Meeting.

con Rea Hamilton

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    « strong | 41 ANNI | DURMSTRANG | DEATH EATER »
    Poca gente, anzi quasi nessuno. Il freddo aveva convinto la popolazione magica a rintanarsi nelle proprie dimore, mettendo fuori il naso solo per assaporare l'odore di cibo che invadeva le strade. Era ora di cena, e per molti ha un significato ben più grande di quel che si possa pensare. I padri ritornano a casa dal lavoro, varcando la soglia e abbracciando la propria famiglia. Le madri sono intente a cucinare gustosi manicaretti, vedono i loro mariti rientrare...li baciano, li abbracciano… sono contente di rivederli rientrare, in tempi bui come quelli. I figli hanno il capo chino sul tavolo, o guardano il vuoto, in attesa di ricevere un abbraccio o una carezza, qualcosa che facesse lor capire di essere della famiglia. Solitamente funzionava così, in una famiglia normale. Gli uomini portavano lo stipendio a casa… le donne pensavano di far cosa migliore rimanendo a casa e muovendosi come forsennate gazzelle nell'ambiente della cucina, decisamente più consono considerati i tempi. E poi, c'erano gli uomini come Schuster. Lui non aveva una famiglia, non aveva degli affetti, non aveva una moglie. Diciamo che il più delle volte, il ruolo della moglie lo giocava una delle amanti di turno. Non in carezze, non in abbracci, ma in sesso sfrenato e smodato senza paragoni. Semplice sesso, quello che gli uomini in carriera fanno raramente dati gli impegni oberanti che li affliggono. Il Mangiamorte invece non aveva una vera e propria occupazione. Non lavorava al Ministero. Non aveva un vero e proprio stipendio da regalare ai suoi familiari. Semplicemente esercitava quella che era la sua passione… la tortura, fisica e psicologica che fosse. Aveva appena abbandonato una delle sue ultime vittime, lì sul ciglio della strada. Aveva l'aria afflitta, e si teneva le mani sulle guance, quasi a volersi riparare da un qualsivoglia attacco dell'ultimo minuto. Era stato decisamente magnanimo, con lei. Si era limitato a torturarla per pochi minuti, insistendo sul suo orientamento politico per saperne di più. Era convinto che una ragazzina così fosse una preda facile, per quegli stronzi degli estremisti. Quanti anni poteva avere? Quanto poteva aver vissuto, per capire realmente da che parte stare?
    Igor aveva insistito con le sue domande per qualche minuto, e dopo averle lanciato il suo incantesimo preferito si era fermato a fissarla negli occhi, leggendoci tutta la sua paura. Non era mai stato magnanimo, e forse quella era stata la sua caratteristica più rilevante. Aveva sempre fatto di tutto per sopprimere chiunque gli si fosse parato davanti… ma quella volta era andata diversamente. Quella volta, si era lasciato impietosire dalle lacrime di una ragazzina. Di una femmina. E in una parte del suo cuore non se lo sarebbe mai perdonato.
    «Ti converrebbe ringraziarmi, ma per stanotte puoi anche star zitta. Risparmia le tue urla per qualcuno che le meriti davvero.»
    E così dicendo, in forma lapidaria, si era allontanato da lei camminando sul marciapiede con fare seccato. Le mani infilate in tasca, le dita che si stringevano tra loro come una lenta tortura. In tutto quel camminare, si era quasi dimenticato dell'incontro che aveva richiesto qualche tempo prima alla coinquilina di sua sorella, una certa Charlotte. L'aveva solo vista in una fotografia con sua sorella… entrambe sorridenti, entrambe giovani e fresche, ma non aveva mai avuto la possibilità di poterla conoscere. Aveva spedito una lettera, e le aveva dato appuntamento in un locale nel centro di Londra per poter parlare un po' della sua piccolina. Dopotutto era lecito che il fratello maggiore si preoccupasse delle sorti della sua bimba. Sembrava assurdo, ma con lei Igor dimostrava di avere realmente un cuore. E tanto, tanto affetto.
