one more promise I couldn’t keep

post quest #05, shane&elsa

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    Mirror mirror on the wall
    Who's the baddest of them all?

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    heidruncrane
    « And nothing else matters now, you’re not here. So where are you? »
    mimesis - 19 y.o. (#ops)- the mutation - gamma (γ) - death eater
    Faceva male. Faceva dannatamente male. Run chiuse gli occhi, strizzando le palpebre, mentre le ginocchia cedevano. Ed eccola, puntuale come ogni volta, la Voce. Non ebbe bisogno di sentire il suo nome per sapere che era sulla lista. Non ebbe bisogno di sentire quell’Heidrun Crane, mentre il dolore pulsava dietro le palpebre abbassate come qualcosa di vivo. Spezzata a metà, spaccata dall’interno. Dio, come facevano? Un mugolio le sfuggì dalle labbra socchiuse, mentre anche la fronte si poggiava a terra. Riuscì a rivolgere un amaro sorriso a quella terra, mentre una risata amara cercava di farsi largo fra le ondate di quel sussultare. «Io l’avevo detto» Soffiò, con quel briciolo d’aria che le era rimasta nei polmoni. Le avevano detto che doveva avere importanza chi lei fosse, e Run non aveva fatto altro che essere sincera in quell’assurdità così impalpabile. Ed era stato così facile, con quel mezzo sorriso ad incurvarle le labbra, dire la verità. Sono tua figlia. Nessuno le aveva dato credito, neanche lei ci aveva creduto.
    Eppure, lei l’aveva detto. Quello era un addio? Perché Heidrun aveva deciso di andarsene, di non tornare indietro. Aveva corso tutta la vita, fuggendo da cose al di fuori della sua portata, ed una volta preso il ritmo era difficile capire quand’era il momento di fermarsi. Scappava, perché scappare era un po’ come respirare. Scappava perché pensava fosse l’unica scelta, perché credeva sempre che avrebbe trovato, alla fine di quella maratona, un motivo per fermarsi. Motivo che però continuava a sfuggirle dalle mani, come delicate bolle di sapone. Era lì, e poi non c’era più, ed era poco più avanti. Era lì, ma sempre troppo lontano dalle sue dita. Era lì, e non lo stringeva mai con troppa forza. Un dolore più profondo del mal di testa, mentre respirava la terra del Labirinto. Un dolore che le ricordava tutto ciò che aveva sbagliato, tutto ciò che non avrebbe più potuto essere, o dire. Non aveva niente, Heidrun Ryder Crane, se non quel sorriso dal sapore amaro e tagliente, che faceva più male a lei che al nulla a cui era rivolto.
    C’era una volta una famiglia tutt’altro che normale, la quale aveva fatto della normalità il suo mezzo. C’erano una volta gli Harvelle, un progetto e nessun rimpianto. C’erano una volta Aloysius Crane e Joanna Harvelle, due ragazzini che credevano di avere tutto il tempo del mondo a loro disposizione, a cui sarebbe bastata solo una parola per avere tutto. Due ragazzini che, nonostante tutto, credevano già di avere tutto.
    E poi, c’era stata la volta di Heidrun Ryder Crane.
    Ed era tutto finito.
    Come poteva un solo battito, una sola manina paffuta a stringere una mano troppo giovane, rovinare così tante vite con quel suo solo pulsare? Come poteva il suo filo aver piegato tutti gli altri, strappato il tempo, creato una prigione per così tanti? Era sempre stato così, con Run: lei viveva, e gli altri ne pagavano le conseguenze. Portava tutti in mare aperto, nel bel mezzo di una tempesta, e quando rompeva la superficie dell’acqua non c’era più nessuna mano a stringerla, a prometterle che tutto sarebbe andato per il meglio. Era sempre stato così, con Run: lei rimaneva, e gli altri se ne andavano. Quattro parole che contenevano un intero universo. Quattro parole che contenevano un intero c’era una volta.
    Io l’avevo detto.
    E c’era una volta Heidrun Ryder, che di Crane era destino avesse ben poco. Se fosse rimasta gli avrebbe sempre ricordato Jo, lo sapeva. L’aveva saputo fin dall’inizio Run, ma aveva creduto che con il tempo, forse… ma quando mai avrebbero avuto tempo? Quando mai quel tempo sarebbe bastato? Lo sapeva e basta. Non sarebbe riuscito a… Non aveva alcuna importanza, era comunque troppo tardi.
    Sempre troppo tardi.

    Era normale avere paura. Non c’era nulla di cui vergognarsi. Malgrado questa consapevolezza, Run rimase seduta contro la parete con le gambe strette con forza, troppa forza, al petto. Così, con quelle lacrime che insolenti continuavano a pungere gli occhi minacciando di uscire da un momento all’altro. Come aveva potuto sperarci? Come? Dio, che stupida. Si morse con forza il braccio, sentendo il sapore salato della divisa sulla lingua, così forte da percepire la punta dei denti sfiorare la carne. Soffocò così quel singhiozzo il quale, che Run lo volesse o meno, avrebbe trovato una valvola di sfogo. Così stupida, sempre. Colpa della speranza: quella, infida, rimaneva lì a covare sotto la cenere, nascosta da occhi indiscreti, in attesa solamente di un filo di paglia su cui far attecchire un nuovo incendio. Non sapeva di averla, Run, quella speranza. Non l’aveva saputo finchè non aveva visto Elsa di spalle, Lienne, Jaden. Faceva di nuovo così male, così tanto. Era come averla persa un’altra volta. Si sentiva nuovamente lacerata, con quel respiro che proprio non ne voleva sapere di entrare in gola, soffocato dall’ennesimo quanto vuoto singhiozzo. Com’era possibile, come, che un essere umano potesse sopportare tutto quello. Lei non lo voleva più, che qualcuno me lo tolga. Rivedeva l’uomo avventarsi su sua madre, la pelle di lei cedere sotto la spinta dell’acido di lui. La rivedeva scivolare a terra, mentre i capelli biondi disegnavano un ventaglio dietro un viso troppo pallido. Rivedeva quelle labbra esangui che le sorridevano, come se lei avesse anche potuto lontanamente meritare quel sorriso. Ah, Dio. Chinò il capo, nascondendo il volto ad una stanza cieca piena di persone addormentate. Avrebbe potuto andarsene, ma non ce la faceva.
    Continuava a crederci, che sarebbe tornata.
    Aveva detto che ci sarebbe stata. Dov’era? Perché le aveva mentito? Aveva bisogno di Jo, Heidrun. Aveva bisogno di sentire la sua voce, fosse anche solo per un secondo. Un’ultima volta, solo una. Rivedere quel sorriso, sentire quella mano fra i suoi capelli. Solo una. Invece, aveva fatto la cosa in cui eccelleva: era fuggita, lasciando quella responsabilità a qualcun altro. Lasciando la consapevolezza ad Al, lasciando a lui quel sorriso, quel tocco. Così, Heidrun, poteva ancora crederci. Poteva ancora illudersi che ci fosse una spiegazione, che sarebbe spuntata fra quei volti sconosciuti alzando gli occhi al cielo come solo lei sapeva fare, sbuffando qualcosa come: «Pensavi davvero che me ne sarei andata?» Ma allora perché non lo faceva, Joanna Harvelle? Perché se n’era andata? Così male, sentiva così male, e non sapeva da dove cominciare a fermare l’emorragia. Era dentro, probabilmente ci stava morendo.
