Night of the hunter

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    Le ultime luci di un sole morente trapelavano tra le fronde degli alberi, mentre tutto taceva. Non un filo di vento muoveva i rami ed i cespugli in quell'afosa serata estiva, non si udiva il verso di nessun animale, né il loro movimento. In quella radura poco fuori Diagon Alley, tutto sembrava essersi ammutolito. No, c'era un rumore, un qualcosa che disturbava quella discreta quiete, ma era talmente insignificante che Gemes Hamilton non vi prestava nemmeno troppa attenzione, seduto a terra con la schiena poggiata al busto di una grande quercia, la più grande lì in mezzo, mentre si godeva la vista della fonte di quel rumore. Una donna, distesa a terra: era lei che emetteva quel fastidioso suono. Perché dovevano sempre lamentarsi? Perché piangevano? Era diventata insopportabile già nei primi due minuti, figurarsi cosa doveva essere per Gemes dopo due ore trascorse lì. Era una piacevolissima compagnia, il ragazzo, dopotutto, ella non avrebbe dovuto piangere o quant'altro: avrebbe potuto invece tranquillamente parlare con lui. Era stato gentile, l'aveva portata in giro, le aveva fatto vedere il parco, l'aveva portata in quel bel posto isolato, e tutto quello che lui gli aveva chiesto erano informazioni. Ma lei no, lei non voleva dare risposte alle sue domande, non aveva voluto aprire bocca se non per chiedere al giovane di smetterla, di non premere quel coltellino sul suo braccio, poi sul petto, infine sul viso. Ma Gemes non aveva intenzione di farlo, non si sarebbe fermato alla vista del denso liquido scarlatto che usciva dalla candida pelle della ragazza, anzi. Era quel colore a dargli vigore, a fargli venir voglia di continuare: ogni volta che una goccia di sangue cadeva, macchiando il terriccio sotto il suo corpo, aveva il desiderio di allargare quella pozza che si andava piano piano creando. Non era sadico, a suo dire, aveva solo un modo diverso di fare e di vedere le cose, un modo diverso di divertirsi e di passare il tempo, e purtroppo in pochi -nessuno- condividevano questo suo pensiero. Qualcun altro, al posto suo, gliele avrebbe estorte in un altro modo le informazioni, magari con un caffè in un bar, seduti ad un tavolino, parlando del più e del meno. Ma non era quel tipo di persona, a Gemes non piacevano i giri di parole, né tantomeno le persone che facevano tanti complimenti prima di arrivare al nocciolo della situazione, persone capaci di aspettare giorni interi, settimane prima di avere quel che gli serve. Forse non aveva pazienza, lui, forse non gli piaceva l'attesa; non credeva che fosse l'attesa del piacere il piacere stesso. L'attesa era solo una stupida perdita di tempo, andava eliminata senza troppi problemi prima che ti facesse perdere la voglia di arrivare al piacere. E ci aveva provato con le buone, sul serio, a farglielo capire alla biondina, lì, ma no, per carità divina! Le aveva promesso che non l'avrebbe più disturbata, se gli avesse dato quel che voleva, ma non gli aveva creduto. Una stolta, Gemes è un uomo di parola dopotutto. Sì, complicato, particolare, forse un po' crudele -giusto un pochino-, ma manteneva le promesse date. Figurarsi. I ribelli tuttavia erano così stupidi da credersi dèi scesi in terra, paladini della giustizia nel bene e nel male, credevano che nessuno potesse arrivare a loro, che nessuno potesse avvicinarli e che, semmai fosse successo, avrebbero potuto eliminare l'ostacolo tranquillamente. Eppure eccoli lì, Gemes e la Ribelle di cui non conosceva nemmeno il nome, o forse sì ma evidentemente non era così importante da ricordarselo. Lei, a terra, con diversi tagli sparsi sul corpo e sanguinante. Lui, impegnato unicamente a tenere il coltello sospeso a mezz'aria mentre con tranquillità giocava con le due estremità della bacchetta della bionda già spezzata in precedenza. Aveva creduto che solo puntargliela contro avesse potuto intimorirlo, povera ragazza. «Inizia a farsi tardi». Sottotesto: la mia pazienza è agli sgoccioli e, ooops, potrei averti appena reciso il polso con il coltello, scusa. No, non era veramente dispiaciuto di averlo fatto. Il coltello era automaticamente calato sul braccio di lei, facendo un piccolo taglietto dal quale altro sangue iniziò a scorrere tranquillamente. Quanto gli piaceva il rosso! Era una visione celestiale per gli occhi cerulei dell'Hamilton, e vederlo sgorgare dal corpo di una dottoressa Ribelle era anche meglio. Forse avrebbe dovuto reciderle anche l'altro... «Sai, sul serio, pensavo fossi una persona intelligente, una di quelle persone che capiscono subito qual è la situazione, e invece... Sono molto deluso da te» Ella aveva fatto lo stupidissimo errore di non riconoscerlo, eppure lui il suo viso l'aveva ben fisso in mente da quando, in quella cella, l'aveva vista fare la sguattera di un Dottore, il quale sapeva per certo essere ancora vivo. Hedler, il suo nome lo ricordava perfettamente, inciso sulla targhetta e impresso a fuoco nella sua memoria: era lui il suo fine, la ragazza solo il mezzo per arrivarci, ma a quanto pare questa cosa le fu dannatamente difficile da capire. Si alzò dal terreno, curandosi di non avere la maglietta ed i pantaloni pieni di rametti e di foglie e, con un gesto rapido della mano fece sì che anche la ragazza si alzasse. "Ti prego, basta". Oh, ancora... Le si avvicinò, carezzandole la guancia ancora non deturpata dalla lama di Gemes e guardandola negli occhi, in quei grandi occhi verdi che piano piano perdevano tanta energia quanto sangue usciva dalle sue ferite -ed erano abbastanza. «Ti prometto di far cessare le tue sofferenze quando mi darai quello che voglio» Le sorrise, prima di avvicinare la testa all'orecchio di lei. «Dimmi» Iniziò, con un tono di voce molto basso «dov'è» La voce si faceva un po' più forte, fin quando, l'ultima parola, quasi non la urlò nell'orecchio di lei «HEDLER!» Singhiozzò ancora. Non lo capiva che così perdeva solo tempo e faceva azzerare la pazienza di Gemes? Si allontanò, egli, riportando il viso ad una moderata distanza da quello di lei e riprendendo il coltello tra le mani. Non voleva sporcarsi le mani, ma standole così vicino la tentazione di tornare ai bei vecchi metodi era così forte. "No-non ho molti contatti co-con Hedler" iniziò lei, riacquistando l'attenzione del ragazzo, che le rivolse un broncio dispiaciuto. Cocciuta. "M-ma so che frequenta un bar poco fuori Diagon Alley, ci va spesso. Giuro che è tutto quello che so!" Bugia, era visibilmente una bugia quella, ma era abbastanza. Le sorrise, allontanandosi rapidamente da lei, dirigendosi verso il locale suggeritogli dalla ragazza. "Posso andare?".
    Quasi si era scordato di lei. Che le aveva promesso? Ah, sì, niente più sofferenze. «Mh...» Casualmente si era anche scordato la lama vicino a lei e, casualmente, non gli aveva nemmeno specificato come avrebbe posto fine alle sue sofferenze. Che imbranato, eh? Le sorrise, scuotendo la testa, mentre il coltellino scorreva sul collo di lei, facendo un taglio netto dal quale uscì il solito liquido denso e scarlatto. «Ops» Il coltello tornò tra le sue mani nello stesso momento in cui il corpo esanime cadde a terra. Se solo si fosse decisa a parlare prima... Asciugò il coltello su un fazzolettino di carta, togliendo il sangue di lei da esso, pensando che alla fine era solo un altro ribelle in meno, nessuno avrebbe sentito la sua mancanza. E anche se qualcuno avesse pianto quella perdita, di certo non era un problema di Gemes Hamilton, i legami affettivi erano così labili... Lui per esempio non aveva affatto sofferto quando gli riferirono che il padre e la madre erano morti. Ah, erano degli stronzi insensibili e li aveva uccisi lui, ecco perché.
    Conosceva il luogo indicatogli, un piccolo bar poco lontano dal centro abitato, un bel posto. Discreto, non troppo invadente, ma era carino, o almeno a Gemes piaceva il gusto con cui era stato arredato. Non gli piaceva la gente che lo frequentava, ma era veramente poca la gente che rientrava nelle grazie del ventiquattrenne, e colui che sperava di trovare era una di quelle persone che proprio non poteva vedere. Già la cosa che non fosse lì lo disturbava. Non aveva seguito quella ragazza per ricevere una menzogna come premio, non di certo, ma sentiva che quello poteva essere il posto giusto, e non era solo una vana speranza. Gemes aveva smesso di sperare molti anni addietro, se quello che lo teneva inchiodato era una sensazione, qualcosa voleva dire. Il rumore della porta richiamò l'attenzione di coloro che erano all'interno del bar che, come famelici lupi che avvertivano l'odore della preda, si girarono verso la porta. L'Hamilton nemmeno si curò dei loro sguardi di disapprovazione: tutti in giacca e cravatta, criticavano visibilmente l'abbigliamento casual del ragazzo. Un abbigliamento di circostanza, non si sarebbe mai messo una t-shirt azzurra sopra ad un paio di jeans, ma la situazione lo richiedeva e doveva adattarsi a questa. Si sedette su uno sgabello del bancone, con il busto rivolto verso l'entrata e la schiena ed i gomiti poggiati al mogano dietro di lui. "Scusi signore, il suo non è un abbigliamento consono a questo locale" Si voltò lentamente verso la voce femminile alle sue spalle, con un sorriso malizioso sulle labbra. Un'anziana signora, con i capelli grigi raccolti ed il completo da cameriera lo scrutava dall'altro lato del bancone, giudicandolo. «Ma che peccato» constatò, voltandosi nuovamente, finché la voce di lei non lo richiamò di nuovo. "Signore, deve ordinare per occupare quel posto". Come prima, si voltò di nuovo, senza sorriderle ma semplicemente guardandola fissa negli occhi scuri. «Mi faccia un caffé, allora. Corretto» Ignorò il brontolio della donna, ignorò la voce di lei che diceva di essere troppo vecchia per la merda dei giovani dell'epoca, tornando a guardare la porta. Doveva entrare, se lo sentiva, da un momento all'altro. Qualcuno, Hedler presumibilmente, avrebbe varcato quella porta, ed allora sarebbe iniziato il divertimento di quella serata.


    Gemes Hamilton
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    La mano di Rea Hamilton, normalmente sottile ed affusolata, era quel giorno agli occhi di tutti più spessa e rugosa, anche se indubbiamente morbida per mancanza di lavoro manuale. E quella stessa mano scivolò delicata sulla spalla della giovane ragazza, a malapena aveva superato i vent’anni, di fronte a sé. I capelli biondi incorniciavano un viso morbido e sereno, nonostante gli occhi mal celassero il terrore. “Hai paura, Jen?” Sussurrò con voce rauca, spostandogli una ciocca della chioma sbarazzina dietro l’orecchio. Lei annuì, poggiando il viso sulla sua mano. Si trattenne dal rabbrividire nel constatare quanto Jennifer fosse dipendente ed assuefatta al Dottor Hedler, quanta fiducia serbasse nei confronti di un uomo che tante vite aveva spezzato. Rea non rimproverava all’uomo il fatto che fosse un assassino, non sarebbe stato coerente; Rea rimproverava all’uomo di essersela presa con la persona sbagliata. E, come aveva promesso dietro le sbarre, avrebbe pagato il suo debito. Nei mesi passati all’interno dei Laboratori, la Hamilton aveva escogitato mille e più modi per vendicarsi dei Dottori, taluni più fantasiosi di altri. Non importava il come, o il fine: l’importante era che nel mentre soffrissero. “Non devi” Sussurrò, stringendola al petto. Chiuse gli occhi per impedire che l’illusione si spezzasse, di modo che Jen non percepisse sotto l’abito scuro le curve di una donna. Doveva sentire le spalle forti di Hedler, perfino il suo profumo. Doveva fidarsi di lei come si fidava del vero Hedler, mentre le sussurrava parole confortanti all’orecchio. “Non ci troveranno. Nessuno si ricorda di noi” Melliflua le accarezzò la testa, come il padrone avrebbe fatto con un cane particolarmente obbediente. Non c’era nulla in quel tocco che potesse anche lontanamente far pensare all’affetto, ma Jennifer pareva non farci caso. Non avrebbe dubitato del suo Dottore, il suo idolo. Eppure avrebbe dovuto sapere che l’oro degli idoli, quando vengono toccati, rimane attaccato alle mani. Non esistono idoli, non esistono eroi. Esiste solo il sangue. E le loro mani, come anche quelle di Rea, ne erano macchiate in maniera indelebile. “Gustav Hedler te lo promette” Concluse con un sorriso ironico che la bionda non avrebbe potuto vedere. Rea aveva promesso che gliel’avrebbe fatta pagare, costi quel che costi. Erano il suo obiettivo, la sua meta, ciò che ogni giorno la spingeva ad aprire gli occhi su una nuova mattinata. Ogni suo gesto portava come marchio quella vendetta che prima o poi sarebbe riuscita a prendersi. E sapeva benissimo che quella rabbia avrebbe portato ad altra rabbia, quel sangue ad altro sangue, quel caos ad altro caos, in un circolo continuo. Sapeva benissimo che quella, ormai, era la sua vita. Aveva smesso di credere al recinto bianco ed al giardino ben curato, molto tempo addietro. Quello, stringere fra le braccia la vittima del suo aguzzino, che a sua volta sarebbe diventata vittima di quella guerra fredda, era il suo futuro. Quella la sua vita. Non aveva bisogno d’altro Rea Hamilton, all’infuori del sentirsi importante in un mondo dove l’importanza era pesata con la carne. Si poneva degli obiettivi, e li raggiungeva. Sempre. Fine. Triste? Punti di vista. “Ora devo andare. Ci vediamo più tardi, giusto?” Si allontanò, tenendo ancora il volto di Jennifer fra le mani. Lei annuì sorridendo, gli occhi umidi di lacrime non versate. Passò il dito sotto la palpebra inferiore, cogliendo una goccia salata. “S-sempre al solito bar, il Ragno Scarlatto? Alle quattro, no?” Finalmente. Inspirò, Hamilton-Hedler, sorridendo con orgoglio a Jennifer. Era a quello che aveva puntato sin dall’inizio, ed era stato così facile ottenerlo. Le persone erano così semplici da manipolare, sembravano nate apposta per essere modellate: creta morbida per mani abili. “Sì, Jen. E non piangere” Si allontanò da lei, e non appena girò l’angolo lasciò scivolare da sé l’aspetto di Gustav Hedler, tornando la donna che in troppi avevano amato e temuto in egual misura. “Avrai tempo per piangere più tardi” Concluse piano fra sé Rea Hamilton, passando la mano fra i capelli color cioccolato che spostò poi con un gesto secco dietro le spalle.

