, e poter scegliere, e poter diventare chiunque io voglia essere. Non voglio più fingere” Disse con serietà, disegnando distrattamente dei piccoli cerchi sulla mano del ragazzo. “Non voglio più fingere” Ripeté, quasi che la prima volta non fosse bastata per convincersene, in un sussurro. “Ethienne” aggiunse, quasi esitante, quasi in un sospiro. Una domanda, forse, una supplica. “Ne abbiamo passate tante insieme. Quando ti ho ringraziato per esserci stato, non intendevo solo in Irlanda. Tu ci sei sempre stato per me” Enfatizzò la parola sempre, alzando gli occhi chiari alla ricerca dei suoi. “E io non ti vedevo. Non ti avevo mai visto” Corrugò le sopracciglia, mordendosi l’interno della guancia, senza sapere con esattezza come continuare. Si stava avventurando su un sentiero pericoloso, era così banale che avesse paura di cadere? “Ma ora ti vedo” Sorrise, incurvando solo leggermente le labbra sottili. Sorrise, perché era una cosa così ovvia che le pareva perfino superflua. Ma non l’aveva mai detto, né ad alta voce né con se stessa. Lei vedeva Ethienne, lei sentiva Ethienne. Lei… “Cosa siamo?” Lo domandò così piano. Così piano, temendo forse più la domanda della risposta. Così piano, come poteva pesare così tanto?
    winston,©
     
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