Una pessima giornata.

|Lydia Hadaway

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  1. Isaac Jarrod
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    «I'll be fine in a few hours.»

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    Erano le otto del mattino,quando Isaac sentì un boato provenire dal cielo. Pensò a qualche bombardamento,ma non era possibile. Ancora disteso nel letto,guardò il soffitto bianco. Una luce biancastra, quasi giallognola, illuminò tutto per un paio di secondi.
    Lo aveva sentito alla radio della perturbazione che avrebbe colpito la città. Si alzò dal materasso,togliendo le coperte dal corpo semi-nudo.
    Inciampò sulla maglia che, solitamente, usava per dormire. Incontrò il parquet nero come la pece. Socchiuse gli occhi dal dolore,si alzò.
    Si recò in cucina, aprì il frigo affinché potesse prendere qualcosa da mangiare.
    «Ma che...» disse ad alta voce quando si accorse che quell'elettrodomestico,in quel momento,era abbastanza inutile. Provò la sensazione di essere perso,senza una colazione. Era irritato. Aveva chiesto gentilmente a sua madre che,spesso, andava a casa sua di portargli qualcosa. Ma,evidentemente,questa non lo aveva ascoltato. Andò verso il bagno,stando attento a non inciampare nuovamente. Vi entrò. Preparò la doccia. Mentre l'acqua calda scorreva,Isaac si specchiava allo specchio. Notò dell'eccessiva lunghezza della barba. Prese il regolabarba,impostò la lunghezza desiderata e iniziò a passarlo sulla parte inferiore del volto. Il vapore caldo gli entrò dal naso,facendosi strada fino ai polmoni. Tossì.
    Entrò nella doccia,diventata quasi sauna,si lavò cercando di distogliere la sua mente dai cattivi pensieri. Sentì l'acqua calda cadergli sulla testa e, con quel tempo da lupi, non era che una buona idea.
    Uscito dal box,si mise un asciugamano sulla vita che copriva tutta la parte inferiore del corpo. Camminò verso la sua stanza da letto. Il disordine cronico che aveva fatto mentre dormiva lo innervosì ulteriormente. Si vestì. Una t-shirt nera,come il suo pessimo umore; jeans altrettanto scuri e una felpa grigia.
    Prese le chiavi di casa,le mise in tasca e abbandonò l'appartamento. Scese in fretta le scale,il tipo che, di solito, stava in portineria era impegnato a inserire una pubblicità in ogni cassetta della posta. Lo fulminò con lo sguardo e uscì dal portone. La pioggia ticchettava sui vetri delle automobili. Guardò la strada,nessuna persona era a piedi. Nessuno. Proseguì velocemente verso il primo bar.
    All'esterno di esso vi era una ragazza,poco più piccola di lui. Non l'aveva mai vista in giro o,forse non ci aveva mai fatto caso.
    Si avvicinò a lei,incuriosito dal suo sembrare quasi persa. La pioggia la stava bagnando e lei sembrava immobile.
    «Così ti ammalerai.» le disse porgendogli la felpa. «Lascia che mi presenti. Sono Isaac e non sono un potenziale stupratore. Le va di parlare in un posto asciutto e,magari, davanti a una tazza di caffé? Offro io.»
    Si stupì del suo comportamento gentile,non lo era mai stato da quando era uscito da Hogwarts. Tutte quelle prese in giro,quegli attacchi e quelle torture lo avevano fatto diventare uno dei ragazzi più stronzi di tutto il creato.
