Dark and lonely...

Idem

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    Non ero mai stato capace di schierarmi realmente. Non che non avessi un mio parere personale, ma che quella situazione era così confusa. Così dannatamente confusa. Mi sembrava che chiunque avesse torto. Volevo solo tornare alla mia vita di prima quando non ero ancora un'esperimento, quando potevo farmi di coca e tornare la sera in un posto dove avevo il controllo su tutti e dove potevo fare quel cavolo che volevo. un posto di merda, certo, ma almeno avevo parecchia libertà. Durante tutto quel casino nel quale io non ci avevo capito un bel niente, ero rimasto a guardare. Ero stato "liberato" infine da alcune persone...ma per cosa? Ci dissero che avremmo ricominciato da capo, in un posto dove la magia era una cosa buona. Ma io non volevo, non volevo affatto vivere al fianco della cosa che mi aveva reso un mostro. Non me ne fregava assolutamente nulla se questi qua dicevano che loro la sapevano usare in modo giusto. io volevo tornare a credere la magia un'assurda invenzione fatta per far sognare i bambini, riuscire a sentire solo i miei pensieri e vivere sul momento come facevo prima. Prima... come avrei potuto tornare indietro? Come non pensare a tutto ciò che avevo visto in quei...quanti erano stati? Anni, mesi o giorni? Non aveva più alcuna importanza. L'unica certezza che avevo era che volevo ricominciare da capo, ma lontano da tutti loro. Riuscii a scappare quella notte. Non ricordo come, ho come un vuoto. L'adrenalina mi impediva di capire qualsiasi cosa, di ricordare anche solo il mio nome. Avevo paura di essere scoperto. Avevo paura che mi avrebbero fatto cose peggiori di quelle che mi avevano fatto i Dottori. Ma ricordo di essere riuscito ad arrivare in un vicolo, di essermi appoggiato ad un muro e lentamente scivolato, col fiatone, a sedermi per terra. Non riuscivo a controllare il mio respiro, né i miei pensieri. Avevo paura. Una fottuta e tremenda paura che mai avevo provato in vita mia. Nemmeno quando mi avevano portato ai laboratori, né quando mi avevano usato come cavia, né quando avevo scoperto di poter leggere il pensiero di qualcun'altro, cosa che non facevo quasi mai perché mi repelleva, in un certo senso. era un tipo di paura diversa. perché non avevo dove andare. E non mi avrebbero più di certo ospitato in uno degli orfanotrofi. Insomma, chi vorrebbe adottare un dannato esperimento vivente? Non piangevo da tempo. Troppo tempo. Ma lentamente, il mio fiatone si stava trasformando in singhiozzi.Cazzo... sussurrai piano, tenendomila testa fra le mani e fissando il terreno. Le lacrime mi rigavano il volto, mentre io non impedivo loro per la prima volta di farlo.CAZZO! urlai forte, incurante di chi avrebbe potuto sentirmi. Ero lontano da loro, almeno per il momento...ma anche lontano da qualsiasi cosa avessi mai conosciuto. Rivolevo solo la mia vecchia vita. La mia vecchia vita...
    Oliver Abrasax - Tu mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te

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    Idem si guardava allo specchio, cercando nei propri occhi quelli della sorella. Lo faceva spesso, ultimamente. Impresso nella memoria il momento nel quale aveva visto Aiden svenuta, trascinata via dalla security; assassina, così l’avevano chiamata. Erano passati tre anni, ma Idem non riusciva a cancellarlo. E come avrebbe potuto? Continuava a domandarsi se fosse stata colpa sua, se lei fra tutti avrebbe dovuto accorgersene per prima. Il riflesso di quel gesto non lo vedeva solo in quello specchio, ma nello sguardo delle persone: la incolpavano, Idem lo sapeva. Vedevano in lei la ragazza che aveva ucciso quei sette ragazzi. Scusarsi non era mai bastato. E quando April si era diplomata, Idem aveva rivissuto quella notte: le urla, le lacrime, le accuse. Chiuse gli occhi, il cuore spezzato. Sapeva che sarebbe guarito: aveva tanti amici, e una famiglia che l’amava. I Withpotatoes (+Isaac, che comunque valeva come WP) avevano stretto i ranghi, cercando conforto a vicenda. Erano forti, più di tutto e tutti. Ma nessuno aveva mai detto che sarebbe stato facile. Sospirò, abbassando lo sguardo sulle sue mani: lei, che non aveva mai fatto del male a nessuno, si sentiva sporca di quel sangue. E nessuno sarebbe mai riuscito a convincerla del contrario, ma andava bene così: se Aiden era impazzita, qualcuno doveva espiare quelle colpe. “LA CEEENA, È PRONTA LA CENAAAAAA” Idem sbattè le ciglia, voltandosi verso la porta chiusa del bagno. Un’altra voce coprì quella autoritaria di nonna Seti. “COSA C’È DA MANGIARE?” Biascicò Nathan, che probabilmente aveva un qualche strumento di distruzione atomica fra le labbra. Non se ne sarebbe stupito nessuno. “ARROSTO CON PATATE” Rispose urlando doppiamente la nonna. Passarono… due? Tre secondi? Sia Idem che Nathan si affacciarono in contemporanea nel corridoio, ed entrambi sbraitarono la stessa cosa nello stesso esatto momento: «CANNIBALISMO!» A casa WP era sempre così: non si respirava mai tristezza, né cappe d’angoscia vi erano mai esistite a lungo: Aiden aveva sbagliato, ma era malata. E loro dovevano trovare un modo per andare avanti. Non avrebbero finto che non fosse mai successo nulla, avrebbero semplicemente imparato a convivere con quel peccato marchiato a fuoco sulla loro porta. Idem era entrata da anni ormai fra le file della Resistenza: aveva scelto di essere una ribelle tre lontani anni prima, e si era aggrappata a quella decisione come un naufrago in mezzo alla tempesta. Non aveva mai vacillato, certa di aver scelto il percorso migliore: avrebbero salvato il Mondo magico dalla distruzione, ridato speranza e futuro a tutti i giovani maghi. Sarebbe andato tutto bene. Ultimamente… c’era stato qualche problema di incomprensione, che i Mangiamorte avevano giustamente volto a loro vantaggio per mettere in cattiva luce i ribelli: i Dottori. I Dottori erano ribelli con una strana concezione del mondo, convinti che era loro dovere creare una razza mista per facilitare la coesione fra due universi in collisione. Esperimenti, per il bene superiore. I mezzi non giustificavano mai la causa, Idem ne era pienamente convinta. … A meno che il fine non fosse convertire il sedano in lampone, in quel caso avrebbe potuto valutare le opzioni. (sì, aveva già chiesto a Nathan se era possibile. Ci stava lavorando). Comunque, il fatto che i Dottori fossero mostri non significava necessariamente che dovesse esserlo tutta la Resistenza: il loro scopo era ben diverso. Erano guerrieri, erano ricercatori. Loro portavano la fiaccola della speranza, ma non davano fuoco ai fienili. O almeno, quella era la sua concezione di Resistenza. “SE NON LA PIANTATE CON QUESTE BATTUTE DI MERD…” «Nonna!» la rimproverarono in contemporanea Lena e Idem, la quale nel frattempo era uscita dal bagno e si era seduta a tavola. “Avete preso il senso dell’umorismo da quel crucco bastardo di vostro nonno” Bofonchiò, spadellando purè nei loro piatti. Ah, casa dolce casa.

