are you real-ly that dumb or just naturally blonde?

post-quest#05, aladino

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +3    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline

    Rea Hamilton
    « Every wound will shape me Every scar will build my throne »
    illusion - 24 y.o.- ex-slytherin - hunter - teamhamilton
    Una parola, due sillabe, sei lettere. Sempre le stesse. Una diversa inflessione nel tono, un inconsueto sussurro, differenti labbra a darne voce, ma non cambiava mai: grazie. Scivolava sulla lingua quasi senza volerlo, fuoriusciva da una bocca socchiusa prima ancora che vi fosse il reale intento di dirlo. Sfuggiva dal controllo, naturale come l’alzare una mano ad allontanare i capelli dalla fronte. Sfuggiva dal controllo, e non poteva che far sorridere Rea Hamilton. Rimase lì, in quel sorriso sbieco mentre Sam seguiva le sue direttive, la risposta. Rimase lì, provocazione e condanna, riassumendo l’intera storia della mora nella sola increspatura delle labbra. Non ringraziarmi. L’aveva ripetuto più di una volta, che non c’era motivo per cui dovesse essere ringraziata. In moti di improvvisa sincerità, nascondeva dietro falsa modestia una vena tagliente che, alla fin fine, era più Hamilton di quanto ella stessa volesse ammettere. Mentiva, ingannava, illudeva; eppure, nella sua versione della realtà, era una delle persone più sincere che avreste mai potuto desiderare al vostro fianco. Sapeva cosa, e come, dirlo. Sapeva quand’era il momento di far scivolare la maschera per adottarne una più sottile, appena l’accenno di un disegno, attorno agli occhi scuri.
    Ed era quello il suo addio, la sua vincita. Riusciva a passare dalla parte del Giusto, anche quando il giusto non si era mai domandata cosa fosse. Eroe, cattivo, a chi importava quando poteva, Rea, rivolgerti anche solo un filo, sottile ma resistente, a cui aggrapparti per poter credere che ci fosse dell’altro? Volevi l’eroe? Poteva esserlo. Il cattivo? Poteva esserlo. Ne valeva sempre la pena, crederci un po’ di più. Ne valeva la pena, finchè non cominciavi a renderti conto che nulla c’era, e mai ci sarebbe stato; ne valeva la pena finchè non cominciava ad essere un male fisico, ma era troppo tardi per tornare indietro.
    Ed era quello il suo addio, la sua vincita. Un salto ad occhi chiusi, un gioco d’azzardo. Rischiare, fino a quando ci fosse stato qualcosa da poter mettere in palio. Lavoro, poteri. Vita. Affidarsi ad un’intuizione giocandosi il tutto per tutto, per il solo fatto che si trattava di Rea Hamilton. Dio, per liberarsi di lei ci sarebbe voluto molto più impegno che non un Labirinto.
    Ma si sapeva, che Rea Hamilton mentiva. Ed aveva finito anche lei per credere alle proprie menzogne, tanto da non trovare più necessario domandarsi cosa lo fosse e cosa no. A chi importava, d’altronde? Un brivido, mentre le mani fredde della Jenkins scivolavano sul suo collo. Un brivido, mentre la Hamilton alzava gli occhi un’ultima volta verso il soffitto di quell’arena, conscia del fatto che la stessero guardando. Se lo aspettavano? L’avevano spinta loro a fare quella scelta? Potevano credere di sì, se così aggradava alla loro persona. Potevano avere fede in quella condizione, anzi, dovevano. Sarebbe stato ancora più piacevole strappargliela via a forza, scavando con le unghie fintanto che di quelle certezze non fosse rimasto nulla. Sottolineò, in quello sguardo, ciò a cui aveva dato voce una manciata di secondi prima: Ho una sorpresa per voi: non siete gli unici a cui piace giocare.
    Non era la fine della partita, era solo l’inizio di un nuovo capitolo. Oh, a Rea piaceva così tanto giocare! Si domandò chi avrebbe dovuto diventare: l’eroe? Il cattivo? Chi avrebbe dovuto essere, Rea Hamilton, per raggiungere il suo scopo? Non chi era, non poniamoci altre domande sciocche; chi avrebbe dovuto mostrare d’essere. E così, dal nulla, si ricordò del concetto di yin e yang: oscurità e luce, luna e sole, notte e giorno, freddo e caldo, acqua e fuoco. Due opposti che non solo si completavano, ma che contenevano al loro interno una parte del loro corrispondente. Non esisteva l’uno senza l’altro, e non c’era, secondo la filosofia cinese, una completa oscurità senza almeno un barlume di luce. Di fatto, Rea era per forza di cose sia l’eroe che il cattivo. Illusioni e realtà. Il fatto che la sua realtà fosse un illusione e le sue illusioni realtà, non facevano che rendere la Hamilton un paradosso vivente: sarebbe stato così bello, semplicemente, crederle. Credere che tutto fosse, senza domandarsi cosa sincero e cosa no. Sarebbe stato così bello poter dividere nettamente il mondo, in ogni sua angolatura, fra vero e falso.
    Ed è così Si rese conto, poco prima di chiudere gli occhi. Acqua e fuoco, ma in un circolo continuo. Avevano voluto provare ad usarla come pedina, proprio lei? Sarebbe stata fuoco, e li avrebbe bruciati; con l’acqua avrebbe lenito le ferite, rinfrescando la pelle ustionata; con il fuoco, avrebbe ricominciato.
    Quella versione dei fatti le piaceva proprio tanto.
    Ed era quello il suo addio, la sua vincita. Che il sipario cali, il primo atto finisca. Vi ho lasciato divertire, ma ora tocca a me.
    Game. On
    .

    Il primo respiro, è sempre quello più doloroso. Come se per tutto quel tempo, non ben definito per altro, fosse rimasta in apnea. I polmoni si riempirono con troppa foga, intossicandola con quell’aria a cui pareva non essere più abituata, ed a schiena incurvata Rea cominciò a tossire, rotolando quindi su un fianco. Rimase china a terra qualche secondo, la fronte a sfiorare il pavimento ed i capelli a scivolarle disordinatamente sul viso. Qualche secondo immobile, cercando di reimparare a respirare e, nel mentre, capire dove si trovasse. Sentiva di non essere sola, era ben diverso dalla sensazione provata quando si era risvegliata nella stanza circolare. Lo sentiva, eppure la cosa non la rincuorava particolarmente. Si alzò a sedere massaggiandosi le spalle, e guardò finalmente l’ennesimo luogo dimentico e dimenticato da Dio in tutta la sua interezza. Divise, quella che ancora indossava anche lei. I Soggetti.
    Tutti.
    Era ancora viva. Sorrise al buio, mentre gli occhi scuri guizzavano da una figura all’altra con facilità, beandosi della capacità di vedere bene al buio quanto in pieno pomeriggio. Si alzò in piedi, scivolando silenziosamente fra i corpi addormentati ai suoi piedi. Di quando in quando abbassava lo sguardo, giusto il tempo di riconoscere in quei volti le persone con cui aveva condiviso quella disavventura. La rossa che li aveva lasciati il primo giorno. Come quel primo giorno, quasi il tempo avesse cessato di esistere, si chinò su di lei cercando il battito. Viva. Non che le importasse particolarmente. Altro passo, altra creatura incontrata sul suo cammino: Jayson. Rimase qualche istante di più a guardarlo, facendo scivolare gli occhi su quel ragazzino che tanto le era parso familiare pur non essendolo affatto. Sfregò i polpastrelli fra loro, creando l’illusione di un foglio sul quale aveva lasciato scritto l’indirizzo di casa Hamilton, quindi lo lasciò all’interno del pugno chiuso rivolgendogli un vago sorriso che avrebbe potuto dire tutto e niente al tempo stesso. Elsa Queen. Strinse il biglietto che aveva trovato al suo risveglio riguardo una certa bottiglia di Whisky, ed alzò gli occhi ad un cielo che aveva smesso di ascoltare le sue preghiere quand’era troppo piccola per averne memoria. Non imparavano mai, e dire che lei ci aveva provato. Il non gemesllo, beato nel suo sonno come la migliore delle principesse, causò in Rea un sospiro esasperato da sorella maggiore che in realtà non era. Fortuna che lei era abbastanza sveglia per mantenerli in vita entrambi. Come diavolo aveva fatto a sopravvivere quasi venticinque anni senza Rea Hamilton? Sam Jenkins, che con il braccio allungato di fianco a sé sembrava voler cercare, anche in quel frangente, la sorella Ignis. La prima cosa che le aveva detto, trattandola da decerebrata, era stata: «Sam, la sai usare questa?» e solo quattro giorni dopo le aveva affidato al responsabilità più grande, ossia porre fine a quell’insulso Labirinto.« Sii delicata. Sono fragile» E quel grazie che ancora vibrava sulla pelle, sincero quanto Rea mai sarebbe stata. Non lo meritava quel ringraziamento, non per un grande insegnamento di vita e non per averle lasciato la possibilità di incontrare Ignis. Ma doveva saperlo anche lei, era stata solo una svista. Lo era sempre. Sfiorò piano la sua fronte, viva anche lei, cercando l’uscita da quella specie di magazzino. Buon Dio, dove li avevano mollati? Li avevano presi per cani randagi? Digrignò i denti e strinse impercettibilmente i pugni, continuando a scavalcare i sopravvissuti. Aw ma guarda, Bel Faccino! C’erano proprio tutti, il che era rincuorante ed al contempo così poco interessante da farla quasi sentire colpevole. Perché aveva visto che Yvonne non c’era, da nessuna parte. Aveva pensato fosse necessario, la sua vita o la loro, ma a quanto pareva non doveva per forza andare così. Non le piaceva quando faceva il lavoro sporco per qualcun altro senza ricevere nulla in cambio. Non erano sensi di colpa però, era… vuoto. Sempre e solo quello, vuoto. Si chinò su Chris inclinando il capo, cercando l’ennesimo battito più per conferma che per sincera preoccupazione –le sembravano tutti parecchio vivi, d’altronde. Chissà cos’era successo mentre non c’era, chissà se il gioco era finito ora che le pedine erano fuori combattimento. Li avrebbe trovati ed avrebbe risposto ad ogni, dannato, interrogativo. A qualunque costo. Con la coda dell’occhio colse poco lontano Al, o quello che credeva tale considerando che stava bellamente tentando un intimo approccio con il pavimento dello stanzone. Si avvicinò di soppiatto, socchiudendo le palpebre. C’era qualcosa di diverso, che non aveva mai notato. Avvicinò il viso alla nuca dell’uomo, sfiorando con i polpastrelli la cicatrice rosea, sentendola ancora calda. Un altro interrogativo. Si morse l’interno del labbro, avvicinandosi infine all’enorme parete costellata da… foto. Un altro enigma da risolvere? Il suo sguardo venne subito attirato dalla sua persona, per ovvi motivi, e meccanicamente allungò il braccio strappando la foto dalla parete. Era lei, senza dubbio, eppure … non lo era, né poteva esserlo. Non solo non ne aveva memoria, ma c’era proprio qualcosa di costruito nella posa di Hamilton II. L’abito che indossava però non era niente male. Un sorriso sghembo, mentre passava le dita sul proprio volto. Rigirò l’immagine: diciassette Settembre. Strinse le labbra fra loro, annuendo piano fra sé. Ma certo. Era un lavoro quasi ammirabile. Riguardò la foto, notando che non era la sola ad aver partecipato alla… Settimana della Moda? Come se non avesse niente di meglio da fare. Che poi, datele un buon motivo per andare fino a Milano in compagnia di Elsa, Sam, Ashley e Christian. Uno solo, eh. Rivolse un’occhiata alle sue spalle ai soggetti della fotografia, infilando quest’ultima all’interno della divisa. Doveva sapere, e per sapere doveva vedere e conoscere. La disposizione delle foto aveva qualcosa di… Si allontanò di un passo, ben attenta a non calpestare nessuno per il semplice fatto che non voleva qualcuno sveglio fra i piedi. sapete mantenere un segreto?
    «Dipende da quanto mi pagate» Sussurrò con voce roca, muovendo appena le labbra incurvate in un sorriso malvagio. Non cattivo, malvagio. Rea Hamilton respirava segreti, aveva fatto di loro la sua fortezza e la sua arma. Ma loro, i Plagiatori, lo sapevano mantenere un segreto? Perché lei ne aveva uno per loro: non ci sono fili, ma quelli che stringerò attorno alla vostra gola sembreranno piuttosto reali.
    L’uscita.
    Senza più guardarsi indietro, Rea uscì da quel maledetto magazzino. Aprì la porta lentamente, ed altrettanto piano ne uscì, senza fare alcun rumore. Come un fantasma la Hamilton si aggirava in una città che non le apparteneva, ed allo stesso tempo era il suo regno. Come un fantasma, invisibile lasciava la propria orma su ogni cosa, fosse un brivido, dita fredde su pelle troppa calda, o sussurri proveniente da qualunque luogo e da nessuno. Un magazzino non dissimile a quello che aveva appena lasciato svettava di fronte ai suoi occhi. Si affacciò giusto il tempo di riconoscere, negli altrettanto corpi addormentati, i Soggetti dell’altra prova. Però, erano davvero organizzati. Fece schioccare la lingua, tornando sulla strada principale cercando di capire come tornare a casa. Stava giusto per svegliare qualche mago per obbligarlo alla smaterializzazione, o aspettare un qualche potere utile che la riportasse a casa Hamilton sana e salva, quando alzò gli occhi su una Luna troppo grande. Da quanto non la vedeva, quella Luna? E si accorse che non poteva fingere che non fosse successo nulla, cominciando le ricerche il giorno dopo. Doveva sondare il territorio finchè la storia era ancora calda.
    Calda come una cicatrice.
    Si fuse con l’oscurità, in modo da essere invisibile a chiunque, ed attese. Nel mentre si faceva una lista di tutto ciò che avrebbe dovuto fare una volta tornata a casa: un bagno vero, un frozen yogurt, un bagno vero, un frozen yogurt, dormire nel suo letto, un bagno vero… ah, sì, cercare informazioni dai suoi contatti riguardo quella nuova entrata in gioco. Qualcuno doveva pur sapere qualcosa, nessuno era così bravo a mantenere un segreto –non se si adoperava a lavorare su così gran scala. Non sapeva quanto tempo fosse passato da quando si era svegliata, ma anche gli altri cominciarono ad aggirarsi da quelle parti. Sempre invisibile e sempre silenziosa li osservò muoversi nell’ombra, sfuggevoli. Vide le loro emozioni, sentì le loro parole, e cercò di capire. Avevano perso qualcuno? Si erano ritrovati? Ma soprattutto, sapevano qualcosa che lei ignorava? Infine eccolo, bello come… No, okay, non particolarmente bello né particolarmente interessante, ma Aloysius Crane era comunque appena uscito dal padiglione. Era ora. Attese che si allontanasse di qualche passo dal resto della popolazione, valutando nel mentre le due alternative che le si ponevano davanti. In primo luogo, poteva mostrarsi gentile, interessata alla sua esistenza; poteva cercare di affascinarlo come aveva sempre affascinato chiunque nella sua vita, facendogli credere che, in fondo, fosse a suo modo una brava persona. Oppure poteva puntare sull’ironia, avvicinandosi cautamente al nocciolo della questione. In punta di piedi. Mh... nah.
    Scelse l’opzione Hamilton.
    Schioccò le dita, creando un sosia di Al proprio davanti ai suoi occhi di modo che gli intralciasse il cammino, impedendogli di continuare ad andare avanti. Enfatizzò quindi nel clone la cicatrice sulla nuca, di modo che fosse ben visibile anche ad un biondo come lui, infine premette l’indice contro la parte incriminata sul Crane reale. Beta. «Aladino, non ti si può lasciar da solo neanche cinque minuti» Bisbigliò seccata, l’accenno di un sorriso made in china sulla bocca carnosa. Lasciò scivolare l’illusione che la nascondeva, rendendosi visibile in tutta la sua bellezza. Come potesse essere sempre impeccabile, non lo sapeva nessuno.
    Diciamo che era un segreto.
    Diciamo che era un illusione.
    20.09
    such a good question