    Gliel’aveva detto, che era dispiaciuta? Gliel’aveva detto che avrebbe voluto essere diversa, per lei? Perché non riusciva a ricordarlo. Non ci riusciva, era come se le parole fossero rimaste incastrate nel cervello, incapaci di trovare una via d’uscita. L’aveva detto che le voleva bene? Non abbastanza. Non sarebbe mai stata abbastanza. Uno credeva che, sapendo di rivolgere le ultime parole, queste uscissero spontanee. Uno credeva che si riuscisse a dire tutto, in una manciata di minuti, o che quella parte di tutto potesse bastare. Uno credeva che avrebbe potuto scegliere. L’aveva capito? perché nessuno possa dimenticare che è nella famiglia che si trova la vera forza, che è nella famiglia che si trova il coraggio, che è nella famiglia che si trova l’amore, che non si può vivere soli, che non bisogna essere lasciati soli.
    Che ipocrisia, mamma. Che ipocrisia, detto da te che mi hai appena lasciata da sola. Che eri la mia forza e il mio coraggio e il mio amore, e adesso non ho più niente. Eri la mia famiglia. Sarai sempre la mia famiglia.
    Ti prego mamma, smettila di prendermi per il culo, non è divertente. Ti prego dimmi che è un fottuto scherzo per tutti i Carnevali e gli Halloween ed i fottuti compleanni in cui non ci siamo viste. Ti prego dimmi che c’è ancora una possibilità, perché io senza di te di quella possibilità non me ne faccio niente.
    L’aveva vista in Elsa, in Lienne, in Jaden. L’aveva vista, ma non era mai lei. Non più.
    Con il tempo l’avrebbe imparato, Heidrun, che da certe cose non si poteva scappare, perché erano radicate nell’atto stesso della fuga. Con il tempo l’avrebbe imparato, Heidrun, che a certe cose non ci si abituava mai.
    Lei non aveva tempo.
    Lasciò passare qualche altro secondo, o forse ore, infine si alzò. Non cercò Elysian per assicurarsi che stesse bene, non cercò Gemes, Sean, Chris. Doveva fare solo una cosa, rapida e indolore. Non doveva per forza guardare, non doveva per forza rendersene conto, non doveva per forza scegliere. Avrebbe potuto guardare da un’altra parte, non pensare. Sarebbe stata solo un’altra promessa a puttane, cosa volete che sia. Non c’era più nessuno che potesse ricordarle quanto fosse una sciocca. Non c’era più nessuno a gridarle nelle orecchie la cosa giusta da fare, il che significava che sarebbe stata lei a scegliere. Non lo guardò neanche di sfuggita. Piantò gli occhi sulla scritta della parete, sapete mantenere un segreto?, ingoiando a fatica la risata nervosa che minacciava di lasciarla nuovamente in lacrime. Figurarsi, non si curò neanche di guardare le foto, motivo per il quale non si accorse del rave a cui sembrava aver partecipato in compagnia di El, Sean, Ignis, Gemes e una donna che non conosceva. Figurarsi. Allungò il braccio.
    Sentì la catenina dotto le dita. Breve e indolore, doveva solo tirare. Non doveva guardare, doveva solo strappare. Doveva solo portarsi via quel segreto, quella vita, quel c’era una volta. Te l’avevo detto di rimanere, mamma. Che avevo bisogno di te.. Strinse, obbligandosi a deglutire nonostante percepisse la gola improvvisamente gonfia. Stava cambiando tutto. Doveva solo tirare. Non ce la faccio. «Ero la bambina sbagliata. Sono diventata la ragazza sbagliata. Mi dispiace di essere anche la figlia sbagliata» Sussurrò appena, la voce che grattava a causa del nodo alla gola. Strappò la collanina dal collo di suo padre, stringendola nel palmo. Strappò il suo c’era una volta.
    C’era una volta Heidrun Ryder Crane, ma Aloysius non l’avrebbe saputo.

    Uscì da quel padiglione, non sentendosi sollevata dal fatto che l’incubo fosse finito. Non finiva mai, l’aveva intrappolata nelle sue spire. Quel veleno avrebbe perseguitato ogni suo sogno, ogni sua giornata, ogni suo minuto. Inutile illudersi che non fosse così. Inspirò, puntando gli occhi sul capannone opposto dal quale, intorpidite, cominciavano ad uscire altre persone. Inclinò il capo da un lato, studiandoli da cima a fondo. Erano la sua opportunità per tentare di rimettere le cose a posto. La sua opportunità per pareggiare i conti, a qualsiasi costo. Era il suo lavoro dopotutto, era stata addestrata per quello. Aveva cercato di spiegarlo a Jo, ma lei pensava non fosse colpa sua. Invece lo era eccome, perché Run si trovava ad un bivio: poteva scegliere di andarsene, lasciare che il tempo cancellasse le tracce del suo passaggio, e non voltarsi mai più al suo passato; oppure, poteva rituffarcisi in quel passato, ed anziché lasciarsene trasportare passivamente, essere l’onda che si infrangeva contro gli scogli. Poteva cominciare a cambiare le cose, ma aveva bisogno di qualcuno che, in quel momento, con il ricordo ancora caldo della sua famiglia sulla pelle, non riusciva ad essere. Aveva bisogno di Gamma, ma non ricordava come essere così… Distaccata. Non riusciva più a non pensare. Si premette i pugni sulle palpebre abbassate, approfittando della solitudine per imprecare a bassa voce. «Vaffanculo. V a f f a n c u l o» Doveva farlo per la ragazza che era stata. Doveva farlo per sua madre. Doveva farlo per suo padre. Doveva farlo, solo un’altra volta. Doveva farlo perché non ricapitasse di nuovo a persone come Elysian, o Chris, o le Jenkins. O Aveline. Colse con la coda dell’occhio una chioma bionda uscire dal magazzino a cui aveva appena dato le spalle, e si obbligò a non sperarci di nuovo come una stupida. Si obbligò a focalizzare subito l’attenzione sulla donna, riconoscendola: Elsa Queen. Forse fu quello, a riattivare il meccanismo di sopravvivenza. Forse era semplicemente giunto il momento di reagire.
    Sorrise. «Dobbiamo tornare nei Laboratori, Elsa» Aleggiavano nell’aria, quelle quattro parole: ho bisogno di te. Spavalda fino alla fine, ma si rendeva conto che da sola non ce l’avrebbe fatta. Non più, forse neanche mai era successo. Doveva solo resistere un altro po’, finire le cose lasciate in sospeso, e poi… Poi avrebbe potuto anche non cavarsela. Magari sarebbe finita nel giro della droga come ogni adolescente con problemi in famiglia, magari avrebbe trovato nell’alcool la sua cura. Pareggiare i conti. Rimasero in disparte, Run con le braccia incrociate al petto ed il ciondolo ancora stretto nella mano. Il metallo pareva non scaldarsi a contatto con la pelle –era normale?- gelandola fino all’osso. Lo vide, uno come tanti. Sguardo spaesato, forse alla ricerca di qualcuno. Quello un po’ vuoto e un po’ pieno, di chi ha tante cose da perdere e tante ne ha già perse. Lo vide, e seppe che quella sarebbe stata la sua vittima. La sua cavia.
