Somebody that I used to know

x Bells

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    « sheet | 23 y.o. | wizard | clairvoyance | neutral |pensieve »
    Era tutto il giorno che conviveva con l'impressione che qualcosa non sarebbe andato per il verso giusto eppure, anche dopo che il sole, tramontando, aveva lasciato lo spazio ad una notte priva di stelle nel cielo di Londra, non era successo nulla di grave. Anzi, Elijah dovette ammettere con sé stesso che forse quella volta, per la prima volta, doveva aver interpretato male i propri sogni. Anche perché iniziava a credere di dare troppo credito a quello che il subconscio creava nella propria mente, senza pensare che magari quelle erano solo illusioni, e che forse gli era andata solo bene per tutto quel tempo. Poi il fatto stesso che quella mattina era andato tutto per il verso giusto, se non addirittura meglio di quanto non si aspettasse al proprio risveglio, che sicuramente non fu uno dei migliori, lo aiutò a pensare di non dover dare adito a certe convinzioni. Ricordava perfettamente tutte le sensazioni che aveva provato quando aveva aperto gli occhi, alzandosi di soprassalto dalla panchina dell'Hyde Park che l'aveva ospitato la scorsa notte. Ricordava la fitta allucinante allo stomaco, tutti i dolori sparsi lungo il corpo, il lancinante mal di testa. Percepiva ancora, quella stessa sera, il sapore amaro del sangue in bocca, anche se si era svegliato in ottima salute. Stava benone quando l'incubo ebbe fine, non aveva senso avere tali malesseri. Eppure non si sentiva tranquillo, non si sentiva al sicuro, nonostante cercasse di reprimere quell’irrazionale paura che lo faceva rabbrividire. Per tutto il tempo fece qualsiasi cosa per allontanare i cattivi pensieri: cercò di rimembrare cos'altro c’era in quel sogno. Era diventato il suo passatempo preferito, quello di ricordare cosa avesse visto o sentito la notte. Era una cosa che lo teneva con i piedi per terra, pensando a quanto sembrassero veri immagini e suoni e odori, e allo stesso momento gli permetteva di sognare ad occhi aperti, cercando di viaggiare con la memoria nei meandri più oscuri del proprio cervello. In segreto sperava anche che un esercizio di questo genere lo aiutasse a ricordare qualcosa in più. Non riusciva a convivere con il dubbio di chi era prima, di cosa poteva avere fatto nella propria vita precedente. Quante persone aveva dimenticato, quante ne aveva ferite e quante ne aveva aiutate. Chissà quante cose aveva fatto in tutta la sua vita, quante città aveva visitato, quanti individui aveva conosciuto. Non sapeva nemmeno la propria età, Elijah Dallaire, e quello non se l’era mai voluto chiedere, perché venire a conoscenza di quanti anni aveva perso per la via non l’avrebbe aiutato di certo a stare meglio. Ma la cosa che aveva iniziato a turbarlo era se quelle persone che lui aveva dimenticato si ricordavano di lui. Perché vedeva, vedeva la gente che passava per le strade, vedeva famiglie, amici, persone che non erano mai da sole o che comunque cercavano altre persone. Tutti avevano qualcuno con cui parlare, con cui confidarsi: Elijah no. Elijah era abbandonato a sé stesso, non aveva nessuno con cui andare o con cui stare. Aveva iniziato a parlare da solo, consapevole che fosse una cosa insana, ma conscio anche del fatto che con qualcuno doveva intrattenere un discorso, e se non c’era nessuno disposto ad ascoltarlo, allora l’avrebbe fatto da solo. Iniziava a temere di esserci nato in quella condizione, di non aver mai avuto una famiglia, o degli amici, o una vita, perché altrimenti qualcuno si sarebbe preoccupato per lui, qualcuno lo avrebbe cercato. Invece no, nessuno si era mai fatto vivo, e sapeva che lui, di sua spontanea iniziativa, non avrebbe potuto fare molto per riagganciare un qualche tipo di legame. Sarebbe morto da solo, nei vicoli di Londra, e nessuno l’avrebbe pianto, nessuno si sarebbe ricordato di lui, e questa era la cosa che più lo faceva soffrire, anche quella sera. Non i dolori ingiustificati, non il mal di testa o il sapore disgustoso del sangue in bocca, ma la consapevolezza che se le sue paure erano fondate e qualcosa fosse andato male quella sera, nessuno l’avrebbe aiutato, non un’anima si sarebbe protesa per tirarlo su. Poteva morire, quella sera, e nessuno avrebbe mosso un dito per lui.
    Le strade della capitale britannica sembravano vuote, ma forse era solo quel sobborgo che non era poi così attivo, anzi era quasi squallido, pieno di delinquenti che persino i senzatetto preferivano evitare. Ma Elijah era lì, quando il giorno diventava d’un tratto notte ed i lampioni faticavano ad accendersi. Quella che doveva essere una giornata all’insegna della sventura aveva invece fruttato discreti guadagni al giovane, constatando che nella sua ultima perlustrazione –così amava chiamare quelle che a tutti gli effetti erano violazioni di domicilio- non solo era riuscito a mangiare qualcosa di decente lasciato dai proprietari dello stabile, ma era anche riuscito a prendere qualche vestito di ricambio messo in una borsa trovata abbandonata sul letto della coppia che viveva in quella casa. E forse non era abbandonata, come non erano abbandonate nemmeno quelle venti sterline sul comodino, in bella vista, ma non seppe resistere più a lungo. Per un anno aveva represso l’istinto di rubare qualcosa, perché in cuor suo sapeva che non era una cosa che era giusto fare, ma più passava il tempo, più la sua vita si complicava e più aveva bisogno di qualcosa di più. Voleva reinserirsi nella società, in qualche modo, farsi qualche amico, magari in uno di quegli “Irish pub” che vedeva sempre pieni di persone felici ed entusiaste, e quelle venti sterline forse potevano permettergli di fare qualcosa. Non molto, ma qualcosa. Ma lo sapeva, di essere un illuso, seduto al bancone del “The Cow”, il primo locale in cui mise piede. Già si inimicò il barista quando, sedendosi, non seppe cosa ordinare per circa mezz’ora. Leggeva quello che c’era scritto sul menù senza sapere cosa fossero tutte quelle cose, senza sapere cosa prendere, così alla fine propose al barman di decidere lui. Mentre aspettava che gli portasse qualsiasi cosa, però, la situazione si faceva calda, intorno a lui. Sentiva dire che qualcuno aveva bevuto troppo, e lì per lì non ci vide nulla di male, perché quando qualcuno beveva, nei vicoli, diventava più socievole e simpatico ed era sempre una serata divertente, quella. Non si curò di loro, ma solo del bicchiere pieno di un liquido dorato che gli dissero essere una mezza pinta di birra, e lo bevve molto, forse troppo velocemente. Il sapore era buono, la bevanda dissetante, e ne chiese un’altra, mentre quella che era una situazione calda diventava mano a mano sempre più cocente. Doveva intervenire? Ma come, se non aveva mai vissuto un’esperienza del genere? Consapevole che ormai non si sarebbe fatto nessun amico, non per quella sera almeno, bevve l’altra birra con la stessa rapidità, asciugandosi la bocca con il manico della giacca in pelle che aveva trovato nell’armadio della casa a Westbourne Park e lasciando i venti pounds sul bancone, senza pensare al resto: non sapeva quanto valessero o quanto costassero due consumazioni, ma quella cifra doveva bastare. Si alzò di scatto, sentendo un piccolo giramento di testa per il quale dovette un attimo chiudere gli occhi. Non aveva mai bevuto, se non un sorso di qualcosa di strano portato da qualcuno, e non sapeva cosa questo comportasse, anche se era bene o male lucido. Lentamente arrivò alla porta ed uscì dal locale, dove la fresca aria della sera lo investì, facendolo rabbrividire un poco. Si era allontanato non poco dal suo ultimo letto, aveva camminato più di quanto potesse immaginare quel giorno, ed ora doveva solo trovare un posto dove dormire. Ma tornò a tormentarlo la paura che l’aveva accompagnato tutto il giorno, la paura che entro la fine di quella nottata qualcosa sarebbe andato storto, e questo terrore si intensificò quando effettivamente si rese conto di essere seguito e, girandosi, riconobbe nei tre volti a non troppa distanza da lui alcuni di quelli che avevano animato la serata del pub. Seguirlo, pensò, era una perdita di tempo, dato che non aveva nulla con sé se non dei vestiti. Solo che loro non lo sapevano, loro sapevano semplicemente che un tizio aveva pagato due birre con venti bigliettoni senza chiedere il resto, e solo uno che aveva molti soldi poteva permettersi di fare ciò. Comunque Elijah accelerò il passo sempre più, e i tre fecero lo stesso. Fu forse quando svoltò in un vicolo che, guardandosi indietro, scivolò. Nulla di grave, già si stava rimettendo in piedi, ma quel minimo di esitazione aveva dato un vantaggio ai tre inseguitori che ora erano intorno a lui e, senza dire una parola, iniziarono a picchiarlo. Inizialmente piano, quel tanto che bastò a togliergli il borsone di dosso, ma fu quando oppose resistenza che i tre non dosarono la loro forza, alterata dall’eccessiva quantità di alcool ingerita. «Qui non c’è niente». La sentenza finale, che sanciva di fatto l’inutilità di quella vile aggressione ad un Elijah ormai provato da quella serata. Una sentenza che decretava anche la fine di tale dimostrazione di forza di tre ubriachi, che si coronò con un ultimo, poderoso, pugno sul viso del giovane indifeso, incapace di reagire da solo contro tre persone. Cadde a terra nello stesso momento in cui i tre gli lanciarono contro la borsa e fuggirono via, con nulla in mano, lasciandolo a terra agonizzante. E fu allora che sentì la fitta allo stomaco, i dolori sparsi per il corpo, il martellante mal di testa. Fu allora che sentì veramente il grumo di sangue, quando lo sputò sul cemento di quella strada, mentre il retrogusto continuava ad infestargli le gengive ed il palato. Sapeva che non ce l’avrebbe fatta, se lo sentiva: nessuno l’avrebbe aiutato, nessuno l’aveva mai fatto. Lui aveva visto morire molte persone, ma era sempre con loro mentre esalavano l’ultimo respiro. Lì, nessuno l’avrebbe accompagnato in quel suo ultimo viaggio. Ma fece comunque l’ultimo sforzo, prima di perdere coscienza. Con le ultime energie che gli restavano, si portò fuori dal vicolo, tenendosi al muro di quella che forse era una casa, arrivando sulla via principale, dove poi svenne.
    Ma si risvegliò, contro ogni suo pronostico: era vivo, e non era più nella strada illuminata da qualche rado lampione. Si era risvegliato su quello che doveva essere un lettino d’ospedale, a giudicare dalle pareti asettiche e dallo strano rumore di alcuni macchinari vicino a lui. Non sapeva da quanto fosse lì, o chi ce l’avesse portato, ma sembrava essere giorno, a giudicare dalla luce naturale filtrata dalla finestra. Ma la cosa che più lo lasciò sconcertato non fu che qualcuno lo aveva soccorso, bensì il fatto che ora qualcuno era vicino a lui. Non era solo, e anzi riconobbe la compagnia. Riconobbe gli occhi, uno verde chiaro e uno sulla tonalità del grigio, così particolari che non poteva confonderli. Riconobbe il viso gentile, i capelli scuri. Fece uno sforzo immane per parlare, sentendo che qualcosa gli faceva male anche quando respirava, sentendo ancora quel dolore allo stomaco ed al petto, ma alla fine, dopo qualche affanno, ci riuscì. «Arabells... Dallaire?» Sembrava lei, la ragazza vista nei suoi sogni, ma voleva esserne sicuro al cento per cento. Era contento di vedere un viso conosciuto, per così dire, ma non riusciva a capire come l’avesse trovato, cosa volesse da lui. Non riusciva a capire, dopo un anno, perché la sua immagine tormentasse la maggior parte delle sue notti.


    Elijah Dallaire
    « Everyone lives in the hope of becoming a memory »

