Problem Solving

Maeve

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  1. #mainagioia
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    « young and beautiful - 42 anni - EX BEAUXBATONS - NEUTRALE»
    Era strano camminare nuovamente tra quelle strade. Era strano ripercorrere quei posti, già visti in passato, e ricordarli solo brevemente. Per quanto poteva saperne, quei luoghi erano la loro meta prediletta, nelle uscite familiari. Per quanto poteva saperne, esattamente nell'angolo di quella strada, in quel preciso negozio, poteva aver acquistato abiti, dolciumi, giocattoli. Poteva esserci entrata, circolando tra gli scaffali insieme a sua figlia, denigrando l'uno o l'altro abito, consigliandola su ciò che indossare. Ora, neanche si ricordava di avere una figlia. Non si ricordava di averla aiutata a scegliere un vestito per un'occasione importante, di averla abbracciata dopo ciò, e di aver preso con lei una Burrobirra sedute in una tavola calda. E invece, ricordava le torture ai suoi danni. Quello che il suo aguzzino le aveva fatto. Perché si possiedono solo i ricordi di ciò che di peggio è capitato invece delle cose belle per cui gioire? Era una strana logica della vita che non aveva mai compreso appieno. E probabilmente, non l'avrebbe mai accettata. Sarebbe stato un costante punto interrogativo, un problema mai risolto.
    Guardarsi intorno e non avere ricordi. Pensare di aver svuotato una vita, di dover ricominciare tutto da capo. E per colpa di chi? Di un gruppo di studiosi stupidi e curiosi che avevano sacrificato la vita di loro pari, le loro abitudini pur di portare a termine i loro esperimenti arroganti. Non li avrebbe mai perdonati. E se si fosse trovata di fronte il suo aguzzino, neanche la pena e la compassione per il prossimo l'avrebbero aiutata. Avrebbe sfogato la sua intera ira su di lui, l'avrebbe torturato se possibile, gli avrebbe fatto provare le stesse pene che l'aveva obbligata a sopportare lui. Chiusa in una stanza, con poco cibo e poca acqua, a godere della sua situazione. Del suo dolore. Ad approfittarsi di lei. Se suo marito fosse stato lì con lei, l'avrebbe protetta. Avrebbe impedito tutta quella sofferenza. Ma lui, ora, dov'era? Per lei era una persona inesistente. Non ricordava il suo nome, il suo viso. Non ricordava come fosse far l'amore con lui, sentire le sue carezze sul suo corpo. L'unica persona di cui aveva memoria era quel bastardo, e tutto il male che le aveva fatto.
    «Non tirare, piano. »
    Eccolo, il suo migliore amico. Il suo cane fedele, l'unico che aveva suscitato in lei emozioni vere e pure, l'unico che aveva fatto risorgere nella sua mente la speranza di ricordare. Nulla, a confronto, sarebbe stato più piacevole. Portarlo a spasso, tra quelle vie, e camminare accanto a lui potevano essere una speranza, potevano darle quel desiderio ammorbante di riscatto. La sua mente aveva cominciato a pervenire alcuni ricordi, ma solo legati al suo fedele amico. Una semplice leccata sul suo viso l'avevano aiutata a rimembrare la prima volta che l'aveva tenuto in braccio, quando era ancora cucciolo. L'amore che aveva immediatamente provato nell'abbracciarlo forte. Aveva cominciato a ricordare le sue feste quando tornava a casa, il suo ansimare in attesa del cibo con quell'espressione così dolce tipica di un essere a quattro zampe qual'era. Ma nonostante il suo legame fosse altrettanto stretto con la sua bambina, non riusciva ad ottenere ricordi che legassero le due figure. Da bambina, grazie a lui, mille e mille volte aveva scampato un rimprovero. E tante altre volte era uscita bene da una situazione che l'avrebbe portata allo scatafascio. Ma era ancor presto per apprendere ricordi di tale portata. Ne sarebbe passata di acqua sotto i ponti, prima di allora. Ancora due passi, lui che andava alla sua stessa andatura. Poi, cominciò a tirare. Il braccio di Eleanor Mitchell si drizzò improvvisamente, seguendo i movimenti del guinzaglio non potendo far diversamente. Si stupì di quello scatto fulmineo, ma data la condizione che accomunava tutti i cani del mondo non se ne stupì. Semplicemente tirò indietro il guinzaglio, costringendolo a fermarsi, mentre lui abbaiava sonoramente. La sua lingua era fuoriuscita, aveva attraversato i denti, e i suoi occhi si erano addolciti.