    Solo un’altra volta. Era solo lavoro. Ne aveva bisogno, doveva tornare dagli Harvelle. Doveva distruggerli dall’interno, ma per farlo aveva bisogno di un mago.
    L’ennesimo esperimento. L’ennesima cicatrice che faceva di Run un mostro. Si costrinse a non chinare il capo, Gamma, ma a rivolgere un cordiale sorriso al giovane. Gli mostrò un briciolo di sincerità, il dolore nei grandi occhi verdi. Dopotutto una bugia si basa sempre sulla verità. «Ciao, scusami se ti disturbo. Io mi chiedevo solo… sai…» Si grattò il capo, fuggendo dal suo sguardo a causa di un imbarazzo che non provava. Timida, ma quando mai. «Non vorrei sembrare maleducata, ma… io e la mia amica dovremmo tornare a casa, i nostri genitori sono preoccupati e non sappiamo come arrivarci» E di nuovo, voleva solo piangere Heidrun. Ma non era Heidrun, quella era Gamma. Gamma non piangeva. Gamma non provava. Gamma era solo uno strumento. «Ti dispiacerebbe, per favore… No, niente, scusami, sciocca a pensarci. Solo che mi sembrano tutti … Non conosciamo nessuno. Perdonami il disturbo» Chinò mestamente il capo, lanciando l’esca per un passaggio a casa. Aveva solo diciannove anni, due grandi occhi malinconici, un sorriso rassicurante. Ed era ferita, così in profondità che nessuna Gamma avrebbe potuto cancellarlo.
    Abbocca, abbocca con le buone. Per favore, Shane Howe, non renderlo più difficile.
    20.09.2015
    nowhere

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    Edited by selcouth - 30/10/2015, 02:57
     
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    SHANE ICESPRITE-HOWE ( ) - 18 - Deatheater - lost soul
    « IT MATTERS NOT HOW STRAIT THE GATE, HOW CHARGED WITH PUNISHMENTS THE SCROLL,
    I AM THE MASTER OF MY FATE; I AM THE CAPTAIN OF MY SOUL. »
    Cosa si provava dopo la morte? Shane se lo era chiesto tante volte, curioso com'era su qualsiasi argomento riguardasse la vita. Si era ritrovato a chiedersi cosa si provasse nel morire, credendo fermamente che oltre il semplice spegnersi ci fosse altro, si provava altro, per poi smettere di provare del tutto qualsiasi cosa. Era convinto che dopo la morte non ci fosse niente ad attenderli e questo pensiero non lo faceva vivere in modo diverso da qualsiasi essere umano che credesse in qualcosa. Erano solo ipotesi, nessuno avrebbe davvero potuto sapere cosa ci fosse al di là, o meglio si, lo avrebbe saputo ma non lo avrebbe potuto raccontare. Persino i fantasmi di Hogwarts per lui non erano altro che invenzioni, incantesimi ben riusciti in vita che si manifestavano poi dopo la morte. I fantasmi non esistevano davvero. Ma allora perché sentiva freddo? Perché riusciva a percepire una mano stretta nella sua ancora? I suoi ricordi si spegnevano dentro quell'arena, quando dinnanzi a Hope aveva provato stupidamente a mettersi fuori gioco da solo, senza riuscirci perché la sua bacchetta gli era fedele, e si era rifiutata di scagliare l'incanto. Sì, ricordava alla perfezione come avesse poi deciso di prendersela proprio con la sua stecca, tirandola contro il pavimento e riuscendo a percepire chiaramente il legno che si spezzava. Non si era rotta davvero, ma qualcosa era cambiato per sempre in quella bacchetta fin troppo simile a lui, la sua lealtà era mutata e solo un esperto avrebbe potuto dirlo a Shane, lui non lo sapeva. Quando riprese coscienza, tutto intorno era sordo e quieto, il freddo proveniva dalla sua tasca e proprio dalla bacchetta che era inserita al suo interno, ma non gli diede molto peso al momento. Sollevò appena la testa dal pavimento, i cui capelli erano un ammasso spettinato ed incolto, rendendosi conto di non essere solo e trovando con estremo piacere il volto di Hope, che come lui stava lentamente riprendendo coscienza. Era tutto finito? Davvero? O erano semplicemente morti insieme e forse qualcosa esisteva sul serio al di là? Certo che così fosse stato, chi abitava lassù non si era dato tanto da fare per dare una buona accoglienza ai suoi ospiti, insomma il luogo in cui si trovavano, sembrava tanto simile ad un capanno, niente di angelico o di poetico. Si portò una mano alla testa, che faceva male perché aveva sbattuto contro il pavimento mentre sveniva. È finita. Bisbigliò tra se mentre lo sguardo andava a trovare tutti coloro che erano stati rapiti insieme a lui: c'era Deimos, c'era Maeve, Jason e ...Dakota. Non se la sentiva di andare da lui, abbracciarlo e dirgli qualsiasi cosa, non se la sentiva nemmeno di guardarlo negli occhi, infatti appena vide la sua testa rossa spostò lo sguardo nuovamente su Hope. Era troppo frastornato per fare chiarezza, troppo confuso ancora e desideroso di prendere aria. Una cosa era certa, tutti sapevano che fosse finita. L'aria la dentro era diversa, non si trovavano più nel labirinto, l'odore chimico era sparito lasciando spazio a quello di un atrio in disuso. Ho bisogno di prendere aria disse alla ragazza che dopo averlo abbracciato si era risollevata con lui. Non riesco a stare qua dentro e poi...non voglio parlarci. Lancio uno sguardo allusivo a Dakota. Ti aspetto fuori. Voleva stare solo per un po, adesso che il pericolo era passato.