    «Vado a fare una passeggiata!» Gridò, ricevendo mugolii in risposta. Alzò gli occhi al cielo, afferrando una giacchetta leggera ed una piccola borsa dove infilò caramelle, qualche spicciolo, la bacchetta e le chiavi di casa. Le piaceva camminare, intavolare conversazione con i vecchietti al parco, giocare con loro a dama o con i bambini a palla; accarezzava le foglie degli alberi, assaporando il profumo di quell’Estate afosa, sotto quello stesso cielo stellato che anni prima aveva sentito le promesse delle gemelle. Non c’era nessuno, ma Idem Withpotatoes non si sentiva sola: aveva la sera a farle compagnia, con il frinire delle cicale, il vento leggero che sfiorava il terreno, un pianto… Aspetta. Si fermò improvvisamente, drizzando le orecchie. Qualcuno stava piangendo, o cominciava ad avere le allucinazioni? Non sarebbe stata una novità, d’altronde: Nathan aveva spesso infilato strane sostanze nel suo bicchiere e in quello di April, a scopo scientifico. Allucinazione o meno, continuava a percepirlo, e lungi da lei girare al largo. Non aveva mai compreso come le persone potessero voltare le spalle alla sofferenza, fingere che non ci fosse. Perché non provare ad aggiustarla? Perché non cercare, almeno, di alleviarla? I singhiozzi furono interrotti da un imprecazione, e seguendo il rumore Idem giunse ai piedi di un ragazzino, sgualcito come un fazzoletto mal riposto nel cassetto. Era lui che stava piangendo, e sembrava piuttosto reale. Si guardò attorno, ma erano soli. «Non dire quella parola, usa il termine scientifico: pene» Ripetè, annuendo lentamente. Aveva cercato di insegnarlo anche a nonna Seti, ma non aveva attecchito. «Posso sedermi?» Domandò con un sorriso a labbra strette che le enfatizzò le fossette, spalancando i grandi occhi azzurri come il mar dei Caraibi.
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    Edited by idem! #wat - 9/3/2016, 18:50
     
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    Alzo lo sguardo. La signorina...Pepper? Chapman? Stone? Non lo so, non ricordo. Nella mia vita ci sono state troppe "signorine" alle quali obbedire, alle quali dire:"Sì, signorina..." e terminare con "non lo farò mai più" per poi rifarlo, poche ore dopo, ancora una volta. Qualsiasi cosa fosse stata. La guardo negli occhi, che sono blu, verdi, castani, neri. Non lo so di che colore sono. Come non so di che colore sono i suoi capelli, ma ho la certezza che siano raccolti in un'acconciatura seriosa e sofisticata. Non so nemmeno di che colore sia la sua pelle, ma so che è perfetta, liscissima, senza alcuna imperfezione. E il suo completino è giallo canarino o color lavanda, non saprei dire, ma è davvero molto elegante. E non ti da decisamente l'idea di una seconda mamma, di una giovane donna che può davvero prendersi cura di te in maniera affettuosa. Ma poi...io so davvero cosa sia l'affetto? No. Sì. No. L'affetto, l'amore è lei, Leto. Chiunque sia. Oliver. il mio nome sembra un terribile insulto detta dalla sua voce così acuta, terribilmente profonda e orribilmente gracchiante. Com'è la sua voce? Cattiva. Ogni sillaba da lei pronunciata mi spaventa, ma non lo farò notare a questa megera.Sto già piangendo, dopotutto...e so che mi sta per sgridare proprio per questo.Sei un maschietto, tu. Non puoi mica piangere. I maschietti, a meno che non siano dei pappamolli o delle grandissime checche....lo ha detto davvero?non piangono. Tu fai parte di una di queste due categorie? Io la guardo. Scuoto la testa, imbronciato.fammi sentire la tua bella vocina, Oliver! dice il mio nome in tono squillante. Disgustoso.No, signorina... Come diavolo si chiama? Dico il suo nome, ma subito dopo averlo pronunciato, non lo ricordo già più....non lo farò mai più. la signorina quel che è se ne va soddisfatta. Io mi asciugo le lacrime e torno a fare ciò che stavo facendo. Ma soffro tanto. Ma soffro dentro. Mi ripresi.