    Varcò la porta del luogo, guardandosi intorno con le mani in tasca. Per quel che ne sapeva, data l'efficienza del suo volatile ormai vecchio e decrepito, la lettera poteva anche non essere giunta a destinazione, e quell'incontro non ci sarebbe mai stato. Si sedette sullo sgabello immediatamente di fronte al bancone, e appoggiò i gomiti su di esso sospirando appena. Anche il cameriere era maschio, dunque poca possibilità di approccio anche in quel caso.
    «Un Martini, grazie.» ordinò frettolosamente. Il giovane era intento a dare particolari attenzioni ad una ragazza piuttosto avvenente seduta al suo fianco, ma dopo averlo fulminato di sottecchi, si decise a preparare per primo quello che sarebbe stato il suo, di cocktail. Bastava quello a incutere timore. Bastava quello a farsi odiare anche dall'anima più semplice. Ma andava bene così… meglio quello, che la compassione a vita.
    Igor Schuster
    « the game is on, the life is off »

    © psìche, non copiare.
     
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    Fece scivolare la foto sul tavolino, rivolgendo un sorriso sornione all’uomo –Chuck? Bud? Aveva importanza?- seduto dalla parte opposta del lucido mogano della tavola calda. Un grugnito d’approvazione da parte di quello che chiameremo IDGAF –Idi-, mentre le dita callose si stringevano attorno alla pellicola sottile. «Niente male il vestito, Hamilton» Rea socchiuse le palpebre, chinando leggermente il capo in segno di ringraziamento. Dopotutto sapevano entrambi che l’abito era il meno, e che niente male era riduttivo e quasi offensivo. «Chi sono gli altri?» Davvero? Era in vena di convenevoli proprio in quel momento? Stava diventando troppo buona, considerando che ancora non gli aveva premuto una lama contro lo stomaco. Si passò l’indice sul labbro inferiore, aggrottando lievemente le sopracciglia. Lanciò un’occhiata alla foto ancora fra le mani di Idi, nonostante ormai la sapesse a memoria; aveva studiato ogni volto, ogni abito, ogni espressione alla ricerca di un indizio, una spiegazione che le rendesse chiaro chi fossero. Perché di certo non si trattava di Rea Hamilton: non sarebbe stato così improbabile vederla ad una settimana della moda, seppur non rientrasse nei suoi hobby preferiti… ma la compagnia? Perché mai la Hamilton avrebbe dovuto andare ad una maledetta sfilata in compagnia di Sam, Elsa, Chris e -buon Dio- Ashley? «Il mio harem. Vuoi unirti?» Domandò maliziosa, sbattendo rapidamente le ciglia con aria cinica. Idi non era suo amico, non era un suo collega, e non era qualcuno che potesse realmente rendersi utile. Rea non aveva alcuna necessità di trattarlo con guanti di velluto, come avrebbe fatto in altre occasioni –o con altre persone. Anzi, era lui a pendere dalle sue labbra, convinto di doverle qualcosa. Mi hai salvato la vita. Se solo avesse saputo che si era trattato di una mera coincidenza, e che lei avrebbe preferito di gran lunga liberarsi di lui alla prima occasione propizia. Comunque, così stavano le cose: pensava di esserle debitore, e da quel giorno cercava in ogni modo di rendersi un elemento valido; probabilmente, ed ingenuamente, si era preso una sbandata per Rea –possiamo biasimarlo? Le faceva quasi tenerezza, di fatti non si era mai presa il disturbo, come aveva fatto per altri prima di lui, di fargli credere che ci fosse qualcosa di più fra loro. «Sai o no chi ha scattato la foto?» Chiese melliflua andando subito al sodo, cercando nella sua espressione un indizio. Non si era certo recata lì per una chiacchierata fra amici, Morgan ce ne scampi. Idi si irrigidì, scuotendo il capo con frustrazione. Inutile spreco di tempo, d’ossigeno, e di fascino. Gli strappò la foto dalle mani, spingendo la sedia all’indietro pronta a togliere il disturbo. «Sei sempre una tale delusione» Concluse in tono veemente, irritata più con sé stessa per aver creduto che potesse avere almeno una risposta, che con lui; non era mai stato fra i suoi informatori preferiti, e se era ancora vivo era solo perché nella vita bisognava sempre riservarsi un pezzo di carne da mandare al macello. «Aspetta!» Quel tono implorante le torse le budella, ma altresì le impedì di andarsene. Una