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    Se fosse stato un anno come tutti gli altri, in quel preciso momento Arabells Dallaire sarebbe stata china sui libri, le dita che scorrevano veloci sulle pagine in braille, intenta a fare il ripasso dell’ultimo minuto. Poteva anche essere una Corvonero, ma anche lei aveva bisogno di studiare. Non poteva sfigurare una volta tornata dietro i banchi, dimostrando quanto poco ricordasse degli argomenti trattati l’anno precedente. Se fosse stato un anno come tutti gli altri, sarebbe stata in cortile, dove fra pergamene volanti Chris le ripeteva Storia della Magia mentre Oscar fingeva di ascoltare, i gomiti poggiati sull’erba ed il viso rivolto al sole – o almeno, così le era sempre piaciuto immaginarlo, considerando che non aveva mai potuto vederlo con i suoi occhi. Se fosse stato un anno come tutti gli altri, Bells avrebbe presenziato ogni sera al capezzale della madre; le avrebbe raccontato della sua giornata, o letto una storia. Amava Emily Brontë, Davina Robinson, e Arabells le aveva letto così spesso Cime Tempestose da saperlo a memoria. Come se avesse realmente potuto ascoltarla, capire cosa leggeva. Alla Dallaire non era mai importato, sapete. Le bastava essere lì, parlarle, ridere delle sue stesse battute. Era sciocco perché la madre nemmeno sapeva chi fosse, ma ad Arabells andava bene così. D’altronde, fino a due anni prima, non avrebbe potuto vedere il sorriso di circostanza sulle labbra di lei, gli occhi socchiusi alla ricerca di un appiglio in quel caos confuso. Non avrebbe potuto vedere il disappunto nel suo sguardo, lei che si ritrovava una sconosciuta in camera. Il tono delle sue parole, già quello bastava a chiuderle ogni volta il petto in una morsa dolorosa. Delicato, come se avesse paura di offenderla: “non dovresti essere qui, Elijah è a scuola” “Mi spiace farmi trovare in disordine, ultimamente sono un po’ stanca” “Sei l’assistente del professore di Pozioni? Oggi non sono riuscita a fare il compito, posso portarglielo la settimana prossima?”. Ma vederlo? Vederlo era tutta un’altra storia. Se fosse stato un anno come tutti gli altri, da lì a poco Arabells Dallaire avrebbe bussato alla porta di Elijah. “Domani rimani? Così giochiamo a Quidditch” Ed avrebbe sorriso, accarezzando piano la porta per riconoscerne il profilo, in maniera così adorabile che suo fratello non le avrebbe detto di no. Non le diceva mai di no, Elijah, e quando glielo chiedeva lui rimaneva sempre a casa con lei. Cercava di domandarglielo il meno possibile perché Bells voleva che il suo fratellone vivesse la sua vita lontano da Inverness, insieme ai suoi amici; ma prima che iniziasse la scuola, era un rito per loro. Non che giocassero davvero a quidditch, considerando la sua cecità: si limitavano a volare sulla scopa, poco distante da casa per non far arrabbiare papà. Ed anche quello le era sempre bastato. Le avevano domandato spesso, quando ne parlava, se non avesse paura di cadere. Lei rispondeva, scuotendo il capo con una risata: “Voi non conoscete Elijah”. Non l’avrebbe mai fatta cadere, a costo di buttarsi per primo per attutirle la caduta. L’avrebbe fatto anche lei per lui, se solo avesse potuto. Quello era uno dei tanti motivi per i quali Arabells aveva deciso di allenarsi nella scherma e nel corpo a corpo. Uno stupido ed infantile motivo in effetti, nessuno sano di mente si sarebbe fatto proteggere da lei, ma Bells ci teneva. Voleva essere pronta a tutto. Elijah Dallaire era la sua ancòra, erano sempre stati loro due contro tutti. Loro due quelli a sorridere ai vicini, dicendo che mamma non stava bene. Loro due ad occuparsi di papà, quand’egli era troppo stanco per occuparsi di loro. E quando aveva bisogno di piangere, era da Elijah che Bells andava, non da Chris o da Oscar. Suo fratello era l’unico a cui mostrava le proprie debolezze. Le accarezzava il capo finchè non smetteva di singhiozzare, dicendole che sarebbe passato tutto quanto, e Bells ci credeva. Credeva sempre a quello che Elijah le diceva, per quanto assurdo potesse sembrare: quand’era piccola le aveva raccontato che i fulmini erano delle scope, e che il temporale equivaleva ai mondiali di quidditch. “I libri non dicono così” “Perché i libri non tifano” E lei non aveva saputo come controbattere, confortata da quella sciocca menzogna.
    Se fosse stato un anno come tutti gli altri. Ma non lo era.
    Bells era seduta nel letto, le braccia strette attorno alle ginocchia, gli occhi chiusi. Era uno di quei rari momenti in cui cercava di non pensare, perché i pensieri facevano così male. Aveva sempre pensato che l’espressione cuore spezzato fosse metaforica, anche perché il muscolo cardiaco non poteva realmente spaccarsi a metà e continuare a battere. Allora perché quel dolore al petto, continuo ed insistente, le impediva di respirare? Sua mamma era passata dallo stato passivo a quello aggressivo: lanciava qualunque cosa avesse a portata di mano contro la porta, si rifiutava di mangiare, cacciava il suo stesso marito dalla stanza. Non si era più azzardata ad entrare dopo l’esperienza della scorsa estate, dopo la quale suo padre l’aveva mandata a vivere in Francia. E Bells non aveva insistito più di tanto, per rimanere. Avrebbe potuto andare ad Hogwarts, ma non l’aveva fatto. Ed aveva finito per rovinare tutto anche con i suoi migliori amici. Ma la cosa che più le faceva male era che suo fratello era sparito, e nessuno sembrava preoccuparsene. Perché? “Tornerà. Sai com’è Elijah” La liquidava Thèo, volgendole le spalle. Sì. Certo, lei sapeva com’era Elijah, e proprio per quello sapeva che quell’assenza non era normale. Nemmeno una lettera? Ma perché suo papà si sforzava di non capire? Dovevano andare a cercarlo, dovevano fare qualcosa. Ma no, ovviamente. Lui doveva occuparsi di Davina, non aveva tempo per un giovane uomo che faceva i capricci, probabilmente ubriacandosi tutte le sere. Possibile che lui non sentisse quel vuoto allo stomaco? Lei lo sentiva, lo sentiva fisicamente che qualcosa non andava. Avrebbe potuto parlarne con Oscar e Chris, ma come avrebbe spiegato loro il motivo che tratteneva Thèo a casa? Non poteva, non con il precario equilibrio che stavano tentando di ricostruire, non quand’erano così preoccupati per Chris. Che amica sarebbe stata, se avesse riversato loro addosso anche quello? Non quella che avrebbe voluto essere. Così si limitava a tacere, a non pensare. Perlopiù suonava, come se la musica potesse attirare suo fratello a casa. Continuava a ripetersi che suo padre aveva ragione: non era successo nulla, era solo apprensiva. Non ci aveva mai creduto.
    Era primo pomeriggio quando il barbagianni bussò alla sua finestra. Un bell’esemplare dal manto dorato e gli occhi nerissimi, che teneva fra gli artigli una lettera recante il suo nome. Come al solito, il cuore le balzò nel petto con un unico pensiero, ormai morboso e fisso: Elijah? Ma la scrittura, come al solito, non era la sua. Ormai lo sapeva, era così ogni volta. Allora perché non riusciva ad impedirsi di sperare? Una speranza che poi moriva lentamente, come una fiamma che si sforzava di rimanere accesa in mezzo alla tempesta. Arabells Dallaire. Confusa, tolse la pergamena della busta.
    “Ciao Arabells,
    probabilmente sto facendo una sciocchezza. Non dovrei scriverti, mi ero imposta di non immischiarmi nelle vite altrui, ma a volte è proprio impossibile, sai. Ti ci ritrovi dentro, e per uscirne devi solo entrarci di più. Alcune storie ti implorano di essere lette, e ricordate, nonostante sappia che non ti appartengono. Mi chiamo Mina, e ho il dono della Psicometria. Non ci conosciamo, non cercare di ricordare dove possiamo esserci conosciute; le circostanze che mi portano a scrivere queste righe sono alquanto assurde, e più la punta della piuma verga questa pergamena, più mi sento una stupida. Non sono mai stata altruista, non me n’è mai importato niente. La mia permanenza nei Laboratori non ha cambiato le cose, tutt’al più le ha accentuate. Ero una strega, proprio come te. Se sto tergiversando? Oh, certo che lo sto facendo. Spero ancora che tu ti annoia, e non arrivi mai al finale di questa lettera. Sciocco da parte mia? Probabilmente sì, hai ragione. Mi sento un’intrusa, perché è quello che sono. Volenti o nolenti, entro nella vita degli altri: li tocco, e vedo il loro passato. Tutto ciò che sono stati. E ho visto cose, ragazzina…
    Ho conosciuto tuo fratello, Elijah. La conoscenza non è stata reciproca, considerando che era svenuto e neanche si ricorderà di me, ma non ha importanza. Mi è bastato. Sono successe tante cose, bambina, ma non è mio compito raccontarle. Sappi solo che ti vuole tanto bene. Ricordatelo, mi hai capita? Anche quando non riuscirai a crederci, rimani aggrappata a quel ricordo. Fallo per entrambi.
    È ricoverato allo University College Hospital. Non posso dirti altro, ma ho pensato… Ho pensato che qualcuno dovesse dirtelo. Mi dispiace tanto.
    Mina”

    Il cuore le batteva così forte nel petto, che in breve piccole lucine bianche le oscurarono la vista. Stava iperventilando, non riusciva a respirare, eppure era felice. Sì insomma, era all’ospedale, ma era vivo. Non aveva pensato seriamente che fosse morto, ma … non si sapeva mai, ecco. Non si soffermò nemmeno sulla lettera, sul reale significato della lettera. Non si soffermò su nulla Arabells, mentre infilava nella borsa la pergamena e la bacchetta, e si lanciava fuori da camera sua. Non che non le importasse, ma non lo reputava così importante. Non era nemmeno preoccupata dal fatto che una sconosciuta le avesse scritto una lettera! Prima di uscire dalla sua stanza, afferrò il boccino che teneva sul comodino, più per abitudine che per reale intenzione. Una di quelle cose che fai sovrappensiero, come abbassare la maniglia della porta per assicurarsi che la porta sia chiusa nonostante tu abbia appena girato la chiave nella toppa. Avrebbe potuto prendere il treno, il pullman. Chiamare papà al lavoro per chiederle se la portava fino a Londra, ma non aveva tempo. Sapeva che Elijah la avrebbe rimproverata per quello, ma Merlino! Le era mancato perfino quello. Anzi, non vedeva l’ora di vederlo arrabbiato. E sperava, oh, sperava avesse un gran bel motivo per quel silenzio stampa durato mesi. Prese la metropolvere che tenevano sul marmo del camino. Le era proibito viaggiare da sola, ma avrebbe pensato alle conseguenze una volta che fosse arrivata là. Che poi, cosa ci faceva Elijah a Londra? Non era il fatto che fosse in ospedale a turbarla, ma a Londra. Era così vicino, e non aveva mai pensato di farsi vedere? Sentire? Si obbligò a non pensarci. Le avrebbe spiegato tutto una volta che fosse arrivata, non aveva dubbi. Magari era una specie di agente segreto, sapete. Coperture e tutte il resto. O forse un eroe mascherato. Non se ne sarebbe stupita, per lei era sempre stato un eroe. Che idiota. Pensò con stizza, ma senza riuscire a smettere di sorridere. “Diagon Alley!” Scandì, prima di lanciarsi nelle fiamme verdi.

    Da Diagon Alley, Bells aveva raggiunto facilmente Londra, e da lì aveva messo in guardia ogni turista sulla possibilità che i taxi fossero fasulli e volessero in realtà solamente rapinarli. “Gira voce che sia tornato Jack lo Squartatore… ma si è modernizzato, e gira in taxi. Eh sì, davvero assurdo! Non avete letto niente da voi?” E loro impauriti lasciavano l’area di sosta. Quando arrivò il primo taxi, lei era rimasta l’unica sull’isolotto ad aspettarlo. “University College Hospital” “Ce li hai i soldi, ragazzina?” Sospirò, lanciando una banconota da venti sul sedile anteriore. “In cinque minuti massimo, diventano trenta” Sgommò senza replicare.
    “Buongiorno” Quand’era arrivata trafelata all’ospedale, era ormai tarda mattinata. La donna non alzò nemmeno lo sguardo. “Sto cercando Dallers” Sbagliò la pronuncia del suo cognome mordendosi la lingua con stizza. A volte si sentiva proprio stupida. “Nome?” Merda. Perché non aveva portato il veritaserum? “Eli…” Sbuffò, sentando la gola chiudersi. “Eliqualcosa. Un nome strano, spagnolo forse” “Elijah?” Annuì con entusiasmo alla receptionista. “345, terzo piano, dopo le scale a destra. Aspetti…” La fermò prima che potesse allontanarsi, squadrandola per la prima volta da quand’era arrivata. “Lei è…?” “La cugina” “Nome?” “Dora” Per un momento pensò che le avrebbe chiesto i documenti. Sarebbe stato imbarazzante, vero? Ma non lo fece, limitandosi a scrivere il nome su un pass per visitatori di carta adesiva che le appicciò sulla canottiera azzurra. Si lanciò sulle scale, seguendo le indicazioni della donna alla reception sulla fiducia; tre minuti dopo era nella stanza di Elijah Dallaire.
    “Oh” Si limitò a bisbigliare, lasciando cadere la borsa subito dopo la porta. Ma cos’aveva combinato? Che imprudente! Era proprio un maledetto Grifondoro. Ma l’avrebbe sentita, oh come l’avrebbe sentita. Il volto era graffiato e tumefatto, ed alcune bende spuntavano da sotto il camice azzurro, sul petto. Doveva essersi rotto o incrinato qualche costola. Non poteva lasciarlo da solo nemmeno cinque minuti. “Ed io che ero stata così sciocca da preoccuparmi. Sei sano come un pesce” Sussurrò a bassa voce, avvicinandosi al letto. Stava dormendo, e per quanto morisse dalla voglia di sentire delle scuse sincere, e una spiegazione, immaginava dovesse riposare. Salvo, ma per poco bello. Passò i polpastrelli sulle croste rabbrividendo leggermente, ed infine lasciò che la sua mano rimanesse appoggiata sul suo viso. Le era mancato così tanto, che non riusciva nemmeno ad odiarlo. Non ancora, ma far arrabbiare la piccola Bells non era stata la mossa più intelligente del suo fratellone. Ehi, Grifondoro era, Grifondoro sarebbe sempre rimasto. Passarono le ore, e le dissero che, se voleva, avrebbe potuto rimanere durante il pranzo, anche se normalmente non era permesso. Elijah comunque ancora non poteva mangiare, le spiegarono. Così rimase al suo fianco ad annoiarsi a morte, giocherellando di tanto in tanto con la mano del fratello che giaceva abbandonata sopra il lenzuolo. “Dai Bella Addormentata, se non ti muovi a svegliarti non trovi più un principe, ma un drago. Più passa il tempo, più ho tempo per arrabbiarmi” Era vero? Certo che sì. Ma anche certo che no, considerando che l’aveva appena detto ad alta voce. Quando lui riaprì gli occhi , lei stava lanciando il boccino nell’aria e lo stava riprendendo, le ali sottili che non avevano il tempo di battere a lungo. Avvicinò ancor di più la sedia al letto, poggiando i gomiti sul materasso sottile. Quegli occhi chiari, quanto le erano mancati. “Ehi” Sorrise sollevata, spostando una ciocca di capelli biondi dalla fronte sudata del ragazzo. “Arabells... Dallaire?” Che sguardo strano. Perché la guardava in quel mondo? Perché non stava sorridendo, perché non aveva ancora preso la mano di Arabells nella sua? Aggrottò le sopracciglia senza capire, ma senza nemmeno domandarsi troppo. Doveva aver preso qualche bella botta in testa, altrochè. Accennò un riso divertito, artificiale ma confortante. “Sono cresciuta così tanto che non mi riconosci più?” Scherzò, pungolandogli il braccio laddove non aveva né flebo né contusioni evidenti. “Sei veramente il fratello peggiore della storia. Questa non te la perdonerò mai” Asserì con convinzione, mentre le labbra minacciavano nuovamente di piegarsi in un sorriso. Ma doveva fingersi arrabbiata almeno un pochino, dai. Se solo lui non fosse stato in quel letto, probabilmente l’avrebbe anche picchiato. E poi l’avrebbe abbracciato, implorandolo di non farlo mai più. Perché quando Elijah non c’era, il temporale faceva ancora paura.