    Non sono più in uno dei tanti orfanotrofi. Non ho più sette anni. Ne ho sedici, sedici e mezzo per la precisione. Mi chiamo Oliver, Oliver Abrasax. C'è qualcuno là fuori che mi appartiene e si chiama Leto. Il mio colore preferito è l'arancione. Non so cosa sia l'affetto, nè tantomeno l'amore. Ma ricordo tutto questo. ed è già tanto. E' questo che ho pensato, in quel momento. Quando quella ragazza si è palesata di fronte di me ero certo che mi avrebbe riportato nei laboratori e non volevo dimenticare. Mi aggrappavo ai ricordi con tutto me stesso. Ma lei non mi prese di forza, non tirò fuori uno di quegli orribili bastoncini. Ma io urlai, urlai lo stesso. Non riuscivo a smettere di piangere e le parole della signorina non mi servivano affatto. Ero un pappamolle. Ed una checca, sì. Non risposi alla ragazza. Continuai a guardarla, sapendo che non mi avrebbe fatto del male. Non da sola, non vestita in quella maniera. Ma ero sconvolto e non riusci a dire altro che:Ti prego...non mi riportare lì...ti prego... quella fu l'unica volta che mi sentii davvero vulnerabile. Non durante gli esperimenti, nè durante la fuga. Soltanto in quel momento, quando non avevo nemmeno provato a smettere di piangere. Sapevo di non poterci riuscire.
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    Aveva da poco iniziato il lavoro al San Mungo, terminato il periodo di prova dopo i MAGO. Aveva deciso di fare la psicomaga prima ancora di sapere cosa psicomaga significasse: le era bastato sapere che serviva ad aiutare la gente, salvandola da sé stessa; alla piccola Idem Withpotatoes, come obiettivo per il proprio futuro, era bastato. Avrebbe potuto chiedere di meglio? Non era particolarmente brillante, sveglia, simpatica o scaltra; Idem era sempre stata una ragazzina semplice, trasparente come cristallo, e l’unica cosa che aveva desiderato era che le persone, tutte, stessero bene. Donare un sorriso era la cosa che le veniva più naturale, quanto allargare le proprie braccia per chiunque avesse voluto una stretta affettuosa. Era quel genere di persona che sapevi ci sarebbe stata, nel male e nel peggio; quella che nel bene potevi anche ignorare, ma non ti avrebbe comunque voltato le spalle quando le cose fossero volte dal lato opposto. Dava sempre opportunità, allo sfinimento. Lei ci credeva davvero nel genere umano; lei ci credeva davvero nella bontà, nella necessità di aiutarsi l’uno con l’altro. Valori come lealtà acquisivano un significato tutto nuovo negli occhi azzurri della Withpotatoes; guardandola, riusciva a crederci un po’ di più chiunque. Vent’anni e mezzo, ed in quei vent’anni e mezzo la mora ne aveva viste di persone spezzate. Lo vedevi lì, nel loro sguardo; lo sentivi nel battito che si sforzava di essere regolare, nella piega delle labbra che pareva sempre in procinto di un tremito che avrebbe dato inizio ad un susseguirsi di singhiozzi finchè non fosse più rimasto nulla. Lo vedevi nella posa rigida, nel capo chino e schivo, nei gesti scattanti di chi invece di una carezza si aspettava sempre uno schiaffo. E lei, in tutto questo, cosa c’entrava? Li guardava, li guardava per davvero. Non manteneva mai le distanze professionali, cosa che non facevano che rimproverarle; vedeva la sua famiglia in ognuno di loro, vedeva Aiden, o Isaac, Gemes. Vedeva tutti gli spaccati dei Withpotatoes, e sapeva che anche per loro ci sarebbe stato posto per la speranza; anche per loro sarebbe andato per il meglio, Idem lo sapeva. Non era la consapevolezza scialba di chi credeva che, l’indomani, potesse piovere; Idem ne era certa come si era certi che il sole, sul finire della notte, sarebbe sorto. Perché quel ragazzo piangeva? Perché c’era quella disperazione, nel suo tono? Il cuore della Withpotatoes, fragile zucchero filato in una notte troppo calda, si sciolse, mentre prendeva posto cautamente vicino al ragazzino. Poco più di un bambino, non avrebbe dovuto conoscere quella sofferenza. Eppure, ne aveva visti tanti come lui, perlopiù provenienti dal castello. Cos’era successo a quel biondino? Cosa lo stava lacerando dall’interno, graffiando così tenacemente da ferire la stessa Idem? Sbattè le ciglia lentamente, stringendo i pugni per resistere alla tentazione di abbracciarlo dicendogli che era solo un male passeggero. Sembrava così spaventato, che probabilmente stringerlo non avrebbe fatto altro che aumentare quella paura; lei, lei voleva solo aggiustarlo. Voleva solo unirlo, sapete, impedire che gli facesse così male. «Ti prego...non mi riportare lì...ti prego...» Scosse il capo prima ancora che il giovane finisse la frase; qualunque cosa avesse da dirle, con una voce così incrinata, sicuramente non era qualcosa che Idem avrebbe fatto. Mai avrebbe permesso volontariamente a qualcuno di stare così, neanche se fosse stato per il suo bene. Non poteva esserci un bene finale, se nel mentre faceva così paura. Ma da cosa stava fuggendo, il ragazzo? La sua famiglia? Idem non poteva saperlo, ma non aveva alcuna importanza: certo che non l’avrebbe riportato lì, qualunque cosa fosse quel lì. Al massimo, dopo aver capito quale fosse il suo punto d’arrivo, dopo aver cercato di sistemare i problemi l’avrebbe semplicemente accompagnato, salutandolo dal vialetto con una mano mentre i suoi genitori lo riportavano, preoccupati, in camera sua. Magari aveva litigato con suo fratello, o la sua mamma. Ma quel dolore? Quel terrore? Prese la piccola borsetta che si era portata appresso, e fece l’unica cosa in quel momento possibile: «Vuoi una caramella?» Domandò dopo qualche istante di silenzio, nel quale si era limitata a guardarlo temendo di dire la cosa sbagliata, e così facendo di farlo scappare. Voleva aiutarlo, doveva solo capire come. Doveva far sparire quel dolore, altrimenti non se lo sarebbe mai perdonata. Come avrebbe potuto desiderare un futuro migliore, se prima non si applicava nel cercare di perfezionare il presente? Non conosceva il ragazzino, ma gli era bastata la sua voce per trattenerla ancorata a quel vicolo buio, senza alcuna intenzione di andarsene. Bastava così poco, ad Idem Withpotatoes, per amare qualcuno. Un sorriso, e lei era già pronta a mettere in discussione tutto quanto, per rivedere la medesima increspatura delle labbra; per far sì che quel sorriso raggiungesse gli occhi, dov’era giusto dimorasse. «Mi chiamo Idem» Sorrise, porgendogli qualche gelatina colorata. «Dove non ti dovrei riportare? Non avere paura, per favore, non ti farò alcun male» Così sincera; era impossibile non crederle, neanche se dal diffidare da Idem ne fosse valsa la propria vita. C’era quel tremolio, quella vena d’amarezza; e sapevi, ascoltando la Withpotatoes, che a lei importava. Non era solo per lavoro, non era solo un obbligo morale, un dovere alla causa. Era Idem Withpotatoes, e per lei tutti, a prescindere, meritavano un’occasione.