    Quella panchina dinnanzi alla quale si erano fermati era il luogo di un appuntamento. Un appuntamento che aveva spaventato parecchio Eleanor, in quelle settimane. Un altro membro della sua famiglia l'aveva contattata. Un'altra persona di cui non ricordava nulla. Si era solo firmata con un nome strano. Un nome parlante, in qualche modo. Le suonava familiare, come se tempo addietro l'avesse spesso pronunciato. Eppure, nel momento in cui quella lettera le era stata recapitata, lei non vi aveva associato alcun volto. Era forse troppo presto? Evidentemente no, visto che stava cercando una sollecitazione da tanto, troppo tempo. E forse, era giunta nel momento giusto. La mittente di quel messaggio, Maeve Winston, forse aveva qualcosa a che fare con lei. O forse no. L'importante era scoprirlo. Di sicuro, se conosceva il suo indirizzo e se sapeva a memoria il suo nome, in qualche modo dovevano pur essersi conosciute. Il cognome non era sconosciuto. Anzi, tutt'altro. Sembrava come trapanarle la mente, tentando di suscitare in lei un'emozione, un qualcosa legato ad esso. Senza dubbio, la volontà di rientrare in possesso di quei ricordi sarebbe stata una necessità più che lecita, per lei.
    E la persona verso cui il cane stava abbaiando, non poteva essere sconosciuta. Era come se lui si fosse abituato a vederla spesso, come se quella ragazza bionda lì, al limitare della strada, avesse percorso i corridoi di casa sua più e più volte. Da lontano non poteva vederla bene. Curioso come gli animali abbiano un senso più sviluppato di quello degli umani. Permette loro di fiutare il pericolo, o di riconoscere qualcuno chilometri indietro. Pian piano, mentre lui tirava, Eleanor metteva un passo avanti, poi ancora un altro. Man mano,la vista si stava abituando a quella breve distanza. Pian piano, i contorni del volto della giovane si facevano più nitidi. Aveva un volto familiare, ma ancora nessun ricordo si affacciava nella sua mente. Che fosse lei Maeve Winston, la ragazza che le aveva dato appuntamento? La guardò con un sopracciglio inarcato, tentando di aprire la propria mente, di ricordar qualcosa, ma ogni tentativo fu vano. La guardava soltanto, con il cuore che batteva all'impazzata. Qualcosa voleva pur significare, giusto?
    ELEANOR MITCHELL - LA SINCERITA' NON VI E' ORO CHE LA PAGHI

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    Si sporse verso il contenuto del calderone, arricciando il naso quando l’odore di uova marce raggiunse le sue narici. Maeve Winston non era davvero certa che esistesse un modo non invasivo per curare i babbani, nonostante ci provasse quasi ogni giorno. I Dottori avevano fatto un lavoro accurato, andando a lavorare direttamente sul fisico dei pazienti; i metodi utilizzati erano stati disumani, ed aveva come la sensazione che altrettanto disumana avrebbe dovuto essere la Cura. Cercava di non arrendersi, di essere ottimista: avrebbero trovato una soluzione, avrebbero ridato la loro vita a tutti i ragazzi come Charlotte Hamilton, la medium. Gli avrebbero fatto dimenticare di quegli abusi, permesso di ricostruirsi un futuro dove non avessero memoria di essere stati delle cavie da Laboratorio. Maeve Winston voleva crederci. E quasi riusciva a crederci lavorando fianco a fianco a sua mamma, Wynne, nei laboratori dei ribelli. Quando Wynne sorrideva dicendo che sarebbe andato tutto bene, Maeve voleva crederci, abbracciarla e farsi cullare da quella sicurezza che in lei ormai vacillava da anni. Si era offerta per quel lavoro, e non quello da Ricercatrice insieme a Deimos dove sarebbe certamente stata più utile, perché voleva sentirsi utile: non riusciva a guardare la