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    Il buio sussurrava delle cose che Lydia non voleva sentire. Chiuse gli occhi serrando le palpebre, mentre i palpiti frenetici del suo cuore quasi le impedivano di respirare. Non è reale, Lydia. Per favore. Rantolò raggomitolandosi sotto le coperte dall’odore stantio del paiolo magico, soffocando i singhiozzi dentro il pugno chiuso. Le lacrime ormai secche le solcavano le guance, tirandole il volto; aveva come la sensazione che da un momento all’altro, quel bel viso di porcellana che ammirava sempre con stupore allo specchio potesse frantumarsi in mille pezzi, e che di lei non sarebbe più rimasto niente. Non che ci fosse qualcosa, al momento. Sapeva che quando una bomba esplodeva di pura luce bianca, le ombre delle vittime rimanevano impresse sul muro, contorno sfocato di ciò che era stata una persona. Nient’altro che cenere, non un suono, solo un’ombra senza sorriso. Lei era sia la vittima che l’ombra: come se fosse morta, perché di lei non rimaneva altro che una sagoma frastagliata su un muro che minacciava di cedere da un momento all’altro. La leggenda narrava che fossero i ricordi a dar forma a ciò che si era nel presente, ma quando questi mancavano, chi bisognava essere? La Hadaway non lo sapeva, e ne aveva paura. Rimaneva abbracciata a sé stessa in posizione fatale, mentre la notte parlava e dita sottili sembravano scostarle i capelli dal viso. Rimase immobile, tremante, mentre un fiato gelido le accarezzava la nuca; non azzardò nemmeno una maggior stretta sul lenzuolo, per timore che il minimo movimento potesse spezzare il precario equilibrio. Voleva che fosse reale, non voleva essere pazza, ed al contempo non voleva. Voleva sapere chi era stata, eppure ne aveva una paura primitiva: come poteva essere qualcuno che si era scordata di essere? Come avrebbe abbracciato sua madre, fingendo di amare una donna che nemmeno conosceva? Ma lei voleva essere abbracciata. Voleva che qualcuno le dicesse che sarebbe andato tutto bene, che non importava, che era giusta anche così. Voleva essere aggiustata, e allo stesso tempo qualcuno che le dicesse che non aveva alcun bisogno, perché non era un giocattolo rotto. Se avesse scoperto il suo passato, rendendosi conto di essere sola un’altra volta, la sua mente non avrebbe retto. Avrebbe finito per arrendersi alla follia che bussava alla sua porta, contro la quale Lydia si appoggiava con tutto il suo peso per impedirle di entrare. Si infilò le dita fra i fini capelli ramati, premendo i palmi contro le orecchie per attutire i suoni: il buio sussurrava cose che nessuno avrebbe dovuto sentire. Sentì una mano afferrargli il braccio e sobbalzò, accendendo di scatto la luce che teneva vicino al letto con il fiato corto. I battiti impazziti del suo cuore continuavano a distrarla, un peso sul petto che minacciava di uscire, un continuo pompare del sangue nelle orecchie. Tenne gli occhi chiusi: sapeva che quando li avrebbe aperti, avrebbe trovato qualcosa di brutto. L’aveva sentito. Apri gli occhi. Lydia aprì gli occhi.
    E urlò.
    Sul braccio aveva un’impronta insanguinata, ma la stanza era vuota. Sul muro, una scia di sangue proseguiva verso la porta, dove ancora il pomello gocciolava scarlatto sulla moquette del motel. Non è reale. Respirò dalla bocca per non venir assalita dall’odore ramato del sangue ed impedire ai conati di vomito di trascinarla in bagno, in ginocchio sulle piastrelle fredde. Una lacrima asettica le cadde sul dorso della mano, che notò con orrore essere incrostato di sangue. Lasciò cadere le coperte a terra, alzandosi in piedi; la testa le girava, ma non ci fece molto caso concentrata com’era a rimanere in piedi sulle gambe malferme. Non andare. La porta della sua stanza era socchiusa; con la bocca improvvisamente arida, si avvicinò ad essa, aiutandosi con il supporto del muro. Espirò, svuotando completamente i polmoni, mentre la mano già si muoveva verso il pomello insanguinato. Una scritta campeggiava sul muro di fronte alla sua camera, scarlatta e liquida come solo le ferite fresche sanno essere, familiare ed estranea con quell’andatura tondeggiante. NESSUNO PUÒ SALVARTI.
    La scrittura era la sua.