    Aveva sentito tante cose sulla sua persona in quasi venticinque anni di vita, abbastanza per due vite. Quando chiudeva gli occhi riusciva ancora a percepire la risata di Charlotte, le lacrime dei suoi genitori. Riusciva a udire le voci soffocate dalla spessa porta della sua camera, che preoccupate si domandavano cosa avrebbero dovuto farsene, di lei. Della Creatura Perversa che aveva preso il posto della loro bambina. Non erano stati dei bravi cristiani? Non avevano forse pregato Dio ogni notte ed ogni giorno, implorandolo di concedergli misericordia? Riusciva a vedere, Rea Hamilton, il giorno in cui gli Spankman l’avevano trovata e portata a casa con loro. Gli anni passati ad Hogwarts, il suo sangue nella Sala delle Torture, ma soprattutto quello altrui. C’era da dire, a suo favore, che non se l’era mai presa con qualcuno per il puro piacere sadico di causare dolore. La sofferenza le piaceva, sarebbe stata una menzogna dire il contrario, ma se non era condita dalla colpa non aveva il giusto sapore. Ripagava i suoi debiti, vendicava sempre i torti subiti. Comportarsi in maniera differente sarebbe stata una debolezza, e chiunque conoscesse Rea, anche solo di fama, sapeva che non aveva debolezze. O meglio, quelle che aveva erano ben celate e ben protette, impossibili da riconoscere. Riusciva, nei casi estremi, a fare di quelle debolezze il suo punto di forza. Era naturale come respirare, per la Hamilton, essere chiunque fosse necessità di essere. Una cacciatrice? Un’amante? Una spia? Un’amica? Lo sarebbe stata. E voi le avreste creduto, perché Rea Hamilton era dannatamente brava in quello che faceva.
    Allisciò la gonna floreale a vita alta, davvero poco adatta a lei, e sistemò la camicetta bianca smanicata che vi aveva infilato all’interno. Attese che Hedler entrasse, l’avrebbe riconosciuto ovunque, e prendesse posto. Quello era il momento di entrare in scena. I tacchi risuonarono all’interno del Ragno Scarlatto, mentre Jennifer sorrideva timida a chiunque si fosse voltato nella sua direzione. Si portò pudicamente una mano al viso, mentre raggiungeva l’uomo con cui aveva, all’incirca, appuntamento. Prima di sedersi al tavolo estrasse dalla borsetta un rossetto, che passò distrattamente su un paio di labbra troppo sottili, di un rosa così tenue da non essere visibile. Quando si avvicinò ad Hedler, sapeva esattamente cosa fare: fece scivolare le braccia sulle spalle, si mise di fronte a lui e posò il più delicato dei baci sulla bocca avvizzita dell’uomo. Ew. “Buon pomeriggio, Dottor Hedler” Sorrise sorniona, schioccando le dita in direzione della barista per due volte. Due volte, come le aveva già anticipato. Nel mentre, estrasse dalla borsa una piccola boccetta, con la quale si inumidì appena le labbra. Prese infine posto di fronte ad Hedler, ancora stupito da quell’improvviso eccesso di entusiasmo. Ops. “Poi pulisci” Sibilò solamente la proprietaria, mentre invitava gli avventori ad uscire dal locale. Annuì distrattamente, arricciandosi una ciocca troppo bionda attorno all’indice. Quando alzò lo sguardo, gli occhi cerulei di Jennifer avevano lasciato posto a due grandi pozzi scuri. Si dicevano tante cose, di Rea Hamilton. Che era una stronza, sociopatica opportunista.
    Ma, oh, dolcezze: quella era solo la punta dell’iceberg.
    “Lui può rimanere” Disse solamente, l’accenno infinitesimale di un sorriso. L’aveva notato fin da subito, ma sarebbe stato sciocco da parte sua smontare l’intero piano per un inconveniente del genere. Non era cambiato di una virgola Gemes da quando, insieme, erano stati nei Laboratori. Una compagnia del tutto… singolare, bisognava ammetterlo, ma che stranamente ben si accompagnava a quella altrettanto particolare di Rea. C’era qualcosa di quell’uomo che la turbava, e non si trattava solo della fastidiosa sensazione di averlo già visto senza aver memoria del dove. Le era bastata un’occhiata per rendersi conto che erano sulla stessa lunghezza d’onda.
    Forse perfino un po’ troppo.
    Lo invitò con l’indice a prendere posto sulla sedia libera, quindi riportò l’attenzione su Hedler. Nessuno sapeva del suo potere, perlomeno intenzionalmente (per ora). Ma era difficile nascondere qualcosa al Soggetto con cui si condivideva parte del proprio spazio vitale, in special modo quando ai Dottori piace così tanto parlare. Avevano sempre parlato troppo, come se loro – gli Esperimenti- nemmeno fossero lì. Ombre incapaci di sentire, di vedere, di pensare.
    Ma Rea sentiva, vedeva, pensava. E, soprattutto, ricordava. “Le sono mancata?” Domandò, dolce come una carezza di seta sulla pelle (letteralmente: creare illusioni era davvero comodo a volte) al Dottore che l’aveva avuta in cura, primo fra tanti, mentre i capelli tornavano lentamente castani, ed il suo viso rea-le emergeva come una foto dapprima sfocata i cui contorni si fanno via via più definiti. “Non mi sono mai piaciute le bionde” Commentò ad alta voce, inarcando entrambe le sopracciglia.
    rea hamilton
    «Pray to your god, open your heart Whatever you do, don't be afraid of the dark»

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    « sheet | 24 | Telekinesis | #teamhamilton |pensieve »
    Cresceva, cresceva inesorabile dentro di lui. Come l'acqua del mare, quando la Luna si avvicina alla Terra e la sua presenza si fa più pressante. Come l'acqua del mare, che, nel periodo di alta marea, si alza inesorabile e senza controllo, coprendo tutto quello che le intralcia il cammino, nascondendo la sabbia all'occhio umano ed erodendo le basi delle scogliere. Come l'acqua del mare, influenzata dalla Luna, così cresceva in Gemes Hamilton la sete di vendetta, l'astio, il disgusto, influenzati dall'imminente e senza alcun dubbio pressante presenza del dottor Hedler che, egli ne era certo, stava per varcare la soglia di quel bar. Sentiva la forza distruttiva di quell'acqua erodergli l'anima -se così poteva definirla- mentre saliva lungo le pareti. L'avvertiva, il fluido colmo di sporco, di scorie e di lerciume che normalmente le onde trascinano a riva, l'avvertiva mentre saliva, mentre gli riempiva il petto ad ogni respiro. Sentiva la rabbia crescere ogni secondo che trascorreva senza che nessuno aprisse quella porta, la frustrazione offuscargli la mente. Non era esattamente un tipo paziente, Gemes, e l'avventura di poco prima poteva confermarlo, eppure l'attesa, quella volta, valeva la pena. Ne valeva la pena per vedere lo stupore e lo sconcerto sul volto del vecchio dottore, per sentire le sue suppliche, inutili suppliche. Poteva aspettare quel tempo che sembrava essere infinito solo per ascoltare il suo dolore esprimersi in effimere parole. E la sua rabbia, la sua sete di vendetta, così come l'acqua che si innalza e copre la sabbia, avrebbe coperto quei lamenti, avrebbe contribuito a renderli più insignificanti di quanto non fossero da soli.
    Si voltò, distogliendo lo sguardo dall'immobile superficie legnosa che non accennava ad aprirsi, sentendo il rumore di una tazzina posarsi sul bancone. Tant'era l'attenzione che aveva dato all'imminente arrivo dell'uomo che quasi si era scordato di aver ordinato un caffè poco prima. Ma non ebbe il tempo di sorseggiarlo, non perché effettivamente già solo l'odore era nauseante: si bloccò, mentre nelle orecchie tintinnava, come un eco, il suono del campanello smosso dall'apertura dell'uscio. Il sibilio dello strusciare della porta sul pavimento sembrava amplificato nella mente del ventiquattrenne, che si impose di voltarsi, posando il liquido nero immutato sul piattino di ceramica. Si voltò, e sentì la marea risalire, ricoprire tutto. Liquido nero. Non più acqua. Era sporco, nero come la pece, come il caffè che aveva lasciato su quel bancone. Nero, come il colore che Gemes associava a quel sentimento che ormai aveva fatto proprio. Nero, come la rabbia e la vendetta. Nero, nero che gli copriva gli occhi mentre seguiva con lo sguardo Hedler, nero che gli impedì di vedere, di sentire l'ingresso di un nuovo individuo, ma non gli interessava della sua presenza. Era solo lui e la sua preda, in quel bar, e nessun altro. Solo loro due, per la fantomatica resa dei conti.
    Non aveva mai premeditato quel momento, se non nei suoi sogni più reconditi. Sapeva solo che doveva farlo, che voleva farlo. Quell'uomo era stato complice, se non direttamente responsabile, di tutto quello che era successo a Gemes nei laboratori. Sì, gli aveva dato quello che gli era sempre mancato, la magia, ma a che prezzo? Tutte le torture, tutta la sofferenza provata. Non lo ammetteva nemmeno a sé stesso, la maggior parte delle volte, ma quello, senza dubbio, era stato il momento in cui maggiormente le sue convinzioni vacillarono, il momento in cui le sue debolezze, piano piano, rischiavano di riemergere dal baratro nel quale erano state confinate tanto tempo prima. Ma chiunque lo conosceva, di nome o di fatto, sapeva che non era debole, che non aveva talloni di Achille nascosti. Ma Hedler era andato oltre, aveva riaperto ferite già dimenticate e cicatrizzate, aveva rischiato di rendere Gemes quello che non avrebbe mai più voluto essere, e per questo doveva pagarla. Doveva essere eliminato, e di questo era sicuro, ed era abbastanza convinto che ciò sarebbe accaduto per mano sua. Non aveva premeditato quel momento, ma ora era così vivido, così palpabile, che sembrava ci avesse pensato su per decenni. Fu solo quando poggiò stabilmente i piedi a terra che si rese conto che quell'idillio che si era creato nella propria mente poteva essere rovinato da una presenza dai capelli dorati e dalla gonna a fiori. Socchiuse gli occhi, seguendola dopo che i loro sguardi si fossero incrociati una prima volta. La vide, sembrava così... Finta, innaturale, irreale. Seguì il portamento di una ragazza bionda che, senza alcuna ragione, gli ricordava un'altra persona. Non si ricordava delle persone, se queste non erano particolari, o se non potevano essere utili in alcun modo. Ma di coloro delle quali aveva memoria, rimembrava anche i più stupidi dettagli, i più semplci gesti, e poteva giurare che quella bionda gli ricordava qualcosa, qualcuno. Attese che, disgustosamente, diede un bacio all'uomo e che si sedette di fronte a lui. Attese, perché qualcosa stava per accadere. Dopo un semplice schiocco di dita della ragazza, di fatti, il locale si svuotò, e a lui e lui soltanto fu permesso di rimanere. Come se avesse bisogno di quel consenso, come se si sarebbe fatto problemi a rimanere lì comunque. Si avvicinò ancor prima che ella lo invitasse a farlo, girando la sedia libera e poggiandosi con il petto sullo schienale, incrociando le braccia sulla sommità di esso. Rivolse al Dottore un sorriso malizioso, privo di alcun tipo di entusiasmo, mentre con la coda dell'occhio si concentrò sulla ragazza, osservando come il suo aspetto cambiasse visibilmente e senza alcuna difficoltà. «Rea, quanto tempo» Si voltò verso di lei, rivolgendole un sorriso un po' più... sincero, forse. Era l'unica, dopo Aiden, che aveva sentito essere sintonizzata sulla stessa frequenza. «Il biondo non ti dona» commentò, sornione.
    Momenti di silenzio imbarazzanti, mentre lo sguardo terrorizzato di Hedler vagava dall'uno all'altra, come quello di uno spettatore del miglior match di ping-pong. «Non provi nemmeno ad estrarre la bacchetta» Intimò il giovane, annoiato, abbassando innocentemente lo sguardo verso la propria cintura e scoprendo ciò che vi era incastrato, ossia lo stesso coltello che poco prima aveva ucciso l'assistente dell'uomo. Lo estrasse, iniziando a giocherellarci. L'uomo non rispose alla domanda della ragazza, era inspiegabilmente diventato muto. Chissà perché. «Se non si ricorda, forse è il caso di rinfrescarle la memoria. Gemes, le dice nulla?» Punzecchiò, con la punta della lama, il tavolo, avvicinandosi lentamente all'uomo con essa. «Gemes Hamilton, Soggetto 471» concluse, puntando gli occhi contro l'uomo. Dopotutto, sarebbe stato bello giocare un po' con lui.