    Arabells 'Lies' Dallaire
    « If I could, then I would I'll go wherever you will go»

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    Faticava a respirare, chiuso in quella stanza d'ospedale. Intrappolato, forse, ecco come si sentiva Elijah Dallaire in quel momento. Per un anno intero aveva vissuto all'aria aperta, senza un tetto sotto al quale stare, senza quattro mura intorno che lo proteggessero, che lo facessero veramente sentire a casa: una casa non ce l'aveva, lui. Ed ora, per quanto ne avesse sempre sognata una nella quale stare, nella quale passare il proprio tempo, quello stare chiuso in quella stanza lo opprimeva. Gli mancava il fiato, avrebbe voluto alzarsi, ed uscire da lì il più in fretta possibile, ma si accorse di non riuscire a muovere nemmeno un muscolo, in quel letto. Il petto, ogni volta che inspirava ed espirava, alzandosi ed abbassandosi, gli provocava una fitta che nemmeno i medicinali che dovevano avergli somministrato nel suo periodo di incoscienza erano riusciti ad alleviare. Le braccia e le gambe, abbandonate su quel materasso duro e leggermente inclinato, erano talmente indolenzite da non azzardare nemmeno un minimo spasmo, un piccolo sforzo per uscire da quella trappola. Non riusciva a respirare, un po' per la sensazione di chiuso che quelle mura asettiche davano al ragazzo, un po' per il dolore che i polmoni provavano ogni volta che sbattevano contro la gabbia toracica. Ma c'era qualcos'altro, qualcosa che faceva scontrare le due sacche d'aria contro le costole ad un ritmo innaturale, che facevano battere il muscolo cardiaco un po' più velocemente. Panico, forse? Era appena stato vittima di un'aggressione, era plausibile come spiegazione, ma non lo convinceva. Non era stato il risveglio a farlo sentire tanto a disagio, nonostante potesse contribuire. Era stata la vista della ragazza di fronte a lui a mandare in tilt il suo sistema. Quella ragazza, che lui doveva aver erroneamente confuso con la ragazza che occupava i suoi sogni, che aveva chiamato Arabells Dallaire ma che invece riportava scritto sul petto un altro nome. «Dora...» sospirò impercettibilmente, poco dopo averle dato un altro nominativo, ma in modo così tanto flebile che forse nemmeno l'aveva sentito. La guardò incuriosito, mentre ella si premurava di avvicinarsi al suo letto, spostandogli i capelli dalla fronte. Un viso tanto familiare, tanto vicino e confortante, quanto sconosciuto. Sua sorella, Elijah, proprio non la ricordava, eppure il cuore aveva perso un battito quando aveva incrociato i suoi occhi, un attimo soltanto, come quando aveva chiamato Otto la ragazza conosciuta in quell'appartamento. Un riflesso incondizionato, forse, una rimembranza che faceva eco nell'inesistente memoria di Elijah. Alcune cose, a volte, tornavano, ma erano talmente piccole, talmente effimere che nemmeno ci faceva caso più di tanto. Ma quello, per quanto fosse potuto durare un secondo, un solo battito mancato, quello lo sentì forte e chiaro. Gli occhi di lei, il suo volto, non gli dicevano niente, il vuoto più completo. Guardò rapito la pallina dorata che la ragazza stava riprendendo quando si accorse che era sveglio: aveva già visto una cosa del genere, appesa al collo, l'aveva sempre avuta con sé. Ma non c'era, dovevano avergliela rubata, dovevano avergli preso le uniche due cose che aveva sempre avuto con sé, perché non sentiva nemmeno il peso dell'orologio sul polso. Si girò di scatto verso il comodino, dallo stesso lato dove era poggiata la ragazza, e scoprì di avere entrambi i cimeli poggiati lì. Era stupido, secondo lui, essere così tanto legati a quelle due cose materiali, eppure non poteva farne a meno, erano tutto ciò che aveva sempre avuto, tutto ciò che lo rendeva vicino al proprio passato, nonostante non riuscisse a capire cosa fossero, o chi gliele aveva date. Ascoltò le sue parole, dette probabilmente con nonchalance, senza poter sapere che no, non la riconosceva più. Ma ferire un'altra persona in quel modo? No, Elijah non poteva farlo, ancora si sentiva in colpa per quell'incontro avvenuto con Octavia, ancora portava nel petto il peso di quella promessa non mantenuta che ancora tormentava le sue notti, insieme al pianto sommesso di lei. Non se la sentiva di dirle che non si ricordava di lei, che non la riconosceva affatto, nonostante sapesse il suo nome ed il suo cognome, eppure illuderla dicendo di sì era ancora più crudele. Scosse la testa, continuando a fissare il comodino, sprofondando la testa nel cuscino mentre Dora-Arabells gli toccava il braccio. Abbassò lo sguardo, seguendo le sue dita sulla propria pelle. Non gli faceva male, né gli dava fastidio, eppure un po' gli creava disagio. La lasciò fare, senza agire di conseguenza, senza rispondere a quel tocco. Cosa doveva fare? Si adagiò sul fatto che praticamente non riusciva a muoversi per non fare nulla, perché effettivamente non sapeva come comportarsi di fronte a lei. Ma la voce convinta di lei, la sua frase, lo obbligarono a guardare nuovamente gli occhi di lei, quegli strani occhi, l'uno diverso dall'altro. “Sei veramente il fratello peggiore della storia. Questa non te la perdonerò mai”.
    Era forse più pesante da sopportare il fatto che aveva fatto qualcosa che ella non poteva perdonarle e del quale non sapeva nulla, o il fatto che gli aveva dato del "fratello"? «F-fratello? Credo tu ti stia sbagliando» Asserì, mantenendo il contatto con i suoi occhi. Elijah non credeva possibile il fatto che fosse suo fratello, per il semplice motivo che se avesse avuto una famiglia non avrebbe vissuto in quelle condizioni per un anno intero, se avesse avuto una famiglia qualcuno lo avrebbe cercato, qualcuno lo avrebbe trovato. La guardò, senza scordare il battito mancato di poco prima: sapeva, nel profondo, di conoscerla, ma era assurdo che potesse essere sua sorella. «Scusami, ma sul serio, credo tu sbagli persona» concluse, mantenendo fisso lo sguardo su di lei, non il solito sguardo, non quello sguardo che rivolgeva unicamente a sua sorella. Non era pieno di affetto, pieno di amore, anzi era completamente vuoto. Un vuoto riempito forse dal dubbio di chi fosse colei che sedeva al suo fianco poggiando le braccia sul suo letto. Di lei conosceva solo il nome, ma quella targhetta sul suo petto metteva anche questo in dubbio.
    Tutti i tasselli di quel puzzle erano messi nel modo sbagliato, Elijah non riusciva a comprendere un accidenti. Perché se lei era lì, un motivo c'era, ma... Decise di spostare l'argomento su altro, constatando che tanto, da quel vortice, non poteva uscirne. Non senza sforzi si spostò leggermente più su con il corpo, assumendo una posizione a metà tra lo sdraiato ed il seduto che, non potendo alzarsi, almeno gli dava un po' di sollievo. Indicò con la testa la mano della ragazza, nella quale aveva visto nascondere la pallina dorata, e poi lentamente recuperò la sua sul comodino. «Cos'è questa cosa? E' un anno che me lo chiedo» riprese, muovendo il boccino tra le dita delle mani, spostando lo sguardo su di esso. Fosse stato qualcun altro, a fargli compagnia, avrebbe finto indifferenza, avrebbe volto la testa da un'altra parte e tanti cari saluti. Ma era una ragazzina, non poteva. Era Arabells Dallaire, sua sorella, quella per la quale avrebbe sacrificato ogni cosa, quella per la quale effettivamente fece tutto quello che influenzò la sua vita. Aveva vissuto per lei, anche se non se ne ricordava, ed era per quello, in fondo, che non voleva liquidarla. Alzò gli occhi, come accorgendosi solo allora del fatto che lui era in ospedale, e che quella della ragazza era una visita. «Cosa ti porta da queste parti?» chiese, con la più totale innocenza, come se la conoscesse da sempre. Così come doveva essere, ma lui non lo ricordava.


    Elijah Dallaire
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    Edited by hiraeth. - 25/9/2016, 17:37
     
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    Avete presente quando nel letto, mentre ancora cercate di prendere sonno, un peso improvviso vi schiaccia contro il materasso dandovi l’idea che stiate precipitando nel vuoto? Un sussulto improvviso, la fronte imperlata di sudore, il cuore che batte all’impazzata contro le costole. Quell’insistente bisogno di aggrapparvi a qualcosa, perché temete che, altrimenti, potreste cadere realmente. Non sapete dove, e sicuramente nemmeno esiste quel vuoto; eppure la paura, irrazionale ed inconscia, rimane aggrappata alla pelle come un parassita. C’è davvero bisogno che quel vuoto esista, per cadere? È quella la domanda principale, che preme dietro le palpebre abbassate. E la risposta è no: si può cadere comunque, sempre. Si può cadere e basta, senza un motivo. A volte è un riflesso incondizionato nel dormiveglia, a volte è una parola, a volte è un sorriso. A volte un sospiro incastrato in gola, altre volte una lettera, un nome. Non ha importanza. È una paura che accumuna tutti gli esseri umani, che li consuma e li leviga dall’interno. Non ha più senso convincersi di non avere paura, quando quella paura è diventata parte di te. E quella paura, nello specifico, faceva parte di tutti. Tutti avevano paura di cadere.
    Tutti avevano paura di non riuscire a risalire.
    Acqua alla gola. Acqua sulla bocca, nel naso. Acqua che non esiste, eppure non si riesce a respirare. Attacco di panico, veniva spesso chiamato. Era la sensazione di non riuscire più a respirare, come se i polmoni improvvisamente si fossero contratti e non riuscissero ad immagazzinare aria a sufficienza.
    Sei parole. Sempre sei parole. “Sei forse un’amica di Elijah?” accompagnate da un flebile sorriso di chi sa di star sbagliando, ma non sa come. E quello sguardo vuoto, che tu più di ogni altra cosa vorresti veder brillare. Anche solo un pochino, non troppo. Anche solo l’accenno di un barlume, sarebbe bastato. Arabells se lo sarebbe fatto bastare. Una sola, piccola, infinitesimale fiammella che le desse modo di pensare che sua madre avesse memoria di lei. L’amore è più forte di tutto. Quello aveva letto nei libri, giusto? E se l’aveva letto nei libri, doveva essere vero per forza. Come poteva una malattia strapparle via quella possibilità? La verità era che l’amore, non bastava. Non era più forte di qualunque cosa. Non bastava mai. E la Dallaire l’aveva imparato in sole sei parole: “Sei forse un’amica di Elijah?”
    Sei parole. Sempre sei parole. “F-fratello? Credo tu ti stia sbagliando” E fu come se l’aria le venisse risucchiata dai polmoni, come essere colpita in pieno petto da un bolide impazzito. Se fosse stata un’altra ragazzina, in un’altra vita, avrebbe pensato che Elijah stesse scherzando. In fondo, Bells voleva crederci. Voleva poterci credere, che fosse tutto uno stupido scherzo. Forse l’avrebbe perfino fatto, se solo non avesse mai sentito la voce di sua madre quando lei entrava nella stanza. Forse ci avrebbe creduto, se non avesse visto gli occhi vitrei di Davina che sorvolavano sulla sua figura quasi fosse stata parte dell’arredamento. Acqua alla gola. Acqua sulla bocca, nel naso. Acqua che non esiste, eppure Bells non riusciva a respirare. Deglutì, scrollando il capo con un sorriso scettico. Forse aveva preso solo una brutta botta alla testa, era una spiegazione ragionevole. Forse era sotto effetto di qualche strano psicofarmaco.
    Ricordatelo. Fallo per entrambi.
    Continuò a scuotere il capo, più del necessario. Non poteva essere vero. E non lo sarebbe stato, finchè lei avesse voluto credere il contrario. Non poteva nemmeno concepire l’idea che… non ci riusciva. Non riusciva nemmeno a pensarlo. “No” Disse secca, a sé stessa, accorgendosi solo qualche secondo dopo di averlo detto ad alta voce. Non era una risposta ad Elijah, era solo un generico, piccolo, no. Non funzionava così. Non poteva. Non poteva e basta. “Scusami, ma sul serio, credo tu sbagli persona” Quegli occhi, Arabells Dallaire, non li avrebbe mai dimenticati. Li aveva sempre immaginati, senza essere mai stata in grado di vederli per davvero. E la prima volta che li aveva visti, aveva pensato che fossero bellissimi. Esprimevano tutto ciò che Elijah era, e pensava, senza che il ragazzo dovesse aprire bocca. Erano occhi buoni, quelli di Elijah Dallaire. Quando la guardava, Arabells riusciva a credere che tutto potesse andare bene. Perché quando la guardava, non c’era bisogno che parlasse. Il suo sguardo era come il suo profumo: era casa, e per Bells sarebbe sempre stato casa. Era protezione. Quando la guardava, Arabells non aveva paura.
    Ed era così vuoto. Vacuo, come quello della madre stesa nel letto ad Inverness. Come se una patina gli impedisse di vedere, vedere realmente. Gli occhi erano sempre gli stessi, bellissimi, occhi di Elijah Dallaire. Ma non erano gli occhi di suo fratello. Quando la guardava, Arabells aveva paura. “Aspetta” Non seppe nemmeno lei come fosse riuscita a formulare quella parola, con quel tono di voce piatto ed asettico. Non riusciva a pensare. Non riusciva a respirare. Alzò gli occhi al soffitto, concentrandosi sul respiro.
    Non è come pensi, Bells. Non può essere successo, giusto? Non ha mica l’alzheimer come la mamma. Elijah non si potrebbe mai dimenticare di te. Mai. I farmaci, continuò a ripetersi. Sono i farmaci.
    Ma non ci credeva nemmeno lei.
    Si alzò, dandogli le spalle. Il respiro affannoso, Bells, proprio non era riuscita ad impedirselo. “Sei divertente. Ci avevo quasi creduto” una risata secca le grattò la gola, facendole male, mentre reimparava a respirare. Si era fatta prendere dal panico per niente, che sciocca.
    Finchè non lo guardava, poteva crederci. Quando non vedeva i suoi occhi, poteva crederci. Doveva crederci.
    “Cos'è questa cosa? E' un anno che me lo chiedo” Si volse in automatico, già dimentica di ogni dubbio precedente. Era così facile, quando non lo vedeva con i suoi occhi. Così semplice. Poi, vide ciò a cui il fratello stava alludendo. Lo stringeva fra le mani con delicatezza, come si potrebbe fare con un antico gioiello. Ma non c’era la confidenza, non c’era il legame. Non.
    Acqua alla gola. Acqua sulla bocca, nel naso. Acqua che non esiste, eppure non si riesce a respirare.
    Rimase a fissarlo, immobile. Perfino il cuore pareva essersi fermato, mentre lo sguardo della Dallaire accarezzava il boccino dorato stretto fra le dita di Elijah. Doveva uscire, doveva andarsene, doveva scappare. Doveva fingere che non fosse mai successo. Magari era solo un incubo. “è…” Le bruciavano gli occhi. Perché le bruciavano gli occhi? “Io…”