condizione in cui erano costretti a vivere senza fare niente, sentiva la necessità di poter dire ci ho provato. Non era mai stata il genere di persona che si tira indietro, specialmente se la cosa le sta a cuore. E no, avrebbe mentito a sé stessa se avesse dato la colpa di quell’attaccamento ai soli babbani, o maghi che fossero, sottoposti alle torture. Suonava insensibile alle sue stesse orecchie, ma uno dei motivi che più l’avevano spinta in quella direzione era il bisogno di sapere che la Resistenza era stata la scelta giusta. I Dottori erano ribelli, e Maeve aveva sotto gli occhi ogni giorno il risultato della loro follia. Voleva che la Resistenza fosse diversa, ma come poteva se fra le sue file includeva personaggi del genere? Come poteva essere certa di non aver fatto una stupidaggine, unendosi a loro? La risposta, e Maeve la conosceva, era: non puoi saperlo con certezza. Ma poteva guardare Dakota, Lil, Didi, e sperarci. “Mamma” Ogni volta che pronunciava quella parola ad alta voce, era un tuffo al cuore. Aveva passato mesi senza sapere che fine la madre avesse fatto, per poi scoprire che anche lei era stata sottoposta agli esperimenti. Lei, suo padre, sua zia. Metà della sua famiglia aveva subito quella perdita, e quello la Winston non l’avrebbe mai perdonato. Ora che l’aveva lì, a lavorare insieme a lei, a malapena riusciva a nascondere l’infantile gioia dell’essere di nuovo con la sua mamma. Maeve non esternava il suo affetto in maniera plateale, ma con piccoli gesti riusciva a dire tutto: le sistemava il camice, come faceva Wynne alle pieghe del suo abito quand’era una bambina e voleva andare alla fiera della rosa di Tralee; le lanciava occhiate di sottecchi, per assicurarsi che stesse bene e non fosse sparita mentre non guardava; lavorava sul banco vicino al suo, in modo che i loro gomiti potessero sfiorarsi e lei potesse sentire il profumo di fiori e sapone e casa. “Questa pozione ha un odore…” Assottigliò le palpebre, indecisa sulla definizione più adatta da appioppare a quella melma incolore. Sgradevole non bastava. “Non credo sia la soluz..-“ Non ebbe il tempo di finire la frase, che la melma si ribellò alle sue parole sgradite, saltando fuori dal calderone. L’intero laboratorio ne era imbrattato, così come una sconvolta Maeve Winston. Gli occhiali che aveva indossato proprio per eventualità del genere avevano le lenti così sporche che la bionda non riusciva a vedere più nulla, le labbra socchiuse in una o di sorpresa mista a sconcerto. Se fosse stato qualcun altro, forse sarebbe scoppiato a ridere. Deimos di sicuro ne avrebbe riso, e quasi riusciva a vedere Dakota che con un lembo della divisa le ripuliva le lenti sorridendo. Ma… Maeve? Chiuse la bocca e strinse con forza le palpebre, maledicendosi. La cosa più seccante avrebbe dovuto essere l’ennesimo fallimento, ma lei riusciva a pensare solamente che quella roba era sui suoi capelli, e sulla sua faccia. “Levatemelo” Trillò piano, cercando di muoversi il meno possibile. Sapeva di suonare sciocca ed infantile, ma… che schifo! La sua seconda preoccupazione, riguardò la rara –ma non impossibile- possibilità che la pozione fosse corrosiva. Se fosse diventata pelata, avrebbe strappato uno ad uno i capelli a William Barrow, dovunque egli si fosse cacciato. Passi veloci alle sue spalle, un’improvvisa frenata, ed un secchio di acqua gelata le fu svuotato sulla testa. Sempre più incredula, gli abiti fradici ed i capelli che gocciolavano al suolo, Maeve si volse ed incontrò gli occhi azzurri e preoccupati di Idem Withpotatoes, la segretaria, che fra le mani reggeva un grosso secchio bianco. “Meglio?” Si drizzò gli occhiali sulla