    Gemes Hamilton
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    Quanto amava, la Hamilton, il momento in cui la preda si rendeva conto di essere in trappola, priva di ogni via di fuga. Lo sguardo saettava al circondario nella disperata ricerca di un appiglio qualsiasi che potesse dargli anche la più flebile delle speranze che di lì sarebbe uscito vivo, le mani cominciavano a tremare, il sudore a inumidire la fronte ed il palmo delle mani. Il bello delle illusioni era proprio quello: le si abbracciava di spontanea volontà, consapevoli di quanto fossero un’alternativa migliore alla realtà. Il mondo di Rea Hamilton girava attorno a quella sfumatura dell’animo umano, legata a quella debolezza, quel margine d’incertezza. Ella stessa esisteva grazie a quel disperato bisogno di credere agli inganni, propri ed altrui; ella stessa era quell’inganno, al quale in ginocchio si chiedeva un’altra possibilità. Una nuova illusione per sostituire quella vecchia, usurpata dallo sguardo avido di chi non riusciva più a distinguere il reale dalla finzione. Sorrise all’uomo, conscia di essere il motivo di quella sudorazione, di quel battito che impazzito agognava una scappatoia. Sorrise, sapendo di essere sia il pericolo al quale voleva voltare le spalle, che la salvezza. Un paradosso.
    Un Hamilton.
    «Rea, quanto tempo» Roteò gli occhi cioccolato su Gemes, senza lasciare che il sorriso scivolasse dalle labbra carnose. In quel sorriso avreste potuto perdervi, leggendone sfumature che forse esistevano, e forse no. E quelle labbra, che parevano suggerire da sé una risposta che Rea non aveva mai –né mai avrebbe- dato, istigavano rabbia ed al contempo lussuria, richiamo del peccato quando si conosceva alla perfezione la condanna. Il rischio, che sempre sarebbe valso. «Troppo» Rispose, riportando l’attenzione al vero obiettivo, ossia l’uomo seduto di fronte a lei. Vi dirò: Rea Hamilton amava le sue vittime, con una sincerità che raramente riservava al resto del genere umano. Le amava abbastanza da donare loro un brandello di sé stessa, fosse quel sorriso, quella fossetta all’angolo sinistro della bocca, od un sopracciglio inarcato; abbastanza da offrirgli una morte dignitosa, degna d’essere definita tale; abbastanza da fargliela desiderare, quella morte, più di quanto mai avrebbero desiderato la vita. E, sempre vi dirò, le sue vittime amavano lei. Chiamatela sindrome di Stoccolma, chiamatelo semplice fascino, ma non si poteva certo dire che loro la odiassero. Nei loro occhi, scuri o chiari che fossero, la Hamilton riusciva a leggere il desiderio di essere stati qualcosa di più, la lusinga dell’essere stati selezionati appositamente come vittime proprio da lei. Non si trattava di vano egocentrismo, non qualcosa d’inventato da Rea per giustificare i suoi gesti: lei lo sentiva, come un brivido sulla pelle, e lo ricambiava. Non esisteva tragedia, dove non v’era amore. Rea, amante dello spettacolo, non desiderava altro che quello. Qualcuno credeva che per lei tutto fosse un gioco, ma si sbagliavano: per la Hamilton era un palcoscenico, dov’ella era sia regista che attrice. «Il biondo non ti dona» Inarcò le sopracciglia, schioccando la lingua: sul serio, Gemes? Ritenne superfluo sprecare ossigeno per sottolineare l’ovvio, ossia che tutto le donava. «Se non si ricorda, forse è il caso di rinfrescarle la memoria. Gemes, le dice nulla?» Fin lì, nulla di sconvolgente. Fu quello che disse dopo a farle drizzare la schiena, facendole posare due pozze scure, più curiose di quanto fosse ammesso da una semplice presentazione, sul giovane. «Gemes Hamilton, Soggetto 471» Poteva essere una coincidenza, senza dubbio. In un mondo ideale, quella probabilmente sarebbe stata causa di un sorriso divertito, una pacca sulle spalle ed un “Ma non mi dire! Che buffo”; Gemes e Rea non vivevano in un mondo ideale, però. Vivevano in un mondo che non s’era fatto scrupoli a masticarli, ed a sputarli in due insulse celle di un Laboratorio composto da Ribelli. Vivevano in un mondo che faceva del dolore, e della paura, vanto e mattone per un futuro più solido. Vivevano in un mondo dove le coincidenze non erano reali, erano solo l’illusione di chi, fino alla fine, non voleva cedere all’ovvio. Hamilton. 471. Rea spostò gli occhi sul proprio polso, osservando quei tre numeri che, per sette mesi, avevano cercato di strapparle di dosso la sua identità, il suo essere inevitabilmente e meravigliosamente Rea Hamilton. Per quanto Gemes Hamilton fosse un ragazzo affascinante, non era certo quello il motivo per cui Rea, da sempre, si era sentita attratta da lui; un attrazione differente rispetto a quella che avrebbe provato per un amante, o per una preda. Inclinò il capo, osservandolo silenziosa mentre si muoveva verso l’uomo. Socchiuse le palpebre, concentrandosi sul proprio respiro: non ditelo in giro, ma era quello il trucco per capire cosa fosse o meno reale, la Hamilton l’aveva imparato a sue spese. Le piaceva, senza dubbio. Ma perché? Non era così difficile da comprendere: Rea amava sé stessa, e trovava piacevole chiunque, anche solo lontanamente, le assomigliasse. Mero egocentrismo, vanità di una venticinquenne che aveva fatto del proprio egoismo uno stile di vita. Ma c’era di più, c’era molto di più. «Hamilton?» L’espressione di Rea divenne seria, e se solo per lei fosse stato possibile, perfino confusa. La confusione la riservava però a chi si sforzava di non capire, lei preferiva guardare in faccia la realtà. Dopotutto, se non le fosse piaciuta, avrebbe sempre potuto cambiarla. Il ribelle, comprendendo di non avere alcuna possibilità di uscire da lì vivo, si mise a ridere. Che… rozzo. Rea, seccata dalla situazione ancora fuori dalla sua portata, aggrottò le sopracciglia e strinse il pugno; sentì quasi concretamente la gola di Hedler fra le proprie dita, nonostante fosse ben distante da lei, e lui percepì dannatamente bene quella mano su di sé, che minacciava di soffocarlo. Solo quando lo vide annaspare alla ricerca d’aria, la Hamilton tornò a sorridere. «Rea Hamilton, l’avevo detto sin dall’inizio che avremmo dovuto ucciderti subito» Uccidere lei? Ma se era una creatura adorabile e fantastica! Spinse la sedia fino a trovarsi al fianco dell’uomo, e prese la sua mano fra le proprie. Il pollice, apparentemente in modo involontario, corse al polso, dove con il polpastrello avrebbe potuto udire il battito accelerare in caso di menzogne. Sperava vivamente che comprendesse che ormai, mentire, non sarebbe servito: se voleva sapere qualcosa, Rea lo otteneva. Sempre. «Non si può vivere di rimpianti» Rispose, mentre l’altra mano accarezzava distrattamente, come si fosse trattato d’un cane particolarmente mansueto, la guancia irsuta dell’uomo. «Gemes Hamilton» Pronunciare il nome completo del ragazzo, era per lei un misto di piacere ed insano divertimento. Hamilton, 471. Girò il polso in modo che potesse vedere il marchio sulla sua mano, segno indelebile che mai aveva mostrato a qualcuno. «Avrei dovuto capirlo subito che c’era qualcosa di strano, fra noi» Distolse lo sguardo da Hedler, riportandolo sull’Hamilton. «Mi piacevi un po’ troppo. Chi sei?» Domandò, sempre sorridendo ma seria come raramente si permetteva d’essere. Non aveva ancora risposto, e già poteva sentire all’orecchio la risata del ragazzo; e la sentiva, perché anche lei, al suo posto, avrebbe riso: andiamo, io piaccio sempre un po’ troppo, sarebbe stato strano il contrario. Solo con una persona, aveva avuto quel genere di rapporto. Quello che mette i brividi per quanto è inquietante, e che al contempo fa sentire a casa, parte di qualcosa. Come se l’anima stessa fosse stata spezzata e posta in due corpi diversi. Charlotte.
    Ma Gemes non era Charlotte.
    Hedler si permise nuovamente, che dolce uomo, di ridere. Non che potesse poi molto dissimulare la paura, considerata la fermezza con la quale Rea teneva conto del suo battito cardiaco. Evidentemente doveva trovare la situazione molto divertente: ironico, perché era l’unico in quella stanza a trovarla così. Premette le unghie sulla sua nuca, piegandogli il capo all’indietro per poi avvicinare la propria bocca al suo lobo. «Non potete uccidermi, io ho le risposte» A pensarci con il senno di poi, era davvero ironico che lui avesse risposte per domande che, invero, nessuno dei due Hamilton –perlomeno, Rea non di certo- aveva mai pensato di porsi. Quelle coincidenze cominciavano a diventare snervanti. Nuovamente, la Hamilton sorrise. Beata ingenuità. «Chi ha parlato di ucciderla?» Sussurrò, deliziosa come il più pregiato frutto sull’albero. In effetti, lei ci aveva pensato. E, sempre in effetti, lui sarebbe morto, era ormai solo un involucro di carne con l’illusione di essere vivo. Magnanima come solo Rea sapeva essere, gli aveva concesso ventiquattro ore di sopravvivenza: non era mai stato un suo desiderio proibito quello di baciarne le labbra avvizzite, cosa che invece aveva fatto una manciata di minuti prima; ed avrebbe continuato a non esserlo anche quel giorno, se solo le labbra della Hamilton non fossero state avvelenate. E, per una volta, si parlava di veleno non metaforico. Che dolce morte, gli aveva concesso. Doveva solo rendersene conto, di non far più parte di quel mondo. «Potrei obbligarla: conosce il mio potere, Dottore. E lei vorrebbe dirci tutto ciò che sa, lo vorrebbe come mai ha voluto qualcosa al mondo» Con le labbra ne sfiorava appena la pelle, lasciando una scia di potere ad ogni tocco, sentendo il battito dell’uomo accelerare. Gli fece percepire che non stava mentendo, non stava bluffando.
    Però non poteva certo prendersi tutto il divertimento. Dire che non conosceva Gemes, sarebbe stato superfluo ed ovvio… ma quel lato di lui, lo conosceva bene. Un passatempo come un altro, con il suo fidato compagno di cella, quello di scambiarsi desideri come adolescenti ad un pigiama party: Tu come uccideresti quell’infermiere? E quello, il Dottore con gli occhiali? Ma anche se non avesse conosciuto il lato sadico di Gemes, avrebbe saputo che era esattamente quello il suo genere di divertimento.
    Dopotutto, era pur sempre un Hamilton.
    rea hamilton
    «Pray to your god, open your heart Whatever you do, don't be afraid of the dark»

    © psìche, non copiare.


    Edited by rea/l life ruiner - 12/12/2015, 03:49
     
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    « sheet | 24 | Telekinesis | #teamhamilton |pensieve »
    Lentamente, quasi avvertendo lo sguardo della mora al suo fianco pesante su di sé, volse la coda dell’occhio a studiarne il profilo, sempre e comunque attento a non farsi sfuggire alcun movimento del ribelle seduto allo stesso tavolino. Sapeva, il telecineta, di esercitare un certo fascino, così come era consapevole che il solo sentire il proprio nome pronunciato da quelle labbra fosse in grado di suscitare nell’ascoltatore un certo visibilio: dopotutto, era pur sempre Gemes fucking Hamilton. Non poteva dire, a ragione, di godere di un’ottima fama nel mondo babbano nel quale aveva vissuto fino a poco tempo prima, ma in ogni caso era la sua nomea a precederlo ovunque; nel mondo magico non era, ancora, così conosciuto avendone vissuto ai margini, relegato ai bordi di quella società nella sua condizione di abominio, ma da quel punto di vista poteva ringraziare la propria famiglia per essere così spocchiosamente arrivista. Egocentricamente parlando, aveva creduto che la sua fuga di quattordici anni addietro avrebbe fatto sì che il nobile nome della propria casata decadesse, dimenticato dalla ristretta cricchia di Purosangue una volta venuto a galla l’orribile segreto che Miranda e Graysen custodivano così gelosamente; una volta scoperto che uno dei frutti dei coniugi, forse due, era marcio, questi non avrebbero più goduto della reputazione che era loro sempre appartenuta. O almeno, quel pomo che si era allontanato dall’albero, più maturo, prelibato e delizioso di quanto nessuno avrebbe potuto credere, quello si era aspettato. Era rimasto entusiasticamente stupito nel notare che quel cognome riusciva comunque ad incutere un certo timore reverenziale in coloro che avevano avuto il privilegio di possedere una bacchetta, senza chiedersi se questo fosse dovuto a Charmion, a Frederick o a Raine. In realtà, ben poco credeva che costoro potessero in qualche modo suscitare quell’effetto: forse, unicamente la gemella poteva essere in grado di tanto, ma nemmeno lei, in fin dei conti. Non quanto sarebbe riuscito lui, non quanto riusciva lui. Per tutti questi motivi, non fu eccessivamente sorpreso nel percepire, in Rea, una certa nota di disagio quando udì il nome completo, quasi che qualcosa non le tornasse. Era normale, comprensibile, che una persona qualsiasi provasse una tale sensazione in presenza del magonò: impossibile, riteneva egli, era per chicchessia cercare di far luce dietro la superficie frammentata che era la sua persona, pensare di poter far quadrare tutti i pezzi del mosaico fino a capire cosa ci fosse a non tornare. Un’utopia dietro la quale molte persone avevano speso il proprio tempo –dire “sprecato”, nonostante non ci fosse un vero e proprio risultato, sarebbe erroneo: dopotutto è tempo passato in compagnia di Gemes Hamilton, come potrebbe essere sprecato?-, senza però, appunto, vedere i frutti della propria ricerca, solo ed unicamente perché egli stesso impediva di raggiungere quel tanto ambito traguardo. Riguardo al disagio, lo comprendeva al pieno delle sue facoltà: come potevano non avere un certo senso di oppressione al petto dinnanzi a cotanta magnificenza? Al posto loro, lui stesso si sarebbe sentito in imbarazzo. No, forse no: non sarebbe mai stato al posto loro. La cosa che gli fece voltare il capo, incuriosito da tale reazione, era che Rea non era un individuo qualunque: a quel punto, si sarebbe prodigato in un malizioso sorriso, dolce come miele e falso quanto necessitava fosse menzognero colui al quale era rivolto, non lasciando trapelare altro che soffice divertimento, lusinghiera conferma che sì, era proprio lui, ma non lo fece. Non si vantava di conoscere la mora, non se n’era mai dato troppo adito, accontentandosi della strana sensazione di benessere che gli dava la sua sola presenza in quelle anguste stanze estremiste; una complicità che travalicava la mera condivisione dello stesso infausto fato, quasi come se non fossero mai stati separati prima di allora, destinati a quel momento. Eppure, sentiva che lei in altre occasioni non avrebbe mai provato quella sensazione, così come mai avrebbe fatto l’Hamilton. C’era qualcosa di strano, in quello sguardo che gli rivolse, e che lui ricambiò solo in parte: se solo non avesse saputo, Gemes, che niente era in grado di realmente confonderlo, ambendo sempre e comunque a svelare l’arcano –e ovviamente riuscendoci-, avrebbe potuto dire di non capire per quale motivo ella risultasse così... contrariata. Enigmatico, l’esperimento con il quale aveva passato diversi mesi in quelle cella, attendendo unicamente il momento propizio per fuggire, lo era sempre stato, ed era forse questo uno dei tanti motivi per i quali l’aveva sempre considerata un’anima affine. Si limitò, quando ella ripeté il cognome, ad alzare le sopracciglia allusivo, riportando lo sguardo sull’uomo; per quanto potevano essere, i due giovani, dannatamente fantastici, adorabili, centro nevralgico dell’attenzione in qualsivoglia momento, non erano loro lo spettacolo di quel giorno. Personaggi importanti, protagonisti indiscussi –o perlomeno, Gemes lo era-, ma nel loro mutevole e semplice essere, in quel bistrò altro non erano che gli antagonisti. Hedler, il presunto buono. Ma doveva saperlo, che non v’era né bene, né male: solo ed unicamente prede e predatori. «Rea Hamilton, l’avevo detto sin dall’inizio che avremmo dovuto ucciderti subito» Fu allora, che si permise di abbassare gli occhi, divertito più che altro, facendo scoccare la lingua contro il palato. C’era sempre un filo che sbrogliava la matassa: forse l’esimio Dottore sarebbe potuto essere il suddetto, atto a districare quella trama che si andava tessendo da anni e che solo ora veniva scoperta; quale onore, per lui. Quindi era lei la famosa Hamilton per la quale il mondo magico conosceva il suo nome? Oh, beh, senza dubbio: se le sue impressioni non erano così errate, non poteva essere altrimenti. E raramente, molto raramente, arrivava a cambiare idea dal primo giudizio che dava ad una persona. Le iridi cerulee, specchi cristallini di un’anima che non vantava più di possedere, delicati andarono a cercare gli occhi castani di Rea Hamilton, mentre questa provvedeva a rispondere all’uomo lì presente, divenuto improvvisamente spettatore di quel palcoscenico. Avanti, c’erano due Hamilton: quanto poteva davvero pretendere di essere la punta di diamante lì dentro? Con lo sguardo sfiorò le tre cifre sul polso della ragazza, annuendo. «Rea Hamilton, 174. Che piacevole coincidenza» sorrise, amabile, osservandola. «Avrei dovuto capirlo subito che c’era qualcosa di strano, fra noi. Mi piacevi un po’ troppo. Chi sei?» Rise, distogliendo lo sguardo per incontrare gli occhi dell’altro. «Ti piaccio, forse intendevi dire, e tanto» la corresse, senza far scivolare la piega sulle labbra. «Non mi si ama mai troppo, dico bene?» chiese all’Estremista, senza attendere alcuna risposta. Ovvio che diceva bene.
    Chi sei? Chi era, Gemes Hamilton? Cosa era? Ma la domanda più consona, quella che Rea avrebbe dovuto rivolgere e che invece aveva taciuto, sarebbe stata “cosa non sei, chi non sei”. Perché tante cose era il moro dagli occhi di ghiaccio, tante cose poteva essere: una mera descrizione del suo fantastico essere non sarebbe bastata. Non sapeva, il ragazzo, che poco tempo dopo sarebbe stato costretto a rispondere ad una domanda del genere, chiuso in una stanza circolare, meno evasivo di quanto avrebbe voluto poter essere, ma questa è un’altra storia. Alzò le iridi celesti sulla ragazza, assumendo un’espressione seria, quasi offesa. «Dovresti saperlo, ormai» rispose, senza mutare l’atteggiamento. «Una persona deliziosamente adorabile» Una persona sociopatica, incline alla vendetta personale e non, assassina a tempo perso, vagamente e giustamente egocentrico: tutto sommato, adorabile. Portò la lama del pugnale davanti al volto, come a studiarla, senza lesinare di tanto in tanto un’occhiata allusiva ad Hedler. Avrebbe voluto dire “basta parlare di me”, il problema era che non avrebbe mai smesso di farlo; perciò, ond’evitare malcontenti, si rivolse alla ragazza. «Ai fini della trama, è necessario che tu risponda alla medesima domanda?» Ancora, con chiunque altro non si sarebbe mai azzardato a porla, per il semplice fatto che poteva interessargli poco e niente; ancora, era di Rea che si stava parlando. Ancora, sapeva che non avrebbe risposto o, nel caso l’avesse fatto, non ne avrebbe carpito alcunché.
    Seguì i suoi movimenti, indirizzati unicamente al Dottore, udendo le parole di questo. «Chi ha parlato di ucciderla?» Futile, per Gemes, era specificare che inizialmente era stato quello l’unico suo intento, motivo per il quale si era spinto ad uccidere l’assistente di lui, arrivando fino a quel luogo di incontro. E, ovviamente, non ne sarebbe uscito di lì sulle sue gambe: tuttavia, all’Hamilton piaceva giocare, stuzzicare, e se quello aveva risposte a domande che ancora non erano sfiorate dalle labbra di alcuno degli altri due presenti, tanto valeva estrapolarne il più possibile. L’aveva incuriosito, doveva dargliene atto, ma questo non l’avrebbe salvato. «Conosce i nostri poteri» tenne a specificare, andando a manipolare la materia di cui era composto il coltello che ancora stringeva tra le dita. In breve, l’indice andò a solleticare l’acuminata punta di uno spillo alquanto lungo, constatando con suo immenso piacere che sì, pungeva. «E conosce noi» O, almeno, vantava inconsapevolmente di farlo: dubitava potesse davvero conoscerlo, per quanto egli era stato uno dei suoi dottori di fiducia nelle settimane all’interno del laboratorio. «Sa quanto sia in grado di essere poco... delicato, ecco» asserì, mentre l’ago si librava in volo, lo spillo a toccare la tempia del vecchio. «Nel caso la persuasione della mia amica non sia capace di farla parlare, io potrei, diciamo, premere un po’ la mano» La voce dell’Hamilton, dacché non aveva mai smesso di essere melliflua, zucchero sciolto sulla pelle raggrinzita, si era fatta un sussurro. Più secco, più sprezzante; più sincero. E, contemporaneamente, aveva già spinto un po’: assuefatto, vide una, due gocce di scarlatto sangue scendere lungo il lato destro dell’uomo. «Posso entrare nella sua testa, in un modo o nell’altro. Le lascio la scelta del come accadrà» Perché, comunque, sarebbe accaduto. Senza cambiare l’oggetto della sua attenzione, quasi come quello fosse un film alla televisione e lui e Rea due semplici ragazzi presi ad ammirarlo ma, al contempo, annoiati da esso, si rivolse alla mora. «Posso offrirti un caffè, quando abbiamo finito? È passato così tanto tempo dall'ultima volta che ci siamo visti» Ne avevano di cose di cui parlare, Gemes e Rea Hamilton: di certo, quello poteva essere solo l’inizio. O, magari, l’eterno proseguimento.