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    Edited by idem! #wat - 9/3/2016, 18:52
     
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    In quel vicolo faceva un freddo tremendo. Lo si sentiva nelle ossa: il naso, le orecchie e le guance, tra l'altro bagnate di lacrime, ormai mi erano insensibili. Ma non riuscivo a spostarmi neanche di un solo centimetro. Non volevo neanche provarci. Come quando da piccolo, durante la notte, ti sembra di aver sentito un rumore. Che sia un ladro che vuole rubarti la merendina che sei riuscito a prendere dalla cucina senza che nessuno ti vedesse, un mostro che vuole mangiarti i piedi, o soltanto la Signorina Come si chiama che viene a controllare che tu stia dormendo, devi rimanere fermo, immobile. Non devi muovere neanche un muscolo. Altrimenti addio merendina, addio piedi e addio ennesimo orfanotrofio. La ragazza di fronte a me sembrava mettercela tutta per farmi calmare. Aveva un sorriso dolce, comprensivo, sincero. Non volevo considerare nemmeno l'ipotesi che stesse fingendo, che fosse una dei "cattivi". Non in quel momento. In quel momento avevo bisogno di credere che la giovane mora dagli occhi azzurri fosse lì per aiutarmi. Sì, probabilmente era un comportamento da ingenuo, largamente sconsigliato per uno che è appena scappato da dei laboratori. Lo stavano cercando? probabilmente no. Ma se mi avessero trovato, ne ero sicuro, non avrebbero esitato a riportarmi dentro. A torturarmi dal momento nel quale aprivo gli occhi al mattino fino a quando non li chiudevo, sfinito dal dolore. A farmi vedere quelle immagini terribili, mentre la testa girava come una trottola e nelle orecchie soltanto un fischio e tante voci, tante urla ovattate. Le urla. Le urla forse erano la cosa peggiore. Non le tue, perché le tue erano quasi liberatorie: urlando con tutta l'aria che avevi nei polmoni avevi l'illusione che il dolore fosse meno...beh, doloroso. Ma no, la cosa più terrificante erano le urla degli altri. Perché a differenza delle tue, sembravano disumane. Il loro dolore era il tuo, loro potevano capirti. Ma non potevi mai dare un volto a quei lamenti raccapriccianti. O almeno, quasi mai. Vuoi una caramella? mi chiese la giovane donna, allungando una mano piena di gelatine colorate. Se avessi avuto una mamma o un papà probabilmente mi avrebbero insegnato che non si accettano le caramelle dagli sconosciuti. Ma io non li avevo mai avuti, dei genitori. Quindi annuii piano. Mi chiamo Idem. Idem? Che nome buffo. Sembrava quasi inventato. O un soprannome. O magari un nome in codice. Mi piaceva giocare alle spie, quando ero piccolo. Allungai lentamente una mano, timoroso. presi una gelatina arancione dalla sua mano. Le mangiavo quasi tutte arancioni, solitamente. O rosse. Feci una faccia disgustata. Quella cosa aveva un gusto strano! Non la sputai, comunque: ero abituato al fatto che se sputavi il tuo cibo, la signorina comesichiama non te ne avrebbe dato altro e avresti dovuto sopportare i crampi allo stomaco per la fame per tutta la notte. All'epoca pensavo che non ci fosse nulla di peggio. Dove non ti dovrei riportare? Non avere paura, per favore, non ti farò alcun male A quella frase, tentennai. Chi mi assicurava che non era sotto copertura e stava solo cercando di assicurarsi che ero una delle loro creature? Uno dei loro mostri? Nessuno. Ma mi fidai comunque, per disperazione, credo. Loro... la mia voce era troppo acutae troppo lamentosa, singhiozzante. Ricordo di essermene vergognato molto e di aver tossito, per fare in modo che tornasse normale. Loro mi hanno fatto diventare...un mostro... Un singhiozzo. Probabilmente non mi ero neanche accorto di non aver risposto alla sua domanda.