scossa piacevole nello constatare il proprio ascendente su di un uomo del quale neanche aveva memoria del nome, ed al contempo di puro disgusto per qualcuno che così poco le interessava. È pur sempre un essere umano, Rea. Appunto. Si fermò in piedi vicino a lui, mentre egli si asciugava le grosse mani sudate sui pantaloni. Se non ti ho ancora ucciso, è perché non ci sarebbe alcun divertimento pensò, poggiando delicatamente una mano sulla sua spalla invitandolo a proseguire. «I laboratori… stai ancora cercando per i laboratori?» Aw, ma allora non era così inutile. Il sorriso di Rea si fece languido, mentre inclinava il capo in attesa di ulteriori delucidazioni. Labirinto o meno, i Dottori sarebbero sempre stati la priorità della Hamilton: doveva distruggerli, ed al contempo trovare una breccia che le permettesse di far entrare qualcuno. «Perché me lo domandi?» «Io…» Tu…? Poggiò le dita sulle sua guance, scandendo lentamente ogni parola per timore –fondato- che non capisse. «Elabora, poi prendi appuntamento con il mio segretario» Sorrise con un velo d’ironia che Idi non avrebbe capito, mentre gli passava un recapito con il quale contattare Amos Hamilton, il brodino, ufficialmente segretario della sua sorelluan preferita. Ah, Amos non lo sapeva ancora?
    Che dire, Rea amava le sorprese.

    «Ho portato la cena» Spalancò la grande porte d’entrata alla villa, attirando l’attenzione dei vari abitanti. Xavier, Jayson, Aloyius, Judas; incomprensibilmente, gli unici che le andassero davvero a genio. Rea Hamilton aveva creato un team, se così si poteva definire, non solo per il mero scopo vendicativo. Non l’avrebbe mai ammesso, né accettato, ma non poteva togliersi quella sensazione viscerale di vuoto, di assenza, di oscurità priva di fondo. Non era stata una scelta razionale, e se solo se ne fosse resa conto, avrebbe tagliato i ponti con tutti, sparendo dalla circolazione finchè l’avesse ritenuto opportuno. Aveva una famiglia che non sapeva di avere, quanto era ironica la vita?, e non poteva impedirsi di odiarli tutti, dal primo all’ultimo. Odiava Gemes perché aveva avuto tutto ciò che a lei non era stato concesso; odiava Shia perché era nato nella famiglia giusta, quella che a lei sarebbe spettata di diritto, dove non l’avrebbero presa per un abominio. Odiava Amos, perché era una seconda, e più fragile, debolezza. Avrebbe sempre mostrato loro un dolce sorriso, sfiorato delicatamente i loro volti; avrebbe riso con loro, scherzato con loro, combattuto con loro. Ma non sarebbe mai, mai riuscita a togliersi di dosso quella sensazione di sbagliato. E non avrebbe mai smesso di fingere, di ingannare gli altri e sé stessa che quello, proprio quello, fosse ciò che aveva sempre voluto. «Davvero?» Le domandò qualche ingenua anima pia, guadagnandosi un bacio sulla guancia. «No, non sono tua madre. Qualcuno è passato a New Hovel?» Una cosa, una sola, gli aveva chiesto: che portassero la posta riservata alla gemella, Charlotte, a casa loro. Non era un compito così difficile, giusto? Non era impossibile, e gliel’aveva domandato con gentilezza, come un favore personale. Certo, non aveva dato alcuna spiegazione, ma per quale motivo avrebbe dovuto? «C’era solo una lettera» Aveva detto che odiava brodino? Aw, scherzava. «Sei sempre il mio preferito» Gli scompigliò i corti capelli biondi, un sorriso orgoglioso sulle labbra. Doveva ancora imparare tante cose, tipo diventare un sociopatico bastardo come il resto della famiglia, ma ci sarebbe stato tempo anche per quello.
    Ma adesso, andiamo: perché diamine Charlotte doveva avere come amico di penna proprio il Generale dell’esercito? In quale guaio si era, e di conseguenza le aveva, cacciate? Si morse il labbro inferiore, studiando la missiva. Era solo un appuntamento, ed aveva tutto da guadagnare dal comprendere quale rapporto legasse i due, sia mai che vi avesse trovato qualche spunto interessante. Le era passata per la mente l’idea di spacciarsi per la gemella, ma era troppo poco divertente. Senza contare che per quanto amasse giocare con il fuoco, Rea era ben conscia della possibilità di bruciarsi: Igor Schuster poteva fare molto, molto male, se solo avesse scoperto la verità.