    Gemes Hamilton
    « if you dare, come a little closer »

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    « Whatever you do, don't be afraid of the dark »
    Inclinò appena il capo, osservando l’uomo seduto di fronte a lei. Le era bastata quella risata, grezza lana sulla pelle, per comprendere che non ne sarebbe valsa la pena. L’interesse che aveva suscitato nella mora era andato scemando di respiro in respiro, mentre pigramente Rea Hamilton si rendeva conto di non aver bisogno di lui. Lasciò che quella consapevolezza galleggiasse nelle iridi scure, un lento sorriso a curvarle le labbra rosee. «l’hai capito, non è vero?» domandò in un sussurro quasi dispiaciuto, sfiorando le guance del dottore con le nocche. Vi si soffermò con il pollice, premendo sulla pelle finchè l’unghia non vi lasciò la propria orma, quindi ripose nuovamente le proprie mani in grembo. Era un momento delicato quello nel quale la vittima si rendeva conto, infine, che sarebbe morta. Un sesto senso acuto negli esseri umani quando si trovavano dinnanzi ad una prospettiva del genere, ormai quasi concreta fra i polpastrelli, ma impercettibile nel resto del tempo. Neanche ci si rendeva conto, in maniera piuttosto ingenua, di ciò cui ci si era aggrappati sino a quel momento.
    Neanche ci si rendeva conto di aver sperato, fino alla fine, di poterne uscire illesi.
    Istinto.
    Gustav Hedler sarebbe morto nel giro di poche ore, e Rea Hamilton, a tal proposito, non provava nulla. La vendetta era un piatto prelibato e gustoso, ma non aveva mai il sapore giusto sul palato; se Rea cercava rivalsa per quel passato sempre recente, non era per puro piacere personale, malgrado potesse ammettere in sincerità di esserne divertita. Si trattava semplicemente di giustizia, una dote che in troppi, nel loro mondo, avevano dimenticato o travisato. I ribelli millantavano giustizia mentre si sporcavano le mani del sangue di chi non la pensava come loro, chi aveva impiegato anni e generazioni per costruire un sistema che funzionasse. Avevano e continuavano ad uccidere Mangiamorte ogni giorno, fautori di una rettitudine tale solo ai loro occhi. Il ministero era perfettamente giustificato a reprimere tali moti con l’ausilio dei Pavor: ad ogni azione, d’altronde, corrispondeva una reazione. In ambedue i casi non si trattava mai di giustizia, non secondo Rea Hamilton. Punire chi invece le aveva inflitto ogni genere di tortura, chi aveva usato il suo corpo per scrivere una storia dov’ella non era destinata a partecipare, era giustizia. Anzi, Rea nei loro confronti era stata addirittura misericordiosa: avrebbero meritato un trattamento assai peggiore, per quel perverso gioco nel quale l’avevano intrappolata come una mosca nella ragnatela.
    Ma soprattutto, avrebbero meritato una punizione più cruenta per il solo aver pensato ch’ella potesse essere una misera mosca, pedina passiva fra le loro dita grossolane ed indiscrete. Li avrebbe trovati tutti, Rea Hamilton, dal primo all’ultimo.
    E dal suo nome, avrebbero tratto una nuova definizione per dolore.
    «volentieri» rispose sinceramente all’invito di Gemes, ruotando gli occhi scuri su di lui. In quel momento si spezzò anche l’ultimo brandello della già sfilacciata attenzione di Rea, ormai dimentica del dottore seduto a pochi metri da lei. Perdere l’interesse di un Hamilton era cosa assai delicata e pericolosa; oramai, avrebbero dovuto saperlo.
    Sarebbe stato solo un altro nome sulla lista, cancellato con una distratta linea della penna. Rea Hamilton dava molta importanza alla vita, davvero. Semplicemente, non le interessava quella degli altri, preoccupata solamente della propria incolumità: era un reato amarsi quando nessun altro sembrava disposto a farlo? Perlomeno, nel modo in cui ella avrebbe voluto.
    Senza impegno, ma con devozione. Senza domande stupide sul suo stile di vita, senza cercare di cambiare qualcosa ch’era già perfetto nella sua natura distorta e sleale. Rea era culto, qualcosa a cui offrire senza aspettarsi di ricevere altro in cambio; una presuntuosa religione blasfema e, per questo, terribilmente attuale ed antica, dal sapore di fiori lasciati invecchiare fra le pagine di un diario e la plastica sfumata di un auto nuova.
    Ogni religione aveva i propri dogmi, così come ogni religione necessitava di sacrifici; le vittime erano ovunque, perché le sue avrebbero dovuto essere particolari? Cosa poteva avere Rea Hamilton di meno rispetto a qualcuno che spingeva esseri umani a rinchiudere i propri figli, legandoli alle sponde del letto con corde troppo spesse, perché diversi? E s’era fatta più furba, più meschina in quei venticinque anni; più distaccata, osservatrice oggettiva di una realtà incapace ormai di sfiorarla. Aveva appreso tutto ciò che c’era da apprendere sulla natura umana, trovando un poco di divinità in ciascuno di loro; chi credeva che Rea non avesse una religione, semplicemente, non aveva capito. Non l’aveva capita.
    Lanciò un’occhiata al Dottore, le palpebre socchiuse. «se credi in dio, è il momento di cominciare a pregare» bisbigliò, muovendo appena le labbra, su cui si dipinse un sorriso sincero. Lui poteva anche essere incline al perdono, ma la Hamilton non credeva nella redenzione. Neanche l’ultimo battito dell’uomo avrebbe potuto lavare il sangue con il quale egli aveva bagnato i bianchi corridoi dei Laboratori, né i rantoli soffocanti avrebbero potuto liberarla da quelle cicatrici: il perdono, nel mondo di Rea, non era contemplato.
    Un vero peccato che lo capissero tutti tardi, troppo tardi.
    «preferirei un bicchiere di vino, per inciso» specificò verso Gemes, volgendo le spalle all’inconsapevole cadavere del dottor Gustav Hedler.
    Il resto fu storia quale.

    [più di un anno dopo, esattamente le 21:00 del 16.11.2016]