    “L’hai preso!” Sentiva la risata di Elijah contro la schiena, le sue braccia strette forte attorno al proprio petto esile. Avrà avuto cinque anni, forse sei ad esagerare. Papà non voleva che volasse sulla scopa, ma Elijah non era mai riuscita a dirle di no. E mai, mai l’avrebbe fatta cadere. Era la sua famiglia, erano il loro tutto personale. “Davvero?” Strillò Bells, stringendo forte qualcosa fra le dita ossute. Le ali le sfiorarono delicatamente le falangi, prima di richiudersi. “Ho preso il boccino?” Lo premette contro il proprio viso, cercando di sentirlo per davvero. Poteva anche essere cieca, ma aveva altri modi per vedere. Profumava di ... vittoria. E profumava, incomprensibilmente, di Elijah. “Sì, Bells! Sei stata bravissima” Arabells Dallaire rise, alzando le braccia al cielo, mentre Elijah li riportava a terra. Arabells Dallaire rise, perché era riuscita a prendere il suo primo boccino. E continuò a ridere, mentre Elijah le raccontava di come questo si muovesse velocemente nell’aria. Chissà come l’aveva guardata, in quel momento. Chissà se era stato fiero di lei.

    Avrebbe voluto chiedergli se davvero non lo sapeva. Se davvero non riusciva a ricordarlo.
    Non era abbastanza forte per sentire la risposta.
    “Quidditch” Rispose solamente, chiudendo gli occhi per non guardarlo più. Così andava meglio. Così, andava molto meglio. “Cosa ti porta da queste parti?” Per favore, per favore, no. Per favore, ti prego, Elijah. No. E non poteva dirglielo, non poteva dirgli nulla. Anche se avesse voluto, anche se fosse riuscita a formulare una frase, non avrebbe potuto dirgli la verità. “Per favore. Per favore, El…” Il nome le rimase strozzato in gola, minacciando di soffocarla. Si asciugò rapida una lacrima solitaria, troppo in fretta perchè lui potesse essersene accorto. Aveva bisogno di sentirselo dire. Doveva ricordare, per entrambi. “Dimmi la verità” No, non farlo, non farlo, mentimi, dimmi una bugia, per favore. “Sai chi sono? S-stai… stai solo scherzando, giusto? Hai preso una botta…” La voce era andata via via affievolendosi, suonando patetica alle sue stesse orecchie. Scosse il capo per l’ennesima volta, già pentita di quella domanda. Non poteva essere forte per entrambi, non poteva ricordare per entrambi. Entrambi, senza Elijah, neanche esisteva.
    Arabells 'Lies' Dallaire
    « If I could, then I would I'll go wherever you will go»

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    Lo vide, dipinto sul viso della giovane. Lo vide, anche se lei cercava di nasconderlo. Panico, paura, sconcerto. Negazione. Lo vedeva, e come per empatia, un po', provò le stesse cose. Quella stessa sensazione di smarrimento che vedeva ritratta negli occhi di Arabells -se fosse veramente lei Elijah non poteva ancora dirlo con certezza- l'aveva provata da sempre, o meglio da quando aveva memoria. Quella sensazione di instabilità, incredulità davanti alle situazioni che non credevi possibile affrontare. Quel vuoto dentro, l'incapacità di poter dire qualsiasi cosa, di poter andare avanti; l'incapacità di poter accettare la realtà dei fatti. Aveva visto tanto, e tanto avrebbe voluto poter scordare, così come aveva dimenticato tutto il resto. Aveva visto, aveva provato la disperazione, ed era per quello che, seppur non ricordando colei che gli sedeva di fronte, poteva affermare di capirla. La stessa negazione dei fatti, la stessa incredulità nello scuotere la testa, volendo cancellare tutto quello che stava accadendo pensando che fosse uno scherzo di cattivo gusto, l'aveva già visto, non molto tempo prima. Ed era quello a fargli male, era quello che bruciava più delle ferite che gli impedivano di muoversi da quel letto. Era la reazione di coloro con cui veniva in contatto a struggere Elijah. Voleva fare qualcosa, lui, cercare di alleviare il loro dolore, consolarli, dire che andava tutto bene, ma non poteva. Non poteva dire che andava tutto alla grande, se era tutto uno schifo. Mentire a sé stesso, mentire agli altri, non poteva, sarebbe stato solo peggio. Peggio di così? Era meglio, sempre, sputare in faccia la realtà, cercando non compassione, o pena, bensì un aiuto. Era quello che aveva fatto, le aveva detto che non sapeva chi fosse, ma lei non aveva fatto altro che girarsi, e ridere, di una risata asciutta, nervosa. E lui non poteva ridere, non gli riusciva. Elijah Dallaire, al quale il sorriso non era mai venuto a mancare sul viso, non riusciva a trovare nulla di divertente in tutto ciò. Alzò gli occhi verso il soffitto, incapace di dire nulla, incapace e basta. Non riusciva a pensare, colpa anche di tutti i farmaci che gli annebbiavano la mente periodicamente, non riusciva a focalizzare il suo volto nella propria testa. Oramai l'aveva visto talmente tante volte nei propri sogni che vederlo veramente era strano, irreale. Aveva sperato per tanto tempo di vedere quel viso dal vivo, di trovare una spiegazione a tutto ciò, che ora che era ad un passo dalla verità, dal sapere, temeva fosse tutto uno strano gioco del Fato. Voleva farle tante domande, voleva ricordare, ma l'unica cosa che riuscì a chiederle fu cos'era quella piccola sfera dorata, e cosa la portava lì. Inconsciamente, non avrebbe potuto fare niente di più sbagliato. «Quidditch» Un'eco, lontano. La voce della ragazza parve essere giunta da un'altra stanza, mentre il dolore tornava a crescere, mentre il respiro di Elijah si faceva sempre più affannato. «Quidditch» Sentì la macchina al suo fianco registrare ritmi diversi, sentì il cuore battere contro il proprio petto martoriato. E gli faceva male. Chiuse gli occhi, digrignò i denti, mentre i polmoni sembravano non voler più collaborare. Volevano collassare su loro stessi, porre fine a quell'agonia. Non al dolore che provava per le ferite. Era un altro tipo di agonia, quella...

    «Quidditch» La voce di Elijah era più giovane, spensierata, e quella di Bells era squillante, esuberante. «È lo sport dei maghi» iniziò a spiegare, mentre l'odore d'erba appena tagliata riempiva i polmoni del biondo. Sedeva sul prato che aveva appena curato, tenendo tra le braccia, davanti a sé, la piccola Arabells. Era piccola, ma curiosa, e quella era l'estate nella quale il dodicenne le avrebbe raccontato tutto sul gioco. Le avrebbe raccontato tutto, dalle sensazioni che provava nel cavalcare una scopa a quelle che suscitavano il tener stretto nel pugno il Boccino D'oro. Lo stesso boccino che aveva portato a casa, quell'estate, e che ora faceva svolazzare davanti alla bambina che, non potendolo vedere, agitava le manine nella speranza di prenderlo. Ed Elijah rideva, vedendo quei vani quanto eroici tentativi. E solo la risonanza di quella risata, solo quello, tornò alla mente di Elijah quando riaprì gli occhi.

    Doveva aver avuto una crisi. Non era la prima, da quando era arrivato nell'ospedale, solo che le altre dovevano essere avvenute nel sonno. Aveva appena avuto il tempo di chiederle di informazioni, prima di soffrire come mai prima d'allora. Gocce di sudore imperlavano la fronte, mentre dolorosamente cercava di tirarsi un po' su, un po' dritto. Avrebbe voluto alzarsi, ma sarebbe stato solo uno stupido a tentare di farlo, sentendo ogni muscolo, ogni osso del corpo urlare il proprio dissenso. «Q-quidditch» ripetè, flebilmente, più per non spaventare lei che per altro. Più per dirle che stava bene, per non farla preoccupare, che per sé stesso. Era strano. Era come se volesse proteggerla, da qualsiasi cosa, anche dal dolore che non poteva alleviare. Gli faceva ancora male la testa, non sentì quello che disse, ma vide perfettamente. Vide il suo gesto, anche se aveva voluto nasconderlo. L'aveva sempre visto, aveva sempre asciugato le sue lacrime. «Non.. Non piangere» le disse semplicemente, come se quello avesse potuto fare la differenza. «Sai chi sono? S-stai… stai solo scherzando, giusto? Hai preso una botta…» Voleva alzarsi. Voleva, ne aveva bisogno. Voleva alzarsi ed abbracciarla, voleva non poterle dire la verità. Ma non poteva. «Io...» Guardarla negli occhi era peggio. Ma gli aveva chiesto la verità, e non era il tipo da indorare la pillola. «Io non lo so... Ma conosco il tuo nome, non so perché. Ti ho vista in sogno e...» Si vergognava di quello che stava per fare. Si vergognava, perché era sempre riuscito ad andare avanti da solo, per inerzia. Tutto, nella cattiva sorte, gli era sempre andato per il verso giusto, fino a quel giorno. Chiuse gli occhi, di nuovo, cercando di trovare un'altra alternativa. Una soluzione che non necessitasse di alcun aiuto. E non era nemmeno sicuro che ella fosse chi sperava lui, non ne era sicuro perché la targhetta sul petto diceva il contrario. «Ti prego» Portò le mani agli occhi, strofinando forte. «Ti prego dimmi che puoi aiutarmi» Aiuto. Era quello che gli serviva, un aiuto. Ma era solo una ragazzina, era lei ad aver bisogno di aiuto, e non poteva chiederglielo. «Non ricordo nulla» Aprì gli occhi. Facevano male, doveva averli stretti troppo nel tentativo di rimandare indietro i pensieri, ma li puntò comunque sulla ragazza. E più la guardava, più gli sembrava reale, vera. Vicina. «Puoi farlo? Puoi... Puoi aiutarmi, vero?» Lo risentì, poi. Lo stesso dolore di prima. Chiuse gli occhi, cercando di soffocarlo. Ma non faceva male come prima. Non sapeva spiegarsi il perché, ma non faceva male come prima. Era insieme ad Arabells. Molto, molto inconsciamente, sapeva che lei sarebbe stata lì per lui, sempre, come lui c'era sempre stato per lei. Per loro.

    Elijah Dallaire
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    Edited by hiraeth. - 25/9/2016, 17:38
     