    «Un Martini, grazie.» «Due» Corresse, prendendo posto vicino all’uomo. Indossava un paio di eleganti pantaloni scuri nei quali aveva infilato una leggera camicetta bianca; la giacca scura era allacciata su un fianco, e Rea la lasciò scivolare sullo sgabello vuoto al suo fianco. Rivolse un carezzevole sorriso a Schuster, constatando di persona –non aveva mai avuto il piacere di conoscerlo- quanto fosse un bell’uomo. Beh, mica scema Charlotte. «Igor, giusto?» Gli porse la mano, senza ancora dare indicazioni sulla sua persona, mentre con l'altra portava una ciocca di capelli scuri e mossi dietro l'orecchio. Preferiva che fosse lui il primo a sbottonarsi mlmlml rivelando il motivo di quell’incontro, piuttosto che partire in quarta confessando di non essere l’Hamilton giusta. E quello, il venir continuamente scambiata per Charlie, era un’altra delle cose che odiava di più della sua presenza nel mondo magico: almeno loro, Morgan, avrebbero dovuto conoscere l’unica e sola Hamilton, non anche la copia sbiadita. Quello era il suo regno. Si sarebbero mai stancate di portarle via tutto? #no #mainagioia

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    IGOR SCHUSTER ( ) - 41 Y.O. - death eater - thief - crucioman
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    Il Martini galleggiava elegantemente nel bicchiere, mosso appena dal movimento che avveniva al di là del bancone. Il barista, frenetico come non mai, si affrettava ad accontentare le richieste dei suoi clienti. Una Burrobirra di qua, una vodka liscia di là. Per certo, avrebbe anche tirato due sberle, se qualcuno le avesse ordinate. Era il suo mestiere… il cliente ha sempre ragione. Una regola come un'altra per nascondersi dietro ai propri atteggiamenti.
    Schuster si era estraniato completamente, guardando il suo ordine con fare parecchio insistente. Non lo stava osservando soltanto, vi aveva praticamente piantato gli occhi dall'attimo in cui gli era stato consegnato fino a quel momento. Tutto il mondo intorno a lui si era completamente dileguato, come se esistessero soltanto lui e quel liquido trasparente immerso in un letto di vetro. Le sue dita si mossero brevemente in direzione dello stelo, accarezzandolo con la punta dell'indice fino alla base, per poi tornar su con la stessa lentezza estenuante. Non batteva le palpebre. Curioso come ci riuscisse, dato che un essere umano in media riesce a non chiudere gli occhi solo per una manciata di secondi. In quel momento, aveva altro per la testa, e decisamente sbattere gli occhi non era il suo primo pensiero. Non si era nemmeno accorto di una stangona tacco quindici entrata poco prima nel locale, nonostante avesse chiesto di lui e nonostante si fosse persino accorta della sua presenza nel locale affollato di gente. Il Mangiamorte non passava inosservato, per lo meno quello poteva essere considerato un discreto pregio. La sua massiccia corporatura, la sua barba lievemente incolta, il suo sguardo ceruleo. Un uomo piacente che attira gli sguardi femminili come un ragno fa con le mosche. Intrappolava nella ragnatela le sue vittime, le costringeva a dimenarsi finché alla fine non cedevano al suo fascino ed ogni barriera cadeva come un castello di carte mosso dal vento. Il fascino di Igor era palpabile, persino in ogni minimo atteggiamento, in ogni muscolo del viso che si tendeva. Pochi vi avevano resistito, e quei pochi potevano dirsi fortunati. Dopotutto, non era affatto positivo essere preda di un quarantenne già alle prese con una crisi di mezza età avanzata. L'eterno Peter Pan che era in lui occupava una parte sin troppo rilevante, difficile da abbattere. Una barriera invalicabile che gli impediva di confrontarsi con il suo vero sé. Intrattenere monologhi con quella parte disturbata della sua personalità non era mai stato in cima ai suoi pensieri. Vivere alla giornata, quello sì. Occuparsi dei problemi con ostentata pacatezza, pensare prima al divertimento e poi ai doveri. Sarebbe la tipica vita di un ventenne. Dopotutto Schuster lo era. O quasi.