    Non sapeva da quanto tempo lo sguardo, vuoto quanto nei mesi precedenti, fosse fisso sulla parete di fronte a sé. I secondi, i minuti, i giorni sembravano essersi dilatati ed al contempo ristretti, trascinandosi a rilento in un susseguirsi di nulla. Inspirava, Rea Hamilton, ed il petto si alzava ed abbassava normalmente; non c’era nulla di strano in quell’atto, imperturbabile mentre tutto il resto era in rivolta.
    Eppure.
    Abbassò gli occhi sulle proprie mani, immobili da quelle che potevano tranquillamente essere ore. La rabbia della mora era sempre stata fredda, viscerale, celata dietro una patina di perbenismo ed impassibile cortesia. Con il passare delle settimane, aveva semplicemente smesso di essere un emozione definibile, divenendo un gelo interno che l’aveva resa, se possibile, ancora più scostante ed aliena del solito. Di natura, Rea non era mai parsa una donna avvicinabile, troppo diversa, estranea, per essere parte di una realtà quotidiana e conosciuta. La si ricordava, impossibile fare altrimenti, ma come un fumo impalpabile fra i polpastrelli, un disegno i cui tratti erano in continua evoluzione. Mentirei se vi dicessi che la situazione era cambiata con le prime sparizioni: per Raine le era dispiaciuto, certamente, ma fino ad un certo punto. Aiden Winston non lo conosceva, né era interessata a farlo; i due ragazzini scozzesi l’avevano più che altro irritata, perché obbligata dalla Baines a rimanere in quel luogo dimenticato dal Signore, conosciuto ai più come Inverness, con una bambina sempre appresso a domandarle se c’erano novità. Ovviamente non se n’era mai preoccupata, aveva ben altri pensieri per la testa che non la sorte di tre o quattro persone che conosceva a malapena. Aveva pensato, ingenuamente, che fossero semplicemente morti. Non spariti, non rapiti: morti. Dopo le quarantotto ore, d’altronde, era la soluzione più logica.
    Non lo era più stata dal diciotto agosto; come potesse un giorno, un solo giorno, cambiare tutto, era per la Hamilton inconcepibile. Ma soprattutto, trovava surreale che Brandon Lowell fosse sopravvissuto a quella giornata. Dio solo sapeva quanto Rea era stata tentata di ucciderlo, sbarazzarsene una volta per tutte. Come aveva potuto permetterlo. Razionalmente si rendeva conto che non era colpa del metamorfo; razionalmente, neanche le importava di uno stupido post adolescente che, di punto in bianco, aveva deciso di sparire dalla circolazione.
    Ma la ragione aveva sempre avuto poco a che fare con Amos Hamilton. Si era obbligata, nei lunghi mesi trascorsi alla ricerca del fratello, a credere che se lei fosse stata a casa non sarebbe cambiato nulla. Che no, ovviamente non poteva essere accaduto a causa della sua assenza quell’ormai lontano mese di agosto. Amos era un adulto, ed in quanto tale avrebbe dovuto prendersi le sue responsabilità; quella sarebbe stata una lezione di vita, magari la volta buona nella quale il ragazzo si sarebbe svegliato ed avrebbe affrontato la nuda e cruda realtà, imparando a cavarsela da solo.
    E Dio, lei gliel’aveva detto che avrebbe dovuto andarsene da lì. Avrebbe potuto iniziare un’altra vita – cambiare nome, cambiare storia; avrebbe potuto seguire Charlotte, crescere in un mondo… diverso. Forse non migliore, ma perché fosse peggiore avrebbe dovuto mettercisi dannatamente d’impegno. E lei gliel’aveva detto, che non era una buona idea rimanere da quelle parti. Non era sicuro, non con Rea Hamilton. Lo odiava, Rea; lo odiava così tanto, mentre ripensava ai suoi occhi chiari, da sentire quasi una fitta fisica. Perché non sarebbe mai stato un adulto, per Rea Hamilton. Non era uno stupido post adolescente qualunque: era un Hamilton.
    Era suo fratello.
    Ed erano passati i giorni, e con loro gli articoli del Morsmordre; ed erano passate le foto: Jayson Matthews, vent’anni. Aveva spostato da poco il proprio domicilio, diceva il giornale. A quanto pareva, secondo loro, la spersonalizzazione delle vittime aiutava a non rendere reale il pericolo, a non dare una vera consistenza a quelle persone – o almeno, quello era stato ciò che Palmer e Baines avevano voluto far trapelare. Ormai conosceva a memoria ogni maledetto bollettino, avrebbe potuto tracciare le foto degli scomparsi ad occhi chiusi. Sapere che Jay in realtà era un Hamilton, e nello specifico il fratello di Gemes, non l’aveva turbata quanto avrebbe dovuto; da quando aveva conosciuto il telecineta, aveva sempre sentito che c’era qualcosa di particolare in lui, di diverso. Di simile. E non era, a farle stringere i pugni, il pensiero che in qualche strano ed ancestrale modo, fosse parte della famiglia: non vedeva Frederick, Rea Hamilton, o almeno non solo. Vedeva il ragazzo del Labirinto, quello a cui aveva tacitamente promesso un luogo sicuro, quello che aveva fatto addormentare nell’illusione di un mondo più facile. La scelta di andarsene dalla villa era stata sua, ma non riusciva a cancellarsi dalla pelle quella strisciante sensazione di aver fallito. Erano una sua responsabilità, e poco gliene importava se lui, o Amos, non fossero d’accordo – non avevano voce in capitolo. Tre giorni dopo, a campeggiare in prima pagina c’era stata la foto di Heidrun Crane; ammettere che Al avesse avuto una sincera ragione per preoccuparsi in quei mesi, era stato quasi destabilizzante; l’aveva aiutato a cercare la figlia, ed ancora se ne domandava il perché, ma non aveva creduto fosse realmente in pericolo. Da luglio: nessuno aveva avuto bisogno di dirlo ad alta voce, ma era palese, almeno secondo Rea, che fosse improbabile trovarla ancora viva. Ben lontana dal riferirlo a chicchessia; ben lontana, la Hamilton, dal pensare alle conseguenze cui un pensiero del genere avrebbe portato. E le persone continuavano a sparire, e la maledetta squadra di ricerca continuava a tornare a casa, la sera, con nulla fra le mani.
    Si era distanziata da tutti – a casa, al lavoro. Si era distanziata da sé stessa, entrando in quella fase di quiete che sempre precedeva una tempesta. Si era lasciata scivolare addosso il resto delle foto, le preoccupazioni altrui, le lacrime; aveva ignorato la disperazione di chi si era presentato al Ministero per unirsi alla squadra. Impassibile ed intoccabile al fianco delle perdite altrui, incapace di dare un peso a quel tempo che continuava a scorrere. A settembre, nella dozzina di foto da cui era difficile distogliere lo sguardo sulla pagina del Morsmordre, era comparsa anche quella di Aloysius. «più whisky per noi» aveva cinicamente commentato in tono apatico, alzando le sopracciglia nel più lieve dei sorrisi. Poco credibile perfino alle sue stesse orecchie: ricordava anche Aladino dal labirinto – lo sguardo smarrito, le mani a tremare, quella costante ricerca di conforto sul fondo di una bottiglia; aveva promesso anche a lui un nuovo inizio, un capitolo migliore del precedente. Perfino la propria protezione – anzi, peggio: gli aveva concesso la sua amicizia. Si sentiva tradita dal fatto che anche lui fosse disperso; poco importava che non fosse colpa di Al, o di Freddie, o di Amos: li odiava, perché non avevano rispettato la loro parte del contratto.
    Il minimo che potevano fare, quando entravano nella vita di qualcuno, era rimanerci finché quel qualcuno non li sbatteva fuori. Che diritto avevano, loro, di fare quello che volevano? Di far passare lei per quella dalla parte del torto? Avrebbe dovuto essere lei a cacciare Amos da quella casa, dalla propria esistenza. Avrebbe dovuto essere lui quello a sentire la sua mancanza, a guardare la sedia vuota chiedendosi dove avesse sbagliato.
    Ma, soprattutto, Dio solo sapeva quanto avrebbe dovuto essere lei quella ad uccidere Aladino. Se qualcuno avesse osato farlo prima di lei, dopo quel lungo anno in cui ella l’aveva tollerato, l’avrebbe pagata davvero cara.
    Per inciso: quando dico pagare, intendo morire. E male.
    Non che cambiasse davvero le carte in tavola. Il solo fatto che questi fantomatici Rapitori l’avessero fatta sfigurare, facendo sparire persone delle quali era garante, bastava ed avanzava perché la Hamilton divenisse giudice, giuria, e boia: colpevoli. Come già detto, Rea non era incline al perdono.
    Non avrebbe cominciato in quel momento.
    Novembre.
    Novembre. Mai l’ottimismo era stato parte integrante della sua indole, figurarsi la speranza. Cinica, scettica, maledettamente reale: eppure s’era lasciata affogare dall’illusione che il tempo non avesse consistenza, che non ci fosse nulla a cui pensare. Si era incastrata, letteralmente, nel lavoro. Aveva deciso di propria volontà di non credere che potesse effettivamente essere successo qualcosa: ciascuno aveva i propri metodi per affrontare le situazioni più delicate. Quello di Rea era scegliere, con intenzione, che non le importasse. Ci riusciva, sapete. Ci riusciva dannatamente bene, con quel sorriso languido che talvolta le incurvava le labbra senza mai arrivare agli occhi, sempre più foschi ed opachi. Efficiente, professionale, un’ottima collaboratrice nelle indagini; in quei mesi non aveva neanche minacciato Harrison Palmer di scorticarlo lentamente dalla punta dei piedi a quella sua testa quadrata e vuota, per quanto lo avesse desiderato almeno giornalmente. Era passato Halloween, era passato il suo ventiseiesimo compleanno; Gesù, per poco non sarebbero giunti a Natale. Aveva tenuto sempre con sé Cash, senza lasciare il bambino con nessuno: non si fidava, Rea Hamilton. Di nessuno.
    E poi, lo doveva ad Amos. Almeno quello.
    Ci era riuscita così bene, Rea Hamilton, a dimenticare. Non loro in quanto persone, facevano comunque parte del suo lavoro, ma in loro quanto parti integranti della sua vita. Era semplice, lo era sempre stato, eliminare il problema alla radice; non era a suo agio con quella vacua pesantezza sul ventre, nei polmoni, nel vuoto riflesso dello specchio.
    Era stata perfetta – come sempre. Non si era lasciata tangere dai cadaveri trovati nelle paludi, né aveva dato un peso a quel battito un poco accelerato ogni volta che non riuscivano ad identificare il corpo. Aveva deciso che non le sarebbe importato, e così sarebbe stato.
    Questo prima, chiaramente, del video.
    Da quando la villa si era svuotata, ogni passo sul freddo marmo bianco suonava sbagliato, un eco che riverberava a lungo contro le pareti. Vi rimaneva il meno possibile, Rea, infastidita da quell’assenza di rumori cui ormai aveva fatto, faticosamente, abitudine. Lavorava al Ministero, lavorava sul campo, e si portava il resto dei fascicoli al Ragno Scarlatto, il locale dove aveva lasciato morire Gustav Hedler un anno prima – e dove, incomprensibilmente, aveva ritrovato Gemes Hamilton. Avendo fatto amicizia con il proprietario, Rea poteva rimanere lì per ore dopo la chiusura – o anche durante l’apertura: le bastava un cenno, ed il bar si svuotava lasciandole quanto spazio le occorreva. A volte da sola, a volte con Gemes. Non parlavano molto, ma non c’era bisogno; si erano sempre capiti senza troppi giri di parole, ed entrambi sapevano perfettamente cosa passasse nella mente dell’altro. Non si trattava di intesa, o almeno non nell’usuale definizione che questo termine portava con sé, né erano improvvisamente diventati empatici e sensibili alla vicendevole compagnia. Non era fatto di conoscere l’altro abbastanza da sapere cosa nascondesse dietro il sorriso appena accennato, o a cosa fosse dovuta la macchia scarlatta sul polsino della camicia o della giacca. Troppo simili perché ne avessero bisogno: Rea conosceva solo Rea, e le bastava per conoscere anche Gemes Hamilton.
    Inquietante? Forse sì, ma non per Rea. Era ... normale, ormai. Non si trattava solo di amicizia, etichetta assai fragile e controversa per i rapporti fra (e con) Hamilton, era qualcosa di più intimo. Era come affacciarsi su un mondo alternativo dove tutto era il contrario di ciò ch’ella era stata, eppure ritrovarsi nel medesimo sguardo asciutto, anche se di un colore più fine.
    Ed era proprio con lui, ed il bambino che si era portata dietro, che aveva assistito al teatrino: volti che non conosceva, altri dai tratti dolorosamente familiari. Era rimasta immobile, e come lei il resto del mondo magico, finchè non aveva visto il primo petto alzarsi ed abbassarsi. Ed il secondo, il terzo, il ventesimo. Qualche sguardo confuso, le palpebre pesanti, labbra dischiuse.
    Vivi.
    Non aveva commentato, né aveva avuto bisogno di guardarlo una seconda volta. Le era rimasto impresso nella retina, immagini che, neanche volendo, sarebbe riuscita a rimuovere. Ad ogni battito di palpebre rivedeva il volto di Amos, sembrava così piccolo - lo stesso bambino che, anni prima, spuntava da dietro la sottana della signora Hamilton. Non si era stupita per l’appuntamento dato dal Ministero, circa un’ora dopo, limitandosi a fare un breve cenno di assenso al nulla.
    Non sapeva da quanto tempo lo sguardo, vuoto quanto nei mesi precedenti, fosse fisso sulla parete di fronte a sé, ma alla fine si era decisa a rompere il silenzio. «cash, scegli quelle che ti piacciono di più» svuotò la scatola con le foto degli smarriti di fronte al bambino, seduto per terra ai suoi piedi a giocare con solo Dio sapeva cosa avesse trovato dietro gli scaffali del Ragno Scarlatto. Il bambino le porse una polaroid di una donna dai capelli biondi ed i lineamenti fini, che Rea soppesò fra le dita. «lucille jenkins. Ha partecipato a quella… cosa» corrugò le sottili sopracciglia scure, ancora indecisa su come classificare la casa di Morgan. Aveva ricordi troppo espliciti dei filmini riguardo quel luogo, i quali ovviamente erano stati visionati tutti - bisognava sempre divertirsi con le disgrazie altrui. Lo so, poteva non sembrare, ma a crescere con i castafratti si sviluppava un certo fascino verso il trash dell’umanità; non era poi troppo incredibile ch’ella avesse passato serate, in compagnia di quella ciatella di suo fratello, a mangiare pop corn e guardare cosa diamine facessero persone sconosciute – ma soprattutto, quelle conosciute – in una casa con un tricheco. («ma… branbran, davvero non hai mai…» aveva domandato spesso, sollevando le iridi cioccolato sul Lowell. «visto amos, non sei solo»; «al, ma sei sicuro sia tua figlia?» aveva domandato nel corso dei mini video, lanciandosi i pop corn fra le labbra. «oh, gesù» le erano bastati due fotogrammi per prendere il telecomando ed andare avanti, le palpebre serrate con sofferenza. Ovviamente non si trattava dei divertimenti del cugino, osservati con cinismo e shock da Hamiltons + Cash + «al, davvero, fidati: non lo vuoi sapere. Spero?» quanto Eugene Jackson e Brandon Lowell. Già si era sorbita tutta l’adolescenza gli amoreggiamenti di Nate e Euge – ma soprattutto di Nate e Elijah-, non voleva proprio vedere the same old story all over again) Neanche si accorse di essere rimasta in silenzio per diversi minuti, la foto ancora stretta nel pugno. Neanche fece caso a quel sorriso amaro, memore di una vita che aveva sempre dato per ovvia, noiosa.
    Era stata così brava, Rea Hamilton, a convincersi che non le importasse.
    «vlogger, o qualcosa del genere, piuttosto conosciuta. londra, due settembre» completò, prendendo una freccetta dalla punta rossa per lanciarla, con una traiettoria minuziosa e calcolata, sul tabellone di sughero con i dati raccolti fino a quel momento, esattamente sulla foto della donna. «un’altra» invitò il bambino, allungando pigramente una mano verso di lui.
    Era stata così brava, Rea Hamilton, a convincersi che non fosse successo nulla.
    Rimase a guardare la foto che Cremino le aveva stretto, con i goffi polpastrelli rosei, fra le mani. La osservò a lungo, le labbra strette in una linea stretta. Sempre regolare, il respiro della Hamilton; anche il suo battito non dava alcun segno di cambiamento, imperturbabile e impassibile come la migliore delle giocatrici di poker.
    Era stata così brava, Rea Hamilton, a convincersi che avrebbero trovato una soluzione.
    Lo facevano sempre.
    Eppure.
    Lo disse, con la naturalezza con cui avrebbe domandato a Gemes di passarle il sale a tavola. Con quel tono sottile, vagamente roco di natura, con il quale avrebbe potuto sancire una promessa o una condanna a morte; senza un sorriso, senza un sopracciglio inarcato. Lo disse, perché lo pensava da mesi.
    Lo disse perché qualcuno, prima o poi, avrebbe dovuto esporre ad alta voce il tarlo che assillava tutti; lo disse come una certezza, un dato di fatto. Lo disse perché, sulla punta della lingua, pungeva come veleno.
    «è una trappola» e quello era così ovvio che perfino dargli concretezza la fece quasi sorridere. Non cambiò timbro, limitandosi a sollevare gli occhi dalla foto di Amos, ancora fra le dita, per cercare lo sguardo di Gemes: «probabilmente, sono già morti» ed eccolo. Eccolo.
    Era stata così brava, Rea Hamilton, a divenire illusione di sé stessa.
    «non dovremmo andare» ma l’avrebbero fatto comunque, non era forse vero? Potevano essere i più odiati, i più ripudiati, i più discriminati dagli occhi di coloro che erano scomparsi; potevano essere quelli cattivi, disposti a giocarsi le carte più sporche per vincere, a sacrificare le inosservate vite altrui per la propria. Quelli malvagi, loro; quelli sbagliati, quelli contorti, malati. Eppure, l’avrebbero fatto.
    Dopotutto, erano pur sempre Hamilton.