punta del naso, sorridendo allegra. Maeve strinse impercettibilmente i pugni, inumidendosi le labbra con aria seccata. Inspirò. “Da Dio, grazie” Rispose sarcastica, accennando un umido sorriso. La mora era così buona che le dispiacque subito per la risposta piccata. Idem comunque parve non accorgersi dell’ironia, perché riprese il secchio e trionfante tornò alla sua postazione. Improvvisò perfino qualche passo di danza nel tragitto. “Fammi vedere” Wynne aveva usato il tono preoccupato ma deciso che la Winston aveva sempre udito nella sua infanzia, quando tornava a casa con qualche nuovo graffio. Fu così familiare, e confortante, che a stento si trattenne dallo scoppiare a piangere. Mentre lei controllava che non si fosse ferita, Maeve cominciò a parlare. “Ho scritto alla zia, mamma. Ho fatto male?” Le dita leggere di Wynne si fermarono per qualche istante, facendo temere alla Corvonero il peggio. Forse sarebbe stato più giusto da parte sua avvisarla prima di dare appuntamento a zia Eleanor, sua sorella, ma era così abituata ad essere indipendente che l’idea non l’aveva nemmeno sfiorata. Sua mamma le strinse le spalle, spostandole una ciocca di capelli biondi per cercare il suo sguardo. “No, tesoro mio. Ma la zia ha bisogno di tempo” Maeve accennò un sorriso amaro. “Come tutti noi” Sussurrò, quasi a sé stessa. “Come tutti noi” Concordò Wynne, accarezzandole delicatamente la guancia.

    Una doccia ed un paio d’ore dopo, Maeve era seduta sulla panchina a Quo Vadis Town dove aveva dato appuntamento alla zia. Sapeva che aveva perso la memoria, ma sperava… non sapeva cosa sperare, ma voleva vederla con i suoi occhi, starle vicino. Non aveva più intenzione di allontanarsi troppo da nessuno della famiglia: la bionda era in linea generale piuttosto protettiva, ma quando si parlava della sua famiglia diventava davvero una leonessa. Il solo pensiero che qualcuno avesse fatto del male a Eleanor, Wynne e Aaron, suo papà, la straziava. Non li aveva protetti, non si era presa cura di loro.
    Ma avrebbe rimediato.
    Indossava una maglietta rosa pastello ed un paio di pantaloncini di jeans che lasciavano scoperti gran parte della coscia. La pelle era naturalmente di un colore pallido, un bianco appena sporcato di rosa da un pittore distratto, ed i capelli ricadevano sciolti sulle spalle. Il sole lo vedeva di rado a causa del lavoro, ma quei pochi raggi erano bastati a renderli se possibile ancora più chiari, quasi platinati. Sentì abbaiare, e prima ancora di alzare lo sguardo sapeva chi avrebbe visto. Si ritrovò a sorridere, dapprima più reticente e poi sempre più aperta, verso la donna che a passo rapido –trascinata da Liala – giungeva nella sua direzione. Era lì. Era lì per davvero. Avrebbe voluto stringerla, sentire il suo profumo, assicurarsi che stesse bene. Non la vedeva da così tanto! Ma zia Eleanor pareva…distante. Il sorriso rimane sulle labbra, ma si spense negli occhi azzurri di Maeve. “Liala!” Rise, divertita dall’entusiasmo della cagnolona. L’ultima volta che aveva visto Liala, aveva appena partorito Rover. La grattò affettuosamente dietro le orecchie, senza avere il coraggio di rialzare lo sguardo verso la donna. Era ancora così … bella, meravigliosa come la ricordava. E aveva lo stesso sorriso di Wynne. “Grazie di essere venuta” Esordì alla fine, cautamente. Aveva usato un tono educato, ma non riuscì a impedire alla voce di tremare, seppur probabilmente solo ella fu in grado di udirlo. Si odiò per quella debolezza. Si schiarì la voce, spostando l’attenzione sui passanti. Ora che la zia era lì, non sapeva più cosa dirle. “Io sono Maeve. Vuoi… vuoi sederti o preferisci fare due passi?”