    Due, grazie. Una voce, alle sue spalle, lo costrinse ad interrompere quelle riflessioni a random che gli stavano mandando in pappa il cervello. Una voce netta, soave, distinta dalle altre. Come un canto delle Sirene, come un incantesimo recitato alla perfezione e che colpisce nel segno al primo colpo. Gli occhi di lui persero ogni interesse per il liquido dinnanzi, e si spostarono lateralmente, accogliendo la bellezza di una ragazza sedutasi al suo fianco. L'eleganza emergeva nei minimi dettagli, dall'abbigliamento curato allo sguardo sicuro, dalla folta chioma danzante intorno al suo viso al movimento delle dita lungo il bancone. Il generale era così, si comportava con le donne esattamente come faceva con le sue reclute. Spingendo lo sguardo oltre la ricchezza del vestiario, si avventurava in ipotesi sul fisico, sulla buona riuscita del corpo che gli si presentava, sulle caratteristiche peculiari. E quel corpo che aveva davanti, di peculiarità ne aveva infinite. Paradossale che si fosse distratto semplicemente per una manciata di secondi, gli era sembrato molto di più il tempo che aveva impiegato in quelle riflessioni sul senso della vita e minchiate varie. Curioso come avesse sprecato quegli attimi preziosi e si fosse perso l'ingresso di quella splendida creatura all'interno del locale. La sua bocca si distese in un sorriso poco accennato, sistemandosi lateralmente per ammirarla meglio in tutte le sue forme. Quel corpo non gli era nuovo, ma faticava a riconoscere in lei la timida ragazzina con cui sua sorella condivideva l'appartamento.
    « Scelta interessante » si limitò solo a commentare. La sua medesima scelta, dopotutto, per questo la giudicava interessante. Nulla passava per la mente di Igor che non fosse associabile alla sua stessa persona. Egocentrismo e prepotenza emergevano in ogni piccolo movimento, in ogni singola parola. Senza alcuna vergogna, senza alcuna pudicizia. Sarebbe stato a suo agio persino a raccontare barzellette oscene ad un prete cattolico nel bel mezzo di una messa. Un caratteraccio che nessuno ancora si era preso l'onere di domare.
    Charlotte Hamilton appariva diversa. Troppo diversa, dall'ultima volta. Eppure dimostrava di conoscerlo, dunque alcuno poteva essere se non lei. Sarebbe persino arrivato a sospettare che un'anima in cerca di “redenzione” avesse bevuto una pozione Polisucco per mutare il suo aspetto e prendere parte a quell'appuntamento. Tuttavia, la possibile redenzione attuata dall'uomo ben lontana era dal concetto classico del termine, e mal si adattava al contesto preso in esame il più delle volte. Egocentrismo. Ancora lui. Quel maledetto amico di vecchia data che si ripresentava ai suoi appuntamenti senza invito. Igor, giusto? Persino il suo nome, pronunciato da quelle splendide labbra, avevano un che di diverso dall'ultima volta. Per un attimo, si preoccupò di aver lasciato sua sorella nelle mani di quella ragazza, di averla affidata a lei riponendovi tanta fiducia. Magari in quel tempo era cambiata anche lei, e l'avrebbe trovata con un piercing al naso, non più vergine e già in attesa del primo figlio. Tentò di scacciare quella immagine dalla sua mente e annuì in direzione della mora, piegando il volto in avanti come fosse il più fico dei complimenti. « In persona » le rispose con un sordido sorriso, lasciando scivolare la mano sul bancone verso di lei, per poi prendere la sua e stringerla tra le dita. Gustò con la punta delle dita la morbidezza del dorso, con presa forte, sicura, decisa. Le lasciò scivolare brevemente lungo i polpastrelli, carezzandoli fugacemente, per poi tornare a muoverli lungo la superficie del bicchiere di vetro. « Perdona la franchezza, ma ti ricordavo diversa » avanzò, inarcando un sopracciglio con fare inquisitorio. Avrebbe dovuto farle delle domande per accertarsi che fosse davvero la coinquilina di sua sorella, ma lasciò cadere quell'accusa lasciandosi andare ad una risata divertita, che culminò con la sua lingua che si carezzava fugacemente l'angolo del labbro, come se si stesse prendendo gioco di sé stesso. « Come stai? » chiese, lanciando un'occhiata al barista che si stava avvicinando col suo bicchiere di Martini. Pensò fosse consono informarsi prima sulla sua salute, poi avrebbe cominciato con l'interrogatorio su sua sorella e avrebbe voluto renderlo il meno noioso possibile. Tentò di convincersi che quella non era Charlotte, che era solo una sua copia spiccicata. Troppo spiccicata. La motivazione era sin troppo semplice : voleva giustificare sin da subito quel che di lì a poco sarebbe probabilmente accaduto. La trovava sin troppo attraente, e solo cancellando l'idea che fosse un'amica di Kordelia si sarebbe potuto lasciar andare. Anche perché mancava solo quello… i vestiti che aveva indosso li aveva cancellati dalla mente già da un paio di minuti.