    ROLE CODE © EFFE


    Edited by #epicWin - 31/10/2015, 00:28
     
    .
  2.     +4    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Professor
    Posts
    3,655
    Spolliciometro
    +1,903

    Status
    Offline

    aloysius angus crane
    if only i could go back when i was me
    DEATH EATER - 26 Y.O. - MUGGLE - LIGHT MANIPULATION - ALCOOL ADDICTED
    Lasciò scorrere lo sguardo su ogni angolo di quel luogo, su ciascun profilo illuminato dalla tenue luce notturna, mentre indietreggiando sentiva ancora l’acre sapore del sangue sul palato, sulla lingua, sulle labbra, lo sentiva colare sul mento. Ma non c’era, non c’era sangue, non c’era segno di lotta. Non c’era nulla, sembrava che tutto quello accaduto in quel Labirinto, di punto in bianco, fosse svanito nel nulla.
    Ma lo sentiva ancora lì, in quella specie di magazzino, mentre le spalle si scontravano contro il perimetro della struttura. Lo percepiva allo stesso modo con cui vedeva gli occhi del cugino che si avvicinavano, e non erano gli stessi occhi azzurri di sempre. Li aveva visti, leggermente alterati, in altre situazioni, ma mai così... Non c’era il Palmer, dietro quelle iridi chiare, come se quel pugno, quell’attacco, non fosse stato pilotato ma, invece, fosse stato volontario per quanto sembrava essere deciso. Per quanto sembrava essere infuriato. Aveva sbagliato ancora, Al, come suo solito, ma in un modo che non riusciva a comprendere. Di certo, il proiettile non era stato un aiuto, però era qualcosa di più profondo, molto più profondo. Lo poté leggere in quegli stessi occhi che c’era qualcosa che non andava. Vedere il disprezzo, la delusione stampati sul volto del ragazzo gli tolse la voglia di continuare ad indagare su cosa fosse andato storto tra di loro, perché pochi minuti prima sembrava che fosse tutto al proprio posto. Chiuse gli occhi, in quell’Arena, non ci provò nemmeno a schivare il colpo in arrivo, in vero lo aspettava ormai con innaturale trepidazione. Non era riuscito a deviare il colpo della pistola contro il proprio di petto, come per un attimo aveva pensato di fare, ad evitare che lo sparo si dirigesse verso Chris, non era riuscito a fare l’unica cosa che avrebbe dovuto fare, ma di certo non si sarebbe difeso da una scarica di pugni del cugino. Perché ogni singolo pugno, ogni singolo momento di odio da parte sua, generato da chissà quale movente, se lo meritava. Forse l’unica cosa che Aloysius Crane veramente meritava. E non oppose resistenza quando sentì le nocche contro la mascella, quando sentì il grumo di sangue in bocca scivolare lentamente sulle labbra. Non si scompose, restò lì, ad occhi chiusi, ad aspettarne un altro, e un altro ancora. Ma non arrivò nulla, non sentì nulla. Se non il respiro irregolare del cugino così vicino, ed oltre quello, il silenzio. Riaprì gli occhi giusto in tempo per incrociare quelli azzurri prima che fossero questi a celarsi dietro le palpebre, a nascondere quell’ultimo barlume di... cos’era? Rancore, forse, non riusciva a capirlo bene, ma non era importante, non per lui e non in quel momento. Vide il corpo di Chris cedere davanti ai propri occhi, come era successo a molti altri prima di lui, ma prima che potesse collidere con il suolo Al piegò le gambe e gli cinse le spalle ad un palmo dal terreno. «Chris, dai, svegliati» sussurrò, ma di certo il cugino non l’avrebbe sentito, ormai l’aveva capito. «Comunque vada, sempre insieme. L’hai detto tu, avanti, non mi lasciare da solo, dannazione!» Sentì il volto del ragazzo contro la propria mano una, due volte, mentre cercava di svegliarlo, ma non aprì gli occhi. E in quel momento, Al, nemmeno era certo di volere che ciò accadesse. Non per Chris, ovvio, prima si svegliava e meglio era, ma quello sguardo. Cosa era successo? Così, all’improvviso, cosa poteva essere cambiato? L’idea che potesse trattarsi di un malinteso, che in realtà non c’era nulla di sbagliato, non lo toccò nemmeno per un secondo: Dio, conosceva Chris più di chiunque altro, sapeva riconoscere i suoi movimenti, i suoi sguardi, le sue emozioni, sapeva interpretarlo, e proprio per quello non si lasciò abbindolare dall’idea che quello che aveva visto nel suo volto contrito fosse altro. Era quello, era delusione. Ma qualunque cosa fosse, l’avrebbero aggiustata insieme, no? Come sempre. «Non lasciarmi da solo, dai» Continuò a ripeterlo fin quando non si trovò a tenere un mucchio d’aria, nient’altro, fin quando non si ritrovò di nuovo da solo.
    Ma forse era così che doveva rimanere. Continuava a fare di tutto per non stare da solo, alla fine, cercava sempre di trovare una scusa per avere qualcuno al suo fianco solo perché non voleva rimanere in solitudine, senza nessuno. Era disposto a sacrificarsi egli stesso per non essere quello “che resta”, anche a costo di lasciare gli altri nella solitudine, ma alla fine si dimostrava anche in questo un inetto, incapace di prendere una vera e propria decisione nella propria vita. Si mosse contro la parete del padiglione, scorgendo di tanto in tanto volti conosciuti. Riconobbe Judas, Ashley, Sunshine, Elysian, Lienne, Sean. Li osservò dall’angolo buio nel quale si era nascosto, mentre si alzavano da terra, si voltavano a studiare delle fotografie. Pensò quasi, per un attimo, che fosse tutto successo nella sua mente, che li avessero drogati o qualcosa del genere, ma c’era un solo modo per scoprirlo veramente. Continuò a cercare tra gli occhi delle persone, pregando di trovarne un paio castani, di vedere una chioma bionda muoversi tra la folla. Ma di lei, non c’era traccia. Non trovò i lunghi capelli ondulati di Rea, il che non fu un colpo da poco: erano tutti vivi, erano tutti lì dentro, non voleva credere che la ragazza non ce l’avesse fatta. Vide Jayson, ma non ebbe il coraggio di andare da lui a chiedere scusa, o a dire qualsiasi cosa. Vide Chris e temette di incrociare il suo sguardo, di rivedere ancora in quei due globi azzurri quello che c’era stato nell’arena. Vide Heidrun e capì di non poter stare un secondo di più lì dentro. Non poteva più condividere un solo momento con nessuno di loro, in particolar modo con un cugino che non aveva l’aria di volerlo abbracciare, o di voler parlare, e con una ragazza che poteva essere la figlia, che molto probabilmente era la figlia. Una figlia che, se fosse vero quanto ronzava nella testa di Al, aveva avuto l’occasione di dirglielo ma aveva deciso di non sfruttarla. Lei non lo voleva, poteva accettarlo, anzi poteva persino condividerlo, poteva anche capire perché Jo, se fosse stata lei la madre, avesse deciso di non dirgli nulla. Non era adatto, non era un punto di riferimento. E gli bastò lasciare che sotto le palpebre si riproponesse la scena di poche ore prima per capire che non lo sarebbe mai stato, per nessuno. Cercò a tastoni una porta che sembrava così vicina poco prima ma che ora che serviva, ora che doveva varcarla il più in fretta possibile, non c’era. Doveva uscire, doveva andarsene il più lontano possibile da tutti, allontanarsi e basta, magari passare inosservato.
    Di certo, sarebbe passato inosservato. Non avevano bisogno di lui, in ogni caso, non lo avevano mai veramente avuto. Doveva solo convincersi che anche lui non aveva bisogno di loro, ma non ci sarebbe mai riuscito. Perché, semplicemente, Al aveva bisogno di avere qualcuno vicino, di non sentirsi da solo, non più, ma forse era il suo modo di fare, il suo modo di essere così sbagliato ad allontanarlo, inevitabilmente, da tutti. Trovò finalmente la maniglia, e dopo aver messo piede fuori da quello che sembrava a tutti gli effetti un magazzino in disuso, si richiuse la porta alle spalle. Silenziosamente, così come era uscito dopo un ultimo sguardo ai presenti. Silenziosamente, così come era entrato nelle loro vite, cercava di uscirne, di andarsene. Voleva, veramente, sta volta sul serio. Cosa aveva portato nelle loro vite? False speranze, promesse mai mantenute, aiuti mancati. Chiuse l’uscio sul suo passato, sperando per coloro che ne avevano fatto parte di andare avanti senza di lui, perché lui non ci stava riuscendo. Scusa, non so mantenere le promesse. Lo sapevi, sapevi che non lo so fare, non dovevi chiedermelo. Non sono abbastanza forte, Jo, mi dispiace. Mosse qualche passo nell’ombra verso nemmeno lui sapeva dove, non aveva nemmeno idea di dove fosse, cercava solo una via di fuga, di non andare avanti ma di ricominciare da capo, ma nemmeno sapeva se ciò fosse possibile. Portò automaticamente una mano al petto, cercando quell’ultima cosa che Jo gli aveva lasciato, e scoprendo che non era più lì si fermò sul posto, tastando ogni centimetro del collo. Cercò di non dare troppo peso alla scomparsa della catenina, pensando che magari era stata presa dai Plagiatori così come anche la pistola che aveva con sé fino a poco prima. Eppure quello era l’ultimo ricordo veramente tangibile di Jo, l’ultima cosa di lei che gli restava, e non l’aveva con sé. «Fanculo» sussurrò, nemmeno troppo sommessamente. Fu quasi tentato di fare retromarcia, di tornare nel capannone e cercarla ovunque, interrogare chiunque su quell’amuleto privo di valore, eventualmente strapparla di mano a chi avesse avuto l’ardore di privarlo di tale oggetto. Ma le sue gambe si mossero nella direzione opposta. Lontano. Doveva lasciarsi dietro tutti coloro che erano lì dentro, al quale aveva dato un’importanza per tutta la vita, per qualche anno o solo per qualche ora, minuto. Ricominciare, dimenticare, non poteva fare altrimenti, ne era ormai convinto. Quando scorse Rea Hamilton, fuori da quel magazzino, non volle nemmeno pensare di avvicinarsi. Era sollevato fosse salva, che non avesse fatto la fine che aveva temuto una volta risvegliatosi, ma rientrava comunque nel passato. Avrebbe voluto non essere un debole, in quel momento, capire le parole sputategli in faccia quella notte nel laghetto dalla ragazza, cercare di applicarle, ma la sua mente era dannatamente annebbiata, incapace anche solo di pensare alle scelte che gli si ponevano davanti, tanto ormai lo aveva compreso appieno che qualsiasi di quelle strade avesse preso non sarebbe mai stata quella giusta. Mai.
    Ovviamente non gli sarebbe stato concesso tale lusso, perché non poteva essere così facile? Alzò lo sguardo su una testa bionda, girata di spalle. Vestiva la sua stessa tuta, ma non gli servì molto per riconoscersi in quel clone di sé stesso. E bruciava ancora. Morgan, come aveva fatto ad ignorarla fino ad allora? Aveva pensato veramente così tanto da dimenticarsi da quella cicatrice che ora era davanti ai suoi stessi occhi, che Rea Hamilton toccava non troppo delicatamente lo stesso simbolo sulla sua nuca, prima che la sua voce melliflua arrivasse alle orecchie del Crane. Socchiuse gli occhi mentre quel marchio, così reale, sembrava gli venisse impresso di nuovo a fuoco sulla pelle. Un segno, semplice, una beta greca che, nonostante le parole dei due tizi che avevano fatto loro la grazia, a lui ed all’altra ragazza bionda che aveva raggiunto il centro del Labirinto, di rivelargli il loro appellativo. Un segno, quello, che non aveva alcun senso, come alcun senso aveva tutto ciò che dissero i due. Avevano riconosciuto, lui, Al!, come soggetto idoneo per un’ipotetica Cura. Lui, che proprio nulla aveva da invidiare, era risultato idoneo secondo non si sa quale legge. Ma non voleva ricordare quel momento, non voleva ricordare quella frase, quella in particolare. Dentro quei fili, vi siete legati da soli; quei polsi, li avete stretti voi, chiedendoci solamente di prendere il comando. Siete deboli. Già in quel momento, in quella stanzetta, quelle parole erano lame su ferite ancora aperte. Destabilizzanti. Che fosse debole lo sapeva, ma solo il pensiero che non fosse stato veramente manipolato in quell’ultimo duello lo fece sentire ad un passo dal baratro. Non voleva sparare a Chris, mai avrebbe voluto ferirlo in alcun modo, mai avrebbe voluto ferire nessuno in vita sua Al, ma era convinto di non poter fare altrimenti, aveva sentito la mano muoversi automaticamente mentre cercava di fermarla, ma era stato del tutto inutile. No, non l’aveva fatto di sua spontanea volontà, erano stati loro sin dal principio. Ma quei dubbi non lo lasciarono mai per tutta la durata di quel breve incontro, né tantomeno sloggiarono dalla sua mente quando i due svanirono, quando quel bambino si avvicinò a loro. Quell’urlo, quella filastrocca, quella profezia -stando alle parole della ragazza-, non l’avrebbe mai dimenticato. Gli occhi assenti del ragazzino sarebbero rimasti sempre lì, insieme a quella cicatrice che andava a ricercare, ora, con dita tremanti. «La Fine non è vicina, è già qui» sillabò, senza voce, mentre riapriva gli occhi sul suo duplicato, sul falso sorriso della Hamilton. Aggrottò le sopracciglia, lasciando scivolare il braccio lungo i fianchi. «Forse sarebbe meglio lasciarmi solo più a lungo» asserì, continuando a fissarla. Se fosse stato più biondo di quanto non era in realtà, probabilmente l’avrebbe scansata, proseguendo per la propria strada che, a quel punto, era ad un bivio: da una parte un ponte, un baratro; dall’altra un pub e vergognose quantità di alcool. Ma lei si era palesata mostrandogli quel simbolo, come se l’avesse notato prima di allora. Forse l’aveva solo visto prima che lui si svegliasse, o forse no, dopotutto era palese che di segreti, Rea Hamilton, ne aveva a bizzeffe. «Sai qualcosa che io non so?» Si avvicinò, riducendo le distanze tra loro due, stavolta con intenzioni diverse dall’ultima -non che fosse veramente un’intenzione, quella, capito Chris? «O vuoi solamente bearti di altri ringraziamenti, di altre scuse? Perché di quelli ne ho a volontà» disse, volgendo lo sguardo all’altro Al, la cicatrice ancora pulsante, vivida, disturbante. «Fallo svanire, per favore»
    20 september 2015
    london, maybe