    26 y.o.
    sheet
    only illusions
    a r e r e a l
    pensieve
    huntress
    goddamn rea hamilton
    | if i was you, i'd wanna be me too | ms. atelophobia


    Edited by rea/l life ruiner - 8/10/2016, 02:35
     
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    gemes hamilton
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    Inspirò, ed espirando l’unico suono che udì fu il proprio soffio echeggiare, roco e misurato, in quell’anfratto privato d’ogni gloria che forse, un tempo, aveva osato erroneamente vantare. Vuoto, non v’era rumore di sorta, nulla che potesse far presagire in alcun modo l’avvento di una qualsivoglia minaccia: c’erano, a rimbombare secchi e frastornanti per quegli asettici corridoi, solamente i passi del mangiamorte, unico e vero pericolo ambulante nel laboratorio ormai in disuso. Di tanto in tanto, le illuminazioni al neon, appese alle pareti per miracolo, cadenti e sul punto di frantumarsi al suolo in un tappeto di vetro tagliente, si azzardavano a ronzare, lampeggiando ad intermittenza; inizialmente, avevano attratto lo sguardo del telecineta, curioso e, per quanto egli potesse esserlo, preoccupato da quel sibilo improvviso ed effimero, rallentandolo: non era uno sprovveduto, Gemes Hamilton, e per quanto reputasse i Dottori degli abietti esseri umani, immeritevoli di calpestare la sua stessa terra o di respirare lo stesso ossigeno, non credeva non sapessero difendersi, o che chiunque li avesse sterminati a quella maniera fosse un incapace. Troppi fori di proiettile nelle gabbie toraciche, troppi bossoli insanguinati ed accartocciati dall’impatto della loro traiettoria contro le mattonelle nivee dei muri. Così tanti cadaveri vestiti di un candido camice macchiato da chiazze cremisi, innumerevoli sguardi vitrei lasciati ad osservare quel soffitto che temevano li avrebbe sepolti, presto o tardi. Persino per i suoi contorti gusti, v’erano troppe vittime là sotto, sia da una parte che dall’altra delle sbarre metalliche. Eppure, nessuna che presentasse le caratteristiche che si aspettava, una volta sceso in quelle recondite profondità – nessuna traccia dei babbani, lungo tutto il perimetro fino ad allora perlustrato. Si muoveva, il ventiseienne, evitando elegantemente le gambe distese degli estremisti, o di entrare con la suola delle scarpe in una pozza di liquido scarlatto ancora fresca. Morbidi come seta, i polpastrelli sfioravano le fughe tra le piastrelle dei corridoi, sporcandosi dello stesso sangue dei Traditori quando tra di esse i residui di una sparatoria erano arrivati a tingere di rosso l’arredo; cauto come la più meschina delle serpi, ed innocente come la più pura delle colombe, si chinava sulle ginocchia, cercando nelle vene dei polsi o delle giugulari un battito assente da ore, forse giorni o addirittura settimane. Non si sarebbe affatto stupito, l’Hamilton, se avesse scoperto che quei corpi erano lì, immobili, da più di un mese, che nessuno aveva avuto pietà nel denunciare il misfatto alle autorità competenti ed ivi li aveva lasciati. Tuttavia, quando le lampadine al neon si accendevano per quella che poteva essere una frazione di secondo quanto mezzo minuto, gli era possibile studiare i freddi profili, prestare maggior attenzione al sangue raggrumato e a quello che ancora, umido, si spandeva sul linoleum pallido, o che gocciolante seguiva il tracciato sulle pareti. Non era un medico legale, il magonò, né mai aveva avuto la brillante idea di passare in un obitorio per ascoltare le indubbiamente interessanti conversazioni che venivano imbastite attorno ad un tavolo per autopsie, ma aveva commesso abbastanza omicidi in vita sua, anche sotto lauto compenso, da saperne qualcosa al riguardo. La tanatologia non era mai stata la sua branca di studi preferita: era un’amante della bellezza, dei lussi e dei piaceri, del rischio, del brivido adrenalinico sottocutaneo, del potere; come avrebbe potuto amare la morte, mera assenza di ciascuno di questi? Era per semplice lavoro, che Gemes Hamilton aveva imparato il tempo che ci impiegava il livor mortis a manifestarsi sulla pelle di un cadavere, per subdola sopravvivenza che aveva imparato quando un corpo si raffreddava, e di quanto, o dopo quante ore i muscoli, dopo essersi afflosciati, si irrigidivano per la durata di una giornata, una giornata e mezza, prima di lasciare spazio alla decomposizione. Sapeva calcolare, il telecineta, con approssimativa esattezza data dai fenomeni abiotici, quanto tempo era passato dall’uccisione, tenendo in considerazione i diversi parametri. Ed era in grado, guardandosi intorno, di riconoscere nel massacro un evento relativamente recente, riconducibile a poche ore prima.
    Inspirò, procedendo lento nel buio corridoio del laboratorio, trovando nell’oscurità che la rappresaglia aveva portato in quel tempio maledetto un più piacevole sollievo rispetto alle rade zone di luce superstiti, ancora intento nella ricerca che l’aveva condotto fino alla periferia londinese, come se fosse già dimentico di tutto ciò che le fredde iridi azzurre avevano visto e che, ad ogni passo, continuavano a vedere. E nuovamente, espirando, avrebbe udito soltanto il suono del proprio anelito, echeggiante in quell’empietà, per quanto potesse essere sottile. Di nuovo, quel soffio di fiato sarebbe stata l’unica cosa che, irrisoria, avrebbe inneggiato alla vita in una catacomba, se soltanto un rantolo non si fosse fatto forza, riverberando nello spazio vuoto. Prontamente, Gemes estrasse il pugnale dalla tasca dei pantaloni, tenendolo ben saldo tra le dita. La calma piatta e la fredda indifferenza sul volto del moro celavano magistralmente un sentore di pericolo, la consapevolezza di essere finito in una trappola: se di un inganno non si fosse trattato, se davvero c’era un sopravvissuto abbandonato contro un muro ad attendere morte per fame, disidratazione o solitudine –erano pur sempre bestie, dopotutto-, quello sarebbe stato un terribile errore di calcolo nei progetti dei babbani che si erano spinti fin lì solo per compiere una strage. Non abbassò l’arma neanche, e soprattutto, quando poté notare che l’affanno udito apparteneva ad una dottoressa, all’apparenza con una quarantina d’anni alle spalle, la bacchetta tenuta in una presa affatto salda nella mancina. Sinceramente, l’Hamilton non poteva che domandarsi come fosse viva: colpi d’arma da fuoco le ricoprivano il busto, e uno le aveva sicuramente perforato il polmone destro; aveva perso così tanto sangue, che avrebbe dovuto essere deceduta da qualche ora. Disse qualcosa la bruna, abbassando il bastone di legno, ma in un tono di voce così tenue da risultare incomprensibile. Tuttavia, quel «aiutami» sillabato allo stremo delle forze, quella supplica giunse comunque agli occhi del telecineta, che le sorrise. Se avesse potuto cogliere l’ironia di quella situazione, anch’ella avrebbe scoperto i denti, divertita dalle sue stesse parole; se avesse capito quanto era stupido, da parte sua, chiedere soccorso all’esperimento che le stava di fronte, ne avrebbe riso. Se avesse conosciuto chi eretto capeggiava davanti alle gambe abbandonate a terra, tremanti, probabilmente avrebbe esitato, prima di chiedere assistenza. Con un gesto secco del polso, facilitato dall’eccessiva sudorazione dell’epidermide della donna, fece in modo che la bacchetta le fosse il più lontano possibile, inutilizzabile; solo allora, pungolando il polpastrello dell’indice sinistro con il pugnale, perse tempo davanti alla moribonda, in apparenza soppesando la richiesta espressa, quel desiderio scivolato fuori da labbra che, con la circolazione malmessa dell’organismo, già perdevano il proprio natural colore, scurendosi in una sfumatura violacea che preannunciava il momento. Era un angelo, Gemes Hamilton: per la precisione, era sempre stato il più bello, portatore di una luce incompresa soprattutto da chi, tra tutti, avrebbe dovuto glorificarla; il più forte tra i suoi simili, colui che più d’ogni altro cercava d’attestarsi sopra a tutti, meritandoselo; quello che, per la sua sottovalutata diversità, era stato bandito, e da tale esilio aveva iniziato a creare il suo regno. Si era sempre ritenuto una creatura al di fuori della norma, divina, e non v’era alcun dubbio che avrebbe potuto interpretare, tra i tanti, la figura del Mietitore d’Anime –l’aveva già fatto davvero innumerevoli volte, non aveva problemi al riguardo. Ma in quel Laboratorio, dimenticato dal Creatore, non poteva che incarnare la sua essenza più naturale. Suadente, melenso ed invitante, si avvicinò al volto della donna, un sorriso falso e compiaciuto a risplendere sul viso. «ti aiuterò» decise, piegando appena la testa di lato, porgendo un braccio in sostegno della ribelle, facendola alzare. «solo quando avrai aiutato me»
    Gli aveva detto tutto, non lesinando sui particolari dell’attacco dei babbani. Ma ebbe orecchie, il cacciatore, unicamente per ciò che, effettivamente, egli aveva domandato. «è questa?» chiese, fermandosi davanti ad un pannello sulla parete leggermente più scavato sul muro. «non potevano entrarci, nemmeno forzando la serratura avrebbero potuto» spiegò lei, poggiandosi al muro, tossendo per lo sforzo, piegandosi su sé stessa. Spinto dalla necessità di averla viva, il magnanimo Hamilton celere si prodigò per tenerla dritta, facendola respirare bene per quanto il perforamento della pneuma toracica le consentisse di fare. Dolorante, premette la mano contro uno schermo invisibile a chiunque, tranne probabilmente per i dottori che, abituati a quella procedura, davano per scontato dove il riconoscimento del tessuto epidermico avesse luogo. Quella che si rivelò essere una porta scorse, rivelando l’ingresso all’archivio degli estremisti. Modernizzatisi, avevano per la fortuna di Gemes reputato lecito ed opportuno salvare i file su hard disk informatici, piuttosto che lasciare sul cartaceo tutti i dati dei vari esperimenti, dei rapimenti, delle torture. Non aveva alcuna intenzione di chiedere perché quella stanza, nonostante tutto stesse andando in rapido deterioramento, mentre il sistema elettrico della costruzione sembrava sull’orlo di collassare, funzionasse: gli andava bene un generatore d’emergenza, un qualche studio magico applicato alla tecnologia, non era realmente indispensabile, in quel caso, sapere. La dottoressa, sempre più debole, si appoggiò al muro, scivolando lentamente a terra, rivolgendogli uno sguardo dalle sfumature ambrate, un sorriso caldo che così tanto contrastava con la linea severa delle labbra del telecineta. «ti ho aiutato, quando uscirai dovrai tu tenere fede al patto» La fredda ed impeccabile linea si curvò, in un sorriso che, come di consueto, non trovava riflesso negli occhi chiari; non doveva sapere, evidentemente, che il Diavolo rispettava sempre la sua parte dell’accordo.
    «buon ventiseiesimo compleanno, Gemes» sibilò, serio davanti al monitor mentre scorreva rapido il referto clinico di Frederick Hamilton, ormai conosciuto come Jayson Matthews. Era una questione di principio, la sua, sapete? Non era sentimentale, il cacciatore, non sapeva nemmeno cosa fossero più, i sentimenti. Vendetta, null’altro, l’aveva guidato per venti anni; vendetta, e non conosceva altro fuoco che potesse bruciare con tanta intensità nel petto se non quello. L’unico impulso che l’aveva spinto a diventare ciò che era, il solo che l’aveva fatto sopravvivere per tutto quel tempo, assumendo le più svariate forme e rimanendo, sempre, fedele a sé stesso. Rabbia, forza, volontà: le assaporava sul palato come un dolce dal gusto sopraffino, come il più dolce dei vini, e tutte avevano il medesimo sapore della rivalsa con cui aveva nutrito il proprio ego, fino a non conoscere niente che differisse da questa. Non gli interessava, se quel Laboratorio era stata solo l’ennesima presa di forza dei babbani, del loro distopico sogno di porre fine alla stirpe magica; aveva una valenza minima quanti fossero i morti registrabili nei corridoi, e nelle celle. Con tutta probabilità, avrebbe ignorato le scomparse di quei mesi, mandando al macello pedine sacrificabili anziché esporsi in prima persona, prendendo parte alle ricerche e dando la sua disponibilità qualora fosse risultata assolutamente indispensabile.
    Era stata una questione di principio fin dall’inizio, quando con l’aria già pesante data dalla sparizione di Heidrun, divenuta quasi insopportabile dall’esasperazione portata all’interno della Villa dal padre della suddetta, la prima edizione speciale del MorsMordre aveva riportato la scomparsa di Raine. Aveva sempre cercato di tenerla lontano da quella realtà, ritenendola troppo buona per quell’esistenza basata sulla viltà del genere umano; aveva creduto che il buonsenso della cugina avrebbe avuto la meglio sulle sue emozioni, che l’avrebbe costretta a stare alla larga da Gemes e da quel mondo. L’aveva nascosto al suo meglio, l’aveva nascosto a sé stesso come solo il telecineta era capace di fare; l’aveva trattata da estranea, limitandosi a battere le ciglia scure davanti alla foto sorridente della bionda, definendola una sciocca, che se avesse saputo stare al proprio posto nessuno avrebbe pensato di rapirla. Ma era stata la prima, ed era certo che sarebbe stata anche l’ultima, che si fosse persa a cercare qualche libellula in un bosco pericoloso e che ivi era rimasta intrappolata. Quella ragazza era davvero troppo bionda per sopravvivere, ancora si chiedeva come avesse fatto tutto quel tempo.
    Però, erano passati i giorni, le settimane, i mesi, e quando fu il nome di Jayson Matthews a comparire nell’elenco dovette fingere meglio. Quello stronzetto non aveva alcun diritto di farsi catturare, non quando era così vicino a scoprire la verità, che ora, realmente tangibile, chiudeva davanti ai propri occhi impassibili in un fascicolo cartaceo. Non dopo che, malgrado le sue richieste di essere migliore, di non essere come lui, aveva fatto tutto ciò che il più grande, da dietro una porta di mogano levigato, gli aveva sconsigliato di fare. L’aveva osservato, sullo schermo del computer, incerto su quale delle due immagini soffermarsi. Non l’aveva conosciuto, Frederick Hamilton. Jayson Matthews, tuttavia, sì. Aveva del potenziale, l’aveva saputo riconoscere dal momento esatto in cui s’era seduto nel soggiorno della maestosa abitazione. Si somigliavano, seppur nell’aspetto diametralmente opposti. Era sempre stata una sua responsabilità, Freddie, e dal momento in cui era sparito dalla circolazione l’aveva detestato con tutto ciò che di sé potesse trasmettere tale sentimento: se gli avesse dato retta, avrebbe avuto una vita facile; se avesse fatto quello che, quando ancora s’osava di sperare, gli aveva supplicato di fare, tutti loro avrebbero avuto una vita più facile.
    La porta scorrevole si chiuse alle sue spalle, riconoscendo il passaggio, mentre l’ormai moribonda donna dagli occhi d’ambra era sull’orlo di cedere. Ma non ancora: nella sua debolezza, altro non riusciva a fare se non sopravvivere, opporsi all’inevitabile fato. La cartella sotto braccio, Gemes, per l’ultima volta, si accovacciò di fronte a lei, sorridendole. Quando la lama trovò, tra le costole, lo spazio per perforare il muscolo cardiaco, ella non si scompose affatto, sorridendo di ricambio. Cosa l’avesse spinta, a fare quel che aveva fatto, l’Hamilton non riusciva a capirlo; la redenzione era una sfera emotiva a sé stante con la quale mai sarebbe entrato in contatto, aliena e distante anni luci dalla sua realtà. Folle, altro non poteva essere, perché avrebbe dovuto saperlo dall’inizio come si sarebbero conclusi i giochi. Poco prima che chiudesse gli occhi sul mondo per l’ultima volta, Gemes sparì, sapendo già in cosa sarebbe uscito dalle labbra di lei, quale sarebbe stato il suo ultimo fiato. Non aveva bisogno, l’Hamilton, dei ringraziamenti altrui. Non se n’era fatto mai nulla, e mai un «grazie» esalato sul finire di una vita avrebbe cambiato qualcosa. In modi che altri non avrebbero capito, si era solo limitato a rispettare la sua parte degli accordi, cosa che molti, attorno a lui, evitavano di fare.