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    Idem incrociò le gambe sul cemento, schiacciando il vestito a fantasia floreale in modo da non mostrare le sue grazie a mezzo quartiere. Chinò brevemente il capo, cercando di mostrarsi il meno minaccioso possibile (cosa che per indole, e per il delicato aspetto fisico, sarebbe stato comunque complicato se non improbabile), mentre gli occhi non potevano fare a meno di guizzare in direzione del ragazzino. L’aria era fresca, ma non abbastanza da giustificare il tremito incontrollabile delle membra del biondo. Empatica di natura, sentiva il cuore palpitare con più forza ad ogni nuova lacrima, ogni singhiozzo si ripercuoteva fisicamente sulla sua pelle. Si tolse la giacca, muovendosi cautamente per timore di spaventarlo, quindi la posò sulle spalle. Si trattenne solo un poco di più sull’esile schiena del fanciullo, cercando di trasmettere un poco di quel calore che sempre la contraddistingueva, ma ritirò subito le mani sul proprio grembo. Le avevano insegnato a non essere mai invadente; era il genere di persona che poteva rimanerti affianco per ore, giorni, senza dover obbligatoriamente parlare. Le bastava sapere che gli altri si rendessero conto che non sarebbero mai stati soli, che non l’avrebbe permesso. Idem Withpotatoes non riusciva a sostenere lo sguardo lacrimante di quel ragazzo, proprio a causa del vuoto, e della sofferenza, che ivi vi leggeva. Eppure non distolse gli occhi quando lui parve cercare quelli di lei, timidamente, come se avesse bisogno di una qualche conferma che a lei ancora sfuggiva: se lui poteva mostrare la sua vulnerabilità, se le concedeva quel lusso, lei poteva gonfiare il petto e farsi forza per entrambi. «non sei obbligato a mangiarle, se non ti piacciono» lo rassicurò, frugando nelle tasche della giacca che aveva posto sopra di lui, per porgergliene altre scartando quelle arancioni. Avrebbe sempre potuto darle a Nathan in seguito, d’altronde non si buttava via nulla!, il fratello mangiava qualunque cosa. Davvero. Se non avesse prestato attenzione, probabilmente un giorno avrebbe finito per ingurgitare perfino una delle sue invenzioni –specialmente se si intestardiva a dar loro una forma così adorabile, vagamente somigliante ai biscotti. «Loro...» Idem assottigliò le palpebre, avvicinandosi impercettibilmente per poter sentire quanto il ragazzino stesse borbottando. La voce incrinata, spaccata dai singulti, rendevano difficile comprendere le sue parole, ma lungi dalla Withpotatoes farglielo notare. Avrebbe potuto lambiccarsi per giorni su una frase, una battuta, o qualunque altra cosa, pur di non dire al proprio interlocutore che non aveva compreso quanto le era stato detto. Ad Hogwarts aveva faticato a comprendere la malizia dietro le frecciatine di Nathaniel, ed aveva capito ben presto quanto lo spegnesse il dovergliele ogni volta spiegare. Figurarsi quando qualcuno si stava confidando con lei a cuore aperto; se gli causava tutto quel dolore, non sarebbe stato affatto da Idem costringerlo a spiegarsi meglio. «Loro mi hanno fatto diventare...un mostro...» La Tassorosso inspirò l’aria fra i denti, incapace di trattenersi oltre. Avrebbe potuto respingerla se avesse voluto, non si sarebbe offesa. Idem Withpotatoes era così: ci provava, sempre, e quando le sbattevano la porta in faccia attendeva solo che questa venisse riaperta, senza sforzarla. Allungò un braccio sulle sue spalle, attirandolo a sé, quindi con la mano sinistra gli accarezzò distrattamente i fini capelli corti. Rimase in silenzio per una manciata di minuti, attendendo che i singhiozzi si placassero. Era una sconosciuta, ed il giovane non le doveva alcuna spiegazione: lo sapeva lei, e di certo se ne rendeva conto anche lui. Eppure era così… piccolo, dove poteva essere nata una tale angoscia? Il termine che aveva usato per definire sé stesso, non le era certo sfuggito: mostro. Non era qualcosa che si udiva spesso sulle labbra altrui, ma Idem aveva avuto modo di sentirlo fin troppo spesso. Rivolto agli altri, rivolto a lei, a sua sorella, alla sua famiglia. Rivolto da tanti, sdraiati sulla poltroncina al San Mungo, mentre stringevano con forza i pugni lungo i fianchi. «nessuno può farti diventare un mostro» Asserì con convinzione, alzandogli dolcemente il viso per incrociarne gli occhi arrossati. Fu in quell’esatto momento, appoggiata a quella parete di cemento mentre la brezza delicata le scompigliava la chioma scura, che Idem Withpotatoes si rese conto di credere a quel ragazzo. In quell’esatto momento, o forse fin dall’inizio?, capì che non l’avrebbe lasciato da solo, non più. Non finchè avrebbe potuto evitarlo. Fu guardando in quegli occhi così feriti, che comprese di volergli già bene. «i mostri non esistono» si inumidì il labbro superiore, corrugando le sopracciglia. «okay, forse nonna seti ci è arrivata vicino qualche volta, ma era solo arrabbiata -ehi, come facevo a sapere che non avrei dovuto parlare delle sue erbe a uso medicinale al lavoro?» Si strinse nelle spalle, ancora particolarmente provata dalla scenata che le aveva fatto sua nonna quando i Signori delle Erbe #wat avevano bussato alla loro porta, portando via le piantine tanto curate dalla Withpotatoes per eccellenza. Il sorriso colpevole e gli occhioni dolci non erano bastati, per placare la sua furia. Fortuna che come opzione c’era sempre la fuga. Scosse appena il capo, respirando profondamente. «a volte le persone si comportano in modo... sbagliato. Ma nessuno è un mostro,...?» sorrise con dolcezza, lasciando l’interrogativo aperto per il nome del ragazzino, il quale ancora non l’aveva rivelato. Una sincerità disarmante negli occhi blu, una sincerità che Idem aveva pagato a caro prezzo nei suoi vent’anni di vita. Eppure, lei continuava a crederci. Se avesse smesso di pensarlo, il mondo avrebbe perso troppi colori. «cosa ti hanno fatto?» domandò improvvisamente seria, calandosi nel ruolo di adulta che così poco le si addiceva. Ingenua, sicuramente, e probabilmente troppo fiduciosa, ma reale. Non c’era niente di fittizio nella sua preoccupazione, non v’era falsità nel suo sguardo, né curiosità invadente: non voleva saperlo per sé stessa, voleva solo capire come aiutarlo. «forse i tuoi genitori usano metodi… aggressivi?» tentò delicata, cercando nell’ombra segni di eventuali lividi. Come avrebbe potuto sapere, Idem Withpotatoes, che quello fra le sue braccia altro non era che uno dei nuovi esperimenti? Come avrebbe potuto sapere quale frattura si ritrovasse a voler curare, con il mero appoggio di un paio di caramelle? Avrebbe voluto invitarlo a Withpotatoes Palace, ma aveva paura che un’offerta del genere potesse allarmarlo: lui ancora non poteva sapere che Idem era esattamente ciò che di sé mostrava. Non poteva ancora sapere che avrebbe fatto qualunque cosa perché nessun altro gli facesse del male, figurarsi se potesse essere ella stessa fonte di quel dolore. Cercò di trasmettere quella consapevolezza attraverso le iridi fiordaliso. Allungò una mano verso il viso di lui, con una lentezza quasi esasperante. Era sua intenzione asciugare le lacrime, ma a pochi centimetri dalla pelle si bloccò. «posso?» domandò in un filo di voce, cercando il suo sguardo.