    ROLE SCHEME © EFFE
     
    .
  3.     +3    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline

    Rea Hamilton
    « Every wound will shape me Every scar will build my throne »
    illusion - 24 y.o.- ex-slytherin - hunter - teamhamilton
    Piegò il capo, inarcando le sopracciglia in direzione di Crane. Perché essere un Hamilton doveva sempre essere così difficile? Lei sapeva già la fine di quella storia, sapeva lo scopo, la meta, l’obiettivo. Sapeva il perché delle proprie azioni e di quelle altrui, mentre gli altri si limitavano ad osservare passivamente attendendo che le situazioni si palesassero davanti ai loro occhi. Dover sempre dare una giustificazione, una spiegazione per qualcosa che sotto il suo sguardo attento era scontato, era oltremodo seccante. Ma era quello il suo compito, giusto? Lasciare che fossero loro ad intendere, spingendoli giusto un poco nella direzione desiderata. Dovevano afferrare, prima o poi; imparare a camminare anche senza il suo aiuto, a vedere ciò che vedeva lei. Si era scelta una bella sfida con Aloysius Crane, se ne rendeva conto, ma doveva pur trovarsi dei passatempi in quella vita. «Forse sarebbe meglio lasciarmi solo più a lungo» Il sorriso sulle sue labbra non fece che allargarsi, forse un poco più sincero, o forse solo più beffardo. Credeva che Rea Hamilton morisse dalla voglia di rimanere in sua compagnia, che contasse i minuti che li separavano da un incontro sfortunato all’altro? Non lo disse onde rovinare quel momento di perfetto equilibrio nel quale lui taceva cose stupide, e lei evitava di cercare un modo per liberarsi della sua inutile vita. Non lo disse e si limitò a sorridere, scuotendo il capo. «Tu credi, Aloysius? Vuoi davvero rimanere da solo?» Domandò seria in un sussurro, conoscendo già la risposta. La sapevano entrambi, girarci intorno non sarebbe stato d’utilità né a lei né ad Al. Era bello, quasi liberatorio, credere di voler rimanere in solitudine. Ma poi cosa rimaneva, quando nient’altro riempiva la bolla di silenzio? Cosa rimaneva, quando ci si accorgeva di avere le spalle al muro, impossibilitati a fuggire ancora da sé stessi? Rimanere da soli, dopotutto, significava dover andare a patti con quella parte della propria identità che, in compagnia, rimaneva sempre nascosta. Quella parte che faceva paura, estranea, che non si voleva mai accettare fino in fondo. Quella parte che, quando la guardavi, ti rendevi conto assomigliare in maniera dannatamente inquietante alla brillante oscurità celata dietro gli occhi cioccolato della Hamilton. Rea, in tutta sincerità, non credeva che Crane fosse il genere d’uomo che aveva davvero fiducia in quel che diceva. Sembrava più uno di quelli che mentiva sempre, senza neanche accorgersene; il tipo di persona che millantava di volere la Luna, ma cercava sempre il Sole sulla pelle. Indicò con un cenno del capo le linee sulla nuca del sosia che aveva creato davanti ai suoi occhi. Era gentile, la Hamilton, ma i convenevoli non facevano al caso suo. Non era lì per sapere come stava Al, se si sentiva turbato, se avesse problemi con la madre o se in delle macchie nere vedesse farfalle o barboncini assassini. Avrebbe potuto in altre circostanze mostrarsi più affabile ed interessata, ma non significava che mai lo sarebbe stata. Quella, per altro, era una situazione che di normale aveva assai poco, ed il tempo per chiacchierare con Aladino non rientrava nel budget. Aveva già riservato troppe parole a qualcuno che, di tutto ciò che Rea aveva detto, sembrava non aver colto neanche una parola. Sentivano sempre, ma mai una volta che ascoltassero. «Sai qualcosa che io non so?» Era una domanda trabocchetto? Inizialmente si limitò ad alzare entrambe le sopracciglia con aria scettica, quindi anche il sorriso divenne meno caldo, più freddo e calcolato. Lo sguardo si fece distaccato e nient’affatto amichevole, quando Al invase i suoi spazi personali credendo forse, nella sua mente oltremodo limitata, che quello dovesse metterla in soggezione. Possibile che ancora non avesse capito come funzionava con Rea Hamilton? Poggiò una mano sul suo petto, sfiorandolo appena con la punta delle dita. Delicata, finchè le unghie non divennero lame che, con altrettanta dolcezza, si piantarono nella carne di Al. Era un illusione? Ovvio. Ma faceva comunque male, lo sapeva Rea e lo stava scoprendo anche Aloysius. Quello era solo un avvertimento, una scalfittura appena percepibile della superficie. Lo spinse indietro di qualche centimetro, senza mai abbandonare il vago sorriso allusivo. «Se hai bisogno di chiederlo, non meriti una risposta» Disse semplicemente, lasciando che capisse –o forse no- da sé quanto stupida fosse quella domanda. Che Rea sapesse qualcosa che Al non sapeva, era abbastanza risaputo. Come apparire affascinante anche nelle situazioni più critiche, come allacciarsi le scarpe, come uccidere una donna che testardamente continuava a lanciare frecce nella propria direzione, come mangiare un gelato senza sporcarsi la camicia bianca, come non provare niente sentendo tutto. Come cogliere i dettagli, quando erano i dettagli a fare la storia. Quindi, ripeto la domanda: lo stai chiedendo davvero, Al? Dato che pareva non cogliere il punto della situazione, Rea con un sospiro esasperato si avvicinò al clone, seguendo con la punta dell’indice le linee della cicatrice. «Non avevi questo segno prima, l’avrei notato. Guarda caso si tratta di una beta. Devi dirmi qualcosa?» Lo guardò da sopra la spalla, un’espressione impenetrabile sul volto dai tratti dolci e che di dolce, in realtà, non aveva mai avuto nulla. Trovava una coincidenza alquanto assurda che un membro del gruppo beta presentasse, alla fine di tutto, un marchio con quella lettera. Per quanto l’idea che qualcuno avesse attaccato l’uomo con un attizzatoio a forma di β non fosse da scartare a priori, come già detto Al non pareva brillare di infinita saggezza e capacità, la riteneva un po’ troppo ricercata come giustificazione. Dato che il suo gemesllo pirla aveva deciso di essere eliminato, come lei, doveva ripiegare il bisogno di conoscenza su persone come Al. Avrebbe preferito di gran lunga chiedere a qualcun altro, ma quella cicatrice… senza contare che prendere materiale grezzo da trasformare in un gioiello, stile Enzo Miccio dei Villain, era una sfida altresì divertente. C’era qualcosa, in quegli occhi verdi, che quasi la implorava di fargli da guru spirituale. Rea amava insegnare, anche se aveva poca pazienza, per questo aveva apprezzato la compagnia di Sheridan nei mesi precedenti. C’era così tanto da fare, così tante nozioni da far apprendere! Ed un giorno, l’avrebbero ringraziata con giusta causa. So thanks for making me a fighter. «O vuoi solamente bearti di altri ringraziamenti, di altre scuse? Perché di quelli ne ho a volontà» Forse su Aladino c’era troppo lavoro da fare, sulla piccola Sheridan aveva già delle ottime basi. Sospirò, allontanandosi di un passo ed accontentando magnanimamente la richiesta del biondo, facendo sparire la sua illusione –anche perché un Aloysius bastava ed avanzava. «Non ho bisogno di ringraziamenti, e non ho bisogno di scuse» Più che altro, non me ne faccio nulla. Rispose seria, facendo scivolare lo sguardo sulle persone che, a mano a mano, uscivano dai due diversi magazzini. Riportò quindi lo sguardo su Al, e non v’era più traccia di quel sorriso, di quel vago divertimento che rendeva la realtà della Hamilton solo un gioco. «Quando smetterai di fare la vittima? Comincia a pensare. Se proprio non ci riesci – e sapevamo tutti che non ci sarebbe riuscito-, permetti che siano gli altri a pensare per te. Cos’è successo?» Non un’ombra di quella Rea che, nell’arena, aveva ucciso Yvonne. Non un’ombra di quella Rea che, delicata, aveva sfiorato la fronte di Jay. Non un’ombra di quella che, nell’acqua, aveva sbattuto Crane contro il muro della bruciante realtà. Quello era lavoro. Non aveva tempo per adorabili metodi d’approccio, tipo invitare Al a raccontarle tutto attorno al tavolino rotondo di una tavola calda come due vecchi amici, e non aveva ancora bisogno di usare le maniere forti. Non doveva per forza fingere, se non la costringevano a farlo.
    20.09
    such a good question