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    L’uomo aveva da sempre paura, spesso di cose delle quali neanche si rendeva conto finchè non era troppo tardi. Era intrinseco nell’essere umano, irrazionale; c’era chi aveva paura dei ragni, chi dei cani, dei serpenti. C’era chi aveva il timore delle statue, degli spazi aperti o, al contrario, di quelli chiusi. Alcune paure erano così diffuse da avere un nome ad identificarle, mera etichetta per far sentire chi le provava meno solo: non sono l’unico. Quella consapevolezza non rendeva il proprio timore meno terrificante, ma dava la sensazione di poter sopravvivere. Legittimo; riusciva anche a renderlo meno surreale, a far sentire meno vulnerabili. Con un solo nome, un solo termine, si circoscriveva l’insieme delle piccole cose che rendevano una paura tale: battito accelerato, ghiaccio nelle vene, impossibilità di ragionare a mente lucida. Una sola parola racchiudeva quelle storie che, di giorno, si raccontavano agli amici con una risata di scherno verso sé stessi, improvvisamente dimentichi di quanto, sul momento, fosse stato spaventoso. Arabells Dallaire non faceva certo eccezione, e come ogni ragazzina aveva un centinaio di paure: buio, vuoto, spazi aperti, test di storia della magia, la morte, le umiliazioni.
    Ma c’erano altri tipi di paure, definite clinicamente disturbi. Venivano denominate fobie, e racchiudevano un intero universo in quelle sole cinque lettere: diventavano una limitazione, una costante ricerca di concretezza in un mondo dove di concreto non v’era nemmeno il proprio riflesso. Impedivano di ragionare, ed era impossibile contestarle, o vincere contro di esse. Paralizzavano l’individuo in una situazione di stasi nel quale, semplicemente ed irragionevolmente, non riusciva ad esistere, incurante perfino del necessario e naturale atto della respirazione. Era una malattia, la fobia. Bells aveva letto un libro, quand’era più piccola, spinta dalla curiosità di comprenderne il meccanismo: aveva appreso che la paura era una reazione normale ad un evento di potenziale pericolo; aveva appreso che avere paura significava ansia prima ancora che l’atto avesse tempo di avvenire; lo spavento era improvviso, suscitato nell’immediato, più forte della paura; con evitamento si intendeva il prodigarsi nell’eludere una circostanza ritenuta fonte di timore. Nella scala gerarchica, l’attacco di panico è solo secondo, e come l’avere paura era immotivato ma scientificamente riscontrabile nelle risposte dell’organismo, apparentemente in tilt: deficit nella respirazione, tachicardia, sudorazione. Date pure la colpa alla sua mentalità da Corvonero, ma Bells era innocentemente convinta che conoscere una cosa significasse capirla, e di conseguenza essere preparati nel momento in cui ce ne fosse stato bisogno. Era esattamente quel genere di ragazzina che s’informava su come sopravvivere ad un apocalisse, imparando come, razionalmente, agire in una situazione di pericolo. La ragione però c’entrava molto poco, nonostante ogni paura fosse proprio generata dal cervello; la ragione semplicemente non poteva completare un puzzle che, sul momento, non riusciva neanche a vedere. Seduta con le gambe incrociate sul letto, un grande libro sulle ginocchia e le dita che scorrevano veloci sul braille, Arabells Dallaire non poteva però saperlo.
    L’apice della classificazione, era la cosiddetta reazione fobica, ossia una reazione esagerata per il contesto nel quale nasceva. Non ci sarebbe stato nulla di così angosciante in quella stanzetta d’ospedale, teatro di un Elijah che non aveva memoria d’essere Dallaire, e di una Dallaire che non aveva memoria d’essere Arabells. Qualcosa che, preso dalla giusta angolatura, prometteva una soluzione; forse non facile, ma l’avrebbero trovata. Eppure c’era una parola, una sola, così difficile da memorizzare che il solo fatto di averne una chiara e cristallina sillabazione nei propri ricordi, aveva sempre reso Bells orgogliosa ed incredibilmente, inevitabilmente, triste: athazagorafobia, la paura di essere dimenticati. Per quanto potesse apparire un timore al quale Bells avrebbe ormai dovuto essere abituata, date le condizioni della madre, non lo era; non aveva mai capito a fondo quanto inconsciamente fosse aggrappata a quella paura, quanto ne avesse fatto il proprio mantra. Se prestate attenzione a Bells, anche solo di sfuggita, è difficile che ve ne dimentichiate. Non perché sia particolarmente bella, divertente, o intelligente… ma c’è qualcosa che rimane, fosse quel sorriso sbarazzino a fior di labbra, il buffo accento francese che traspariva nelle situazioni meno opportune, od il modo con il quale vedeva sempre tutto. Riteneva importante, senza neanche rendersene conto, ricordare ogni cosa così che ogni cosa potesse ricordarsi di lei. Rendeva importante ogni persona che incrociava per la propria strada prima ancora che potesse, letteralmente, guardarle. Un dono? Forse era un modo, romantico, di vederla. Ma non era così, Arabells aveva solo paura. La paura però non era neanche lontanamente paragonabile alla sensazione provata all’interno di quello stupido ospedale, che odiava di minuto in minuto sempre di più; non si avvicinava neanche all’asfissiante acqua alla gola, nel naso, nei polmoni. Era completamente diverso, e non sapeva come comportarsi. Aveva solo quindici anni, Merlino! I suoi amici erano lontani, e probabilmente la odiavano; sua madre non sapeva chi ella fosse, e suo padre vedeva in lei ogni disgrazia capitata a quella famiglia. Elijah, però, lui non poteva farle quello. Lui era il suo punto di riferimento, il Nord che la sua bussola, sempre, indicava. Non era solo il sangue a legarli; era il dolore, i segreti che gli erano stati imposti, la capacità di ritrovarsi sempre e comunque, di sapersi accettare vicendevolmente, e di capirsi quando nessun altro poteva capirli. Elijah Dallaire si era preso cura di lei, quando nessuno ancora se ne preoccupava; quando aveva avuto bisogno di braccia più forti delle sue, o di quelle dei Fraser. Quand’era una bambina che ancora cercava, strisciando le mani sul terreno, la memoria della madre. L’aveva persa, da qualche parte doveva pur essere.
    Risucchiata. Non… non ce la faceva, non da sola. Non riusciva a reagire, a trovare una risposta soddisfacente ai quesiti di suo fratello. Non riusciva a dare una svolta a quella situazione di stallo, arresa prima ancora che la guerra cominciasse. Mani in aria, priva di armi; priva di tutto, mentre una lacrima scivolava liquida dagli occhi chiari della Dallaire, dando forma a quei frammenti cui non era in grado di dar voce. «Non.. Non piangere» Era semplice per lui, vero? Era semplice rimanere lì, con l’espressione preoccupata che un qualunque passante avrebbe potuto rivolgere ad una ragazzina in difficoltà. Svuotata da quell’energia che sempre, di solito, traspariva da ogni suo movimento. Non piangere. Chinò il capo ridendo, strizzando con forza le palpebre per impedire ad altre gocce salate di tracciarsi un proprio percorso sul suo viso. «Io non lo so... Ma conosco il tuo nome, non so perché. Ti ho vista in sogno e...» Davvero non ne aveva idea. Davvero, aveva perso tutto? Il respiro di Bells si spezzò mentre Elijah lasciava la frase in sospeso, un silenzioso singhiozzo rassegnato. In sogno, eh? E dire che quello era proprio uno dei suoi incubi peggiori. Conosceva il suo nome, ma non sapeva il perché. Perché sono la tua sorellina, ecco perché; perché mi vuoi bene, ed almeno te avresti dovuto esserci sempre. Perché non puoi lasciarmi da sola Elijah, non con tutto questo. Perché devi saperlo, altrimenti non ha senso d’esistere. Si ritrovò ad annuire fra sé, incapace di formulare una frase con cui rispondere a quell’affermazione. Che bello, fratellino, conosci il mio nome. Almeno sono passi avanti rispetto alla mamma. Una ragazzina davvero memorabile, Arabells Dallaire. «Cavalcavo un unicorno?» Completò, sorridendo leggermente. Spontanea, ma non divertita; non con quello sguardo prima chino che si rialzava lentamente di chi sapeva aver fatto una pessima battuta, ma veniva reputata comunque simpatica perché detta in tono leggero al momento giusto. Uno scambio di battute fra fratelli, tipica quotidianità a casa Dallaire.
    Se solo Bells avesse potuto essere sincera.
    Se solo Elijah avesse potuto ricordare.
    Doveva dirgli così tante cose, e non poteva; che aveva bisogno di lui. Invece, inerme, rimase seduta a guardarlo, chiedendosi chi stesse vedendo. Forse avrebbe dovuto cominciare a pensare ad una soluzione, una scappatoia, a come sistemare le cose. Era ancora troppo infantile, Arabells, non riusciva a focalizzarsi sul problema. L’unica cosa che riusciva a vedere, era che aveva cessato d’esistere per la persona più importante della sua vita, e che se la sua bussola continuava ad indicarle Elijah come il Nord, quella di Elijah neanche sapeva della sua esistenza. Dove puntava? Chi era, quel biondo dallo sguardo smarrito e così dannatamente triste? Avrebbe voluto scuoterlo, picchiarlo se necessario. Sono io la vittima, non tu. Sei il mio fratellone, e devi essere te a prenderti cura di me. Egoista e capricciosa, ma faceva così male. Continuò ad evitare il suo sguardo, soffermandosi invece sui tubicini attaccati al corpo del fratello.
    Non ricordo nulla.
    Ti prego dimmi che puoi aiutarmi.

    Si prese il capo fra le mani, piegandosi su sé stessa. Il mento sfiorava le ginocchia, mentre l’ennesimo singhiozzo rimaneva alla base della lingua. Solo una manciata di secondi, solo per poco. Non ricordo nulla. Voleva andarsene. Voleva fuggire, fingere che non fosse successo nulla ed aspettare che Elijah sistemasse le cose da solo, tornando a casa come nuovo con quel suo solito mezzo sorriso sbruffone e lo sguardo dolce. Ma ti ha pregato, Bells. Ha bisogno di te. Come si faceva? Non ne aveva la più pallida idea. Si asciugò le guance passando le dita sotto le palpebre inferiori, e quando alzò la testa stava di nuovo sorridendo.
    Perché aveva bisogno di lei, e lei per lui ci sarebbe sempre stata. Perché poteva non ricordarla, ma lei lo ricordava. Perché era il suo turno di prendersi cura di lui.
    Doveva solo dirglielo. Annuì a labbra strette, cercando di far arrivare quel sorriso anche agli occhi rossi. Tirò su con il naso, volgendo gli occhi al soffitto prima di tornare nuovamente su Elijah. Strofinò le mani sulle lenzuola e prese quelle del fratello fra le proprie. «Mi chiamo Lies. Noi…» Deglutì. Alla fine si arrese, allontanandosi dal lettino e dal Dallaire coricato su di esso. Cercò nella borsa un quaderno, quale Corvo girava senza pergamene?, ed una penna.
    Mi chiamo Arabells Dallaire, figlia di Davina Robinson e Thèodore Dallaire. Ho quindici anni, e sono una strega. Frequento la scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, sono stata smistata fra i Corvonero, uno dei… gruppi della scuola. La grafia tondeggiante di Bells risultava a tratti illeggibile, a causa del tremore incontrollato delle proprie mani. Tu mi hai sempre detto che non ti eri mai aspettato altro, perché ero troppo intelligente per essere una Grifondoro… e soprattutto, perché c’era già uno bello in famiglia, qualcuno doveva essere la mente. Lavoravi al San Mungo come neurologo. Ti piace aiutare le persone, e adori il quidditch, uno sport appartenente al mondo magico. Hai sempre disprezzato i cavoli, e per questo ogni volta che lo facevi arrabbiare, papà ti obbligava a mangiarli sia a pranzo che a cena.
    Ti chiami Elijah, Elijah Dallaire.
    Se ricordi il mio nome, è perché sono tua sorella.
    E non posso dirtelo, perché mi hanno maledetta; non posso più essere sincera, Elijah, ed ho paura. La mamma è peggiorata, papà è sempre più distante, e mi sa che ho fatto un casino con i miei amici. Ti prego ricorda, Elijah, perché io ho bisogno di te. Ho bisogno che tu ti prenda cura di me, come hai sempre fatto

    Cancellò le ultime parole con spessi tratti della penna, di modo che il contenuto fosse illeggibile. Quindi, spostò i grandi occhi chiari su Elijah Dallaire, cercando –ci provò davvero- di rivolgergli un sorriso confortante mentre gli dava il foglietto scribacchiato. Voleva solo un abbraccio, Arabells Dallaire; voleva solo suo fratello.
    Voleva solo non essere l'ennesimo ricordo sbiadito.
    Arabells 'Lies' Dallaire
    « If I could, then I would I'll go wherever you will go»