    "Ti aspetto fuori" voleva dire... Ti aspetto fuori. Certamente non "Sparirò, contaci, non saprai più dove sono" #wat #lucadirisiodocet insomma, Shane non poteva sapere che ancora una volta la vita gli avesse teso un'imboscata. Ad un certo punto uno si fa anche delle domande, dopo cotanta sfiga: c'è chi se la prende con il demonio e decide di contattare un prete esorcista per capire meglio cosa non vada bene in se stesso o in una persona cara, c'era poi chi come Shane si rendeva conto che le probabilità che la sfiga se la prendesse sempre con lui fossero troppo altre per un normale calcolo statistico. Era una congiura, ovvio no? Qualche passo fuori dal capannone e potè finalmente respirare l'aria fresca della Gran Bretagna, si la riconosceva. L'amava come poche cose e forse aveva iniziato a pentirsi silenziosamente di aver voltato le spalle a quella terra per la Francia. Pochi giorni, vero, ma erano bastati per farlo ricredere su molte cose. Era nervoso, perchè troppe cose stavano andando nel verso sbagliato, ma infondo sia lui sia Hope erano ancora vivi e questo avrebbe dovuto bastare....... Cazzata. Era ovvio che non bastasse, non ne poteva davvero più di sfuggire a quella gente, a... Quei plagiatori. Non ne poteva più! Scalciò con rabbia un sassolino che si trovava sulla sua strada e che andò a finire a pochi passi da lui. Calpestò l'erba del campo in cui si trovava provando ad orientarsi, senza risultato. "Ciao scusami se ti disturbo" Una voce sconosciuta provenì dall'ombra, non aveva notato che non era solo là fuori, così si voltò verso quella direzione, rendendosi conto che le ombre erano due, una bionda e una mora. Avevano le sue stesse divise e sembravano stanche come lo era lui. Il tono non prometteva niente di buono, era la tipica voce di chi poi gli avrebbe chiesto un favore. Corrugò le sopracciglia, restando ad ascoltare la ragazza che gli domandava in modo un po' impacciato uno strappo a casa sua perché i genitori erano preoccupati. Per poi ritrattare subito, cambiando idea. Shane non era nato gentiluomo, questo era ovvio ed in quel momento il suo sguardo freddo parlava per lui, chiarendo ciò che le sue labbra non dicevano: voleva stare solo e tornare a casa sua il prima possibile. Chissà se suo zio aveva mobilitato anche la CIA babbana per ritrovarlo... In un primo momento gli venne da sorridere per la tenerezza di quella domanda, e l'apparente ingenuità con cui la mora gliel'aveva posta. Poi tornò serio. Be, usciva anche lui da giorni infernali e sicuramente al primo posto della lista delle cose da fare al momento non rientrava il volontariato per sconosciuti - senza contare che nonostante i genitori fossero morti da più di un anno, non aveva dimenticato quanto fidarsi degli sconosciuti facesse male, anche se questi erano due belle ragazze - ma non voleva nemmeno essere troppo scortese, la mora era comunque stata molto gentile e discreta. Certo! preferisci che chiami un taxi per te o che ti porti a cavallo fino a casa? Sollevò un sopracciglio. Era troppo nervoso per provare a celare il suo caratteraccio, ma gli sembrava davvero assurdo. Perché doveva mettersi nei panni di altri se altri non provavano a mettersi nei suoi? Ciao. Concluse voltandosi per andarsene.
    the heart is deceitful above all things,
     
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  3. #QUEENHAMILTON
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    Elsa Queen
    I CAN'T FORGET BUT IS THE ONLY CHOICE TO SURVIVE.
    23 - PUROSANGUE - DEATHEATER - WIZARD - CRIOCINESI - #TEAMHAMILTON

    Dicono che basti un secondo, un unico secondo per realizzare che è giunta la fine, dicono che basti un attimo per rivedere la propria esistenza specchiata negli occhi di qualcuno, in un arma, in una figura dai tratti indefiniti ma questo era un privilegio riservato al resto del mondo non certo ad Elsa Queen. Lei non c'era mai stata, lei quell'attimo l'aveva sempre mancato, era sempre arrivata giusto un secondo dopo della fine, per una questione di fortuna, sfiga o chissà cos'altro la bionda in qualche modo mancava il momento, in qualsiasi circostanza. Ed anche in quel labirinto aveva sbagliato, aveva sbagliato come suo solito fin dal principio ma tra le tante incertezze, gli ostacoli le avevano mostrato una via da percorrere, un qualcosa per cui valesse la pena sporcarsi le mani, se stessa. #insegnamentihamilton Aveva chiuso con le buone maniere, con i modi garbati, aveva chiuso con i mezzi sorrisi, aveva chiuso con le persone che non si meritavano nulla, aveva finito di ricercare la felicità in un esistenza utopica che mai sarebbe riuscita a raggiungere. Stare in quel luogo l'aveva fatta svegliare, l'aveva scossa, l'aveva convinta che alla fin fine la realtà non era altro che una visione mentale che lei stessa si creava, un'illusione. Un'illusione che Rea sapeva gestire in modo ammirevole ma lei avrebbe saputo fare lo stesso? Sarebbe riuscita a vivere senza regole dettate da degli idioti dal camice bianco? Da degli uomini dalla cravatta sempre perfettamente annodata? Dottori, ministeriali, ribelli. Era una guerra alla fine senza alcuno scopo, tutti loro, tutti loro avevano commesso errori, errori che si riperquotevano nel mondo magico e babbano, ormai non c'era più qualcuno che poteva considerarsi dalla parte dei buoni o dei cattivi , la sottile linea che divideva il bianco dal nero si era fusa con essi, ormai c'erano solo una moltitudine di persone... ed il TeamHamilton.
    Come una scheggia, come la punta di una freccia Elsa aveva sentito il proiettile trapassarle la spalla, l'aveva sentito perforare la carne bruciandola , aveva sentito il muscolo intorpidirsi mentre in qualche modo, troppo tardi, lei posava una mano per trattenere il dolore, per reggere il peso di quel colpo che sembrava volerla lasciare a terra, voleva costringerla ad uscire dai giochi. Alla fine ci sarebbero riusciti, sarebbero riusciti ad ottenere qualsiasi cosa quelli che li avevano rinchiusi lì dentro e più i minuti scorrevano tra le sue dita, più la ragazza si rendeva conto che alla fine loro erano stati delle semplici pedine, nemmeno Rea era riuscita a sfuggire a quel controllo, lei aveva scelto di uscire dalla partita ma alla fine era proprio questo che quei tizi volevano. Volevano una cura. Una.
    Quando la voce cominciò a scandire la lista degli eliminati, solo in quel momento la Queen capì che solamente uno di loro sarebbe sopravvissuto, sarebbe uscito per una porta che gli altri nemmeno avrebbero visto.
    Una cura. Una.
    Sorrise maliziosa, sorrise nonostante il dolore di quella pallottola rischiasse di farla crollare a terra da un momento all'altro, sorrise ripensando a quanto tutto quel gioco fosse stato stupido, erano riusciti a tenerli sotto scacco, tutti gli esperimenti presenti nel labirinto avevano dato la colpa a quelli che li avevano rinchiusi, avevano permesso a dei fantasmi di far compiere loro azioni non volute... vivere o morire? Era stato veramente quello il rischio? Avevano realizzato fino a dove ci si potesse spingere per difendere i propri ideali, per difendere le proprie illusioni, quella piccola sfera di cristallo che custudiva l'essenza delle loro vite. Cosa avevano cercato di combattere in quei giorni? Della polvere che si sfrantumava nell'aria, dei cloni, dei veri esseri umani ma la verità è che avevano solo combattuto contro loro stessi, contro le paure, le incertezze, le proprie volontà. E gli Hamilton avevano vinto, erano rimasti fedeli a ciò che si erano sempre dimostrati, degli stronzi, degli umani, delle persone difficili ma soprattutto enigmatiche, delle persone che non permettevano a nessuno di condizionarle perché loro non erano le pedine, loro erano il gioco.