    «è una trappola» Quasi due settimane dopo l’espiazione dei peccati della dottoressa, Gemes Hamilton alzò gli occhi dalla foto dai tratti ben delineati di Aiden Winston, ventitreenne scomparso pochi giorni dopo sua cugina, tenuta delicatamente tra le dita mentre la mancina si preoccupava di far ondeggiare due dita di scotch in un bicchiere di cristallo. Non aveva osato mettersi in contatto con Jonathan, riconoscendo nel cognome del disperso lo stesso dell’amico di vecchia data. V’erano così tante coincidenze, che egli poteva benissimo essergli estraneo, ed inutile era per lui trovare parole al riguardo. Sapeva benissimo che, se davvero fosse stato lui, sarebbe stato un eccellente espediente per incontrare nuovamente il magonò. Dal video, aveva evitato di sollevare nuovamente lo sguardo, focalizzandosi sul semplice obiettivo. Subito, aveva distolto lo sguardo quando gli occhi smeraldo di Raine l’avevano cercato, come a capodanno, come quando da bambini gli chiedeva di farlo giocare con lui e Charmion, come quando le aveva detto di andarsene da lui, che era sbagliato e dannoso stargli accanto. Celere, aveva finto di interessarsi più alle documentazioni sul bancone che agli occhi color caramello di Jayson Matthews, che sotto una diversa luce, ora, davano fastidio. Da quando, il trentuno ottobre, era tornato a casa, aveva reputato giusto eliminarli dalla propria mente, annichilendo il ricordo vago che aveva di entrambi, così come si era prefissato di fare ogni singolo giorno, riserbandosi di provare rancore e odio per quando scopriva di un nuovo laboratorio scoperchiato. Si perse nello sguardo piatto ed inespressivo della mora, reputando inopportuno aggiungere alcunché: l’aveva pensato dal principio, dall’ultimo bollettino diramato. «probabilmente, sono già morti. Non dovremmo andare» Annuì, consapevole del rischio che s’apprestavano a correre loro, come altri intrepidi volontari che avevano dato la propria disponibilità per la resa dei conti. «hai mai creduto non fosse una trappola?» chiese, spostando lo sguardo sul bambino seduto a terra. Dal momento che era entrato in casa loro, era saltato subito agli occhi del telecineta, suscitando un irritante interesse nelle iridi cerulee. Trascendeva dal fatto d’essere un bambino, egli, e in quanto tale bestia immonda utile unicamente ai sacrifici umani; c’era qualcosa che lo turbava, qualcosa di fin troppo familiari negli occhi verdi dalle sfumature perlacee. «ma se non fosse una trappola, saremmo morti in ogni caso» sancì, riportando gli occhi nelle iridi cioccolato di Rea. «e pensi che, nel caso non fosse una trappola, avrebbero qualche speranza, tutti gli altri, di farcela senza i qui presenti?» rise appena, un soffice suono il suo, come velluto su membra stanche. «ne dubito, sinceramente» E v’era, comunque, la discreta possibilità che fossero ancora vivi. Non ci credeva, Gemes. Così stolti da farsi catturare, come sarebbero potuti sopravvivere per due, tre, addirittura quattro mesi? Ma c’era la loro famiglia, e checché se ne dicesse, solo un Hamilton poteva pensare di ferire un altro Hamilton: per gli altri, erano off limits; e chiunque avesse osato credere il contrario, ne avrebbe pagato le conseguenze.
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    Presso alcune culture, era ancora vivida la credenza secondo la quale una fotografia potesse immortalare non solo il soggetto posante, ma anche l’anima stessa di questo; intrappolarla in un eterno momento fisso nel tempo, in un sorriso appena accennato o nel continuo, nel caso di foto magiche, abbassare lo sguardo al suolo per poi rialzarlo quasi timidamente. Rea Hamilton aveva sempre trovato qualcosa di disturbante in quelle sottili pellicole, memore di un passato che non avrebbe mai cessato di essere attuale; le ricordavano una vita diversa, una vita possibile. Erano menzogne in formato 10x15, dove una smorfia poteva essere interpretata soggettivamente da chiunque vi avesse posato sopra le iridi, e dove ciascuno poteva fingere di essere qualcun altro. La mora avrebbe potuto mostrare quella foto a chicchessia, narrando vicende più o meno vere riguardo il ragazzo ritratto nella foto; e quel chicchessia, ad udire la voce graffiante di Rea, avrebbe scorto una sfumatura diversa negli occhi fiordaliso di Amos. Eppure, da qualche parte, doveva esistere una verità unica ed inconfutabile; e magari, invero, era proprio in quella foto. La verità era che Rea non conosceva affatto suo fratello; credeva di farlo, si convinceva di saperlo, ma ella non sapeva più di quanto egli volesse mostrare, o più di quanto a lei facesse comodo pensare. E più guardava quella stupida foto, la Hamilton, più ritornava a quel maledetto filmato, ed a quel briciolo di umanità: avrebbe potuto non saperlo mai. Per quello al «hai mai creduto non fosse una trappola?» di Gemes, Rea tornò a guardare il volto del fratello senza rispondere. Se l’aveva pensato? Diciamo che l’aveva creduto fermamente: aveva semplicemente dato per scontato che la ricerca di quei mesi fosse adita solamente a tenere a bada gli animi inquieti, senza alcuna effettiva speranza di ritrovarli. Perché avrebbero dovuto? Rea Hamilton, pur non rendendosene razionalmente conto, aveva creduto che fossero tutti morti. Da sempre. Che potessero essere ostaggi, non le era mai passato per l’anticamera del cervello – fino a quella sera, perlomeno. Al che, era ormai ovvio che si trattasse di una trappola. Ma per cosa? «ma se non fosse una trappola, saremmo morti in ogni caso» Corrugò le sopracciglia verso l’altro Hamilton, senza celare la propria distratta confusione. Perché avrebbero dovuto essere morti, loro? Erano spesso così simili da risultare fastidiosi, ma c’erano momenti in cui, anche per lei, Gemes Hamilton era un completo estraneo. A volte, in quegli occhi chiari tanto quanto i suoi erano scuri, vi leggeva un fine strato di psicopatia al quale neanche lei era ancora arrivata. Confortante, in realtà, sapere che in giro poteva esserci qualcuno messo peggio di Rea Hamilton. Non rispose semplicemente perché non aveva compreso a cosa Gemes si riferisse, ed aveva imparato che, in caso di dubbio, tacere e risparmiare fiato era sempre la soluzione più opportuna. «e pensi che, nel caso non fosse una trappola, avrebbero qualche speranza, tutti gli altri, di farcela senza i qui presenti?» ed eccola la conferma di quei dubbi che talvolta, delicati come ali di libellula ma altrettanto esigenti, la sfioravano insistenti: erano simili, i due Hamilton, in una maniera distorta che non avrebbero mai compreso neanche loro.
    Eppure, non del tutto.
    Non si unì alla risata, limitandosi invece ad un sorriso vacuo e assorto, lo sguardo fisso sulla bacheca di fronte a sè. «è proprio per questo che penso sia una trappola» decretò, scandendo lentamente ogni lettera. La sua mente stava seguendo percorsi astratti, camminando soffice sui dati raccolti fino a quel momento; cercavano uno snodo, ceravano un filo con il quale unire tutte le perle per completare la sbagliata e perversa collana, ma non lo trovavano. Si alzò in piedi, avvicinandosi fisicamente alla teca di sughero sul quale erano affisse le foto e gli articoli di giornali, nonché una cartina della Gran Bretagna. Prese la foto di una donna dallo sguardo ferino ed il sorriso malizioso, mostrandola da sopra la spalla a Gemes, al quale stava rivolgendo la schiena. «questa è la gemella di akelei» inizò, picchiettando con le unghie sulla foto di Morrigan. «quelli come noi» quelli come lei, come Gemes, come Shia, come Akelei. «non hanno mezze misure: loro» riferimento, chiaramente, ai rispettivi gemelli. «diventano come noi, o cessano d’esistere» prese un’altra foto, nuovamente la Jenkins prima citata. «conosci i jenkins? Ho avuto il…» si inumidì le labbra, un sorriso sghembo a curvarle. «piacere di incontrarne una, nel labirinto. non è gente con la quale scherzare» prese altre foto: Oscar, Tiffany, Eleanor, Calathea, Selenya; tornò verso il tavolo, dove lo posò ordinatamente sotto lo sguardo attento di Gemes. «giovani, ma studenti brillanti. Non sarebbero arrivati ai rispettivi anni scolastici, se non lo fossero» il telecineta non aveva mai frequentato Hogwarts, ma almeno per sentito dire doveva essersi fatto un’idea di come funzionasse la scuola magica. E continuò il suo elenco, Rea, staccando una foto dopo l’altra. «patrick howe, alexander lowell, aiden winston, belladonna baudelaire» sottolineò il cognome di ciascuno, ponendovi appositamente un accento quasi sarcastico. Erano famiglie importanti, Purosangue, conosciute in tutte il mondo magico; erano di quelle famiglie nelle quali eri obbligato a crescere con un innato pragmatismo, chi per motivi egoistici, e chi semplicemente per il sincero intento di essere in grado di proteggere il proprio sangue. «amos e raine potrebbero non voler fare del male a nessuno, per sé stessi. ma… non si tratta solo di loro stessi. non sono come noi, ma dubito non farebbero qualunque cosa per impedire alle persone cui tengono di farsi male. o per tornare a casa» lanciò un'occhiata a Cash, che inconsapevole giocava in un angolo del locale. Era quello a confonderla maggiormente: anche nell’ipotesi, comunque di rado vagliata, che tutti loro fossero stati ancora vivi, mai aveva pensato potessero essere insieme. Le persone erano strane, Rea l’aveva sempre saputo; a volte cessavano di combattere per loro stesse, ma per gli altri? Era questione di scegliersi una guerra, a quanto pareva. Qualcosa che la Hamilton mai sarebbe riuscita davvero a comprendere. Riuscivano a tirare fuori il peggio degli uomini, puntando sui loro amici – amanti, fratelli. Anche il più innocente degli esseri umani finiva per sporcarsi le mani di sangue. Scosse il capo prendendo le ultime tre foto, una risata amara e divertita a languire sulla punta della lingua, brillando di malizia negli occhi cioccolato. «jayson matthews» enfatizzò il nome in tono ironico, schioccando la lingua sul palato. «l’ho visto combattere, gemes» sempre quel tono di voce piatto, come se non fosse realmente interessata all’argomento della conversazione – o come se, al contrario, lo fosse troppo. Non aggiunse altro, lanciando le ultime due foto sul tavolo. «heidrun crane, aloysius crane» ed allora alzò gli occhi al cielo, congiungendo le mani fra loro con un sorriso sardonico. «sono addestrati per affrontare situazioni del genere, ed ho visto combattere anche loro – nel labirinto, al lavoro. ma soprattutto, dio solo sa quanto io abbia provato a cancellarli da quest’esistenza» puntò l’indice su Al, lanciando un’occhiata allusiva a Gemes. «fidati, è impossibile» le sopracciglia scattarono verso l’alto, mentre la Hamilton dava nuovamente le spalle all’uomo per avvicinarsi ad una bacheca ormai vuota – di foto, di senso, di completezza d’esistere. «quindi, sì» ammise, abbassando di un tono la voce. Non si trattava più di fingere, ma di affrontare oggettivamente la realtà. Doveva nascondersi da tante persone, Rea, ma non vedeva motivo di farlo anche da Gemes. «credo che non solo abbiano speranza, ma concrete possibilità di uscirne anche senza di noi. idealmente» con le braccia incrociate, guardò il telecineta da sopra la spalla. Quel discorso portava ad un'unica domanda, assillante e fastidiosa: perché non l’avevano fatto? Strinse le labbra fra i denti, lasciando che l’amarezza di quel pensiero si infiltrasse come miele nella sua voce, dolce e soffocante. Le premeva da un po’ quell’idea, a cui era incapace – a cui non voleva- dare voce. Non si volse nel completare il discorso, facendo rimbalzare le parole dalla parete di fronte a lei, all’Hamilton alle proprie spalle. «è più semplice credere che siano loro ad avere bisogno di noi» e quanto le costarono quelle parole, sgusciate bollenti dalle labbra dischiuse. E quanto costava, a Rea Hamilton, quell’insulsa e sottile consapevolezza. «ma non lo rende vero. qua possiamo ammetterlo» disse, più a sé stessa che al suo interlocutore, mentre con l’indice seguiva una delle tante linee tracciate sulla cartina; l’implicito di quell’affermazione la sapevano entrambi: fuori dal Ragno Scarlatto, fuori da quei tavolini rossi, fuori da loro due, nessun altro avrebbe capito. «li odio» vibrò in un sussurro sinceramente ostile, con quella rabbia che da sempre aveva guidato ogni suo gesto, pensiero, ogni relazione. Tutto, per Rea Hamilton, era rancore o odio; l’avevano cresciuta così. «perché devono rendere tutto così difficile?» lamentò in tono distratto, inclinando lievemente il capo. E se stesse parlando con i dispersi, o con quelle scostanti ed intollerabili emozioni, non vi è dato saperlo.