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    Lasciò che gli occhi del Generale scivolassero su di lei, senza neanche dar segno di essersene accorta. Il gioco più vecchio del mondo quello della preda e del cacciatore; il gioco più vecchio del mondo quello di fingere, lasciando la preda convinta d’esser il cacciatore finché non fosse giunto il momento di tirare fuori l’artiglieria pesante. Sperava, sinceramente e con egoistico interesse, che Charlotte non si fosse messa nei guai. Anzi, la Hamilton quasi temeva che avesse messo lei stessa nei guai, rivelando dettagli che avrebbe preferito marcissero nell’ombra. Un dubbio lecito, per quanto sottile. Charlie era troppo Charlie per simili partite meschine, l’esatto opposto della gemella. Era ormai risaputo che Rea, in quelle partite, non solo partecipava volentieri, ma aveva sempre la mano vincente. Punti di vista, sorella. Non poteva però che essere incuriosita dall’interesse mostrato da un alto esponente del Ministero per una babbana come Charlotte, difettosa per giunta. Non era semplice cattiveria quella di Rea, il difettosa che incurvava le sue labbra non stava a significare un dettaglio che, a suo parere, non quadrava: per l’esame soggettivo di Rea nei confronti della sorella, sarebbe stato necessario un quaderno interno, giacchè un solo termine non avrebbe reso l’idea. In Charlie, da quando era tornata dai laboratori, qualcosa si era spezzato. Pensava di poterci convivere, la gemella buona, sperava che un sorriso bastasse per tutte le ferite causate a chiunque sfuggisse di continuo dalla sua memoria. Pensava di poter sopravvivere, senza ricordi dei volti che ogni giorno riempivano la sua vita.
    Si sbagliava. Rea sapeva che Charlie stava lentamente, ma inevitabilmente, impazzendo; lo sentiva nel contorto e perverso legame che ancora, dopo anni, le univa. Le troncava il respiro: il suo arto fantasma.
    « Scelta interessante » Un sorriso le incurvò maliziosamente le labbra, mentre sorniona alzava gli occhi scuri su di lui. Dal tono riusciva a comprendere l’impalpabilità di quell’affermazione, apparentemente più un complimento a sé stesso che a lei. Accavallò le gambe per intrecciare le mani sulle ginocchia, stringendosi lievemente nelle spalle. « mi piace il bicchiere » rispose con un’innocenza davvero poco consona alla sua persona, nel tono una vena di strisciante ironia che parve aggrapparsi fisicamente alla sua bocca, distorcendo il sorriso ingenuo in una smorfia divertita. In quanto a bevande, era stata sempre tendente al whisky liscio: fuoco lungo la gola, dolce sulla pelle. Ovviamente, fingendosi sempre più civettuola e meno machiavellica di quanto realmente fosse, anche per quella bevanda aveva una scusa tutta personale: si intona alla mia carnagione, ammiccava sempre quando le domandavano il perché di quella scelta, concludendo con un lascivo occhiolino. Per Rea Hamilton, ogni domanda nascondeva sempre più di quanto il semplice interrogativo andasse a titillare, come se dalla sincerità di una risposta potessero trarre più conclusioni di quanto non fosse lecito. Preferiva la pensassero civettuola e frivola, piuttosto che rendersi conto di chi avevano davanti. Perlomeno alla prima uscita: la parte divertente la lasciava per il secondo appuntamento. Vide il dubbio nel suo sguardo, lo percepì concretamente come un brivido lungo la spina dorsale, ma decise di non prestarvi attenzione. Aveva sempre un piano B; un modo per uscirne, in ogni caso, con la fedina pulita. Valutava sempre ogni strada secondaria, ogni possibile inghippo ma