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    « sheet | 23 y.o. | wizard | clairvoyance | neutral |pensieve »
    Quanto tempo fosse passato, non poteva saperlo, perché sicuro era successo prima, prima che il suo passato si riducesse ad un lettino bianco, a degli echi di ciò che quelle mura avevano visto e sentito, a dei cadaveri sparsi in dei corridoi ormai vuoti. Quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che aveva sentito gli angoli della bocca spingere contro le guance, disegnando quelle linee che tanto piacevano a Davina, senza nemmeno avvertire le labbra che si dischiudevano in un sorriso era un mistero per Elijah Dallaire. Perché mai, da un anno a quella parte, aveva davvero riso, probabilmente nemmeno sapeva l’esatto significato di quel termine. Aveva sorriso, il Grifondoro, aveva sorriso spesso, ma mai veramente in maniera spontanea. Sempre spinto da qualcosa, dalla necessità di non sembrare una cattiva persona, come si era sentito etichettare spesso da qualche vecchietta insensibile che non capiva il perché egli si ritrovasse ad elemosinare pochi spiccioli, o qualcosa con cui mangiare, ai bordi delle strade, con la schiena poggiata alle pareti delle case londinesi. Aveva sorriso per dimostrare di essere forte, di non aver paura di quei vicoli, di non aver paura della notte e del freddo, di non aver paura dei passanti e di quelli come lui, per dimostrare a sé stesso che poteva farcela, quando sporadicamente vedeva il suo volto riflesso nelle vetrate dei negozi. Aveva sorriso, perché gli veniva naturale farlo, sentiva che quel semplice gesto poteva in qualche modo migliorare la situazione, e lo aveva fatto quando chi condivideva la strada con lui era più in difficoltà, o triste, o quando nelle notti buie in cui non aveva il timore di muoversi dal suo occasionale riparo sentiva le parole, le grida, i singhiozzi di chi come lui non aveva un tetto - nonostante lui, in realtà, lo avesse: la memoria di esso, quella no - e decideva di sedersi accanto al malcapitato, offrirgli qualcosa che aveva racimolato il giorno precedente con quel sorriso che nulla voleva in cambio. Aveva sorriso, ma mai aveva veramente riso Elijah Dallaire, lo stesso biondo ragazzo che per ogni stupidaggine, per ogni battuta di Nathaniel, per ogni scherzo fatto, per ogni situazione imbarazzante che creava o che vedeva crearsi, per ciascun strano atteggiamento di una Octavia che non vedeva il mondo da troppo tempo, si lasciava sfuggire una risata spontanea. Lo stesso biondo ragazzo che cercava di tramutare ogni attimo passato con Arabells in una situazione spensierata e divertente solo per vedere sulle labbra di lei quell’incurvatura che troppo spesso sembrava mancare, non sapeva più cosa significasse provare quella sensazione. Non sapeva più, non lo ricordava, cosa significasse sentire il respiro farsi irregolare, il diaframma abbassarsi ed alzarsi convulsamente, l’addome irrigidirsi, gli occhi inumidirsi di lacrime tutt’altro che tristi. Non poteva saperlo, non ne aveva mai avuto modo, niente gli aveva dato un motivo per essere veramente divertito fino ad allora, dovendo vivere costantemente in una condizione di panico e precauzione. Aveva sentito la voce altrui alterarsi, perdere di senso quando non pronunciavano più parole ma suoni, tuttavia non aveva mai sentito la propria spezzarsi in gola e graffiargliela, non aveva mai potuto. Gli sembrò così strano provare tutte quelle sensazioni, in quel momento, senza capire bene il perché. Era bastata una sola, all’apparenza priva di senso, domanda di Arabells per far sì che Elijah facesse sprofondare la testa più indietro su quel cuscino che non abbondava affatto di spessore. Era bastata una sola, innocente, inclinazione della voce della ragazza a far scoprire i denti del ragazzo, a disegnare sul suo volto quelle linee che Davina tanto amava. Si ritrovò a distogliere lo sguardo da quello della giovane, puntando gli occhi chiari sul soffitto, cercando di reprimere quell’ingiustificata risata, ma che sentiva essere al posto giusto, in quel momento. Cercava di reprimere una risata che tanto gli era mancata e che ora non poteva esprimere al meglio mentre il diaframma che si contraeva gli causava fin troppo dolore. Mascherò la sofferenza con un colpo di tosse, bloccando quel moto che, per qualche attimo, gli aveva fatto scordare la situazione nella quale, disgraziatamente, si ritrovava. «Un unicorno» Ripeté, senza distogliere lo sguardo dalla parete bianca sopra di sé, senza smorzare il sorriso che tanto aveva faticato a comparire sulle sue labbra. «No, non cavalcavi un unicorno, anche se sarebbe stato divertente. Tu...» Tentò di ripercorrere ogni suo sogno, ogni sua visione che riguardasse la ragazza, ma era tutto così sfocato, intangibile e strano. Cos’è che faceva Arabells Dallaire nei suoi sogni? «Tu... C’eri. Eri lì, e basta. E c’era una voce che ti chiamava» Guardarla era così strano. Era la sua ancora, l’unico suo punto di riferimento, l’unica cosa che cercava da quando era uscito da quell’edificio senza avere una meta prestabilita. Era l’unica sua certezza, ed averla così vicino, dopo un anno, lo rendeva sollevato e preoccupato. «La mia. Niente di più» L’aveva sempre saputo che era lui a chiamarla in quell’oscurità dalla quale solo il volto di lei era distinguibile. Lo aveva capito che era la sua voce a reclamare quel sorrisetto malizioso, che aveva bisogno che lei si avvicinasse, che lo aiutasse, ma non aveva mai avuto nessuna conferma. In realtà, ancora in quel momento non era convinto di avere una conferma, che lei fosse la sopracitata ragazza dai capelli scuri che appariva quando Elijah chiudeva gli occhi, ma non poteva non sperarci con tutto sé stesso.
    Le aveva chiesto di non piangere, perché non voleva piangesse per lui. Non ne aveva alcun motivo, almeno secondo la sua opinione non aveva motivo per farlo. Non aveva mai voluto che qualcuno soffrisse per lui o con lui, e nel giro di poche settimane quella era già la seconda volta che ciò si verificava. Si tirò su di colpo, forse troppo velocemente ma senza badare alle proprie ferite: era fatto così, se c’era qualcuno che stava peggio, lui era lì per offrire il proprio sostegno, il proprio sorriso, qualsiasi cosa potesse servire, forse per una vera e propria repulsione verso la sofferenza, verso lo stare male in qualsiasi circostanza. «Ehi» Intervenne, la voce leggermente spezzata. «Va... Va tutto bene?» No, non andava affatto bene, per nessuna delle due parti. Non andava bene, ma non poteva capire quanto entrambi stessero soffrendo, fin quando la ragazza non si tirò su, fin quando ella non si asciugò le lacrime e prese le mani di Elijah fra le proprie. Le parole di lei si fecero confuse, tutti i contorni si sfocarono prima di ritrovare una propria consistenza. Ma non era più disteso su quel letto d’ospedale.
    In piedi, immobile, spettatore di una scena che sembrava più quella di un film visto alla televisione. Le figure prendevano forma, ma non erano così nette, così definite, ma poteva benissimo distinguerle. Due ragazzi, stretti in un abbraccio. Si avvicinò, scoprendo di potersi muovere in quella scena, di non essere più vincolato da alcun tubicino e di non sentir più alcun dolore e, infantilmente, sperò che quella scena non finisse presto. Stava bene, anche se non ci stava capendo nulla. Quando si avvicinò i due si staccarono, e poté riconoscere i loro lineamenti, identificarli con le due persone che, in quello stesso momento, condividevano la stessa piccola stanza dalle pareti neutre e asfissianti, anche se sembravano essere più giovani. Girò la testa, cercando qualcosa che lo riconducesse all’ambiente nel quale si trovava pochi secondi prima, senza trovare nulla: ci aveva ripensato, non stava bene lì. Sentì la voce di lei, più squillante, interrotta da qualche singhiozzo, dire qualcosa sulla madre. La sentì ovattata, il suono sembrava provenire dappertutto, così come non gli arrivò chiaramente quella del più piccolo sé stesso, imberbe e dallo sguardo rammaricato, triste. «Non sentire quello che dice, Bells, lei ti vuole bene» disse, asciugando le lacrime di lei così spontaneamente, così naturalmente. E le sorrise, altrettanto spontaneamente, ma c’era qualcosa di innaturale in quel sorriso, forse il fatto che non fosse ricambiato: era abituato al fatto che, fosse per l’alcool o per la rassegnazione o per pena, coloro al quale rivolgeva un sorriso erano soliti restituirne uno, magari più tirato o più finto. «Non pensarci, ci sono qui io» E solo quando la strinse al petto, facendo in modo che la testa di lei fosse obbligata a guardare nella direzione di quello spettatore inerme, Elijah poté capire, soffermandosi sugli occhi umidi di lei, perché non aveva sorriso di rimando. Fece per avvicinarsi un po’ di più, voleva capirci qualcosa, chiedere loro informazioni, ma come fumo persero la loro forma, svanendo sotto il suo sguardo atterrito.
    Si accorse di aver chiuso gli occhi solo quando li riaprì, solo quando le sue mani non percepivano più a stretto contatto quelle di lei. «Eri cieca...» sussurrò, quasi impercettibile, lo sguardo perso a fissare un punto che prima era occupato dal viso della ragazza e che ora era vuoto. Voleva chiederglielo, se quello che aveva visto lo aveva visto anche lei, ma non ebbe il tempo di farlo che si ritrovò un quaderno tra le mani. Parole su di esso, parole senza senso, parole che non avevano un motivo d’esistere. Dovette rileggerle diverse volte, nelle quali cercò anche di decifrare quello scritto sotto le linee di cancellatura, ma senza riscontrare esiti positivi.
    Davina e Theodore. Strega. Hogwarts. Corvonero. Grifondoro. San Mungo. Quidditch.
    Elijah Dallaire.
    Se ricordi il mio nome, è perché sono tua sorella.

    Voleva non dare un senso a quello che aveva letto, perché di fatto non ne aveva alcuno. Lasciò che il quaderno cadesse sulle proprie gambe, continuando a fissarlo senza emettere un fiato, guardandolo indispettito, quasi si aspettasse che potesse fare qualcosa mentre non guardava. Eppure, Elijah disprezzava veramente i cavoli, amava aiutare le persone, e soprattutto si era già sentito chiamare in quella maniera. Le credeva, ma allo stesso tempo non poteva farlo sul serio. «Mi stai prendendo in giro» Non era una domanda, quanto più una vera e propria affermazione. «Andiamo, la magia non esiste... vero?» Disse, tornando a guardare la ragazza, divertito. La magia non esisteva, non per Elijah, e quei sogni erano solo sogni, quelle visioni solo immaginazione repressa. Quell’illusione vissuta con Octavia, solo un’allucinazione dovuta allo stress, alla stanchezza. «E... se sei veramente mia sorella non mi avresti lasciato vivere per le strade di Londra per un anno intero» Sentenziò, a mo’ di rimprovero, come se potesse credere di avere qualche diritto di farlo, ma con la voce rotta dall’insicurezza su ciò che aveva appena detto. Chinò il capo, pentendosi di aver esternato con quella ragazza il proprio rammarico per non aver avuto nessuno che lo fosse andato a recuperare per tutto quel tempo. «Scusami, non volevo... Io...» Non le voleva credere, ma non poteva negare l’evidenza così lampante. Riprese il quaderno tra le mani, cercando un modo per impegnare la vista, per non doverla guardare negli occhi. «È... Quello che hai scritto, è tutto vero? Perché se è uno scherzo dillo subito, non è divertente»
    Elijah Dallaire
    « Everyone lives in the hope of becoming a memory »

    © psìche, non copiare.


    Edited by hiraeth. - 25/9/2016, 17:41
     
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    La società, ed il pensiero comune, spingevano le persone a fare le domande più stupide per il quieto vivere; le più scontate, quelle che non avevano il tempo di giungere all’interrogativo vero e proprio che già facevano salire sulla lingua una risposta tagliente, accompagnata dal retrogusto acido della bile e quello ramato del sangue. Così sciocche, e futili, nonché vergognosamente scontate. Arabells trovava però nei convenevoli una piacevole sensazione di morbidezza, perché l’accompagnavano senza remore nella risposta più spontanea, quella che la società, ed il pensiero comune, spingevano le persone a ribattere per non ferire i sentimenti altrui. «tutto bene?» e la Dallaire in quel momento avrebbe semplicemente voluto alzarsi, volgergli le spalle ed andarsene: non andava tutto bene, e lui avrebbe dovuto saperlo. Lui l’aveva sempre saputo, senza bisogno di chiederlo, perfino quand’ella fingeva così bene che finiva, immancabilmente, per credere a quella fragile maschera costruita con minuziosità. Lui l’aveva sempre vista quella crepa nel suo essere, anche quando Bells stessa non se ne rendeva conto. Ed ora era lì, in quello stupido letto dalle lenzuola bianche e intrise dell’acido odore dei disinfettanti, a chiederle se andava tutto bene. Una risata secca le graffiò la gola e le inumidì ulteriormente gli occhi, spingendola a stringere le palpebre ed i denti. «una meraviglia» rispose graffiante, fra un singhiozzo che la strappava a metà ed un’ironia che saliva dal ventre. Avrebbe dovuto essere felice, lo sapeva; avrebbe dovuto, perché era Elijah Dallaire era vivo. In un mondo come il loro, dove ragazzi, uomini e donne morivano come mosche in una giornata d’estate, una notizia del genere avrebbe dovuto bastarle. Dopotutto per quel problema, sempre considerando che tale fosse –poteva essere lo shock, poteva essere un errore, poteva guarire- avrebbero potuto trovare una soluzione. Eppure non ce la faceva, egoisticamente e capricciosamente, ad essere felice. Le mani continuavano a tremarle impercettibilmente, mentre tutto ciò di cui aveva avuto timore si prostrava senza indugio davanti a lei, in rispettoso ginocchio, sfidandola a temerla ancora, ad odiare il portatore di quella sofferenza. Tentazione calda su una pelle innaturalmente fredda, e cedere sarebbe stato così semplice: odiarlo e basta, senza pensare alle cause che avevano messo Elijah in quella condizione, senza preoccuparsi del fatto che, ci sperava ancora, fosse passeggero. Avrebbe voluto odiarlo, Arabells Dallaire, per tutta la durata di quella messinscena, fregandosene che la vittima fosse lui e non lei; poteva essere un martire, Elijah. Per quanto Bells ne sapeva poteva aver fatto qualcosa di sciocco per lei, per Meph, per Nathaniel, o per il primo sconosciuto incontrato per strada. Poteva aver salvato qualcuno, o essere inciampato su una lastra di ghiaccio perché distratto da un maledetto cucciolo di gatto in mezzo alla strada; essersi buttato in mezzo ad una rissa per placare gli animi, o per difendere l’onore di una donzella offesa. Eppure continuava a non importarle, il perché. Si limitava ad osservare la superficie, incapace di scavare, di quegli occhi cerulei così familiari da far male, così distanti da farla tentennare sull’unica certezza che aveva sempre avuto. Ci sono così tante persone al mondo si ripeteva, odiandosi per il tono lagnoso e supplicante dei suoi stessi pensieri. Perché lui? perché io? Come ogni essere umano, tranne forse Elijah stesso, Lies non riusciva a mettersi nei panni di lui, né ad immaginarsi un mondo visto dalla sua prospettiva: non provava compassione per la situazione, accecata dalla propria invisibilità davanti allo sguardo celeste. Soffriva per sé stessa: ad Elijah Dallaire, dimenticare o meno Arabells Dallaire non avrebbe causato grandi problemi, non sapeva cosa aveva perso per strada; per lui, un nuovo ricordo, sarebbe valso quanto quelli precedenti. Ma era lei, il problema; come sempre, lei a conservare memorie altrui, divenendo per gli altri nulla più che un sorriso educato a fior di labbra. Egoista, indubbiamente, nonché infantile: in una parola, umana. Voleva essere più forte, più matura, più responsabile; voleva essere la sorella, l’amica, la famiglia che Elijah in quel momento meritava. Eppure, mentre stringeva le sue mani fra le proprie, non poteva fare a meno di sentire l’incessante battito impazzito del proprio cuore, unico testimone che un cuore, Bells, lo aveva ancora. Ci sto provando, ci sto provando, ci sto provando, ribatteva infervorata alla propria coscienza, cercando fra le dita fredde del fratello un’ancora, trovando semplicemente un frammento incapace di ritrovare il proprio posto. Erano sempre stati loro due, i Dallaire contro tutti. Si alzò, un fascio di nervi, mentre metodicamente cercava di mettere su pergamena quanto aveva necessità di dirgli, quanto aveva bisogno che lui sapesse. Fu la sua voce, appena accennata, a farle alzare gli occhi dal foglio. «Eri cieca...» Si ritrovò a sbattere le palpebre, suo malgrado aggrappata ad un filo di speranza. Avrebbe voluto essere più realista, ma voleva credere –aveva bisogno di credere- che fosse stato solamente una défaillance momentanea, che lentamente, attimo dopo attimo, Elijah stava ricostruendo quello che pensava avesse perduto. Arabells non poteva sapere che di memoria non si trattava, o almeno, non quella di Eli: erano i suoi ricordi che lui vedeva, la sua vita, e non sarebbe stato abbastanza. Entrambi l’avrebbero voluto, in quel momento o dopo mesi, ma non sarebbe mai stata la stessa cosa. Annuì lentamente, intanto che cancellava le ultime, sciocche, righe di quella confessione. Rileggere quelle parole non poteva che farla sorridere; avrebbe dovuto cercare di riassumere tutta la loro vita in quelle parole, e l’unica cosa che era riuscita a dire, era che a lui non erano mai piaciuti i cavoli. Si sforzò di deglutire la saliva, buttando giù con essa l’amaro delle lacrime che non poteva versare, seduta di nuovo vicino a lui. Lo guardò, sperando di vedere un cambiamento. Aveva davvero sperato che dirgli le cose come stavano potesse riaccendere una luce dietro gli occhi spenti di lui, potesse ridargli il suo fratellone. La speranza morì, e se non la udì sbriciolarsi fu solamente perché troppo assordata dal proprio battito per poter sentire qualcos’altro. Si premette le mani sul petto, schiacciando impercettibilmente, come se quel gesto potesse trattenere le costole dal deformarsi per lasciar una via di fuga al muscolo cardiaco; come se quelle mani, troppo piccole, potessero impedirle di spezzarsi. Peccato che spezzata, la Dallaire, lo fosse già. E da molto tempo. «Mi stai prendendo in giro» Si morse il labbro con forza, soffocando l’ennesima risata secca che sapeva, se solo avesse avuto opportunità di prendere forma, avrebbe distrutto quanto ancora c’era di sano in quel suo esile organismo malato. Non riusciva neanche ad articolare un pensiero coerente, mentre gli occhi tornavano ad abbassarsi sulle proprie mani, le unghie a dilaniare la tenera pelle attorno all’unghia. Se lo stava prendendo in giro. In effetti doveva essere un bello scherzo, quello di essere suo fratello. Come poteva chiederle una cosa del genere, come. Non c’era un qualcosa di istintivo, più radicato della memoria di per sé effimera, ad impedirgli di continuare a mettere sale sulla ferita? Non poteva volerle bene anche senza quei ricordi, smettendo di ucciderla ad ogni parola? Non poteva smetterla e basta? Arabells Dallaire respirava, e moriva un po’; respirava, e moriva un altro po’. Doveva uscire da lì. «Andiamo, la magia non esiste... vero?» Si limitò ad alzare gli occhi su di lui, seria quanto mai era stata in vita sua. Il dolore, lo shock, cominciavano a lasciare spazio a qualcos’altro, qualcosa che ancora Bells non riusciva ad identificare. «E... se sei veramente mia sorella non mi avresti lasciato vivere per le strade di Londra per un anno intero» Strinse i pugni, cominciando ad inspirare ed espirare troppo rapidamente, la vista nuovamente appannata. «È... Quello che hai scritto, è tutto vero? Perché se è uno scherzo dillo subito, non è divertente» Uno scherzo. Bastò quello per farglielo riconoscere, familiare quanto la sua camera ad Inverness, quanto i suoi amici, la divisa da Corvonero, il boccino d’oro: rabbia. Si alzò repentinamente in piedi, e prima di rendersene conto la mano era scattata agile contro il viso di lui, incurante delle ferite. Tanto avrebbe potuto fare qualunque cosa, perfino sostituire le flebo con del maledetto acido, e non avrebbe comunque potuto fargli male quanto lui lo stava facendo a lei. Sentì lo schiaffo bruciarle il palmo, e le lacrime da salate si fecero amare sulle labbra. Era così fragile Arabells Dallaire, l’aquilone più colorato stretto al polso del bambino più distratto; così fragile, fiore dimentico di cosa fosse il sole ma testardo nel suo crescere. «non sai niente»sillabò con ira, lasciando che quel calore riempisse le lacune lasciate dal dolore, perverso balsamo a curare tagli invisibili. «credi che mi stia divertendo? Pensi che io morissi dalla voglia di venire qui, e…» Gli diede le spalle, gonfiando il petto di quell’orgoglio strafottente che aveva sempre vantato con il resto del genere umano, e che sempre aveva lasciato da parte per suo fratello. Ma quello non era suo fratello, quello era solo un ragazzo che gli assomigliava in maniera esagerata. Elijah Dallaire non avrebbe mai detto, o pensato, una cosa del genere. «mi dispiace» mentì, incrociando le braccia sul petto e mantenendo gli occhi fissi sulla fronte di lui, fingendo di cercare i suoi occhi. «la verità è che sono la prima stupida che è passata di qua, e ha pensato bene di entrare in una camera qualsiasi e raccontare bugie ad un paziente qualsiasi» come potesse dubitare di quanto gli aveva scritto, detto, fatto capire era per lei incomprensibile. «non è la tua vita, i cavoli ti piacciono ed io non sono tua sorella. È questo che vuoi sentirti dire?» Avrebbe voluto supplicarlo di ricordare, avrebbe voluto essere abbastanza robusta da reggere sulle proprie spalle entrambi; ma Bells non era mai stata Elijah, semplicemente non ne era in grado. Empatia. Non era in grado di stringerli la mano, sorridergli con la muta promessa che avrebbero sistemato le cose. Mi dispiace di non riuscire a prendermi cura di te. Lo sapevi, un tempo. Lo sapevi che non sono brava in queste cose. Mi dispiace non essere la persona di cui avresti bisogno, mi dispiace che faccia così male che, Dio, non riesco neanche a respirare. Vorrei essere quella persona, te lo giuro, ma senza di te non so come si faccia. Ti prego Elijah, non puoi solamente credermi? Non puoi darmi ciò di cui ho bisogno? Perché io ho bisogno di te, ho sempre avuto bisogno di te. «puoi non esserlo, se vuoi» aggiunse addolcendo il proprio tono, ma senza ancora avere abbastanza fegato per sorridergli. «se non ti va bene, non devi essere per forza un Dallaire» e quello poteva dirlo senza che le rimanesse incastrato in gola, dato che sulla carta sarebbe sempre stato un Dallaire; poteva scegliere, però. Poteva ancora scegliere. E scegli me, per favore. Elijah, scegli di essere la mia famiglia.