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    Non aveva neanche il coraggio di guardarla negli occhi, il che non era propriamente ciò che lui intendeva come normalità. Nel suo mondo, quello degli orfanotrofi e delle strade, se non si ha sfrontatezza ed una bella faccia tosta si finisce schiacciati dagli altri, senza alcuna pietà. E lui di certo non se lo poteva permettere, dato anche lo svantaggio che aveva per ciò che riguardava la sua corporatura ed il suo viso, eternamente da bambino. Avrebbe tanto voluto posare lo sguardo sul suo viso pulito, sui suoi capelli perfetti e sul suo vestito a fiori, ma proprio non ci riusciva. Quel vestito, poi. Lo osservava con la coda dell'occhio, ammirato. Una cosa così...vivace, colorata, da quanto tempo era che non la vedeva? Forse non l'aveva vista mai. Le uniche cose colorate che mettevano in orfanotrofio erano le decorazioni di natale; quelle per le strade e nei motel nei suoi periodi da fuggitivo le luci al neon. Quella stoffa dalla stampa così delicata gli infondeva una certa sicurezza, quasi sembrava dirgli "Ecco, io sono il segno, il simbolo di qualcosa di nuovo. E' tutto finito. E' finalmente finito." Tentò di aggrapparsi a quel pensiero con tutta la forza che aveva in corpo, cercando di convincersi che sì, tutto era davvero finito. In quei due anni che aveva passato nei laboratori aveva fatto sempre più fatica a stare dietro ai propri pensieri, che spesso e volentieri vagavano con una loro autonomia seguendo un filo non propriamente logico. Aveva paura di diventare pazzo, e di pazzi sì che ne aveva visti tanti nella sua vita. Ma non solo nelle strade. Anche, e soprattutto, per i corridoi di quel luogo, rinchiusi in quelle celle. Il dolore fa davvero delle cose orribili alle persone e, tristemente, Oliver lo aveva imparato nei peggiori di modi. Dopo tutto quello che gli era capitato trovarsi davanti qualcuno che lo voleva aiutare, che aveva davvero a cuore la sua incolumità lo metteva quasi a disagio e, anzi, lo rendeva diffidente. Chi non gli assicurava che lei non fosse una di loro, là per convincerlo con le buone a tornare da dove era fuggito? Nessuno, tristemente. Ma aveva già affrontato con sé stesso quel discorso. Si sarebbe fidato, o ci avrebbe provato, almeno. E se le cose non fossero andate bene, non avrebbe esitato a correre via. Si spaventò, muovendosi in un tremito più forte quando la ragazza si avvicinò per lasciargli la sua giacca sulle spalle. Aveva paura che lei lo avrebbe picchiato, o peggio, ma il suo gesto gli fece deformare il viso in un'espressione mista tra la sorpresa e lo shock. Mai un dottore lo avrebbe fatto, Oliver ne era sicuro. Dunque, alle parole sulle caramelle della ragazza, l'orfanello scosse la testa con forza, ficcandosi i dolciumi in bocca. Ora, almeno un poco, di lei si fidava. Quel gusto dolce e zuccheroso, che pensava di aver dimenticato, lo investì tutto d'un colpo facendogli tornare alla mente ricordi simili a qualcosa di felice. Ma si incupì in fretta, quando lei disse che nessuno poteva farlo diventare un mostro. Ma lui lo era. Certo che lo era. Pure in quel momento sentiva delle voci scomposte, tra cui una, ben distinta, simile a quella della giovane. I suoi pensieri. I pensieri di persone poco distanti da loro. Lui li sentiva tutti, ancora doveva imparare a distinguerli e tenerli lontani quando indesiderati. Ma loro lo hanno già fatto. replicò, gli occhi ancora una volta velati di lacrime. Da quel momento in poi, la lasciò parlare, buttando la testa di lato, fissando l'asfalto. Era sfinito, dannatamente sfinito da tutte quelle parole. E ovviamente non si riferiva a quelle che stavano uscendo di bocca alla mora. Poi, arrivò alle sue orecchie, la parola genitori. I suoi occhi si sgranarono, solo per un istante. Poi, tornò serio e triste come prima. <b>Io non ce li ho i genitori. disse semplicemente, secco e brutale, avendo un altro fremito vedendola avvicinarsi a lui per asciugare le lacrime. Gli chiese il permesso e lui la guardò a lungo, intimorito, confuso. Poi rimase fermo immobile, non più rigido – ma impossibile definirlo rilassato,come a darle il suo permesso. Voleva andarsene di lì. Oh, come voleva andarsene...