anche plausibili agganci, prima di fare qualsivoglia cosa; nulla al caso, non in una vita come la sua. Si muoveva delicata come le ali di una libellula, conscia che ogni passo avrebbe potuto costarle molto più della sola reputazione. Perdere tutto, non che sarebbe stata la prima volta. Non fece mai vacillare il proprio sorriso, dolce ed ignaro, neanche quand’egli confermò d’essere Igor Schuster. Forse Charlotte avrebbe dovuto mostrarsi sorpresa, considerando i suoi problemi di memoria… ma lei non era Charlie, e non doveva esserlo. Doveva solo giocarsi l’effetto finché le fosse tornato utile. Lo osservò mentre con finezza e velati intenti che di pudico non avevano niente le stringeva la mano, posando appena le labbra sulla pelle. Socchiuse le palpebre, la bocca una linea di malizia lusingata, mentre le dita di lui scivolavano sui propri polpastrelli disegnando traiettorie delicate e calde. Schuster sapeva come giocare, doveva dargliene atto: abbastanza da risultare seducente, non troppo da risultare offensivo né poco da apparire ambiguo. «Perdona la franchezza, ma ti ricordavo diversa» Touchè. Ovviamente lui ricordava quella buon anima della sorella, lungi dall’assomigliarle se non per l’aspetto fisico. Ma questo non era necessario che Rea lo comprendesse, legittimo da parte sua non capire il fraintendimento: ah, pensavi fossi Charlotte? Perdonami, ti ho mandato una lettera dicendo che l’avrei sostituita, ma non ti dev’essere arrivata. I gufi al giorno d’oggi sanno essere molto…capricciosi. Corrugò le sopracciglia fingendosi sorpresa, ma senza osare d’inoltrarsi oltre nella conversazione, smentendo o meno l’aspettativa. La confusione scemò in un sorriso lascivo, le spalle strette fra loro. « le persone cambiano » semplice, diretta, e quasi sincera, distogliendo gli occhi scuri giusto il tempo per strizzare l’occhio al barista, il quale nel mentre aveva lasciato l’ordinazione davanti a lei. « Come stai? » Posò le dita alla base del bicchiere, compiendo misurati movimenti rotatori per far si che gin e vermut si mischiassero fra loro, ipnotizzata dal dondolare ritmico dell’oliva. Fu proprio a quella che rivolse la sua attenzione, infastidita dalla sua presenza mentre beveva il cocktail; presa un’estremità dello stuzzicadenti e, forse con una lentezza troppo calcolata, strinse l’oliva fra i denti. Sfilò il bastoncino, posandolo poi sul bancone, quindi dischiuse le labbra. « sopravvivo, il che è più di quanto possano dire molti altri » rispose in maniera spiccia, diametralmente opposta al comportamento tenuto fino a qualche momento prima. La seduzione poteva essere un’arma se applicata nel modo giusto, in piccole dosi. La Hamilton non era mai volgare, seppur in molti volessero appiopparle proprio quell’aggettivo: brutta da digerire la friendzone, eh? Dopo aver passato i polpastrelli sul labbro inferiore, con aria quasi distratta, finalmente si decise a rinfrescarsi la bocca con un sorso di Martini. « ma immagino che non siamo qui per parlare della mia salute, giusto Schuster? » nel sorriso v’era sempre una nota garbata, che ben accompagnava il tono mellifluo ed al contempo serio della Hamilton: voleva mantenere il discorso su un piano leggero, gestibile, ed allo stesso tempo voleva lasciar intendere di non essere una stupida, come spesso lasciava intuire con i suoi modi fanciulleschi. Si volse completamente verso di lui, le ginocchia che appena si sfioravano, quindi posò il bicchiere sul bancone e giunse le mani in grembo. Era il momento degli affari.


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