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    gemes hamilton
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    Gemes Hamilton si era sempre bastato: ancora troppo giovane per poter pensare di comprendere come funzionassero le cose in quel mondo malato, egli s’era impuntato di farlo di sua iniziativa, senza chiedere a chicchessia un ausilio di alcun genere. Era solo, ed altri avrebbero potuto vedere della tristezza in un così semplice dato di fatto, taciuto dietro una morbida piega delle labbra, sempre maliziosa ed indecifrabile; se anche così fosse stato, in verità, il telecineta non ci aveva mai fatto caso. Il suo ego, nonché la sua unica presenza intorno a sé stesso, era sempre stato tutto ciò di cui avesse mai avuto la necessità: da solo, era sopravvissuto in una camera vuota di parole, di persone, di pensieri, laddove un abominio compiva gli anni in solitaria ed osservava il sole sorgere e tramontare oltre gli opachi vetri di una finestra; da solo, si era liberato di tale schiavitù, e da solo si era adattato ad uno stile di vita differente, a persone differenti, così aliene dal suo essere da non poterlo aiutare come ne avrebbe avuto bisogno; da solo, si era destreggiato in una realtà dalla quale i purosangue di Presteigne erano distanti anni luce, da solo si era fatto un nome. Da solo, Gemes, avrebbe costruito il suo impero; e v’era stata un’unica persona che gli aveva fatto notare quanto, invero, solo non fosse affatto. Rea Hamilton, soltanto, in ventisei anni di vita, gli aveva permesso di credere che vi fosse qualcuno di terribilmente simile a lui: in un modo sbagliato, ed altresì peculiarmente inspiegabile, ma così perfetto da spaventare e, tuttavia, affascinare chiunque avesse l’ardire di osservarli. E doveva ammettere che la confusione nello sguardo della mora lo infastidì, in una maniera quasi infantile; specialmente a lei, avrebbe preferito dover evitare di spiegare il complesso lavoro della sua mente, e pertanto lo fece. Tra i vari appunti, foto e pezzi di giornale ritagliati con precisione chirurgica, trovò quasi istantaneamente l’oggetto della sua ricerca. Il bollettino del nove settembre era forse quello che più lo turbava, e non per i nomi su di esso, o per i volti dei giovani che con occhi dalle tinte calde li osservavano da esso: il messaggio finale era ciò che più gli dava noia. Poteva essere un bluff quanto una fondata verità, un inganno quanto una sincera minaccia; se non si fosse effettivamente trattato di una trappola, c’era la possibilità che quello non fosse un raggiro, quanto più l’unica possibilità di sventare una possibile catastrofe. Un ragionamento contorto, egli non osava metterlo in dubbio, conscio di quante probabilità fossero da vagliare in una situazione del genere, ma da una mente contorta cos’altro ci si poteva aspettare?
    E aveva pensato, comunque, che la suddetta logica non avesse alcun senso: non avrebbero mandato un video, un orario, se non volevano semplicemente attirarli in quella foresta, usando quelle esche come dolce e velenoso miele per api golose, ingenue. «è proprio per questo che penso sia una trappola» L’Hamilton annuì distrattamente, congiungendo le mani davanti al volto mentre, assorto, osservava e seguiva i movimenti e le parole della ragazza. Dei nomi, delle facce che ella elencava, Gemes ne conosceva pochi direttamente, alcuni per semplice sentito dire; e non v’era filo rosso che intersecasse le loro mere esistenze, che in un quadro generale e più ampio li unisse. Presi a coppie, magari, o a piccoli gruppi, c’era chi era effettivamente collegato: Jayson, Raine ed Amos, per quanto malata, sbagliata ed eterogenea che fosse, erano una famiglia –la sua, per inciso-; Heidrun ed Aloysius condividevano lo stesso, alcolico, sangue nelle vene; altri ancora era deducibile fossero parenti, come i giovani Fraser, e molti erano di alto lignaggio. Eppure, tutte le discrepanze che ancora persistevano nella grande ragnatela tessuta da un aracnide schizoide non davano alcun tratto comune. L’unica cosa, completamente futile ai fini della trama, che li legava era il passaggio della magia nella loro vita: chi l’aveva per diritto di nascita, chi l’aveva conosciuta nei Laboratori e chi, nel medesimo luogo, l’aveva persa. Non era un vero punto di partenza, né indicava un’esatta strada da seguire. “Questi sono tutti babbani”, era la sola, concreta, pista da seguire.
    Compiaciuto e sornione, sollevò un angolo della bocca quando la Hamilton lodò sottilmente il Matthews per la battaglia che aveva combattuto nel Labirinto, e se possibile ancora più sarcastico le sopracciglia si alzarono ad un cielo silente quando parlò dell’improbabilità di far fuori un Crane «per quello, ancora mi permetto di mantenere la speranza» scherzò –ma nemmeno troppo-, portando il bicchiere di whisky ad inumidire le labbra. E per quanto l’indole stessa del telecineta lo spingesse ad ironizzare, con velata malizia e mellifluo carisma, su argomenti del genere, non poteva che dar ragione a Rea. «credo che non solo abbiano speranza, ma concrete possibilità di uscirne anche senza di noi. idealmente» Si alzò, aggirando il tavolo sul quale erano disposte le diverse istantanee, e poggiandosi contro lo spigolo dello stesso, le braccia conserte. «idealmente» sottolineò, pacato, le iridi chiare fisse sulla vuota bacheca, come a voler estrapolare qualcosa dai minuti fori che le puntine avevano lasciato sulla parete di sughero, consapevole che da questa non ne avrebbe cavato nulla. «in pratica, li avranno neutralizzati. Sarebbero già fuori se avessero potuto farlo» Dallo stesso Labirinto citato dalla mora, dopotutto, non avevano potuto farlo. Lo stesso magonò, la stessa wizard, erano stati rinchiusi in una stanza circolare, privi di poteri, o di un modo effettivo per uscirne senza che qualcuno li tirasse fuori. Non era realmente plausibile, secondo lui, l’intervento dei Plagiatori, quanto l’idea di base della stanza scura; erano persone pericolose, vero, potenzialmente psicopatiche e megalomani, anche più dell’Hamilton, ma avevano tenuto tutto nascosto, occultato anche le prove più evidenti di quei cinque giorni. Tuttavia, diversi laboratori erano stati saccheggiati, ed era possibile che qualche documento, alla fine, fosse stato trafugato, dando qualche vantaggio ai babbani. Eppure, mancavano troppi tasselli, in quella vicenda.
    «è più semplice credere che siano loro ad avere bisogno di noi» Staccandosi dal bancone, si avvicinò alla ragazza. «hanno sempre bisogno di noi, Rea» sussurrò, amabile e rassegnato da quella semplice verità, mentre un sorriso vuoto si andava a dipingere sul volto di lui. E vago, diede ascolto alla domanda di lei, voltandosi appena a guardare il suo profilo. «l’hanno sempre fatto» disse approssimativo, mentre andava più vicino alla bacheca, girando poi il torso così da avere la Hamilton davanti ai propri occhi. «è una trappola, e su questo siamo d’accordo» d’altronde, mai aveva cercato in alcun modo di negarlo. «ma che lo sia o meno, se davvero hanno una tecnologia del genere, rischiamo tutti» spiegò, con semplice pragmatismo, senza staccare gli occhi azzurri da quelli cioccolato di Rea.
    «la situazione non è sotto controllo» Non è sotto il mio controllo, avrebbe voluto aggiungere, pur sapendo bene quanto fosse superfluo specificarlo, mentre muoveva pochi passi per farsi più vicino a Rea. «e sai quanto mal tolleri questa cosa» concluse, alzando le sopracciglia allusivo, come a voler giustificare con quelle semplici parole il perché sarebbero andati, benché fosse fin troppo avventato perfino per loro. Solitamente, sapeva riconoscere una battaglia persa dal principio, e lasciava che altri prendessero il suo posto, osservandoli da lontano come se la cosa non lo tangesse minimamente; anche quella, in fin dei conti, sembrava essere tale, ma –ed era così difficile ammetterlo che neanche a sé stesso sarebbe stato capace di farlo- lo coinvolgeva personalmente come poche avevano saputo fare, bruciando un fuoco gelido nel petto. Quei rapimenti, quella missione, riguardava tutti, e non avrebbe lasciato, Gemes Hamilton, che altri si prendessero la responsabilità quando c’era di mezzo la sua stessa persona, la propria famiglia.
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    Pensava che avrebbe affibbiato tanti soprannomi, tanti aggettivi a Gemes Hamilton, se avessero continuato a condividere la stessa casa ed il medesimo spazio lavorativo; epiteti più o meno piacevoli, ma tutti senz’ombra di dubbio sinceri – e, soprattutto, educati: mai azzardare che un Hamilton avesse modo rozzo d’interloquire. Niente di personale, chiariamoci; niente che non avesse sentito attribuire a sé stessa, o che non ammettesse di condividere con lui. Ma mai, da che lo conosceva, avrebbe immaginato che un giorno l’avrebbe definito ingenuo. Lo osservò a lungo, la mano a coppa su una guancia e le palpebre assottigliate. Cercava di capire, la mora, quanto l’Hamilton stesse mentendo a lei, quanto a Gemes stesso, e quanto invero fosse sinceramente convinto di quel che diceva. Sperava stesse mentendo a sé stesso, perché l’idea che potesse, dopo tutto quello che avevano condiviso – dopo tutto ciò che erano- pensare di indossare la solita, annoiata, e melensa maschera anche con lei, era oltraggioso. E sperava non lo pensasse sul serio, per lui e per tutti loro.
    Rea Hamilton amava amarsi, ed amava che gli altri sapessero quanto adorasse la propria, perfetta, compagnia. Non l’aveva mai nascosto, il proprio giustificato e delizioso egocentrismo: non dietro il sorriso appena accennato, non nelle risposte lasciate appositamente vaghe. Quella non era un illusione: si piaceva abbastanza da sapere quanto improbabile fosse trovare qualcuno che non gioisse della sua persona. Non era ingenuità, o l’esser frivola di una donna vanesia.
    Era la realtà dei fatti.
    Ma in ogni sfumatura di quel carattere pretenzioso, fatto d’ambra e note scure, v’era un riflesso perlaceo. Un eccezione a tante, a troppe regole, plasmato dalle mani impacciate di una bambina dall’abito giallo e la risata contagiosa. C’era una parte, seppur piccola, che aveva mantenuto una certa… integrità morale. Una parvenza di insicurezza, direbbe qualcuno. Non Rea. Rea aveva solo certezze – le sue, e poco importava fossero diverse dalla percezione che ne aveva il mondo. Così, all’appena sussurrato «hanno sempre bisogno di noi, Rea» non potè che sorridere, ruotando gli occhi nella sua direzione. Rea ci aveva creduto a lungo; ogni giorno, svegliandosi, si convinceva della verità assoluta di quell’affermazione. Se n’era convinta scegliendo per Charlotte, se n’era convinta invitando Amos sotto il proprio tetto: hanno bisogno di me, s’era sempre detta; ovviamente, aveva completato sbuffando ogni qual volta emergesse l’argomento, come se un’alternativa diversa fosse non solo impossibile, ma anche inappropriata. Loro dovevano aver bisogno di lei, per il semplice fatto che si trattava di Rea Hamilton.
    Ma lì, fra quelle quattro sgualcite mura, poteva ammetterlo: non importava quanto loro avessero o meno bisogno di lei, sarebbe sempre stata lei quella in debito. Perché quelli come lei avevano necessità di quelli come loro. Tutto ciò che aveva fatto in passato, tutto ciò che continuava a fare ogni giorno, era fatto per o a causa loro. Rea Hamilton era stata creata per o a causa loro.
    Questo rendeva una concezione del tutto nuova di bisogno; erano il suo ago, dopotutto. Posò una mano sulla spalla di Gemes, picchiettando affettuosamente. «goditi le amnesie» non c’era altra spiegazione; il fatto che Raine, Jay e Charmion si fossero dimenticati della sua esistenza, doveva aver cancellato dai loro occhi l’accusa, l’errore, tutto ciò che lei doveva affrontare quotidianamente con Amos.
    Aveva dovuto, si ricordò, tornando sulla foto.
    Forse era lei che aveva la famiglia sbagliata – i fratelli, sbagliati.
    Ma torniamo alla pre quest, che Sara sta ibernando.
    Schioccò la lingua, portandosi i pugni ai fianchi. «non so. Mi sembra troppo surreale: fughe di notizie ingiustificate, innanzitutto. Non mi spiego, inoltre, come abbiano riconosciuto fra i molteplici babbani, persone dotate di potenziale magico. Una bomba, poi» Inarcò entrambe le sopracciglia, guardandosi distrattamente le unghie. «se esistesse un’arma del genere, non vedo perché i maghi dovrebbero collaborare - e se i maghi non avessero collaborato, non saremmo qui a parlarne» strinse le labbra fra loro, facendo scattare verso l’alto il sopracciglio sinistro. «comunque, come si suol dire: <i> rien ne va plus, les jeux sont faits» si strinse nelle spalle, accettando ormai l’inevitabilità della situazione. La irritava non capire, ma la irritava ancor di più non capire sapendo che chicchessia teneva il sangue del suo sangue come ostaggio.
    Vergognoso.
    Solamente lei poteva mettere Amos in un angolo. «non m’importa davvero del motivo» si infilò la giacca, passando le mani sotto i capelli scuri rimasti all’interno di questa. Li fece ricadere sulla schiena, scrollando il capo per sistemarli più comodamente. «andrò comunque a riprendermi ciò che è mio, o a vendicarmi per ciò che mi hanno tolto» com’era semplice la vita, vista da quella prospettiva. In effetti, in tutto quel discorso, era ciò che mai era cambiato: da quando la foto di Amos era apparsa su quel giornale, era il suo unico obiettivo; per quanto la conversazione avesse potuto apparire superficiale, o vertere sulla ricerca di un appiglio per non andare, non era mai stato quello ciò cui Rea aveva puntato. Voleva solo sapere cosa ne pensasse Gemes, senza l’influenza di menti esterne – o della sua, di per sé così attraente da far cambiare traiettoria a quelle altrui. «mi annoio sempre prima delle missioni» si giustificò, invitando con un cenno Cash ad alzarsi, un sorriso ermetico ad illuminarle gli occhi scuri. sara ha davvero freddo, pidi. Davvero tanto freddo. I suoi pensieri si sono cristallizzati, capisci. Non sa cosa sta scrivendo. Non sa cos’ha scritto. Ma ti vuole bene, davvero, dalla punta ibernata dei suoi piedi (sempre che ci sia ancora, una punta) ai suoi capelli (congelati anche loro). «mini umano, mettiti la sciarpa» ordinò al bambino, chinandosi per sorridergli. Sapevano entrambi che se ci avesse provato lei, uno dei due non sarebbe sopravvissuto. Guardò l’ora rendendosi conto che erano già in ritardo, quasi scontato, quindi lanciò un’occhiata cinica al figlioletto di Amos. Mini umano ed il suo caschetto biondo, di fatti, aveva ritenuto opportuno protendere le grassocce braccine da bambino verso di lei. Inclinò il capo, volgendo un mugolio felice al bambino. «aw, illuso quanto tuo padre» una patpattata affettuosa sulla testa dopo, figurarsi se l’avrebbe preso in braccio!, Rea si volse verso Gemes. «lo porto…» dove? Lo scopriremo in quest, perché Sara ha davvero freddo. La sua quest è già cominciata. «al sicuro» e se lo sarebbero fatto bastare, tutti e tre (sara, pidi, e gemes). «ci vediamo là»
    Là dove?
    Dove là?
    Cosa provi?
    Freddo.

    Ciao Pidi, ciao Gemes, ci becchiamo cervi in Primavera.


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