    ROLE CODE © EFFE
     
    .
  4.     +2    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Professor
    Posts
    3,655
    Spolliciometro
    +1,903

    Status
    Offline

    aloysius angus crane
    if only i could go back when i was me
    DEATH EATER - 26 Y.O. - MUGGLE - LIGHT MANIPULATION - ALCOOL ADDICTED
    Quello sguardo, quelle parole, sembravano lacerargli la carne, bruciare ogni lembo della sua pelle come se fosse a contatto con un attizzatoio rovente. Distolse lo sguardo, portandolo il più lontano possibile da quello della mora, mentre lasciava la sua domanda priva di alcuna risposta. Si limitò a deglutire, cercando di ignorarla, cercando di capire perché proprio fra tanti Rea sembrava essersi appostata fuori dal capannone in sua attesa. Non che al ragazzo non facesse piacere, non che non gli servisse un Hamilton per cercare di rimediare a tutti i danni fatti, a tutte le cazzate commesse, perché quelle frasi dette nel Labirinto dopotutto gli sarebbero sempre rimaste impresse anche se sembrava non volerle accettare. Era certo che, prima o poi, sarebbe stato lui a cercare la ragazza, a chiedere il suo aiuto, l’aveva saputo quando erano usciti trionfanti dall’Arena e quando si era risvegliato in quel tragico post sbronza. Ma in quel momento avrebbe preferito chiunque fuorché Rea e la sua capacità di sputare in faccia la realtà alle persone. Voleva le menzogne, Al, nient’altro, le stesse menzogne che si diceva nella mente, le stesse menzogne che l’avevano tenuto in vita fino a quel momento. Voleva convincersi di voler veramente rimanere da solo, sperando che la sola convinzione potesse tramutarsi in un dato di fatto, ma come poteva se la voce della ragazza martellava così forte nella sua testa? «Vuoi davvero rimanere da solo?» Chinò la testa, chiudendo gli occhi alla vista delle proprie scarpe. No, certo che non voleva, non l’aveva mai voluto in tutta la sua esistenza, ma era meglio. Meglio per Al, meglio per Rea, meglio per chiunque fosse rimasto in quel padiglione e chi era già fuori da quel luogo. O almeno così voleva che fosse mentre il capo, in quel movimento automatico, rispondeva silenziosamente alla domanda della Hamilton. Non voleva, dannazione, non sarebbe mai sopravvissuto un secondo da solo, già era tanto se riusciva a non morire nella solitudine del suo appartamento quando, malgrado tutto, sapeva di poter contare su qualcuno, su qualcosa, su una labile fiammella di speranza. Ora che quel fuoco aveva smesso di muoversi e di bruciare, che le ombre di coloro che aveva creduto essere sempre al suo fianco lentamente svanivano lasciandolo in compagnia di sé stesso, che quelle ancore alle quali si era legato si districavano dal terreno, se fosse caduto non ci sarebbe stata una mano a rialzarlo, ne era certo. Non voleva restare da solo, ed era anche superfluo che lei stesse lì a puntualizzare l’ovvio quando sembrava che avesse capito benissimo l’infantile uomo che gli stava dinnanzi. Non che ci volesse molto, a capirlo, tant’era semplice. Cercava di coprirsi, con quel manto di bugie, di sembrare impenetrabile, ma in verità non faceva altro che celarsi al suo stesso sguardo, annichilendosi sotto i suoi stessi occhi. Quando tutti sembravano aver capito chi fosse Aloysius Crane, quando tutti sembrava sapessero ogni segreto che nascondeva senza nemmeno esserne a conoscenza, egli stesso perdeva coscienza della sua persona. Ogni passo, ogni secondo della sua vita sembrava allontanarlo dalla persona che aveva sempre creduto di essere, destabilizzandolo. Ogni sguardo, ogni parola, ogni respiro lo portava a chiedersi chi fosse veramente Aloysius Crane e se gli sarebbe mai stato concesso di scoprirlo veramente, prima o poi. E di certo, se fosse rimasto da solo, nessuno avrebbe saputo svelare quel mistero. C’era così tanto in gioco che Al non sapeva cosa volere veramente. Tutto, e niente allo stesso tempo. Voleva risentire quel vuoto che aveva provato nel labirinto ed al contempo sperava di non provarlo mai più. Voleva morire con la stessa intensità con la quale voleva vivere e voleva riuscire a saper canalizzare tutto questo mix di sensazioni, di sentimenti contrastanti così come voleva lasciarli andare. Voleva annegare nel dolore e nelle proprie lacrime quanto voleva non dover più soffrire, più versare lacrime. E se questo poteva essere realizzabile, la mano che doveva rialzarlo era quella di Rea, così metaforicamente vicina in quel momento da necessitare di un minimo sforzo per essere afferrata e dello stesso minimo sforzo per essere spinta via.
    E cosa aveva deciso, quando le si era avvicinato? Né di afferrarla, né di respingerla. Aveva deciso di sfruttare quel momento per decidere il da farsi, rimandando a più tardi la scelta da fare. Fino a quando, lo sapeva, non sarebbe stato troppo tardi per avere veramente un’opzione. Aggrottò le sopracciglia mentre le unghie della ragazza gli graffiavano il petto, ma nient’altro. Non un accenno di sofferenza, non una smorfia di dolore: aveva già abbastanza ferite alle quali badare, per le quali mostrarsi dolorante e quelle fisiche erano veramente le ultime della lista. «Se hai bisogno di chiederlo, non meriti una risposta» Presto o tardi qualcuno avrebbe capito qual era il segreto degli Hamilton per essere così fastidiosamente irritanti, ma quel qualcuno non era Al. Non si mise nemmeno a replicare a quell’affermazione, mentre un sorriso beffardo prendeva forma sul viso del ragazzo. «C’è qualcosa che ti sfugge, non è così?» Un sussurro a fior di labbra, una domanda retorica che nemmeno aveva bisogno di una risposta. Ed era bello bearsi di quella sensazione che, in molti anni, Al non aveva mai provato. Per la prima volta era l’unico a sapere qualcosa di più rispetto agli altri, ad essere a conoscenza di un segreto da decidere se mantenere o no. Lui, e quella ragazza dai capelli biondi che, con un solo sussurro impercettibile, un solo nome lasciato alla mercé del caso non aveva fatto altro che alimentare quei segreti che, senza saperlo, si portava dietro da vent’anni. Seguì le dita della Hamilton mentre le puntava alla cicatrice del clone, mentre gli chiedeva se avesse da dirle qualcosa. «Probabile» disse, mentre già lo spettro di quell’effimero senso di onniscienza iniziava a scivolare dalle sue labbra. Avrebbe fatto il sostenuto, Dio se gli sarebbe piaciuto farlo!, ma non gli sarebbe servito a nulla. E anche se probabilmente Rea non sapeva nulla di tutto quello che c’era dietro quel Labirinto, anche se effettivamente ne sapesse meno del Crane, una mano per risolvere l’enigma non gli sarebbe dispiaciuta.
    Ma rendeva così difficile una collaborazione, la Hamilton, per quanto Al la volesse. Perché doveva continuare a farlo sentire così tanto una nullità? «Non sto facendo la vittima, io...» Come un bambino colto con le mani nel barattolo dei biscotti, Al cercava di giustificarsi, sapendo di non avere argomenti a rafforzare le sue parole. Poteva dirgli che non poteva smettere di fare la vittima, perché alla fine di tutto era veramente la vittima? Ovviamente no, non avrebbe fatto altro che avvalorare le sue parole così facendo. Distolse ancora lo sguardo, cercando un modo per spiegarle in poche parole quanto aveva capito in quel breve incontro con i due Plagiatori. «È successo che sono risultato il soggetto idoneo per la Cura» confessò, riportando gli occhi verdi su quelli scuri della ragazza davanti a sé. E non c’era niente di tutto quello che si era prefissato di mettere in quello sguardo, solo paura. Era il soggetto idoneo per la Cura, e non aveva nemmeno idea di cosa significasse, se potesse essere considerata una cosa positiva o negativa, se doveva preoccuparsi sul serio o sentirsi vagamente sollevato. «Ma non ho fatto nulla, niente per meritarmi un tale onere, sono solo riuscito a resistere» Sono solo riuscito a resistere quando tutto quello che volevo era mollare tutto. Paradossale.
    20 september 2015
    london, maybe

    ROLE SCHEME © EFFE
     
    .
  5.     +1    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline

    Rea Hamilton
    « Every wound will shape me Every scar will build my throne »
    illusion - 24 y.o.- ex-slytherin - hunter - teamhamilton
    Una bugiarda. Rea Hamilton era universalmente conosciuta come una bugiarda, anche quando non faceva altro che dire la verità. Menzogne. Eppure, era proprio lei a mettere le persone incrociate sul proprio cammino nella condizione di capire chi fossero, dove stessero andando, perché lo stessero facendo. Era lei, con quel sorriso sghembo ad incurvarle le labbra, a celare la luce per mostrare quanto le ombre, che tanto avevano fatto paura, fossero innocue. Era lei, con quel suo disarmante modo di presentare i fatti, a far comprendere alle persone che erano loro quelle che mentivano continuamente, a sé stessi ed agli altri. Rea dal canto suo difficilmente nascondeva le sue intenzioni, che poi venisse fraintesa non era qualcosa che la riguardava. Si vedeva lontano un miglio, buon Dio, che non era la tranquilla vicina di casa a cui chiedere lo zucchero in caso di necessità. Ti voltavi a guardarla, rendendoti conto con solo una breve e poco significativa occhiata, che era quel genere di donna dal quale era meglio stare alla larga. Eppure tutti, almeno una volta nella vita, avevano avuto bisogno di lei. Avevano avuto bisogno di quel sorriso sghembo, di quelle sopracciglia cinicamente inarcate, per cominciare a camminare. Prima cadevano, si sbucciavano le ginocchia, sentivano il bruciare del contatto improvviso con l’asfalto. Rialzarsi, però, era più semplice. Faceva un po’ meno male, quando finalmente si era giunti alla consapevolezza che tanto si era temuta. Era quella una delle numerose qualità che rendevano Rea Hamilton affascinante quanto terrificante. Quel sorriso. Quella coscienza che sussurrava, ad un soffio dal lobo, che la verità bruciava ma era necessaria. Solo conoscendo la verità era possibile manipolare la propria concezione di sé. Solo accettandola, si poteva andare avanti. Era la causa del suo essere totalmente, teneramente, tragicamente amata, ed anche il motivo principale per il quale veniva odiata senza remore e senza rimorso alcuno. Mh, cose che non la lasciavano dormire la notte.
    Vide Al chinare il capo, mentre prendeva coscienza di qualcosa che, in modo inconscio, aveva sempre saputo. Come una pugnalata, non è vero? Si domandò pigramente, osservandolo mentre, con lentezza, accusava il colpo. Come una lama ricoperta di seta, con dolcezza aveva penetrato la pelle di Crane giungendo direttamente al cuore. Erano bastate otto parole, nella loro nuda semplicità, a mettere in discussione la già di per sé precaria sicurezza di Al. Il sorriso divenne più sincero, complice non dell’uomo quanto di quella sofferenza. Il sorriso di chi, indipendentemente dalla situazione, poteva vantare un trofeo. Lo faceva per lui, a suo modo. Era stato Aloysius Crane a cercarla, con quel braccio sulle spalle a la disperazione nello sguardo di chi una fine, o un inizio, proprio non riusciva a vederlo. "Perché io sto male, Rea, sto male" Ed avrebbe continuato a star male, giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese. Avrebbe continuato, guardandosi allo specchio e volgendo poi l’attenzione sulle proprie mani, chiedendosi cosa stesse diventando. Avrebbe sofferto cento, mille volte, per motivi che spesso sarebbero sfuggiti alla sua comprensione. Avrebbe sofferto in quella metamorfosi, un costante limbo d’indecisione nel quale non avrebbe compreso chi fosse. Rea Hamilton era lì per spingergli il volto contro lo specchio, finchè la superficie non si fosse incrinata lasciandogli vedere la nuda realtà: non era nessuno. Non era niente. Non esistevano etichette o definizioni, non esisteva nulla. Anche la sofferenza avrebbe cessato d’esistere, pur rimanendo presente. Pensava di essere l’unico ad aver perso qualcuno? Pensava di essere l’unico ad aver provato quella dolore lancinante alla bocca dello stomaco? Pensava che il vuoto che percepiva nel petto fosse solo suo, incomprensibile ad un occhio esterno? Anche Rea aveva perso qualcuno, anni prima. Rea Hamilton aveva perso la bambina dal nastro giallo ed il sorriso spontaneo, quella che rubava le mele caramellate per Charlotte e, dalla finestra, guardava Amos muovere i suoi primi ed incerti passi. Rea l’aveva persa.
    Si sopravvive, Al. Si sopravvive sempre.
    «C’è qualcosa che ti sfugge, non è così?» Era quello il suo modo di passare al contrattacco? Quello il suo modo per affrontare una realtà troppo pesante? Si compiaceva del fatto che Rea ancora non avesse ben chiara la situazione. Un errore da principiante, perché in un modo o nell’altro avrebbe ottenuto ciò che voleva. Non aveva bisogno di lui, non quanto Al sembrava aver bisogno di lei. La triste storia di chiunque si fosse mai parato sul suo cammino: lei non aveva bisogno di nessuno, non davvero. Era più comodo, ma avrebbe saputo cavarsela anche senza i vari favori, senza la sua famiglia, senza i suoi amici. Un modo l’avrebbe sempre trovato. Il sorriso lasciò posto ad un espressione neutra, e non ritenne opportuno rispondere al suo, apparentemente retorico, interrogativo. Sarebbe stato più semplice obbligarlo a parlare, con la forza o con uno dei suoi rinomati quanto diabolici trucchetti mentali. Entrava sotto pelle, la Hamilton, entrava nei pensieri più nascosti, quelli che raramente avrebbero mai visto la luce. Da lì, avrebbe potuto cambiare tutto. Voleva però, e la cosa era scioccante anche per lei, dargli un margine di fiducia. Forse avrebbe capito anche da solo che la soluzione migliore era informare Rea sui fatti accaduti, rendendo la vita più semplice ad entrambi. Non doveva neanche sprecarsi troppo: gli sarebbe bastato raccontare, a parole sue, ciò che aveva visto, sentito, o fatto. Sarebbe stata lei ad elaborare, non avrebbe chiesto un tale sforzo al Crane. Ma lui, oh, lui preferiva bearsi di quell’effimera sensazione di potere data dai segreti. Evidentemente la materia grezza sulla quale aveva messo le mani non troppo tempo prima, stava già prendendo forma. Guardatela, quella flebile fiammella nascosta nello sguardo chiaro. V’era mai stata? Rea non poteva saperlo, ma optava per il no. Perché riconosceva, in quel guizzo, le proprie dita esperte. «Probabile» Inarcò entrambe le sopracciglia, attendendo che portasse avanti il discorso. Se voleva continuare con risposte a smozziconi, il problema sarebbe presto diventato di entrambi. «Non sto facendo la vittima, io...» Sbuffò, soffiando l’aria fra le labbra socchiuse, mentre di nuovo gli angoli della bocca si sollevavano in un sorriso allusivo. Chi stava cercando di convincere, lei o sé stesso? Su uno dei due non stava funzionando, vi lascio indovinare chi. « Ti stai scavando una fossa, convincendoti che sia giusto così, che sia meglio per tutti. Perché? Prova a rispondere a questo semplice interrogativo. Perché, Aloysius? A chi credi che possa giovare? E smettila» Sibilò, allungando una mano per stringere il mento di Al fra le proprie dita. «Smettila di evitare il mio sguardo, non rende le cose più facili. Impara con me, e saprai farlo con tutti» Lo lasciò andare, prestando un orecchio alquanto divertito alle parole che seguirono: il soggetto idoneo per la Cura. L’aveva immaginato, ma sentirselo dire era esilarante.
    Dovevano proprio essere disperati.
    Quindi era di Al che avevano bisogno. La cosa più semplice, a conti fatti, sarebbe stato ucciderlo. Lì, senza dargli il tempo di difendersi. Privarlo di ciò che ai Loro occhi lo rendeva tanto prezioso. La Hamilton l’avrebbe fatto senza battere ciglio. E allora perché, perché non lo fece? Sarebbe stata la cosa migliore per tutti, probabilmente, e di certo una bella soddisfazione personale. Era uno dei percorsi che si snodavano davanti ai suoi occhi, e dire che non l’avesse preso in considerazione sarebbe stato sciocco. Ma proprio nel fatto che ci avesse pensato, e non l’avesse fatto, risiedeva quel perché.
    Se Loro volevano Aloysius Crane, soggetto idoneo per la Cura, significava che lei lo voleva di più. Avrebbero dovuto saperlo. Da quel momento in poi, Rea si sarebbe assicurata che quell’emerito idiota biondo non si facesse fregare un’altra volta. Non perché tenesse particolarmente a lui, né perché lo reputasse particolarmente brillante. Era puro stile Hamilton: volevate giocare con Aladino? Peccato, qualcuno è arrivato prima di voi. Alla prossima, Plagiatori. Xoxo.
    «Ma non ho fatto nulla, niente per meritarmi un tale onere, sono solo riuscito a resistere»
    Gli diede un buffetto sulle guance, sorridendo orgogliosa. «Ti farei le mie congratulazioni, ma…» sarebbe come fare le proprie felicitazioni a un malato terminale: complimenti, hai un tumore all’ultimo stadio e non possiamo fare più nulla. Si strinse nelle spalle, lasciando che fosse l’uomo a scegliere come completare la frase. «Ora, se non ti dispiace, dimmi qualcosa che ancora non so».
    Stupiscimi come solo i biondi sanno fare.
    20.09
    such a good question