    Non sapeva come ci fosse arrivata lì, né perché indossasse delle scarpe con il tacco nere, una gonna nera ed una specie di camicetta color crema dal colletto nero anch’esso. Sentiva i capelli pesarle sulla nuca, e quando con una mano li sfiorò sentì una spessa treccia che legava una crocchia ordinata di capelli umidi. Umidi? Si rese conto della pioggia che imperterrita continuava a picchiettare sul suo viso, sulle sue braccia, sulle sue gambe nude. Si rese conto di avere freddo, e si abbracciò il petto con forza, mischiando le lacrime all’acqua piovana. Un attimo prima era nella sua stanza, e.. la scritta. Rabbrividì, e non solo per il freddo mentre l’acqua continuava a scivolare in rivoli dal collo sullo schiena. “Così ti ammalerai” Lydia sobbalzò, girandosi verso la voce che le aveva parlato, sperando che fosse reale. Fortunatamente lo era: un ragazzo giovane dagli occhi chiari ed il più infinitesimale dei sorrisi, che con gentilezza le porgeva una felpa. La Hadaway rimase a fissarlo per qualche secondo, senza comprendere il motivo di quel gesto. Chissà, magari le persone normali si comportavano così. Si trattenne dal ridere nervosamente. “Lascia che mi presenti. Sono Isaac e non sono un potenziale stupratore. Le va di parlare in un posto asciutto e,magari, davanti a una tazza di caffé? Offro io.” Rise, accantonando il fatto che si trovasse in un posto che non conosceva e dove non ricordava di essere andata, accantonando la scritta che però ricordava dannatamente bene: nessuno ti può salvare, Lydia. Sorrise, fingendo che tutto andasse bene, che per lei fosse normale amministrazione rimanere incantata sotto la pioggia battente di.. ovunque fossero. “Certo, perché di solito gli stupratori si presentano dicendo di esserlo” Ribattè divertita, prendendo però ben volentieri la felpa che Isaac le stava porgendo. Se la appoggiò sulle spalle, senza pensare al fatto che gliel’avrebbe completamente bagnata. “Mi chiamo Lydia” Finse di crederci per l’ennesima volta. “Ed un caffè lo accetto volentieri”
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  3. Isaac Jarrod
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    La pioggia scendeva imperterrita,il che aveva fatto aderire la t-shirt color pece al torso di Isaac. Si potevano,quindi,notare i muscoli ben allenati.
    Inarcò le labbra in un sorriso divertito. Di certo,un po' di buon umore avrebbe migliorato la visione di quella giornata iniziata in malomodo.
    Indicò un bar,quello che frequentava di solito. Tutti lo conoscevano e lo rispettavano,forse a causa del suo essere sempre allenato e - molte volte - scontroso con la gente che lo circondava.
    Percorsero il percorso rifugiandosi,ogni qualvolta si presentava l'occasione,sotto le tende parasole degli altri negozi.
    «Buongiorno.» disse,spingendo la porta ed entrando nel locale. Era molto elegante e accogliente. Il barista accennò un sorriso. Quel giorno,se avesse continuato a piovere, il proprietario avrebbe incassato più del solito.
    «Seguimi.» disse alla ragazza che avevo appena incontrato. La guidò al tavolo più interno,dove la porta che conduceva all'esterno era più lontana e,soprattutto,dove l'aria calda arrivava prima.
    La fece sedere,mentre andò a prendere i due caffè. Un paio di minuti e tornò con le due tazze fumanti. Le poggiò sul tavolino.
    Si ritrovarono uno di fronte all'altra. Isaac sentì i soliti ragazzi,o meglio,anziani sghignazzare come delle vecchie commari. Si girò verso di loro fulminandoli,così,con lo sguardo. Idioti.,pensò controllando tutto ciò che lo circondava.
    «Scusa la mia invadenza...» iniziò rivolgendosi,di nuovo,verso Lydia. «Ma cosa ci faceva in mezzo la strada in quelle condizioni?»
    Era più forte di lui,era curioso di quello che aveva appena visto. E voleva saperne di più sulla ragazza a cui aveva prestato la sua felpa.