    Oliver Abrasax - Tu mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te

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    C’era qualcosa di particolare, in Idem Withpotatoes. C’era sempre stato. Fin da bambina, era sempre stata quella più ottimista, la parlantina sciolta ed i grandi occhi azzurri ad investigare sempre sul mondo. Un innocenza innata, che non aveva perso nel corso degli anni. Non che Idem fosse stupida: si rendeva perfettamente conto di ciò che accadeva nel mondo, di quello che, premendo con forza, modellava le persone in forme sempre nuove. Non era più quell’estraneità infantile che, di problemi, neanche se ne poneva. Si trattava semplicemente di un nucleo di purezza a cui Idem, nel corso degli anni, si era sempre aggrappata con forza. Vedeva del buono ovunque, la Tassorosso; non era solo la sua immaginazione, ne era certa. Semplicemente gli altri preferivano cogliere le altre sfumature, concentrandosi sulle macchie cremisi meno discrete, piuttosto che guardare al cuore delle cose. Si trattava di punti di vista, non gliene faceva una colpa. Vedeva sempre delle possibilità, ed era la prima a prodigarsi per offrirle. Come già detto, c’era più di un motivo se la giovane aveva deciso di dedicarsi agli studi della Psicomagia: voleva dare una seconda opportunità a chi credeva di averla perduta, rimasto incastrato dietro traumi così pesanti da comprimere i polmoni in maniera quasi fisica. Credeva nel futuro, Idem. Nei cambiamenti. Ed anche per quello era entrata a far parte della Resistenza. La realtà in cui vivevano, meritava un’altra possibilità. Chi, se non loro, avrebbe potuto dargliela?
    Quel ragazzino rappresentava tutto ciò in cui la Withpotatoes credeva, tutto ciò di cui aveva timore. Si rendeva conto che nel suo piccolo poteva far ben poco (per la Resistenza, per i pazienti del San Mungo, e di certo per quel giovane) ma qualcosa poteva farlo, no? Il cambiamento iniziava sempre dal basso, ed in modo graduale proseguiva fino a giungere all’apice, la svolta. Non poteva aggiustare nulla di rotto, Idem Withpotatoes, ma poteva essere un rimedio temporaneo. E lo sarebbe stata, con quel sorriso appena abbozzato che la faceva apparire se possibile ancora più giovane, e quegli occhi che mai erano cambiati (o almeno, che lei ricordasse……. Ma questa è un’altra storia). Quando le confidò di non avere dei genitori, lo sguardo di Idem si incupì. Cercava di comprendere quale fosse la verità nascosta dietro quelle parole spicce, ma non riusciva a raggiungere alcun risultato. Non era stupida, semplicemente tendeva a non pensare mai il peggio delle persone: come avrebbe potuto, lei, capire le sevizie subite dal ragazzo? Non avrebbe mai immaginato una cosa del genere. Faticava ancora a crederci perfino sentendo i racconti di chi era sopravvissuto, di chi mostrava le cicatrici. Come potevano fare una cosa del genere a degli esseri umani? Ne rimaneva sempre ferita, Idem. La fiducia che covava verso le persone veniva intaccata duramente, percosse fisiche che la lasciavano destabilizzata. Come potevano. Una sola domanda, ripetuta all’infinito dietro le palpebre abbassate. Ma bastava poco, alla Withpotatoes, per coprire il bozzo con un adesivo sorridente, come un bambino che volesse nascondere un graffio sul proprio monopattino. E bastava, sapete. Aveva sempre saputo che c’era un prezzo da pagare per quelle gioie profonde che spesso e volentieri la facevano sorridere senza motivo: sentiva tutto, e lo amplificava. Era quella che più volte si era ritrovata con il cuore spezzato, che con le lacrime agli occhi guardava i propri pazienti svuotarsi parte per parte ad ogni parola strappata dalle labbra dischiuse. Soffriva quanto gioiva, condivideva felicità e dolore. Se era ben felice di donare il proprio sorriso, non lo era altrettanto con le lacrime: dava tutto ciò che aveva, tenendo per sé solo gli scarti. Tassorosso fino al midollo. Per quello non poteva rimanere con le mani in mano. Non poteva semplicemente lasciare qualche caramella, un andrà tutto bene a fior di labbra, e poi tornarsene sulla sua strada. Non se lo sarebbe mai permesso. La ritenevano sciocca, ingenua, superficiale. La ritenevano ciò che vedevano, un abito allegro ed una voce squillante che raramente non si faceva udire. Ma c’era di più. Con il tacito permesso del ragazzo, di cui ancora non era a conoscenza del nome, passò delicatamente il pollice sulle sue guance, raccogliendo sui polpastrelli umide lacrime. «come ti chiami?» domandò in un bisbiglio, temendo di spaventarlo. Era più plausibile paragonare Idem ad un uragano che non ad una fresca brezza estiva, ma quando comprendeva di trovarsi in situazioni fragili, si muoveva così piano da non fare alcun rumore. Era così che entrava nella vita della gente, Idem: si intrufolava di soppiatto, sorriso dopo sorriso, finchè ormai non c’era più possibilità di mandarla via. Non era invasiva; non entrava sotto pelle, o nelle vene. Non causava alcuna dipendenza, non era mai stata né ghiaccio né fuoco, o un pensiero ossessivo impossibile da rimuovere. Come in ogni cosa, Idem andava dritta al cuore -e lì rimaneva, finché avessero avuto bisogno di lei. E se poi avessero voluto mandarla via, se ne sarebbe andata. «non sei un mostro» ripetè con decisione, prendendo il volto di lui fra le proprie mani. Forse sbagliava ad approcciarsi con quell’ingenuità, forse un giorno avrebbe pagato a caro prezzo quella fiducia sconsiderata. Ma lo sentiva, Idem; chiamatelo intuito, chiamatelo empatia, chiamatelo come volete. Idem Withpotatoes sapeva con assoluta certezza che Oliver non era un mostro.
    I mostri non avevano paura.