    La Queen invece in quel labirinto si era costruita il suo personale castello, aveva avuto il coraggio di cambiare strada e mandare elegantemente a fanculo il resto ed ora, ora che anche lei stava cadendo, ora che stava posando la testa su quel pavimento sconnesso, quasi ne era felice, si era sempre chiesta cosa ci fosse oltre quell'assurda mascherata, si era sempre chiesta dove finissero il resto degli esperimenti falliti, aveva l'occasione di scoprirlo ma sinceramente si sentiva tutto fuor che un fallimento, la sua vita era appena iniziata. Quella non era una condanna, quella voce non era una conclusione, era solo l'ennesima prova, l'ennesimo test, l'ennesima illusione.
    Sentì il freddo sotto di se, riaprì le palpebre facendo scivolare lo sguardo sul pavimento, portò una mano alla testa togliendosi i capelli dalla faccia facendo poi scivolare le dita fino alla spalla. Nulla. Nemmeno un segno. Nemmeno una cicatrice. Intorno a lei il resto degli esperimenti, i rimasugli di quello spettacolo, alla fine le marionette erano state riposte nel magazzino, buttate lì senza alcun riguardo. Strinse il pugno infastidita da quel trattamento poco consono a degli esseri umani accorgendosi di un biglietto, lo aprì immaginando gia chi poteva essere il mittente. Lesse l'indirizzo, solo quello c'era indicato ma per Elsa, per Elsa era come se fosse stato un invito. Un invito ad recarsi nuovamente nella casa della Hamilton.
    La bionda si rimise in piedi , si sgranchì le gambe passando tra i corpi privi di senso di quelle persone, di quei numeri, riconobbe molti di loro ma in quell'istante voleva solamente uscire, voleva respirare senza il timore di essere in qualche modo sorvegliata, voleva urlare a pieni polmoni senza che nessuno oltre la notte potesse sentire la sua voce. Si avvicinò ad una specie di bacheca dove stavano appese in rassegna delle immagini, le loro immagini, la Queen rise amaramente, per tutto quel tempo lei per il mondo se ne era stata alla settimana della moda con Rea, avevano coperto tutte le tracce, avevano eliminato ogni singolo indizio perché la mora aveva ragione... tutto era una fottuta dannata illusione.
    Aveva oltrepassato la porta d'uscita e non appena i suoi piedi vennero a contatto con i marciapiedi di Londra la bionda esultò tra se sognando il momento in cui si sarebbe trovata distesa tra i morbidi cuscini di piume del suo letto. Cominciò a camminare, incerta sulla strada da percorrere ma le sarebbe bastato avvicinarsi al centro per individuare la sua accogliente casetta, oh si sarebbe fatta una doccia, una vera doccia, se ne sarebbe uscita in accappatoio ed avrebbe preparato una bella cena per poi sdariairsi sul letto con un bicchiere ricolmo di whisky tra le dita. Mentre gia pregustava il tanto atteso momento però incrociò con gli occhi gelidi una figura dai lunghi capelli muoversi a pochi metri da lei, riconobbe la giovane Crane viva e vegeta, le si avvicinò per salutarla, un gesto di cortesia che dopotutto le doveva ma questa la fermò, la fermò con una frase che mai Elsa avrebbe immaginato di sentirsi dire.
    "Dobbiamo tornare nei laboratori." #WAAAAAAAT???? Aveva realmente detto laboratori... la Queen esaminò la sua vecchia amica, alzò un sopracciglio con fare interrogatorio, non sembrava soffrire di qualche momentanea crisi psicopatica e nemmeno era ubriaca... no stava dicendo sul serio. Ma come poteva essere vero? I laboratori erano stati smamtellati dai mangiamorte, se la era svignata per miracolo, non potevano essere stati ricostruiti a meno che... che non ce ne fossero stati altri.
    Rimase a fissarla qualche istante senza dire nulla, la mora aveva un'espressione stravolta in volto, era come se dovesse fare qualcosa di veramente importante e che stesse in qualche modo chiedendole aiuto ma nessuno obbligava la criocineta a fare qualcosa, non sarebbe mai andata contro la propria volontà per il bene di qualcun altro. Rientrare nei laboratori non doveva essere semplice ma era una possibilità che la bionda mai aveva calcolato di riuscire ad ottenere, conti in sospeso ne aveva molti, forse troppi, tornare a spacciarsi per la figlia dei Brising era una bella sfida ma dopotutto ormai non aveva nulla da perdere e poi voleva vedere se riusciva a recuperare qualcosa di utile , voleva riuscire a mettere le mani su dei progetti senza correre il rischio di venire scoperta. "Sai come arrivarci?" Chiese schiettamente acconsentendo alla frase di Heidrun. Perché stava tornando in quel luogo? Per se stessa? Per aiutare la giovane che aveva di fronte? Domande troppo complicate. Ci andava perché aveva voglia di farlo. Perché nonostante fosse appena uscita da un luogo di pura follia voleva proprio vedere se tra Estremisti e Plagiatori ci fosse qualche collegamento.
    Vide Run in tutta risposta bloccare un giovane e chiedergli di accompagnarle a casa... eccolo il loro biglietto da visita. #boombitches. Elsa si avvicinò al ragazzo, le buone maniere non erano proprio il suo forte ma tra persone dirette ci si capiva (?) solitamente. "Basta che ci illustri come raggiungere il centro poi ce la possiamo cavare da sole." Lanciò un occhiata alla Crane, se il tipetto non aboccava all'amo beh... allora avrebbero potuto divertirsi un poco prima di raggiungere i cancelli dei laboratori.
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    Strinse le labbra fra loro e sorrise. Un sorriso forzato, che mal celava il disappunto per la risposta del giovane. Gli aveva dato la possibilità di scegliere le buone maniere, nessuno avrebbe potuto imputarle il contrario. In quei tre anni marchiati a inchiostro sul suo braccio in quell’unico, pregno di semantica, termine – agathokakological- c’era tutto ciò che si poteva voler sapere su Gamma. Ciò che era stata, e ciò che aveva dovuto essere per portare a compimento le operazioni di adescamento. Era stata una spacciatrice, una ragazza in cerca d’aiuto, un’amante, una talent scout, un’amica ed una spalla su cui piangere. Era stata la promessa che dietro l’angolo ci sarebbe stato un futuro migliore, bastava solo avere il coraggio di affacciarsi sulla nuova strada. Immancabilmente tradiva la loro fiducia, trascinandoli –volenti o nolenti- nei Laboratori. Mai nessuno le era rimasto particolarmente impresso, almeno non razionalmente. Di tanto in tanto si rendeva conto che i volti dei suoi incubi avrebbe potuto associarli a loro, le sue vittime, ma preferiva non farci caso. Ricordava però perfettamente la ragazzina dagli occhi azzurri, i capelli ramati ed il viso dolce di chi, un destino del genere, non lo meritava. Più della sua fisionomia, ricordava la sensazione di sbagliato che aveva provato quando i Dottori l’avevano allontanata portandola alla sua cella. Qualcosa che era difficile da dimenticare, difficile quanto rimuovere il tatuaggio sul braccio. Sarebbe sempre rimasto lì, a ricordarle la donna che stava diventando. Non era una dei buoni, Heidrun Crane. Poteva fingere, con quei grandi occhi verdi ed il sorriso divertito sulle labbra, con la battuta sempre pronta sulla punta della lingua ed un senso dell’umorismo non sottovalutabile. Poteva fingere, ma quell’immagine non avrebbe mai retto con la dura, capricciosa, realtà. Heidrun non sarebbe mai stata una dei buoni.