    ROLE CODE © EFFE
     
    .
  6.     +1    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Professor
    Posts
    3,655
    Spolliciometro
    +1,903

    Status
    Offline

    aloysius angus crane
    if only i could go back when i was me
    DEATH EATER - 26 Y.O. - MUGGLE - LIGHT MANIPULATION - ALCOOL ADDICTED
    Se voleva una risposta sensata, razionale, a quell’interrogativo, Rea Hamilton, non l’avrebbe avuta. E non tanto per l’ostentazione di Al, per quel suo continuo volersi celare dietro l’ombra di sé stesso o per il fatto che temeva che lei sapesse molto meglio di lui quale fosse quel fottutissimo perché. Molto più basilarmente, non c’era veramente un perché al suo comportamento. Socchiuse la bocca, come a volerle dire qualcosa, qualsiasi cosa, nulla. Non uscì un suono, un sibilo, un fiato. Si costrinse a richiudere la bocca, dando l’ennesima soddisfazione a quella donna. Non che gli importasse più di tanto, ormai, cosa ella potesse pensare al suo riguardo. Sarebbe stata solo l’ennesima a giudicarlo per quello che era, dopotutto. E forse bazzicò per un secondo, nella mente di Al, che fosse proprio quello il perché. Perché continuava a fare di quel vittimismo la sua facciata, perché continuava a scavarsi, come giustamente diceva la Hamilton, la fossa con le sue stesse mani. «Impara con me, e saprai farlo con tutti» Il perché sembrava che Rea stesse accettando quel caso clinico che era Al sarebbe rimasto anche per quest’ultimo un mistero troppo grande. Oppure non lo stava affatto prendendo tra le sue ali protettrici, non cercava affatto di aiutarlo, e Al non aveva fatto altro che interpretare nel modo sbagliato le parole della ragazza. Perché quello era esattamente ciò che Al aveva sperato dal primo momento nel labirinto: qualcuno che gli insegnasse come da quell’annichilimento autolesionista che stava portando avanti potesse trarne qualche vantaggio, qualcuno che tirasse fuori l’uomo che Al era stato per solo mezza giornata, qualcuno che liberasse quei ricordi, quelle sensazioni, quel suo Io che aveva volontariamente represso perché da solo non ne era in grado. Qualcuno che lo rendesse diverso da tutto ciò che non era mai stato. Impara con me, e saprai farlo con tutti. Era veramente quello che gli serviva, qualcuno con cui sfogarsi, ma era arrivato a capire due cose, con il tempo. La prima era che raramente riusciva ad esternare quello che voleva veramente dire, quello che voleva gli altri sapessero, e se ciò accadeva era semplicemente dopo aver alzato troppo il gomito e che in quel momento di alcool in circolo non ne aveva. La seconda era che dubitava che la persona che gli stava davanti fosse veramente interessata a quello che aveva da dire. Di alcool non ne vedeva, ed era convinto che anche se si fosse messo a raccontare vita, morte e miracoli di Aloysius Angus Crane, anche se fosse stata una storia un minimo avvincente, colei che aveva dinnanzi non gli avrebbe veramente prestato ascolto. Restò un po’ lì, interdetto, senza saper bene cosa fare. Cercò nei suoi occhi una risposta ai suoi stessi interrogativi, cercò nei suoi occhi quello che voleva sentirsi dire, ma se quelli verdi di Al in quel momento, più del solito, sembravano essere lo specchio stesso di quello che sentiva, provava, temeva, quelli nocciola di Rea non trasparivano nulla. Per quanto potessero sembrare pieni, caldi, accoglienti, nulla di questo sembrava incoraggiarlo a parlare. E se lo fece, se riuscì ad aprir bocca lasciando uscire parole che non fossero spezzate, sommesse o prive di alcun senso, era perché non voleva più tenersi alcun peso. O almeno, voleva provarci. Perché quello sguardo freddo e calcolatore era l’unica cosa su cui poteva fare affidamento, l’ultimo appiglio che gli era rimasto, l’ultima persona che pensava avrebbe visto di quel passato che voleva lasciarsi alle spalle, ed allo stesso passato, in fin dei conti, doveva cercare di lasciarsi tutti i rammarichi, tutti i dubbi. Tutto. «Non lo so, il perché. Ma so che sono stanco di questi sguardi che non riesco ad interpretare. Come mi vedi, Rea? Onestamente, perché io non riesco a capirlo. Come mi vedono tutti, perché sembra che non vada bene? Credo sia questo il perché, anche se probabilmente nemmeno ha un senso» Confessò, senza essere nemmeno veramente sicuro delle sue stesse parole. Uno stupido flusso di coscienza che gli appesantiva la mente e che gli bruciava la gola, ma tanto valeva, visto che lei voleva una risposta. «E probabilmente non gioverà a nessuno, ma forse vale la pena provarci. Se hai un’altra soluzione, non fare la preziosa, perché sicuramente hai più risposte di me» Concluse, senza più lasciare il suo sguardo, mentre dal capannone alle sue spalle iniziava a muoversi la calca di gente.
    Sentì le sue dita sfiorargli il viso, in quello che, fatto da qualcun altro, tipo dalla bisnonna, sarebbe potuto sembrare un gesto d’affetto, e non si mosse. «Ti farei le mie congratulazioni, ma…»Accennò un sorriso, vagamente divertito, nonostante si ripresentasse insieme a quel “ma” lasciato in sospeso quel moto inspiegabile di paura. «...ma non ti va? Andiamo, almeno un applauso» ironizzò, senza sapere nemmeno da dove uscisse quella voglia di scherzare sull’argomento. Perché quel “ma” lo terrorizzava. Perché quel “ma” fortificava ogni suo timore su quello che doveva significare essere la Cura. «Ora, se non ti dispiace, dimmi qualcosa che ancora non so» Deglutì, guardandosi intorno, scorgendo qualche viso conosciuto, qualche viso che non voleva rivedere, non al momento, forse mai più. «Ti dispiace se ne parliamo camminando? Devo cercare una sigaretta» Scusa stupida per dire che quel magazzino voleva restasse soltanto un’immagine sbiadita sulla retina, ma non c’era nemmeno bisogno di starlo a puntualizzare. E non aspettò nemmeno una risposta a quella domanda, iniziando ad incamminarsi con al fianco l’Hamilton. Doveva seguirlo, dopotutto, se voleva che gli dicesse qualcosa che non sapeva. Cosa poteva non sapere, Rea Hamilton? «Non sono ribelli quelli che hanno ideato il Labirinto, almeno non credo» iniziò, mettendo le mani in tasca e procedendo a passo lento, gli occhi puntati su un orizzonte sul quale le luci artificiali dei lampioni rischiaravano la periferia di una città che, sperava, fosse Londra. «Si fanno chiamare Plagiatori. Dicono che non sono i cattivi della situazione» Sbuffò, mentre non riusciva a capacitarsi delle parole dette dalla donna poche ore prima. Se uccidere persone per il solo gusto di selezionarne una senza, lasciando a questa poco e niente su cui veramente lavorare, se questo non li rendeva i cattivi della situazione, cosa li rendeva? Sadici psicolabili senza un hobby, evidentemente. Portò una mano sul volto, passando il pollice e l’indice sulle palpebre calate, cercando di riprendere un filo del discorso che aveva già perso. «Affermano di aver fatto tutto questo per noi, credono che bisogni collaborare per evitare la Fine» Si voltò verso la ragazza, rallentando il passo. «Poi è arrivato un bambino, abbastanza inquietante. Ha sproloquiato un po’, credo fosse una profezia la sua, e poi ha detto che la Fine è già qui» Di base, da quell'esperienza Al non ne aveva ricavato altro che un puzzle da rimettere a posto, ma del quale mancavano numerosi tasselli. «Questo è quanto, ma hanno detto che ci faranno avere loro notizie» Concluse, voltandosi verso una persona alla quale, non poi così volentieri, iniziava ad abituarsi, forse ad affezionarsi. Perché nonostante sapesse che le sue intenzioni fossero unicamente personali, bene o male gli stava dando quell'aiuto del quale aveva bisogno, ed Al doveva solo elaborare il fatto, metabolizzare il tutto.
    Era la vittima, il martire, ne era perfettamente consapevole ed era altrettanto consapevole che non avrebbe potuto cambiare ciò. Camminando sotto un cielo stellato che le nuvole tendevano a celare, mentre i rumori della città sembravano più vicini, si stava accorgendo di essere ad un bivio al quale era sempre stato, ma che mai aveva voluto notare. Era la vittima, il martire, e doveva solo scegliere se lasciarsi sopraffare da questa condizione o se accettarla e sfruttarla, così come Rea gli aveva detto di sfruttare il dolore. Tutto risiedeva in una domanda, fondamentale, che continuava a fare capolino in una mente al momento troppo disturbata.
    «Dove sei disposto a spingerti pur di sopravvivere?»
    20 september 2015
    london, maybe