    Arabells 'Lies' Dallaire
    « If I could, then I would I'll go wherever you will go»

    © psìche, non copiare.
     
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    « sheet | 23 y.o. | wizard | clairvoyance | neutral |pensieve »
    Bruciava. Bruciava, eppure le avrebbe chiesto di continuare, di farlo di nuovo, magari più forte. Bruciava, e voleva sapere, Elijah Dallaire, perché quel palmo aperto impresso sul volto gli procurasse così tanto dolore. Comprendere appieno cosa avesse dovuto significare per lui, cosa poteva essere stato in passato quello schiaffo sulla pelle. Perché bruciava così tanto? Si portò la mano sulla parte colpita, restando così fermo a percepire il calore sotto le dita e tentando di sentire qualcosa in più dal semplice tatto, mentre gli occhi, feriti e provati, andavano a cercare quelli altrettanto lesi della ragazza. Era stato impulsivo, quello lo sapeva, non aveva potuto evitarlo, ma le scuse per quanto aveva detto rimasero incastrate tra la trachea e le labbra, facendolo annaspare alla ricerca d’aria. Incapace d’uscire, quel mi dispiace, perché era come se si rendesse conto, sdraiato su quel lettino, che nessuna scusa avrebbe sortito alcun effetto, e allo stesso tempo sembrava quasi che lui, di scuse, ne avesse troppe da chiedere, e non erano mai abbastanza. Non sapeva da dove cominciare, e per il semplice fatto che egli non sapeva. Avrebbe voluto poterle dire qualcosa, poterle dire che gli dispiaceva davvero, che non voleva. Che per tutto quell’anno, per tutta la vita che ricordava di avere, aveva dovuto imparare ad avere paura, a non fidarsi; che era stato costretto a mettere sé stesso, le sue esigenze, le proprie convinzioni davanti a molte altre cose. Non voleva morirci, in quei vicoli bui, essere lasciato lì a marcire perché qualche vagabondo era impazzito e perché nessuno, nessuno, sarebbe rimasto a soccorrerlo. Aveva sperato, e segretamente ancora lo faceva, che tutti fossero come lui, che tutti potessero provarci ad esserlo; che chiunque, nel bisogno, fosse in grado di fermarsi, di porgere una mano, di alleviare la pena. Ma nessuno mai lo faceva. Ed egli, pertanto, non aveva potuto fare altro che adattarsi negli ultimi tempi: fuggire, voltare il capo, fare finta di nulla ed avere paura. Non si fidava, non più, di quello che vedeva, di quello che sentiva, anche perché si erano intensificati gli incubi, si erano intensificate le strane visioni, i rumori e gli odori: solo che non poteva ammorbarla con quello, non poteva dirle che soprattutto per quello gli era difficile crederle, affidarsi ciecamente alle parole vergate con l’inchiostro sul quadernino. Avrebbe potuto mentirgli, prendersi davvero gioco di lui: non sarebbe stata la prima volta, dopotutto. E non capiva, il Dallaire, quanto di tutto ciò potesse essere vero, quanto no. Stava impazzendo, lo sentiva sotto pelle, come se fosse una malattia, un morbo incessante che altro non faceva se non crescere, e non poteva fare nulla per contrastare l’inevitabilità di quella situazione: ma la ragazza che aveva davanti, ella non aveva alcuna colpa. Temeva, solo, non fosse reale. E non gli aveva dato modo, con quelle poche righe, di sfatare il pensiero del giovane: forse stava ancora sognando, forse era solo una delle ennesime, stupide allucinazioni. Forse stava solo parlando da solo, con la proiezione di quello che avrebbe voluto vedere: quella bambina, quella ragazza che nel buio lo chiamava, cercando il suo nome. Chinò gli occhi, colpevoli, ad osservare le lenzuola chiare, sfiorando ancora il volto colpito: se sentiva quel dolore, se li sentiva ovunque, sparsi, i riverberi delle percosse del giorno precedente, significava che era sveglio, giusto? Non se la stava immaginando, vero?
    Non sapeva niente, Elijah Dallaire, a detta della mora: ma questo, in fondo, non c’era bisogno glielo dicesse lei. Uno sbuffo, leggero ed acre, uscì dalle labbra del biondo, portando con sé le sfumature di una risata che era rimasta strozzata nel petto. Non sapeva dove si era svegliato la prima volta, il ventiquattrenne, con quel groviglio di tubicini ancora attaccati al corpo, mentre tutto attorno a lui era in rovina in un luogo dimenticato da Dio; non sapeva come muoversi, dove andare, cosa fare una volta messo piede fuori da quel rudere, a chi chiedere aiuto; non sapeva cosa avesse indosso, chi glielo aveva messo, dove prendere altro vestiario; non sapeva cosa fossero tutti quei rumori, tutte quelle luci, tutte quelle persone, e non capiva per quale motivo lo guardassero così stranamente, come se fosse un pazzo, un essere fuori posto tra i suoi simili, o perché quelle voci continuassero ininterrottamente a disturbare quelle poche ore di sonno. Non sapeva se aveva avuto un passato, se aveva degli amici con i quali passeggiava allegramente per le strade londinesi come vedeva fare a tanti altri, se aveva una famiglia che aveva preparato per lui la cena a casa, o se anche solo aveva una casa. Non sapeva di aver avuto una causa per la quale si era battuto, ed un’altra che aveva cercato di far capitolare, che invece l’aveva fatto precipitare; non sapeva chi fosse, Elijah Dallaire, chi era stato o chi aveva desiderato essere. Sentirsi dire, perciò, che non sapeva nulla non lo turbò più di tanto: era la verità, terribile e dolorosa sincerità. Non si scompose, gli occhi ancora intenti ad esaminare le pieghe di quelle lenzuola, mentre un doveroso e schietto «lo so», appena sussurrato, lasciava le labbra dolcemente piegate in un mesto e melanconico sorriso. Altri modi per rispondere, in quel caso, non gli sovvennero: non era mai stato il tipo che restava in silenzio se aveva la possibilità di replicare, possibilmente senza ferire nessuno. E se solo rischiava di farlo, se solo avvertiva in lontananza una sirena d’allarme, evitava. Evitava di esprimersi, limitandosi a dei dolci sorrisi consolatori o cercando, eventualmente, di virare il discorso su altro: qualcosa che facesse felici, qualcosa che alleviasse il dolore già presente o non ancora palesatosi. Ma non sempre, ormai, riusciva a scindere il momento opportuno per aprire bocca da quello meno adeguato, rischiando solo di fare male agli altri, ed a sé stesso. «credi che mi stia divertendo? Pensi che io morissi dalla voglia di venire qui, e…» Alzò, istintivamente, le iridi chiare e vacue, cercando un contatto con la ragazza ma trovando a scontrarsi con le spalle di lei. E restò silente, boccheggiando appena senza sapere che dire. Non era divertente, almeno per lui aveva smesso di esserlo quando aveva iniziato a bruciare così tanto: finché aveva creduto fosse uno scherzo, aveva potuto sentirsi in parte sereno. Gli capitava, capitava a tutti quelli che come lui non avevano un tetto sotto al quale vivere, di venir preso di mira in quella maniera, ma sempre in quei casi il tutto si risolveva con una risata di scherno, e con il sapore amaro del rammarico sul palato. La gente ci trovava uno strano e perverso gusto, a trattare di merda quelli come loro. Ma Arabells, lei era diversa. Lei stava male, poteva sentirlo, poteva vederlo quasi. Lei aveva lo stesso odore della bambina che nei suoi sogni abbracciava con forza, ed aveva la stessa camminata, lo stesso sguardo di quella ragazza che lo cercava. «Mi dispiace, la verità è che sono la prima stupida che è passata di qua, e ha pensato bene di entrare in una camera qualsiasi e raccontare bugie ad un paziente qualsiasi. Non è la tua vita, i cavoli ti piacciono ed io non sono tua sorella. È questo che vuoi sentirti dire?» Sollevò il busto, ignorando le fitte allo sterno. Perché lo stava facendo? Tutto quello, perché? Non poteva semplicemente dargli quei ricordi che millantava di avere, conservati con parsimonia e riservatezza? Non poteva ridargli la memoria, e basta, senza altri pianti, senza altro dolore? «no, io non intendevo...» Cosa, Elijah? Cosa “non intendevi”? Febbricitanti, le dita andarono a recuperare quanto scritto in quella grafia elegante e tremula, gli occhi sbrigativi a leggerne ogni riga: come se, se l’avesse lette di continuo, avrebbe ricollegato quelle ad ogni frammento di memoria perduto per la via. «puoi non esserlo, se vuoi» la voce di lei lo colse impreparato, costringendolo a sollevare sugli occhi etero cromatici di lei i propri. Panico: se foste stati in quella camera d’ospedale, avreste letto solo quello nell’espressione del Dallaire, la bocca socchiusa e la testa intenta a muoversi impercettibilmente a destra, poi a sinistra. Di nuovo a destra, poi a sinistra. «se non ti va bene, non devi essere per forza un Dallaire» Non capiva, Elijah, cosa stesse dicendo: gli stava dando una via di fuga, o un ultimatum? Non voleva nessuno dei due, però: voleva solo sapere. «no, no, no, io...» Tornò a fissare il foglio di carta, scorrendo col dito ogni parola: eppure, l’unica cosa che riconosceva, che sentiva sua in quella marasma di notizie, era il nome di lei, ed il proprio. Su nessuno dei due poteva aver mentito, di quello ne era certo; di quello voleva esserne certo. «io... mi dispiace, mi dispiace davvero» Non voleva avere quella scelta da compiere, il biondo. «io voglio crederti, voglio crederti, ho bisogno di crederti» continuò, senza alzare le iridi perse, cercando ancora, instancabile. «hai detto che sei una strega... una strega» ripeté, grattando il palato con una risata secca. Quanto era assurdo? «non puoi farmi ricordare?» Ansimava, ormai, come se stesse correndo in quell’astrusa ricerca della verità. «io voglio provarci, se dici che sono tuo fratello vorrei esserlo, voglio capire, voglio...»
    Si interruppe, come colto d’improvviso da un’illuminazione. Lasciò che il libricino cadesse sulle sue gambe, mentre le mani andavano ad afferrare la testa. La sentiva esplodere, pulsare come mai prima d’allora. Vuoi le flebo, vuoi quelle novità. Non era pronto, non lo avevano avvertito, non gli aveva detto nessuno che cose del genere potessero accadere fuori dalle pubblicità che vedeva fuori dalle vetrine dei negozi. «sono stato cattivo» riprese, quieto come un cielo terso dopo la tempesta. Innocente, in quelle sue parole, come un bambino che veniva colto in flagrante mentre, pericolosamente, si arrampicava per raggiungere gli scaffali più alti della credenza. «sono una cattiva persona? Sono... sono stato un cattivo fratello, vero?» chiese, le labbra tremanti, ma senza più il coraggio proverbiale dei Grifondoro a permettergli di alzare lo sguardo. Abbandonò le braccia lungo le pieghe del letto, perso ancora ad osservare queste: aveva senso, ma non voleva lo avesse. Panico, ancora. Lo stesso che lo accompagnava ogni mattina, appena sveglio, ed ogni notte prima di chiudere gli occhi. «per questo non ricordo» E represse, stavolta, quella tacita richiesta d’aiuto. La silenziò, tenendola per sé e per nessun altro. Forse non se lo meritava, forse non si meritava quella ragazza che era arrivata fin lì solo per vederlo.
    Le dita corsero al volto, coprendolo. Vergogna, era l’unica cosa che inspiegabilmente riusciva a provare. Non più nemmeno quel panico insito sottopelle. Forse c’era un motivo se non ricordava. «ma io voglio ricordare» E forse, forse non se lo meritava.