    Ma almeno ci aveva provato.
    «Certo! preferisci che chiami un taxi per te o che ti porti a cavallo fino a casa?» Roteò gli occhi verso Elsa, mentre il proprio potere allungava le sue invisibili dita per palpare, sfiorare, i poteri altrui. Li saggiava con la punta delle falangi: fuoco, acqua, ghiaccio, tempo, ombre, luce, illusioni, perfino chiaroveggenza, assorbimento cinetico, mimesi, metamorfosi, telecinesi. Così tanti da esserne inebriata. Li sentiva, ciascuno di loro, come un diverso pulsante da premere in caso di emergenza all’interno della propria mente. Erano tutti lì, a sua disposizione: Run avrebbe solamente dovuto schiacciare, ed attendere di essere investita da quell’onda sotto pelle, in ogni cellula, nel suo essere. Era ciò che gli Harvelle avevano sperato diventasse: figlia di un Esperimento e di un mago privato dei suoi poteri, Run aveva sviluppato la capacità di adattarsi all’ambiente assorbendo ciò che la circondava, cambiando forma a seconda delle esigenze. Mimesi, una sola parola che racchiudeva un intero mondo. Imitazione. Imitava poteri, abilità, emozioni, pensieri. Run era la parodia di tutto, ed allo stesso tempo aveva sviluppato un’identità solo sua, che non di rado trapelava da ogni sua sfaccettatura.
    Il ragazzino aveva voltato loro le spalle, da bravo stronzetto del ghetto, dopo quell’illuminante battuta per la quale doveva credersi l’apogeo della simpatia. Lasciando da parte le intenzioni non troppo buone di Run, era quello il modo di rivolgersi a due ragazze in difficoltà, ancora provate dall’esperienza appena vissuta? Che maleducato. «Basta che ci illustri come raggiungere il centro poi ce la possiamo cavare da sole» Ci provò anche la bionda, e la Crane non potè che rimanere piacevolmente stupita. Non era come lei, Elsa. La Queen era più diretta, girava meno intorno al nocciolo della questione. Dopotutto Elsa non era stata addestrata per quello, il suo compito era stato un altro. Adorabile ad averci provato, ma Shane Howe aveva già perso la sua opportunità. Si beò qualche secondo di ogni potere nel circondario, chiedendosi pigramente quale avrebbe fatto al caso suo. Erano tutti così… eccitanti, che Run avrebbe potuto dimenticare ogni cosa, perfino respirare, rimanendo a cibarsi solamente di quella sensazione di invincibilità. Ma non aveva tempo: doveva tornare nei Laboratori, portare loro un dono, e cominciare a distruggerli pezzo dopo pezzo. Doveva trovare gli Harvelle, e mostrare loro in cosa l’avevano trasformata. Era anche colpa loro. Era il loro esperimento, ed avrebbero provato sulla loro pelle cosa esso comportava. Fece scrocchiare le dita, inspirando profondamente. «È inutile Elsa, non ci vuole aiutare» Si strinse nelle spalle, mentre un ghigno si dipingeva sul suo viso. «Vorrà dire che l’aiuto dovremo prendercelo da noi» Aveva provato con la via più semplice, quella che non avrebbe alcun male al ragazzino. Avrebbe semplicemente dovuto mostrarsi gentile, era chiedere troppo? L’umanità però non era migliorata durante la sua assenza: faceva ancora schifo. Strinse la telecinesi, vecchia compagna di viaggio ed ormai affidabile amica, porgendo un ringraziamento silenzioso agli Hamilton if u know what i mean. Strinse il pugno, ed improvvisa alzò il braccio in direzione del giovanotto, lanciandolo contro la parete del magazzino nel quale erano stato rinchiusi. «La bacchetta, per favore» Senza attendere risposta, piegando indice e medio verso il proprio palmo, approfittando del fatto che lui non potesse muoversi gliela strappò di mano. Non era più il momento di essere gentile. Lo tenne, con la mano ancora rivolta verso di lui, premuto con forza contro il metallo, premendo leggermente sulla trachea. Faticava a respirare? La punta dei piedi sfiorava appena il terreno, ma dopotutto non aveva bisogno che rimanesse sano e salvo. Poteva anche essere mezzo morto per quanto la riguardava, l’importante era che arrivasse dagli Harvelle. La scelta sul come era tutta del ragazzo. «Ironia della vita, sei davvero il nostro Cavallo» di Troia. Un dono per i Dottori, che in realtà nascondeva soldati pronti a combattere. «Mi chiamo Gamma» Un sorriso dolce le increspò la bocca, ma non arrivò mai agli occhi. Stava cambiando tutto, era cambiato tutto.
    Era finito qualcosa. Era finita Heidrun Ryder Crane, la ragazzina che desiderava solo una vita normale. La nuova Run, voleva solo una cosa: vendetta. «E farai meglio ed essere più educato, perché non sarò così gentile la prossima volta» Lo lasciò di colpo, stringendo però ancora la bacchetta del ragazzo nella propria mano. Se avesse provato a fuggire… Avrebbero visto chi correva più veloce.