    ROLE SCHEME © EFFE
     
    .
  7.     +2    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline

    Rea Hamilton
    « Every wound will shape me Every scar will build my throne »
    illusion - 24 y.o.- ex-slytherin - hunter - teamhamilton
    Un caso disperato. Non faceva che porre, e porsi, le domande sbagliate, Aloysius Crane. Non faceva che vedere i dettagli sbagliati, a soffermarsi sugli errori, su tutto ciò che non avrebbe potuto cambiare. Rendeva il suo lavoro più complesso, ma non impossibile. Come già accennato, a Rea Hamilton piacevano le sfide. «Non lo so, il perché. Ma so che sono stanco di questi sguardi che non riesco ad interpretare. Come mi vedi, Rea? Onestamente, perché io non riesco a capirlo. Come mi vedono tutti, perché sembra che non vada bene? Credo sia questo il perché, anche se probabilmente nemmeno ha un senso»
    Di fatti, non lo aveva. Un tempo apparentemente lontanissimo, anche la mora si era posta quella domanda: come la vedevano gli altri? Quand’era bambina, la risposta sorgeva spontanea, insieme ad un sorriso che ormai pare impossibile associare alla sua persona: fantastica. Senza un velo di malizia, senza quell’ironia tagliente dello sguardo ormai adulto della Hamilton. Un tono scherzoso che ben si adattava ad una bambina, mentre si prendeva gli angoli dello stupido abito in cui i suoi genitori l’avevano infilata per volgere un inchino al suo pubblico. E ricordava la risata di Charlotte, quelle risate spontanee dei bambini che da sempre fanno nascere un sorriso a tutti. Ricordava i primi mesi di Amos, quando poggiava il mento sulla sua culla e lo osservava dormire. Per poco, però: resisteva sì e no cinque minuti, prima di allungare una mano verso il suo viso, premendo un dito contro le guance paffute del neonato. «Tu non lo sai ancora, ma io sono tua sorella. Sarò la tua preferita» Autoritaria e quasi minacciosa, con quel cipiglio sicuro che solo gli infanti avevano. Ed era così facile credere in quel futuro: Rea era effettivamente quella preferita, fra le gemelle. Era quella che sorrideva di più, scherzava di più, rideva di più. Tendeva a mettere in ombra una Charlotte più timida e schiva sin da bambine. Eppure, con il tempo, sarebbe sempre stata Charlie la preferita. Quella che subito, attratto dalla fiamma più luminosa, ignoravi; quello che ti rendevi conto scaldare di più, nonostante le dimensioni ridotte. Detto in maniera semplicistica, Rea era l’infatuazione e Charlie l’amore, quello puro e disinteressato. Crescendo, seppur in ambienti differenti, la situazione non era cambiata granchè: Rea era ancora la fiamma più luminosa, quella di cui non potevi fare a meno di infatuarti, abbastanza da crederlo amore; ma era Charlotte quella per la quali si era disposti a sacrificare qualunque cosa. La Hamilton lo sapeva. Ed aveva sempre avuto il brutto vizio, la sua gemella, di volerle assomigliare: cosa vedeva Charlie in Rea? La stessa cosa che, Amos, avrebbe visto anni dopo. Qualcosa che i suoi genitori, probabilmente, mai avevano visto. C’era di più. A soli sei anni, avrebbe mestamente alzato gli occhi su di loro, grata che almeno loro lo sapessero. Cosa poteva importarle del resto del mondo, per la quale lei era moda passeggera, se aveva loro? Erano bambini, ma a Rea sarebbe bastato.
    Ormai quel qualcuno non c’era più.
    C’era chi credeva che gli Hamilton nascessero malvagi, sbagliati, che nel loro sangue non vi fosse altro che corruzione. Chi conosceva la Rea Hamilton adulta, non poteva immaginare una bambina differente. Girava voce che in tenera età strappasse ali alle farfalle e le incenerisse con la lente d’ingrandimento, come se non avesse mai avuto di meglio da fare, e quando quelle leggende metropolitane giungevano alle sue orecchie si limitava a sorridere stringendosi nelle spalle. Non c’era motivo che la credessero diversa, quando chiaramente non lo era più. E allora perché il brodino, sulla soglia di villa Hamilton, ne era sembrato così convinto? Erano passati anni, e nonostante Rea non l’avesse visto crescere, riusciva ad interpretarlo come un libro aperto. Ci credeva ancora, Amos Hamilton, alla bambina che gli prometteva sarebbe stata la sua sorella preferita.
    Avrebbe scoperto anche lui, sempre troppo tardi, che le persone crescevano.
    La verità, era che non importava cosa vedessero gli altri, perché non sarebbe mai stato ritratto sincero di una persona. La verità era che non importava come Rea Hamilton vedesse Aloysius Crane, perché non sarebbe stato reale. «Primo insegnamento: non farti troppe domande, se non sai darti una risposta soddisfacente. Poniti solo gli interrogativi per cui sai di poter trovare una soluzione. Se non comprendi uno sguardo, non dargli importanza» Seria, come raramente si permetteva di essere. Gli occhi incuriositi scivolavano sull’uomo, chiedendosi per la centesima volta quale maledetto motivo l’avesse spinta, sin dall’inizio, a dargli un briciolo di credito. Ci aveva creduto poco, Rea, in Al. Non era certo un segreto. Ed in quel momento si rendeva conto che non era solo il fatto che avesse i tasselli che le mancavano, a spingerla a rivolgergli la parola. Avrebbe potuto trovare modi più pragmatici, senza istruzioni di vita level Hamilton. Esistevano persone che riserbavano, in fondo al proprio cuore, un nocciolo di bontà che traspariva da ogni gesto, da ogni sguardo; esistevano persone per le quali valeva la pena lasciarlo intatto, quel nocciolo, poiché erano in grado di dare speranza, anche a chi non lo aveva, che un mondo del genere fosse possibile. Non per la Hamilton, ci sarebbe mancato altro, lei quella fase l’aveva passata da un pezzo, ma v’era necessità nel mondo di persone del genere: senza di loro, non avrebbero potuto esistere persone come Rea Hamilton. Il fatto che lei li reputasse sciocchi, non aveva importanza: perché la verità, Al, è che non conta ciò che penso io, ma quello che pensi te.
    E poi, c’erano persone come Aloysius. Non faceva parte della categoria sopracitata, e non perché non fosse buono –alcuni dettagli, in contesti del genere, erano irrilevanti: non è che nel team siamo tutti bagashi, semplicemente abbiamo uno scopo- ma perché esistevano persone che, per mantenere intatto quel nocciolo, dovevano combattere. Come, però? Contro cosa? Sacrificio. Si doveva perdere quell’innocenza, quell’ingenuità. Spesso si perdeva anche tutto il resto, o spesso si credeva solamente di averlo perduto. In quale categoria rientrassero gli Hamilton, non è dato saperlo. Bisognava trovare uno scopo, mettersi in gioco e presupporre che la posta fosse alta. In un contesto normale, Rea l’avrebbe semplicemente ignorato; per il bene superiore, l’avrebbe addestrato con un sorriso divertito sulle labbra.
    Si rese conto che Al le ricordava Charlotte. Le ricordava il suo fallimento personale. Non dovevano più esistere, persone come Charlie Hamilton. Era il momento di tirare fuori le palle, buon Dio, smetterla di fingersi un adorabile gatto quando era tutt’altro genere di felino. Ed era quello che continuava a chiedere ad Aloysius: se proprio devi essere un cane –perché della grazia felina hai poco Crane #sorrynotsorry-, almeno sforzati di ululare come Morgan comanda. «Ti vedo come qualcuno che fa troppe domande ed ha troppa paura di conoscere la risposta» Inclinò il capo alzando entrambe le sopracciglia con uno sguardo severo ed al contempo, come sempre, divertito. «Ed il punto è proprio quello, Al: non è la risposta a fare di te ciò che sei, o ciò che io o qualunque altra persona vediamo quando ti guardiamo» Le bastò socchiudere le palpebre, per sentire l’illusione scivolarle addosso. Sorrise, sapendo che l’uomo avrebbe visto le proprie labbra sorridere, i propri occhi verdi ammiccare nella sua direzione. «Cosa vedi adesso, Al?» Non era Rea a parlare, era Aloysius. Ma cambiava la sostanza? Poteva, un illusione, cambiare ciò che Rea era? «E ora?» Schioccò le dita, lasciando che l’immagine di Al venisse sostituita da quella di Christian Palmer. Inclinò il capo, sbattendo lentamente le ciglia con aria quasi annoiata, ma in realtà incredibilmente attenta. Aveva un metodo d’insegnamento un po’ rude… ma se non v’era divertimento, dopotutto, non v’era Rea Hamilton. «Potrei continuare tutta la sera» Nel sorriso che gli rivolse si sciolse l’ennesima illusione, lasciando la provocazione a pendere, pesante, nell’aria fra loro. Lei sapeva perfettamente com’era vista dagli altri, perché gli altri vedevano solo ciò che lei voleva mostrare. Illusioni, su illusioni, su altrettante illusioni. Aveva importanza, quella visione, solo se si teneva conto dello scopo prefissato. Qualcosa, in ogni caso, che andava al di là delle capacità di Al, perfino dopo che fosse passato sotto il suo sguardo di attenta maestra. Con certe capacità, o ci nascevi o ti ci facevano crescere. Certe capacità dovevi diventarle, altrimenti loro sarebbero diventate te. Era, a conti fatti, una debolezza.
    Era proprio il suo pregio migliore, fare delle proprie debolezze dei punti di forza.
    «Comunque, dato che mi stai simpatico, ci tengo a risponderti sinceramente: ti vedo come un uomo pieno di forza, saggezza, e come un’infinita fonte d’ispirazione» Sorrise dolce, socchiudendo le palpebre. Cos’era che diceva Nathaniel, di solito, a quel punto? Ah, sì. Attese una manciata di secondi, giusto per dargli tempo di domandarsi quanto, di sincero, ci fosse in quelle parole. «Bazinga» Sussurrò, facendogli l’occhiolino. «Scusa Al, ti vedo ancora solo come un Lampadario…ma confido nel fatto che avrò possibilità di ricredermi» Potresti diventare un lampione. Magari, un giorno, addirittura un faro. … Forse più faretto da giardino, che faro vero e proprio. Aveva ragione, lei aveva più risposte di lui. Ma fare la preziosa…davvero le aveva detto una cosa del genere? Non c’era necessità che lo facesse, Rea era preziosa. Mille difetti, ma era pur sempre Rea fuckin Hamilton.
    E tu, tu come mi vedi, Al? Sono l’eroe, il cattivo, la salvatrice, la peccatrice, la tentazione, la redenzione, la promessa. Sono la donna che ha pugnalato Yvonne al cuore, la stessa che ha lasciato scivolare Jay in un sonno più dolce. Quella che combatte, e che sa quando è il momento di ritirarsi. Che mente, e sa quando dire la verità. Sono bugiarda, onesta, vincitrice. Sono il sorriso, Al, e sono la mano che stringe alla gola finchè c’è vita.
    Quello che vedi è solo un illusione.
    Dovresti saperlo, ormai.