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    Il ragazzo fece cenno con la mano verso un bar poco più avanti, e Lydia si ritrovò ad annuire senza nemmeno rendersene conto. Non sapeva come fosse arrivata lì, e non sapeva perché quel tipo fosse così gentile nei suoi confronti. Lydia era abituata, da quando si era svegliata in quella maledetta vasca, ad essere ignorata. A passare sullo sfondo, come un’ombra che viene intravista con la coda dell’occhio, ma su cui nessuno si sofferma mai. Magari era tutto uno scherzo, magari anche quel giovane aveva intenzione di ucciderla, di privarla di ciò che aveva appena imparato a conoscere. Non avrebbe dovuto seguirlo, non avrebbe dovuto davvero, ma era così.. sola. Trovare una persona amichevole le faceva stringere il cuore. Voleva piangere e ridere al tempo stesso, tornare dentro quella vasca e chiudere gli occhi fingendo che nulla fosse mai successo. Alla fine optò per una risata nervosa che le scosse il corpo bagnato dalla pioggia, un suono che di divertito non aveva nulla. Entrò nel locale e si guardò curiosamente attorno, mentre il caldo cominciava a fasciarla come una confortevole coperta. I capelli, umidi, erano ancora appiccicati alla fronte ed al collo, per cui li spostò con un movimento infastidito dietro le orecchie. Salutò con un sorriso, mentre passava vicino agli altri tavoli, chiedendosi se il moro ne cercasse uno in particolare. Probabilmente voleva portarla nel retrobottega e pugnalarla al cuore, e nessuno avrebbe sentito il suo disperato grido d’aiuto. L’ottimismo. Perché non poteva credere che esistessero brave persone? Perché non ne aveva ancora conosciute, perlomeno non qualcuno che non fosse interessato a nient’altro, senza un secondo fine.
    Ma forse non era l’unica a sentirsi sola.
    Si sedette senza incrociare il suo sguardo, tenendo gli occhi sul tavolino dove le mani torturavano i fazzolettini di carta offerti gentilmente dal bar. Aspettò che andasse a prendere i caffè, e quando tornò i coriandoli bianchi sul tavolino non si potevano più contare, e le mani corsero grate attorno alla tazza cercando un po’ di calore. L’odore del caffè che prepotentemente le si insinuò nelle narici, la fece sorridere. Forse non stava impazzendo, forse era già pazza. Si poteva rinascere danneggiati? E c’era possibilità di tornare come prima?
    “Scusa la mia invadenza…Ma cosa ci faceva in mezzo la strada in quelle condizioni?”
    Alzò le sopracciglia ma non lo sguardo, che cocciutamente continuava a studiare la tazza, dove le dita disegnavano piccoli cerchi e disegni astratti. Assottigliò le labbra e fece spallucce, decidendosi a guardare il suo interlocutore. “Diciamo che, un mesetto fa, mi sono risvegliata dentro una vasca vuota senza conoscere la mia identità. Da quel momento ho strane allucinazioni, non dormo la notte e mi ritrovo in luoghi che non conosco” Disse in tono atono, sfidandolo a crederle. Attese qualche secondo che digerisse ciò che aveva appena detto, sinceramente per altro, per poi scoppiare in una piccola e gioia risata. Non avrebbe davvero rivelato i suoi segreti ad uno sconosciuto, per quanto fosse di buon cuore. Non era così sciocca: l’avrebbero rinchiusa da qualche parte, e ne avrebbero buttato via la chiave. O peggio, avrebbero rintracciato coloro che avevano messo una taglia sulla sua testa. “Scherzavo, ovviamente” Ovviamente. “Volevo solamente..” Far cosa, Lydia, contare le gocce?Fare una passeggiata. E ovviamente non avevo l’ombrello con me: era un po’ che non venivo a Londra, mi ero dimenticata di.. beh, sai” Disse indicando il cielo con una smorfia, per poi rivolgergli un breve sorriso. “Grazie per il caffè, comunque..” Come si chiamava? Avanti, Lydia, pensaci. Si morse il labbro, frustrata. “Isaac” Sbottò infine soddisfatta, alzando la tazza come se si fosse trattato di un brindisi, e portandola poi alle labbra. Il liquido caldo le scivolò sulla lingua scaldandola, lentamente ma inesorabilmente, e l’improvviso sbalzo di temperatura le fece venir caldo. Inoltre, “Tieni, si sta inzuppando d’acqua” Forse un poco imbarazzata, ma non lo diede a vedere. Non sapeva chi era stata, ma aveva un’idea –seppur vaga- di chi voleva diventare.

    winston,©


    scusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusascusa ç__ç
     
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