    20.09.2015
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    Anche la bionda provò a chiedergli un passaggio, ma davvero, era una presa per il culo? Che si smaterializzassero a casa loro, perchè la gente doveva sempre affidarsi a qualcun altro per portare a termine qualcosa? Shane non si affidava a nessuno anche perchè così nessuno si sarebbe affidato a lui, era una scelta di vita semplice e decisa, gli aveva detto NO, avrebbero dovuto trovarsi qualcun altro da molestare. Ma si sa, chi dice donna dice danno e come non previsto la situazione prese presto una brutta piega. Non importava alla fine se Shane fosse stato diffidente e distaccato con quelle sconosciute per salvaguardarsi, non importava perchè era già finito nella tana del lupo - anzi, delle lupe - quando aveva deciso di staccarsi dal gruppo di conoscenti e amici per stare da solo. Aveva sbagliato. La conversazione che seguì la sua voltata di spalle gli arrivò alle orecchie allarmandolo ed accelerò il passo verso il capanno, al quale non sarebbe mai arrivato. Sentì solamente una spinta sollevarlo da terra e fargli sfrecciare l'aria gelida che come una frusta battè sul suo volto, seguita poi dal contraccolpo contro il metallo di quel magazzino. Attutì con la spalla e lo zigomo quella botta troppo forte per appartenere ad un essere umano, e colpì la parete del capanno troppo dura persino per essere ammaccata, aveva subito in pieno il colpo ed ogni sua articolazione aveva scricchiolato. Le parti colpite, spalla e volto, iniziarono a bruciare subito, e gli occhi si inumidirono per il colpo, ma non riusciva a muovere le braccia per toccarsi o muoversi. Come una calamita il suo corpo rimase appeso al muro a qualche centimetro da terra, faticava a respirare perchè qualcosa di invisibile, come una corda, gli premeva contro la trachea. Faceva malissimo, ma lo sopportava bene, perchè il dolore fisico non era mai stato davvero un problema. Al momento la rabbia faceva più male. Ma chi erano quelle due? Non riusciva a metterle a fuoco perchè quando aprì gli occhi la vista vacillò per qualche istante senza trovare un punto fisso. Sapeva solo che non avevano usato la bacchetta per fermarlo. Probabilmente erano due esperimenti, di quelli che da un po' di tempo giravano al castello e frequentavano le lezioni, dentro il capanno ne aveva visti altri conosciuti. Shane non sapeva cosa aspettarsi perchè sapeva poco sui loro poteri, alla fine comunque gli sfuggiva cosa volessero da lui. Se entrambe erano state nel labirinto ed erano riuscite a sopravvivere, che voglia avevano di combattere ancora? E non potevano chiedere un passaggio a qualcun altro? Cosa doveva fare, forse portare addosso un cartello con su scritto "Non mi rivolgete la parola, non voglio avere a che fare con nessuno?" Cristo, ad occhio e croce dentro quel magazzino erano in quaranta, perchè proprio lui? Tossì provando a parlare ma ne uscì un gemito soffocato, niente di più. Quando poi la sua bacchetta sfrecciò in direzione della mora, Shane iniziò a dimenarsi facendo forza con il busto per liberarsi di quella presa. N-oo.. Provò senza risultato ad alzare le braccia per riafferrare la stecca ma era bloccato. Odiava tante cose, Shane, ma al primo posto nella lista delle cose più odiate probabilmente era segnata l'avversione verso chi lo privava della propria libertà, di movimento e di espressione in questo caso. "Ironia della vita, sei davvero il nostro Cavallo" Tossì ancora stringendo le palpebre provando a domandarsi cosa intendesse dire, ma iniziava a soffrire per la mancanza di ossigeno. La ragazza si presentò con un nome strano, Gamma, forse un nome in codice ma nessun cognome ovviamente, cosìcchè questo rendesse inutile anche l'aver enunciato il proprio nome. Non esistevano motivi per cui lui avrebbe dovuto chiamarla. Quando finalmente la presa che come un fuoco gli bruciava ogni muscolo si allentò, Shane cadde a terra attutendo con le mani la caduta. Con la mano si toccò lo zigomo indolenzito bagnandosi le dita del suo sangue e fece una smorfia. Sollevò lo sguardo sui piedi delle due ragazze e poi risalì verso entrambe. Avevano la sua bacchetta, non avrebbe fatto gesti avventati per il momento, ma non avrebbe nemmeno ceduto al loro volere tanto facilmente. Gamma, la mamma non ti ha insegnato ad accettare i no? La provocò mentre con le mani stringeva dei fili di erba secca sul terreno, guardandola con sguardo di fuoco e provando a tirarsi su. Non capiva perchè prendersela tanto per un No, forse un No un po' colorito ma insomma...era nelle sue facoltà poter rifiutare una richiesta, dopotutto era stanco anche lui ed aveva esaurito la pazienza dentro il labirinto. L'orgoglio era un problema fin troppo diffuso, lui per primo soffriva di questa terribile malattia, e non avrebbe abbassato il capo dinnanzi alla prepotenza. Avrebbe potuto iniziare a gridare aiuto, sarebbe stata una mossa intelligente e saggia, ma non era una ragazzina che rischiava lo stupro - senza contare che temeva che sentendo la sua voce avrebbe risposto solo Hope e non la voleva in mezzo a questa faida. Cosa volete? Domandò infine, volevano farlo fuori per un passaggio? Maledetto premestruo.
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    Tutto si poteva dire di Elsa ma la bionda non poteva di certo definirsi una persona paziente, non più. Non aveva più voglia di rimanere ad aspettare gli altri, non aveva voglia di lasciarsi trattare come una semplice ragazzina alla ricerca di solo Dio sa che cosa, era stanca di farsi trasportare dalla massa, fare la carina non era mai stato il suo forte ed in quel momento decise che beh... si sarebbe presa quello che voleva con o senza permesso altrui. I suoi occhi di ghiaccio corsero in direzione della mora mentre questa prima parlava e poi agiva, scaraventava, con un semplice gesto della mano , quel giovane contro la parete del magazzino, solamente quando egli fu immobilizzato lei si avvicinò osservandolo. Non doveva avere più di una ventina d'anni , la stessa età in cui anche lei era rimasta vittima dei laboratori e di quell'assurdo sistema ma forse... forse tutto il male non veniva poi per nuocere. All'interno del labirinto, mentre superava quelle prove, si era resa conto che c'era qualcosa dentro di lei, qualcosa che era meglio non ostacolare, che c'era un potere da sfruttare, che c'era una nuova risorsa sulla quale poter contare. I sentimenti non l'avevano mai aiutata, era finita con il ferirsi da sola, con il lasciarsi morire pur di proteggere il resto del mondo... ma da cosa poi? Lì fuori c'erano pericoli molto più grandi di Elise. Ora come ora nessuno avrebbe più dovuto temere lei ma Elsa, Elsa Queen che aveva lasciato morire finalmente quella parte di se, che aveva sepolto la paura, che ormai si vedeva solamente come un mostro da lei stesso creato, un nuovo stile di vita dove tutto prendeva una prospettiva diversa, quasi divertente, quasi comica. Fece scivolare le dita fredde sul volto di Howe mentre l'espressione di lei era delineata da un sorriso sarcastico, si era avvicinata a lui appena aveva aperto bocca, non sopportava quando la gente non riusciva a mettere da parte l'orgoglio, non sopportava quando la gente voleva inutilmente farsi del male. Provocare Heidrun con quella frase non era stata sicuramente una mossa astuta ed Elsa decise che per quanto la riguardava, avevano sentito a sufficienza. Senza dire altro portò inaspettatamente le labbra vicine a quelle del ragazzo mentre continuava a guardarlo negli occhi ma quando fu a pochi centimetri dalla carne ci soffiò delicatamente sopra creando uno strato di brina bianca. La donna si staccò di colpo e mentre lui cadeva a terra e nuovamente parlava chiedendo cosa volessero, lei di tutta risposta schioccò le dita producendo una scintilla blu, la bocca di Shane venne magicamente sigillata da un bavaglio, un bavaglio ghiacciato. "La mamma non ti ha insegnato il rispetto ragazzino? E soprattutto...non ti ha insegnato a non fare domande... come posso esprimermi...idiote?" chiese sorridendo e chinandosi ai suoi piedi tenendo il viso perfetto di lui con una mano. Peccato che fosse il loro lasciapassare per l'inferno, sembrava un ragazzo promettente anche se un po troppo ribelle. Lo lasciò andare tornando affianco a Run e facendole appena cenno con il capo per farle capire che era meglio sbrigarsi, se veramente sapeva dove erano situati i laboratori allora non resta altro che raggiungerli e sperare che il biglietto da visita assicurasse loro un'entrata sicura.