    Elijah Dallaire
    « Everyone lives in the hope of becoming a memory »

    © psìche, non copiare.


    Edited by hiraeth. - 25/9/2016, 17:41
     
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    Le persone volevano sempre ciò che non potevano avere, era intrinseco nella natura umana. L’ambizione a porsi obbiettivi irraggiungibili era il perno che spingeva ad andare avanti, ad aprire gli occhi ogni mattina con uno scopo - perché, senza quello, nulla poteva avere senso.
    Chi diceva che volere fosse potere, o aveva avuto una vita troppo semplice, o era troppo ingenuo per rendersi conto che desiderare qualcosa non significava che, in un futuro più o meno prossimo, si potesse realmente avere. Ad Arabells Dallaire piaceva credere di avere una mente principalmente razionale, logica, così cinica da grattare il pavimento in stridii acuti e fastidiosi. Realista, a costo di schiacciare i sogni altrui sotto la suola delle proprie ballerine, o di spezzarla come una mazza da battitore sbattuta con troppa violenza contro i bolidi. Non era cattiva, davvero: reputava più semplice e meno offensivo per tutti costringerli ad aprire gli occhi, risparmiando così una notevole perdita di tempo che avrebbero altresì potuto impiegare nel raggiungere mete più nobili e fattibili. C’era chi voleva prendere E in tutti i compiti, chi sognava di diventare campione di quidditch, chi voleva aprire uno zoo e chi una gelateria, chi voleva divenire grande attore e chi ambiva a sfamare i bambini del terzo mondo.
    Poi c’era Elijah Dallaire, che voleva crederle.
    «io voglio crederti, voglio crederti, ho bisogno di crederti»
    Un sorriso sghembo e privo di forma curvò le labbra di Arabells Dallaire, mentre stringeva i pugni lungo i fianchi. Perché non importava quanto Eli lo volesse, o quanto lei lo volesse: la situazione, la loro situazione, non cambiava. Bells aveva sempre avuto suo fratello nella propria vita, anche quando insieme non lo erano affatto; in una piccola ma presente parte di sé, la Dallaire non aveva mai neanche pensato ad un’esistenza dove lui non vi fosse, figurarsi dove potesse essere solamente un’ombra. Era semplicemente così, senza alcuna ragione, o logica, o il solito cinismo: Elijah doveva crederle, doveva averne bisogno, perché l’alternativa, per la corvonero, non era contemplabile. Il solo fatto che avesse potuto dubitare di lei a tal punto da chiederle se fosse uno scherzo, aveva minato il suo già sottile, se non inesistente, autocontrollo.
    Non era giusto.
    Non era giusto.
    «già» commentò solamente, con una risata che suonò dissonante alle sue stesse orecchie. Già, solo quello. Avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quella stanza, dentro la sua stesse pelle. Percepiva i polmoni ripiegarsi strettamente fra loro, soffocandola da ogni briciola d’ossigeno che si sforzava di infilarci a forza.
    Cosa aveva fatto.
    Cos’era successo.
    Come aveva potuto.
    Aveva detto che ci sarebbe sempre stato, che si sarebbe preso cura di lei, che non le avrebbe mai fatto del male. Perché gli esseri umani si sentivano sempre in dovere di fare promesse che non potevano mantenere? Perché non potevano smetterla di fingere, e farsi una maledetta iniezione di realtà? E perché dovevano esistere quelle anime fragili, delicate quanto lo spiraglio di sole fra le nuvole, che continuavano a crederci?
    Voleva crederle, Elijah. E Bells voleva credere che potesse.
    Ma era molto più difficile di così.
    «non puoi farmi ricordare?»
    Non lo capiva? Non capiva quanto ingiusta fosse quella richiesta? Non si rendeva conto quanto ogni parola sibilata da quel letto d’ospedale la stesse lentamente disintegrando pezzo dopo pezzo, come il fiore della Bella e la Bestia che inesorabile perdeva petali? Avrebbe dovuto rendersene conto.
    Era quello il problema:non lo faceva. Non prestava attenzione ai dettagli, non coglieva lo sfilacciarsi di ciò che Bells s’era portata apprezzo in quell’angusto ospedale, non comprendeva quanto più si dimenava attaccato a quelle flebo, più sua sorella voleva solamente… non essere lì, non essere lei. Inspirò, cercando autocontrollo fra le ceneri dell’incendio che l’aveva consumata, stanca come una quindicenne non avrebbe mai dovuto esserlo. Era un peso che non voleva, ma che doveva sobbarcarsi: il fatto che Eli avesse dimenticato le sue promesse, non significava che Bells avrebbe fatto lo stesso.
    Quello mai.
    Ed anche se faceva male quanto ingoiare uno spillo, si sforzò di guardarlo con serietà ma con un dolce sorriso, morbida goccia di cioccolato a scivolare su una fragola dall’aria matura ed il cuore già marcio. Scosse il capo stringendosi nelle spalle, evitando di dirgli esplicitamente la verità: non sapeva neanche da che parte cominciare. Aveva subito un oblivion? Se sì, perché? O era solo amnesia temporanea data da un colpo in testa?
    Non poteva saperlo, Bells. E non l’avrebbe saputo per tanto, troppo tempo. «posso provarci» rispose invece, cauta, umettandosi appena le labbra. Magari con qualche foto… qualche racconto, o se avesse visto casa… non sapeva come comportarsi, né come Eli si aspettava si comportasse. Non sapeva quale fosse la cosa giusta, e neanche quale quella sbagliata.
    Non sapeva punto, Arabells Dallaire, mentre dall’alto del suo poco più di un metro e sessanta, con le braccia strette al petto, lo guardava.
    «io voglio provarci, se dici che sono tuo fratello vorrei esserlo, voglio capire, voglio...»
    Tutti volevano qualcosa.
    Elijah Dallaire voleva essere suo fratello, e lei voleva che lo fosse.
    Ma era, ancora e sempre, più difficile di così.
    Chiuse ancora gli occhi, rimanendo con le palpebre serrate finchè non fu certa che le lacrime non sarebbero nuovamente scivolate lungo le guance. In silenzio ascoltò i suoni dei macchinari, lasciando che la frase di Eli si completasse fra sé nell’aria immobile attorno a loro.
    Anche lei voleva capire. Anche lei voleva provarci.
    Tutti avevano bisogno di volere qualcosa.
    Quando li riaprì, fisso le proprie iridi sulla socchiusa finestra della camera, le dita a tamburellare sulle costole. «lo sei» non specificò il soggetto, non diede alcun segno di ciò a cui si riferiva. Non poteva, con quella maledizione a stringarle le parole sulla lingua, cucendole le labbra con un sordo dolore alla bocca. «anche se non te lo ricordi, lo sei sempre» riuscì ad ammettere, con lo stesso tono quieto e pacato che le infermiere utilizzavano con lei quando venivano a trovare Davina. Una voce che cercava di dire più di quanto le parole potessero fare, che bruciava più della saliva deglutita febbrilmente. La realtà che più le faceva male, in quel momento, era che Elijah era suo fratello, ma lei non era sua sorella. Mai aveva pensato che potesse anche solo esistere una possibilità del genere. Aveva sempre creduto che il loro rapporto fosse speciale, unico, che nulla al mondo potesse spezzare l’invisibile filo che li univa. Non era mai stata in grado di capacitarsi di coloro che, con i propri fratelli, avevano un pessimo rapporto.
    Perché erano Eli e Bells. Ma cosa succedeva quand’era solo Bells e basta? Non avrebbe mai voluto scoprirlo, Arabells.
    Una verità spinta a galleggiare su un mare di dubbi, l’unica certezza che l’avrebbe sempre riportata a galla – quella che nei mesi a seguire l’avrebbe sorretta ad ogni domanda scontata di Eli, ogni volta che il fratello passava di fianco alla gomma, dove giocavano quand’era bambina, senza battere ciglio. Elijah Dallaire era, e sempre sarebbe rimasto, suo fratello.
    Ma oh, quanto faceva male non essere sua sorella. Quanto era sbagliato essere sola in quel piccolo fortino che si erano costruiti, dove in quindici anni ne avevano avuto l’accesso solo loro. Sempre loro.
    «sono stato cattivo»
    Fra tutte le cose che Elijah avrebbe potuto dire, quella fu la più inaspettata. Si girò a guardarlo con le sopracciglia corrugate, quasi percependo la risata ironica di Mephisto sulla pelle: tu, cattivo? Allora noialtri siamo fottuti. Non era stata una domanda, quindi non rispose. Un brivido le scivolò rapido lungo la spina dorsale, mentre il tono sognante del Dallaire vibrava fra una parete e l’altra, tornando di volta in volta più distorto alle sue orecchie.
    Lui, cattivo? Elijah Dallaire?
    «sono una cattiva persona? Sono... sono stato un cattivo fratello, vero?»
    Quello, invece, era un interrogativo che necessitava di risposta. La più spontanea, mentre ne osservava il profilo triste ed emaciato sul cuscino azzurro dell’ospedale, era non lo so più. Sarebbe stata anche la più sincera, considerando che aveva perso le sue tracce per un anno, e che l’aveva ritrovato…così, e senza alcun motivo.
    Ma Bells lo conosceva, Bells si fidava di lui.
    Deglutì, inspirò.
    «il peggiore» sussurrò di rimando, con un flebile sorriso sulle labbra.
    Era tante cose, Elijah Dallaire, ma mai un cattivo fratello. Anche in quel momento, passata l’acuta onda di rabbia viscerale, non riusciva a vederlo come cattivo: l’aveva dimenticata, okay, ma avrà avuto i suoi motivi. Magari l’aveva fatto per proteggerla. Magari era stato rapito dalla mafia colombiana, non lo sapeva. Non aveva abbastanza dati per dare una risposta sincera ed oggettiva a quel quesito, e state pur certi che la mente analitica tipica dei Corvonero stava già cercando di collegare quei pochi fili che aveva a disposizione, ma ne aveva una da Bells. «indubbiamente il peggiore» sottolineò ancora, con un sospiro ed un sorriso un poco più convinto. Se Eli si era perso, era il momento che Bells si trovasse.
    Almeno uno di loro doveva sapere la strada.
    «ma io voglio ricordare»
    Un bisbiglio, nulla più. «anche io»
    Si era nuovamente avvicinata al lettino, la mano a cercare esitante quella di suo fratello da stringere nella propria. Si chinò per portarsela al viso, dove la poggiò per un istante troppo breve e troppo lungo. Come un tempo, e come sempre.
    Ad occhi chiusi, non era cambiato niente.
    Non doveva per forza cambiare qualcosa.
    «sistemeremo tutto» mentì. «andrà bene» mentì ancora, tenendo testardamente gli occhi chiusi e lasciando che le labbra mimassero quelle vuote promesse sul palmo di Elijah.
    E comprese, Bells, perché gli esseri umani si sentissero in dovere di dare la propria parola su questioni che erano al di fuori di qualunque controllo, la risposta più vecchia ed antica di sempre. Quella che condannava e salvava, che stringeva e lasciava andare, che rendeva le notti meno terribili e le giornate più fragili.
    Amore.
    «ti riporto a casa»

    Arabells 'Lies' Dallaire
    « If I could, then I would I'll go wherever you will go»

    © psìche, non copiare.


    E chiudo, è stato un onore piangere con voi #dallaires
     
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