    Maeve Winston
    « Like a sunrise made of white lies Everything was nothing as it seems»

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  3. #mainagioia
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    « young and beautiful - 42 anni - EX BEAUXBATONS - NEUTRALE»
    Ricordi... amari ricordi. Così lontani e così irraggiungibili. Passato,maledetto passato. Perché non si affacciava alla mente? Potevano così tanto quegli stupidi esperimenti? Poteva così tanto la psiche umana? Creare qualcosa per cancellare la mente di una persona. Chi mai avrebbe potuto generare un veleno peggiore di quello? Senza tutti quei ricordi, come ci si poteva beare di un passato familiare, di momenti giocosi e dolci come erano stati quelli tra le due sorelle Lacroix? Come aveva potuto un incantesimo cancellare anni di giochi, di passeggiate in bicicletta? Nessuna risposta sarebbe stata abbastanza esaustiva. O meglio, solo un gioco di parole avrebbe potuto spiegare con perfetta pacatezza il significato di quello strano mondo in cui si ritrovavano a vivere. Due bambine, due sorelle che avevano vissuto insieme per tanti anni, che adesso si ritrovavano a vivere come due sconosciute, animate solo dal desiderio di poter ricongiungere quel passato infranto che uno stupido esperimento di laboratorio aveva portato via con se'. Eleanor aveva fatto di tutto per non pensarci, o meglio ancora... per non pensare alla situazione grave che la affliggeva. Perché di pensare ci aveva pensato parecchio. Molte volte si era interrogata su come sarebbe stato possibile recuperare quella memoria,se vi fosse un antidoto a tanta malvagità, se qualcuno avrebbe potuto farla tornare ciò che era in passato. Uno stregone? Uno sciamano? No, tutte squallide idee e impossibili da realizzare per la mancata esistenza di esse. Ogni volta che i suoi occhi si chiudevano, il tentativo di tornare al passato si affacciava nella sua mente. Pensava, ripensava, si sforzava...ma nulla. Nessun ricordo si affacciava alla sua mente. Nessun volto, nessuna familiarità. E del suo matrimonio? Ricordava men che meno. Non ricordava neanche se ci fosse stato o meno, un matrimonio. Il presente, l'odio represso, qualsiasi cosa avevano accecato tutto il resto. Anche un briciolo di tentativo per ricordare era soffocato dalle mani spregevoli del suo aguzzino. Non avrebbe mai dimenticato quegli occhi, quella insistenza. E quelle minacce. Continuavano a ripeterle che avrebbero trovato sua figlia, e che non le avrebbero concesso una scelta come stava capitando a lei. L'avrebbero costretta anche a far qualcosa che non voleva, e questo Eleanor non aveva potuto permetterlo. Giorni interi era rimasta senza esser nutrita, giorni interi aveva patito sperando in una liberazione. E come era finita? Non ricordava neanche come si chiamasse, sua figlia. Non ricordava neanche di possederne una, a tratti. Tutti i bei momenti, quelli che una mamma conserva nel cuore, a lei erano stati negati.
    "Ti odio destino. Come puoi avermi fatto questo?"
    Pochi semplici interrogativi, ma significativi. Non ricordare di tenere in braccio la propria figlia, non poter minimamente immaginare il suo volto mentre sorride, i suoi occhi mentre si chiudono per addormentarsi serenamente. La tristezza era crollata nel suo cuore, e a poco a poco avrebbe dovuto recuperar se stessa, nonostante fosse un'impresa più unica che rara. In quella piccola cittadina, che in quel momento la stava ospitando, sperava di poter ricucir qualcosa. Sperava davvero che quella Maeve Winston che le aveva scritto fosse qualcosa di più di una semplice conoscente. Che, magari, avrebbe potuto rispondere a domande più profonde di quelle che solitamente poneva ai suoi vicini di casa, o a chiunque la incrociava per strada per pura casualità. Rivoleva indietro la sua famiglia, il suo passato. Rivoleva una vita senza compromessi, in cui avrebbe potuto magari ricominciare a vivere, a lasciarsi andare ancora, a fidarsi di nuovo della gente. Un'impresa,di sicuro. Ma ci avrebbe provato.