    Se fosse servito a qualcosa, l’avrebbe ripetuto all’infinito. Quante volte nell’ultimo periodo aveva stretto le mani di April, cercando di convincerla che non era affatto stupida? Aveva avuto dei problemi, sì, dei quali dottori ancora non si capacitavano. Parlavano di un trauma, ma o April non l’aveva mai confessato, oppure… oppure sbagliavano. Dovevano sbagliare. Ci provava ogni giorno, ci provava in ogni gesto, ma era solo Idem. Se non lo comprendevano da sé, non sarebbero bastate mille rassicurazioni. E dire che per lei era così ovvio. Non capiva come non potesse vedere, la sorella, quanto perfetta fosse ogni sua imperfezione. Aveva dei problemi nell’esprimersi, e quindi? Idem non aveva bisogno di parole per capirla, era sua sorella! Insieme, da bravi Withpotatoes, avrebbero aggiustato tutto. Lo facevano sempre. E non capiva come Oliver, quel ragazzino terrorizzato e rannicchiato su sé stesso, potesse vedersi come un mostro. Avrebbe voluto abbracciarlo finchè quella tristezza non avesse lasciato il suo sguardo, finchè non avesse visto un sorriso su quelle labbra sottili. Ma si limitò ad osservarlo, con quei troppo grandi occhi blu, sperando che capisse. «abito qui vicino, ti andrebbe… vuoi venire a mangiare qualcosa? Se Nathan non l’ha finita, dovrebbe esserci ancora della crostata alla Nutella» sorrise a labbra strette, enfatizzando le fossette sulle guance, mentre le sopracciglia si alzavano ammiccando. Nessuno poteva resistere alla forza della pasta frolla, specialmente se accompagnata da crema alle nocciole. Era una legge. «ne verremo a capo, okay? Insieme» si alzò, porgendogli la mano a palmo aperto.

    I DON'T WANT YOU TO LEAVE, WILL YOU HOLD MY HAND?
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  9. …Heartless?
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    « sheet - 18 16.5 - muggle - neutral- pensieve »
    Anni dopo, avrebbe ricordato quella sera come quella che aveva cambiato definitivamente la sua vita. Il processo sarebbe stato lungo e doloroso per arrivare ad essere la persona che era destinato a diventare, ma ne sarebbe valsa la pena. Ne sarebbe valsa la pena, per lui e per quelli che lo circondavano. E se non fosse stata per Idem, che quella fredda notte dall'odore di pioggia era capitata in quel vicolo di fronte a quel sedicenne che sembrava - ed era, in effetti - ancora un bambino, nulla di tutto ciò che lo avrebbe coinvolto anni dopo, nulla di ciò che avrebbe fatto a distanza di un numero considerevole di giorni e di notte sarebbe successo. Oliver deve moltissimo ad Idem Withpotatoes. Più di quanto sarà mai capace di restituire. La sua visione del mondo, il suo carattere, la sua stessa identità sono state costruite dal muggle telepatico grazie all'influenza e alla presenza gentile nella sua vita dell'ex Tassorosso. Le caramelle che gli offrì quella volta rimangono nella memoria dell'Abrasax come la cosa più buona mai mangiata in vita sua, quando pensa di non poter fare una determinata cosa, di non poter superare una determinata situazione pensa ancora oggi allo sguardo che quei grandi occhi azzurri gli avevano rivolto allora. Idem sarebbe stata da quel momento in poi la donna della sua vita, seconda solo, seppur di poco, a Leto, che sarebbe stata protagonista della sua esistenza, ricerca estenuante ancora per tanto tempo. Le avrebbe fatto tanto bene, quella donna. Anche se all'inizio non gli sarebbe sembrato, gli sarebbe venuto impossibile dimostrarsi grato, felice di vivere improvvisamente in una casa piena di soggetti apparentemente da manicomio quando invece aveva passato tutta la sua esistenza all'interno di orfanotrofi, quando si sarebbe ritrovato appeso al soffitto a testa in giù in camera di Nathan o strozzato da un boa di piume fucsia. Non avrebbe apprezzato gli esperimenti culinari di nonna Seti ai quali avrebbe fatto da cavia come la soppressata di cetrioli - come si faceva una soppressata con dei cetrioli per lui rimaneva ancora un mistero - non sarebbero state serate facili quelle passate a lanciarsi sguardi di fuoco con Isaac, entrambi consci che il primo aveva rubato per l'ennesima volta qualcosa all'altro ed incavolati chi a torto e chi a ragione. Ma quella sarebbe diventata la sua famiglia, la sua ancora, la sua vita e la sua quotidianità. e sarebbe stata la cosa più bella che il buon signore avrebbe mai potuto dargli. Forse l'Oliver sedicenne riuscì a vedere tutto questo nello sguardo della sua interlocutrice per convincersi ad accettare le sue attenzioni e la sua preoccupazione, cose che in altri contesti mai avrebbe fatto. Forse dentro di lui già sentiva che Idem era diversa da chiunque altra avesse mai incontrato nella sua breve esistenza. Così, quando lei gli disse che non era un mostro, lui gli credette. Certo, poi in pratica gli sarebbe venuto ben più difficile accettare la sua nuova condizione ed imparare davvero a non vedersi come un mostro, ma in quel momento gli pareva che tutte le torture, fisiche e psicologiche che aveva subito all'interno dei laboratori non ci fossero stati. Gli pareva che quella pioggia che aveva iniziato a scendere dal cielo gli potesse davvero lavare via di dosso tutto il male che aveva ricevuto e quell'orribile sensazione di essere diventato qualcosa di diverso, di diverso nel modo sbagliato. Tutte quelle voci che sentiva intorno a lui, che proprie voci in realtà non erano, sembravano improvvisamente aver abbassato il tono. Era tranquillo. Era sereno. E la prospettiva di mangiare una crostata alla Nutella era decisamente invitante, nonostante non sapesse cos'era non avendone mai mangiata. Non la conosceva, ma sembrava buona. Prese dunque la mano della ragazza che si trovava davanti, si alzò nonostante le gambe gli tremassero, lo sguardo fisso negli occhi di lei per non lanciarlo freneticamente a destra e a sinistra per paura di vedere qualcuno di loro. Insieme... sussurrò quindi, di risposta all'esclamazione di Idem, nel buio della notte. E insieme, davvero, ce l'avrebbero fatta.
    Oliver Abrasax - Tu mi hai raccolto come un gatto e mi hai portato con te

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8 replies since 13/6/2015, 21:45   417 views
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