    Quando le domandò di parlare camminando, Rea alzò gli occhi al cielo. Non aveva alcuna voglia di camminare, men che meno in compagnia del Crane. Non perché non fosse una compagnia piacevole –oddio, anche- quanto per il fatto che… No, okay, era solo per quello. Perdoname Al por mi vida loca. Malgrado la sua mancanza di desiderio palese, lo seguì in quel suo vagare senza meta perché, in fin dei conti, voleva davvero sapere cos’aveva da dirle. Potevano esserci mille motivi per il quale Rea continuava a parlare con il biondino, ma il principale era pur sempre uno: Rea Hamilton. La mora doveva sapere qual era l’avversario, prima di preparare la battaglia. L’avevano detto anche loro, no? Conosci il tuo nemico. Chiaro suggerimento per gente come Al, dato che per quelli come lei quel motto era un mantra di vita. «Non sono ribelli quelli che hanno ideato il Labirinto, almeno non credo» Si sforzò di non commentare, mordendosi il labbro con aria seccata. Colpa sua, avrebbe dovuto specificarlo sin dall’inizio che il punto di vista di Al, ai fini della storia, non era rilevante. Quel credo, poi, non aiutava. Da quando si era risvegliata nella stanza dello specchio, aveva avuto la medesima intuizione. Anche secondo Rea non si trattava di ribelli. E ti ho già detto, Aladino, di dirmi qualcosa che non so. «Si fanno chiamare Plagiatori. Dicono che non sono i cattivi della situazione» Rivolse un mezzo sorriso al buio, inarcando un sopracciglio con aria scettica. Anche lei lo diceva spesso alle sue vittime, prima di affondare i denti nella carne ancora fresca. Era un predatore, ingannare era nella sua natura. «Affermano di aver fatto tutto questo per noi, credono che bisogni collaborare per evitare la Fine» Dio, sempre così melodrammatici. La fine per chi? Se li avevano utilizzate come cavie, probabilmente si trattava di loro stessi. Sarebbe stato perfettamente conforme al normale istinto di autoconservazione, anche se dannatamente seccante per i soggetti. «Poi è arrivato un bambino, abbastanza inquietante. Ha sproloquiato un po’, credo fosse una profezia la sua, e poi ha detto che la Fine è già qui» Con quanta leggerezza, Aladino, apriva bocca. Come già detto, non dava abbastanza importanza ai dettagli importanti del racconto. Purtroppo Rea si era preso l’ingrato compito di guidarlo in quel tortuoso cammino, quindi doveva reindirizzarlo sul giusto percorso. Si fermò improvvisamente, stringendo con forza –forse anche troppa, così imparava a non dire le cose giuste- il braccio dell’uomo per arrestare anche il suo cammino. Lo sguardo che gli rivolse era nuovamente serio, senza traccia di malizia o scherno. «Le profezie non sono qualcosa da prendere alla leggera, Crane. Non è un chiromante del mondo babbano, qui si parla di magia. Le profezie si avverano. Ne sei sicuro? Cos’ha detto, con esattezza?» Una profezia poteva cambiare tutto.
    Avrebbe cambiato tutto.
    20.09
    such a good question

    ROLE CODE © EFFE
     
    .
  8.     +1    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Professor
    Posts
    3,655
    Spolliciometro
    +1,903

    Status
    Offline

    aloysius angus crane
    if only i could go back when i was me
    DEATH EATER - 26 Y.O. - MUGGLE - LIGHT MANIPULATION - ALCOOL ADDICTED
    C’era stato, molti anni addietro, un periodo della vita di Al nel quale questo non avrebbe avuto bisogno delle lezioni di vita di Rea Hamilton, quando egoisticamente e senza alcun problema gli sguardi altrui non facevano che scivolargli sulla pelle, finché non cadevano al suolo, inutili e privi di un vero e proprio valore. C’era stato un tempo in cui di domande non se ne faceva, perché non gli interessava molto di nulla, disinteressato all’ennesima potenza di tutto ciò che lo circondava che non fosse la sua famiglia o, successivamente, Jo, un tempo in cui di quesiti non ve n’erano se non di banali, affatto esistenzialistici o anche solo minimamente impegnativi. C’era stato un tempo in cui Al credeva che nulla gli interessasse, che tutto, essendo passeggero, aveva poca importanza, e viveva bene, da solo -o perlomeno, così era solito credere, ma non era mai stato veramente solo, con due genitori a guardargli le spalle, con Chris spesso e volentieri al proprio fianco e con una persona come la Harvelle vicino. Ora, di quell’Aloysius Crane, non v’era più traccia, con tutti i dubbi che lo assillavano ad ogni sguardo, ad ogni giudizio non esposto.
    C’era stato un tempo, non così lontano, in cui Al era forte. E non era un suo vanto, o una cosa per la quale aveva strenuamente lottato affinché si concretizzasse. Semplicemente, scoprì di esserlo, per sé stesso e per gli altri, più forte di quanto gli fosse mai servito essere e per più persone di quante non credesse. C’era stato un tempo in cui Al aveva mollato quella radicale diffidenza verso chiunque abitasse quel mondo, riuscendo a divenire ciò che credeva fosse giusto essere: una persona gentile, altruista, che di quelle qualità ne faceva la propria forza. C’era stato un Al, in un passato non così remoto, che riusciva a non soffrire, né fisicamente, né psicologicamente, e che fosse per dare supporto ad un’Octavia, ad una Elysian, ad un Donnie o a chi per essi piuttosto che per il Crane non era importante. L’importante era che riusciva a resistere, a tirare avanti, a sopravvivere. Ora, di quella forza in Al non ve n’era neanche la minima traccia, con tutte le paura, con tutti i rammarichi che come la sua stessa ombra lo pedinavano ad ogni passo.
    C’era stato un tempo, così terribilmente vicino, in cui Al ci aveva riprovato. Aveva riprovato, dopo i laboratori, ad essere felice, ad essere forte, e ci era quasi riuscito. Sapeva che sarebbe stato un qualcosa di fin troppo effimero, ma c’era un tempo in cui comunque ci aveva sperato. Era finito, come temeva, troppo in fretta, ed era arrivato per il Crane il tempo di riprovare a tornare alle origini, ad essere uno stronzo come aveva finto di essere per tutta la sua giovinezza.
    E c’era poi il presente. Perché tutto quel tempo, tutto quello che era stato e che ora altro non era se non un eco lontano, sembrava sprecato. Anni vani, forze spese inutilmente, speranze spezzate, sogni infranti. C’era il presente, che con veemenza sembrava rinfacciargli tutte quelle opportunità con tartassanti dubbi che non voleva e ai quali non sapeva dare una risposta. C’era il presente a ricordargli ciò che non era più, ciò che aveva perso, ciò che non sarebbe mai veramente stato. C’era il presente, c’erano le parole di Rea che gli vorticavano senza pace nella mente, ma non era sicuro che dopo quello ci sarebbe stato un futuro. Non era sicuro di volerlo, perché non voleva continuare a sperare. Era inutile. «Primo insegnamento: non farti troppe domande, se non sai darti una risposta soddisfacente. Poniti solo gli interrogativi per cui sai di poter trovare una soluzione. Se non comprendi uno sguardo, non dargli importanza» Lo sguardo serio, quasi di rimprovero della mora restò fisso in quello di Al che, come ella gli aveva detto, non avrebbe lasciato. Perché nonostante non volesse sperare, non volesse provare, lo stava inevitabilmente rifacendo. Cambiare non era mai stata una buona scelta, per il Crane, eppure continuava a sbatterci la testa contro quel muro, perché se non era una buona scelta era sicuramente quella per la quale il Crane avrebbe optato nonostante avesse moltitudini di alternative davanti gli occhi. «Una volta ci riuscivo» sussurrò, serio. Non aveva bisogno che Rea credesse a quelle parole, sospettava che nonostante sembrava volesse aiutarlo non aveva in ogni caso voglia di dare troppo adito a quello che pensava; l’importante era che, dando voce a quel pensiero, si era accorto di non aver detto una bugia. Una volta, ci riusciva veramente. Restò ad ascoltare le sue parole, restò a sentire quello che diceva Rea su quanto fosse una persona che si faceva troppe domande e che non voleva sapere la risposta, aggrottando le sopracciglia. «Ed il punto è proprio quello, Al: non è la risposta a fare di te ciò che sei, o ciò che io o qualunque altra persona vediamo quando ti guardiamo» Inspirò forte, senza controbattere a tale affermazione. Voleva fargliela, una domanda, ma si trattenne, seguendo quel primo insegnamento che tanto andava predicando. E mentre davanti agli occhi vedeva sé stesso, vedeva il cugino, mentre serrava la mascella di fronte alle illusioni della Hamilton, cercando di ignorare il male che gli facevano quelle immagini, ci pensò sopra. Cos’è che ti rende ciò che sei, Al? E cosa sei, Al? Forse, forse poteva darsi una risposta. Forse sapeva cos’era Al, e cosa lo rendeva tale, ma la risposta non gli piaceva. Non voleva essere l’insieme dei suoi sbagli.
    Lasciò che un sorriso divertito gli scivolasse sulle labbra, si rilassò alle parole della ragazza piegando la testa in avanti, sentendosi quasi leggero. Non che avesse detto qualcosa di troppo esilarante o per quale valesse la pena essere sollevati, ma bastava sempre così poco ad alleviare la tensione. Forse una cosa che la Hamilton non poteva cogliere in quegli angoli della bocca leggermente sollevati, in quegli occhi socchiusi. La stessa sensazione che accompagnava ogni duello dell’Arena ed ogni ostacolo del Labirinto, quando una minuzia, nel generale clima non incoraggiante, riusciva a provocare una risata, uno scherzo. La stessa sensazione che aveva provato quando avevano parlato di unghie quella che doveva essere la stessa mattina di quel giorno e che, purtroppo, sembrava essere così lontana. La stessa sensazione che aveva provato dando a Chris uno smalto, la stessa che aveva provato guidando un tandem con Run. Chris. Run. Portò le palpebre a chiudersi mentre quello che era un sorriso si trasformava in una richiesta d’aria fin troppo difficile da accontentare, il tutto -sperava- lontano dagli occhi indiscreti di Rea. Ingoiò quell’aria come se fosse un boccone amaro, nocivo, troppo indigesto da mandare giù prima di rialzare il capo, prima di guardarsi per l’ultima volta alle spalle, sperando di non vedere uscire nessuno dei due da quel capannone.
    Sentì la pressione sul braccio e fu costretto a fermarsi, a voltarsi. How rude, Hamilton. «Le profezie non sono qualcosa da prendere alla leggera, Crane. Non è un chiromante del mondo babbano, qui si parla di magia. Le profezie si avverano. Ne sei sicuro? Cos’ha detto, con esattezza?» Lasciò vagare lo sguardo su di lei, studiandone il cipiglio improvvisamente troppo serio, senza traccia di uno scherzo, o di un’illusione, e ciò allertò Al più delle parole della mora. Strattonò il braccio, liberandosi dalla presa con non troppa delicatezza, sinceramente infastidito da quel tono di sufficienza. Poteva lasciarselo scorrere addosso, far finta di nulla, iniziare a fregarsene. Ma non da subito, prima bisognava mettere in chiaro le cose. «Non ho mai detto di averla presa alla leggera, e per quanto possa sembrare che tu sia una che le persone le capisce, sembra che tu non abbia inteso un cazzo» Iniziò, avvicinandosi a lei come aveva già fatto poco prima. Poteva piantargli di nuovo un’illusione contro il petto, poteva continuare i suoi giochetti, non era importante. Se c’era una cosa che tutto quel tempo sprecato gli aveva insegnato, era di non prendere nulla alla leggera. «Perché dopo aver visto tutto quello che sono stato costretto a vedere in quel fottuto Labirinto» e indicò, con il braccio, la direzione dalla quale entrambi erano venuti «non posso prenderla alla leggera. La cosa non mi piace quanto forse non piace a te. No, sicuramente mi piace meno di quanto non possa piacere a te: almeno tu non hai una cicatrice sulla testa, Hamilton. Ma permettimi di essere un po’ scettico su delle parole dette da un bambino, permettimelo. Permettimi di essere scettico anche sulla magia, Dio. Ero semplicemente un babbano speciale fino a pochi giorni fa, ero un babbano prima di scoprire di essere nato mago e abbandonato perché probabilmente difettoso» continuò, mentre le parole di Jo di qualche sera prima si ripresentavano. Si riproponevano nella sua mente, come vividi ricordi, e si riproponevano al suo petto, come pugnalate. Deglutì, restando inquietantemente serio. Voleva lasciar uscire le lacrime, sì che lo voleva, ma voleva far prima di tutto uscire tutta la rabbia. Rabbia per le verità nascoste per le quali non rimproverava nessuno ma che tali restavano; rabbia per essere stato considerato, in quel momento, da Rea Hamilton come uno che prendeva alla leggera quel tipo di situazioni; rabbia per tutto, rabbia accumulata, e che la non così tanto povera Hamilton doveva subirsi in quel momento. Voleva una dimostrazione, qualcosa che la facesse ricredere, no? Quale miglior occasione? «Permettimi di non cogliere subito il valore di una profezia, perché mai prima d’ora quattro merdose parole buttate al vento hanno condizionato la mia vita» Quattro parole buttate al vento non avevano mai condizionato la sua vita, vero, ma solo poco tempo prima tre erano state in grado di stravolgere tutto, perché quelle, con cognizione di causa, non erano state "gettate al vento". Si allontanò di qualche passo dalla ragazza, le scuse già sulla punta della lingua, pronte a mettere le mani avanti per quello scatto d’ira. Ma glielo aveva detto lei di non scusarsi, e nonostante non fosse uno che manteneva le promesse, Al rispettava il volere altrui. Inspirò un paio di volte, riflettendo sul fatto che ora Rea aveva un ottimo motivo per ucciderlo. «Ne sono sicuro, sì» annuì, incrociando le braccia davanti al petto, più per protezione della gabbia toracica da parte di un possibile attacco di lei che per altro, considerando che in realtà non era affatto certo che quella fosse una profezia, ma la bionda che era con lui ne era convinta. «Strade dipinte di scarlatto... I peccati dei genitori... Condanna vincitori trappole vuote CURA MALATTIA» Recitò la frase del bambino come una filastrocca imparata a memoria, nonostante non pensava nemmeno di ricordarla: era come se fosse radicata nel suo cervello, come se quel marchio sulla nuca gli permettesse di portare dietro quel fardello. «Ora, ti ho schiarito abbastanza le idee?» Chiese, immobile sul posto.
    Lì, l’unico che forse si era schiarito le idee, era Al.
    20 september 2015
    london, maybe