    Quegli occhi, così penetranti, solcavano il volto di quella ragazza. Quando parlò, ringraziandola per essere venuta, il suo tono di voce zampillò nel suo cuore come se l'avesse già sentita parlare. Come se conoscesse quella piccola cadenza, e come se il suo breve sorriso fosse un ricordo lontano ma allo stesso tempo vicino. Non poteva pensare di averla vista solo casualmente da qualche parte, o di averla incrociata per sbaglio mentre camminava per la strada. Era certa di aver con lei un rapporto stabile, magari lontano. La reazione di Liala dopo averla vista era sin troppo rivelatoria. Il modo in cui si era lanciata su quell'esile ragazzina bionda, il modo in cui le aveva leccato le mani e aveva ansimato...e la sua coda... il modo in cui si muoveva a destra e a sinistra segnalando di averla riconosciuta. Probabilmente, in quel momento, avrebbe voluto essere al posto del suo cane. Avere una memoria, anche la minima, per ricordare chi fosse. Era al settimo cielo, contenta di averla rivista finalmente, e Eleanor si pentì di non aver ritrovato prima quella ragazza, di averla tenuta lontana dalla sua cagnolina per così tanto tempo. L'oro dei suoi capelli le era familiare, e soprattutto era tremendamente simile al suo. Per un attimo, solo per un attimo, credette di pensare che potesse essere la sua bambina. Il cognome non le diceva molto, questo era poco ma sicuro, ma poteva essere un segno. Poteva averla affidata a qualcuno prima degli esperimenti, e per tenerla al sicuro essi potevano averle cambiato cognome. No, non poteva esser così. Era un ragionamento troppo contorto. Un breve sorriso attraversò il suo volto vedendola avvicinarsi, e quando le domandò se preferisse sedersi o far quattro passi, il cuore di Eleanor perse un battito. Le sembrò di aver già vissuto una situazione del genere, poco tempo prima. Dopo aver rincontrato sua sorella Wynne, ella le aveva posto la stessa domanda. E, per un attimo, le sembrò quasi di aver udito lo stesso tono di voce. Cercò di non pensarci e abbozzò un candido sorriso, abbandonandosi sulla panchina con un gesto liberatorio e sospirando appena.
    «Preferirei rimaner qui, grazie.» rispose, e si accorse di quanto anche la sua voce stesse inevitabilmente tremando. Improvvisamente, tutta quella strana freddezza le fece quasi male. Non sapeva perché, ma il suo cuore era trasportato verso quella biondina di nome Maeve. Le parve in un nano secondo di conoscerla. Il suo sorriso si allargò appena, per poi indicarle il posto vuoto accanto a se , tamburellandolo con la punta delle dita una o due volte. «Siediti pure qui, accanto a me» disse ancora, tentando di essere cordiale. Quella cordialità, tuttavia, le sembrava quasi "forzata". Questo perché, in un modo o nell'altro, si era accorta di conoscerla, e probabilmente più di quel che immaginava, e il tutto le sembrava estremamente difficile. Come se, per qualche motivo, dopo averla vista avrebbe dovuto correrle incontro e abbracciarla forte senza esitazione. Piegò il capo in avanti, liberando Liala dal suo collare per permetterle di correre allegramente lì intorno. La cagnolina la ringraziò sfiorandole la mano con la lingua, poi si allontanò trotterellando e annusando gli alberi lì intorno.
    Eleanor Mitchell sollevò gli occhi, incontrando quelli della giovane, e un breve sospiro le sfuggì dalle labbra.
    «Ho ricevuto la tua lettera... pensavo di non conoscerti ma adesso... non lo so...»prese un lungo respiro e piegò il volto di lato, per ispezionar meglio il suo e cercare di cogliere il minimo dettaglio che l'avrebbe portata a riconoscerla. «Ci siamo già viste, prima d'ora? E' come se, in un certo senso, ti conoscessi.» ammise sincera, appoggiando i gomiti alle ginocchia e scrutando ancora il suo volto. Si sentiva una stolker per qualche motivo, ma voleva davvero accertarsi di non aver fatto una figuraccia. Dopotutto, se le aveva scritto, un motivo doveva pur esserci.
    ELEANOR MITCHELL - LA SINCERITA' NON VI E' ORO CHE LA PAGHI

    © psìche, non copiare.
     
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