    ROLE SCHEME © EFFE


    Edited by al-coholism - 6/11/2015, 03:22
     
    .
  9.     +1    
     
    .
    Avatar

    only illusions are real

    Group
    Special Wizard
    Posts
    1,402
    Spolliciometro
    +1,033

    Status
    Offline

    Rea Hamilton
    « Every wound will shape me Every scar will build my throne »
    illusion - 24 y.o.- ex-slytherin - hunter - teamhamilton
    Alzò platealmente gli occhi al cielo, senza nascondere la noia al suo interlocutore. Ancora così ancorato a ciò che era stato; il passato, quando il presente scarseggiava di buone notizie, pareva sempre il luogo migliore dove allietarsi di quelle che, un tempo, erano ritenute disgrazie. Funzionava sempre così, ma il saperlo non rendeva la situazione meno ammorbante. Rea Hamilton stava cominciando a perdere la pazienza, dote di cui già non era particolare emblema, e non fece nulla per impedire ad Al di rendersene conto. Non era una samaritana, lei; non era lì per essere la sua spalla su cui piangere, anche se il Crane, forse, ancora non l’aveva afferrato. Se la Hamilton allungava una mano nel buio, non era per risollevare l’uomo dal baratro nel quale si stava cacciando, ma per spingerlo più a fondo. Doveva esplorare, comprendere. Doveva capire che non c’era nulla di male a lasciarsi il passato alle spalle, ed a sopravvivere secondo linee ben marcate: vendetta, rabbia, dolore. La fonte di tale forza poteva essere la più varia, stava a lui scegliere. Non gli avrebbe dipinto un futuro roseo fatto di arcobaleni e di false speranze, il lieto fine che le favole promettevano agli eroi. Avrebbe potuto, sicuramente, ingannarlo promettendo una vita che, a conti fatti, nessuno di loro avrebbe potuto permettersi. Lo faceva continuamente, ogni giorno della sua vita; era così che aveva ottenuto tutto ciò che aveva, era così che era diventata quel brivido a fior di pelle, fosse pura e semplice attrazione o paura giustificata. Gli faceva un po’ tenerezza, quel biondino dall’aria sempre confusa. Doveva essere brutto non riuscire a cogliere il disegno, stringere fra le mani solo fili di una bacheca troppo disordinata. Fortuna che c’era Rea Hamilton, nella vita di tali stolti. L’ingrato compito di districare la matassa per dare un senso all’intero situazione, toccava sempre a lei. Voleva avere le risposte al più presto, tornare a casa e cercare di sistemare quell’assurda vita che si stava delineando sotto i suoi occhi increduli. Il lupo solitario stava aprendo la sua tana a tanti piccoli lupetti sperduti, e se ad un occhio esterno poteva sembrare il gesto altruistico di chi ha a cuore la vita di altre persone come lei, la verità era ben diversa. In primo luogo, preferiva avere sotto mano quelli che, per cause ignote, purtroppo conoscevano il suo segreto. Poi, era sicuramente una base per la costruzione di quella fiducia reciproca che portava al circolo vizioso dei favori: io ti ospito, tu fai questo per me. Infine, plagiare giovani e labili menti a suo piacimento, era una fonte di potere non sottovalutabile.
    Ma in fondo, in fondo, c’era anche quel briciolo di desiderio di rivalsa nutrito non solo dalla vendetta; in fondo erano davvero persone come lei, trattate come feccia dal resto della società. Non poteva permetterlo, non con la sua gente. E l’avrebbero dimostrato, che non bisognava giocare con il fuoco. Evidentemente i maghi avevano avuto troppa fortuna, avevano incontrato esperimenti troppo buoni, che di quei poteri non sapevano cosa farsene. Evidentemente ancora non avevano colto la portata di quei poteri, e quanto, se solo l’avessero desiderato, avrebbero potuto ribaltare il mondo così com’era conosciuto. Ingenui. Stava solo attendendo il momento giusto per dimostrarlo: non voleva cambiare il mondo, Rea Hamilton, quello era un compito che spettava agli eroi. Conquistarlo, come i bravi cattivi, non avrebbe portato alcun vantaggio, se non quello di aumentare notevolmente la schiera dei suoi nemici. No, Rea voleva solo ciò che era loro dovuto: rispetto e paura. Prima di tutto ciò, però, doveva sistemare un piccolo affare di famiglia, riscuotendo favori qua e là. Sistemare una volta per tutte il tarlo della sua esistenza: Charlotte Hamilton. In quei mesi a New Hovel l’aveva tenuta sotto controllo, lasciandola vivere in un limbo d’illusione in cui viveva un esistenza che, in realtà, non le apparteneva né mai le sarebbe appartenuta. La osservava dormire, sfiorandole appena le tempie per convincerla di ciò che stava accadendo nella sua mente, per lasciarle godere di quella vita che non avrebbe più avuto. Inutile dire che nessuno ne era a conoscenza, e che lei non aveva alcuna voglia di spiegare a nessuno di quello strano –si trattava pur sempre di Rea- comportamento. Stava di fatto che ancor prima del Labirinto, Rea aveva un bel po’ di cose da fare. Dopo il Labirinto non solo le cose erano aumentate, ma anche le stanze occupate a Villa Hamilton. Oltre a Amos e Gemes, che facenti parte della famiglia avevano di diritto un letto sotto il suo tetto –no, non di diritto ovviamente: era solo troppo buona-, aveva appena lasciato un invito anche a Jayson a far loro compagnia, ed a breve sarebbe passata anche dal fremello di fuoco. Le famiglie devono rimanere unite, giusto? E Aloysius Crane, incoscientemente, si era appena guadagnato un posto in quella casa che pareva diventare, di ora in ora, più ostello per i poveri che Villa Hamilton. Era bastata una frase: hanno detto che ci faranno avere loro notizie. Doveva tenerlo d’occhio, per quanto poco facesse piacere ad entrambi i protagonisti di quella vicenda. Se i Plagiatori avessero avuto qualcosa da dire ad Al, il suo orecchio sarebbe stato lì a cogliere ogni parola. Se avessero voluto portarlo via… come aveva già detto, se loro volevano qualcosa, lei lo voleva di più. Indi, a seconda dei casi, avrebbe potuto scegliere di proteggerlo o di usarlo come moneta di scambio.
    Era ancora tutto in gioco.
    «Non ho mai detto di averla presa alla leggera, e per quanto possa sembrare che tu sia una che le persone le capisce, sembra che tu non abbia inteso un cazzo» Forse non avrebbe dovuto scartare subito l’idea di ucciderlo, liberando l’umanità di quel fardello. Aveva pensato che tenerlo in vita avrebbe avuto più vantaggi, in futuro, ma cominciava a credere che il gioco non valesse la candela. Sorrise sorniona, lasciando che fosse l’increspatura perfida delle labbra a parlare per lei. Si sarebbe reso conto in fretta di quanto stupida fosse la sua affermazione, non c’era bisogno che fosse la Hamilton a sottolinearlo per lui – o forse sì?. Di nuovo, l’uomo luminoso ritenne opportuno invadere i suoi spazi personali. L’aveva accettato una volta, due, sempre con la scintilla maliziosa di chi sapeva, in ogni caso, di avere l’arma dalla parte del manico. Ma Al stava dannatamente esagerando: come già detto, Rea Hamilton non era l’apogeo della pazienza. Lo fissò senza dire una parola, non lasciando trapelare nulla. Quella fiumana di rabbia repressa non la toccava affatto, parole vuote che a malapena le sfioravano le orecchie, ma il fatto che pensasse di potersi permettere un comportamento del genere con lei, che altro non stava facendo che cercare d’aiutarlo –e la diceva lunga-, la stava alquanto facendo incazzare. Non sarebbe stato utile a nessuno dei due sbatterlo contro un muro e puntargli una lama alla gola intimandolo di chiudere quella dannata bocca, e fu l’unico motivo che la spinse a non reagire, osservandolo apatica nel suo monologo. «Perché dopo aver visto tutto quello che sono stato costretto a vedere in quel fottuto Labirinto non posso prenderla alla leggera. La cosa non mi piace quanto forse non piace a te. No, sicuramente mi piace meno di quanto non possa piacere a te: almeno tu non hai una cicatrice sulla testa, Hamilton. Ma permettimi di essere un po’ scettico su delle parole dette da un bambino, permettimelo. Permettimi di essere scettico anche sulla magia, Dio. Ero semplicemente un babbano speciale fino a pochi giorni fa, ero un babbano prima di scoprire di essere nato mago e abbandonato perché probabilmente difettoso» Schioccò la lingua contro il palato, attendendo che fosse l’occhiata tagliente che gli stava rivolgendo a spingerlo, di sua spontanea volontà, ad allontanarsi. Perché, lo sapevamo entrambi, se l’avesse fatto allontanare lei sarebbe stato molto meno piacevole della prima volta, in cui si era trattata solo di un illusione. «Oh, povero piccolo Aloysius, sbattuto così impietosamente nel mondo dei grandi» Sporse il labbro all’infuori, sbattendo languidamente le ciglia. «Non te lo permetto, Crane. E non te lo permette questo mondo, di essere scettico. Appunto perché eri un babbano… o qualunque altra cosa» Di cui, sinceramente, non me ne frega un accidenti. «Dovresti sapere che credere è il primo passo per quel genere di consapevolezza che ti tiene in vita. Ma se vuoi morire, a questo punto della vicenda» Strinse gli occhi, mentre l’ombra di un sorriso illuminava nuovamente un volto altrimenti impassibile. «Non sarò più io a fermarti» Concluse in un sussurro, mentre lo sguardo allusivo lasciava che fosse l’uomo a comprendere la portata di quelle sue alquanto sciocche parole di giustificazione. Si stava creando da sé l’immagine di un’idiota, giuro, Rea non c’entrava nulla. E dire che avrebbe anche potuto apprezzare quel briciolo d’orgoglio che traspariva dalle parole di Al, essere fiera del lavoro compiuto fino a quel momento per il solo fatto che il babbano/mago/whatever stesse reagendo.
    Ovviamente aveva iniziato per il motivo sbagliato, e contro la persona sbagliata.
    Oh, Aladino, ancora così tanta strada da fare . Dire che sembrava una stronza insensibile, sarebbe parso ovvio: Rea era una stronza insensibile, e non era di certo a causa della sua simpatia se attirava tanto l’attenzione.
    O meglio, non subito. Poi ovviamente la si amava perché oltre ad essere affascinante, intelligente, e bellissima, era anche molto divertente. Ma diamo tempo al tempo.
    Piegò il braccio contro il proprio petto, il gomito destro contro la mano sinistra e le dita della mano destra a tamburellare sul labbro inferiore. Buon Dio, quanto odiava le profezie. Le profezie erano un’incognita, e anziché dare certezze sul futuro, lo rendevano più fragile. Meno comprensibile. Era come iniziare a guardare un film sapendo già il finale, si rischiava di tirare le conclusioni sbagliate. Nessuna salvezza. Non suonava affatto bene. Le scelte saranno la condanna, I vincitori saranno i vinti, I fili trappole, le promesse vuote. Si morse l’interno della guancia, puntando lo sguardo concentrato sul terreno. Cercava una risposta, ma più ripensava a quelle parole, più si rendeva conto che la domanda non era necessaria. Quella era una nuova realtà, richiedeva un nuovo interrogativo, un diverso piano. Il problema non era tanto la profezia in sé, quanto il fatto che l’avessero fatta udire al biondo. Volevano che loro sapessero.
    Bastardi manipolatori.
    «L'anello mancante sarà la Cura e la Malattia» Ripetè fra sé, alzando gli occhi al cielo. Il solo formare quelle parole con le proprie labbra, le rendeva più concrete e meno criptiche. La Cura, e la Malattia. Mise a fuoco la figura di Al, ma senza guardarlo davvero. Non era una persona, in quel momento, ma solo uno strumento. Scusa Al, i Plagiatori sono manipolatori bastardi, ma non hanno ancora conosciuto la Regina in carica.
    «Ho un appuntamento» Con chi? Con il destino. wat. Riprese a camminare, senza curarsi dell’uomo che aveva appena finito di parlare. «Torna a New Hovel, prepara la roba e vieni a questo indirizzo» Estrasse un biglietto da visita dal nulla, lasciandolo poi fra le mani di Al. Non esisteva realmente, non nel modo normalmente concepito, eppure quel biglietto era fra le mani dell’uomo, e comprendeva –oltre ad un bellissimo logo Hamilton- l’indirizzo della Villa. «Ti firmerò una deroga, al Ministero piacciono tanto le scartoffie burocratiche» Un vago cenno annoiato della mano nell’aria, mentre si voltava giusto di un quarto per lanciare un’occhiata al Crane. E sorrideva, Rea, di quel sorriso così difficile da dimenticare, o da comprendere. Quel sorriso che rimaneva lì, e non si era mai ben certi di quale fosse il luogo appropriato dove riporlo. «A quanto pare, diventeremo amici» Coinquilini le pareva azzardato, considerando che era pur sempre ancora casa –all’incirca- sua, e ne restava la padrona. «Non sei contento?» Domanda retorica, ovviamente.
    20.09
    such a good question

    ROLE CODE © EFFE
     
    .
8 replies since 29/10/2015, 16:18   411 views
  Share  
.
Top