    16 SETTEMBRE 2015
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    Osservò il ragazzo scivolare a terra e tossire in cerca d’aria, il bagliore di un sorriso sbagliato sulle labbra carnose. C’era qualcosa, in quegli occhi verdi, che aveva un sapore diverso sul palato. Era ancora la giovane di qualche giorno prima, che incauta era fuggita dai Laboratori per cercare una vita che mai le sarebbe appartenuta? Poteva una persona cambiare così tanto in meno di una settimana? Forse, e dico forse, Run era sempre stata così. Aveva solo avuto bisogno di una scintilla, qualcosa che la infiammasse facendo divampare un altrimenti piccolo e brillante fuoco in un vero e proprio incendio, di quelli che non si spengono finchè non hanno consumato ogni trave, ogni centimetro di pelle, ogni brandello di speranza. Joanna Harvelle non aveva mai visto quel lato di Heidrun Ryder; Todd e Jeremy non l’avevano mai visto, così come la signora Milkobitch. Neanche all’interno del Labirinto aveva lasciato prevalere quell’oscurità, nemmeno quando, spezzata all’interno, aveva acceso la candela voltando le spalle a sua madre. Sapeva che Jo non avrebbe voluto quello per lei, l’aveva visto nel suo sorriso. Lei era sicura che Run fosse buona, che la sua luce fosse quel genere di luminosità che non poteva essere intaccata dal buio. Forgive me father, I love you mother . Errare era umano. E da una parte, Heidrun era lieta che sua madre l’avesse vista, fino alla fine, come quella bambina che la implorava di spingerla più in alto sull’altalena. Le aveva lasciato un’ultima immagine di sé poco sincera, ne era consapevole, ma aveva avuto bisogno di quell’ultimo sorriso. Di sapere che per lei, almeno per la sua mamma, sarebbe sempre rimasta la ragazzina con una collana di margherite ed il sorriso storto volto verso il cielo.
    Shane Howe non le aveva fatto nulla, se non trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato. Non era vendetta, non era sadico divertimento, era solo necessità. Aveva bisogno di riavvicinarsi al suo ruolo, giustificando l’assenza di quei giorni, e quale modo migliore se non farlo con un dono? Lo doveva a chiunque fosse mai entrato in contatto con i Laboratori. Non le dispiaceva per il rosso, e lui faceva di tutto per fare in modo che la situazione rimanesse così, ma non significava neanche che ne fosse felice. A cosa lo stava strappando? A quale futuro lo stava condannando? Domande che preferiva non porsi razionalmente, perché la risposta avrebbe potuto farle paura, trattenendola dall’andare fino in fondo. Poteva anche essere un mostro, la Crane, ma c’erano mostri più grandi e terrificanti di lei. «Gamma, la mamma non ti ha insegnato ad accettare i no?» Il sorriso non cambiò, ma lo sguardo si fece se possibile ancor più distaccato e minaccioso. La mamma gliel’aveva insegnato, ma si sapeva che era prerogativa dei figli accettare cosa apprendere e cosa lasciare al caso. Da una parte, se fosse stato un altro giorno, avrebbe ammirato la caparbietà del giovane, quel suo continuo aggrapparsi ad una ribellione che non faceva altro che scavare una fossa già troppo profonda. Avrebbe apprezzato il suo senso dell’umorismo, abbastanza forse da lasciarlo andare con una pacca sulle spalle per cercare un’altra vittima. Purtroppo per Shane Howe, non era un altro giorno. Piegò la gamba all’indietro e tirò un calcio, con forza, contro lo stomaco del fanciullo, che tentò di difendersi quanto poteva. Non stava giocando pulito, Heidrun, ma dopotutto non doveva: non era un duello ad armi pari, erano solo necessari preliminari prima dell’inevitabile. Stava cercando di reimparare a respirare, lo vedeva nell’affannoso alzarsi ed abbassarsi del suo petto, e quel calcio doveva aver nuovamente spezzato la consueta routine, obbligandolo a ricadere nel vortice del soffocamento. Sentì l’intera gamba tremare a causa dell’impatto, ma non per questo si allontanò lasciando tregua al povero giovanotto. Accanimento terapeutico: era coerente, lo riservava a tutti in egual maniera. Allargò le mani e con esse fece in modo che le braccia del ragazzo scattassero verso l’alto, obbligate dalla telecinesi a movimenti innaturali che lo tenessero immobile, incapace di reagire. Stava esagerando? Probabilmente sì. Ma quel tuo mamma, ironico sulle labbra di Shane, le ricordava di star cadendo senza possibilità di risalita. Premette il piede contro il suo sterno, pressando verso il basso ed ammonendolo, con lo sguardo, a non fare gesti azzardati. Se fosse stato un altro giorno, quegli occhi chiari avrebbero smosso qualcosa nel suo animo, Gamma o Run che fosse. Le avrebbe impedito di continuare, perlomeno in quella maniera. Magari avrebbe comunque portato avanti la crociata, ma con meno violenza. E sì, le sarebbe dispiaciuto.
    Ma non lo era, un altro giorno. Si strinse nelle spalle, senza mai distogliere lo sguardo da quello da Shane. «L’ha fatto, ma quando il gatto non c’è i topi ballano» E dire che in una vita diversa, i due avrebbero anche potuto andare d’accordo. Magari, per una sera, avrebbero perfino potuto infatuarsi l’uno dell’altra, lasciando che fosse Hogwarts a far da sfondo ad una breve quanto intensa notte d’amore. E invece.
    Rimase immobile mentre lasciava la presa sul giovane, e questi si alzava. Era una qualità d’ammirare quella: rialzarsi sempre, indipendentemente da quanto in basso si venisse spinti. Purtroppo per lui, Heidrun non era particolarmente in vena di ammirazione in quel momento. Voleva solo finire in fretta, arrivare più vicina agli Harvelle nel minor tempo possibile. Non era mai stata una ragazza paziente, e quel teatrino stava durando troppo a lungo. Fu Elsa, con un garbo che la fece sorridere dolorosamente, ad impedire a Shane di dire alcunchè con un bavaglio di ghiaccio. Strinse le mani fra loro, inspirando profondamente. Cosa volevano? Si avvicinò a lui con il palmo aperto, ed appoggiò le dita sia sulla sua spalla che su quella di Elsa. «Lo vedrai presto» Dire ad un agnello che la meta era il mattatoio, era una violenza psicologica che non avrebbe augurato a nessuno dei suoi nemici. Preferiva lasciarlo nel dubbio, cosicché il peggio si sedimentasse nei suoi pensieri, per poi fargli comprendere che la situazione avrebbe sempre potuto aggravarsi: non lo stava portando a morire, solo a perdersi.
    Shane Howe non lo sapeva ancora, ma lei ed Elsa gli stavano facendo un favore.
    Chiuse gli occhi, rimembrando la porta azzurra di casa Harvelle. C’era una scala, subito dopo il salotto, che portava ad una cantina. Da quella cantina, i Laboratori sopravvissuti erano ancora collegati fra loro, nascosti agli occhi del mondo. Il ministero li stava smantellando, quindi dovevano tutelarsi; stavano già cominciando a cercare nuovi nascondigli, anfratti sempre più bui, pur di non abbandonare la causa. Doveva agire in fretta se non voleva perdere l’unico punto di riferimento che possedeva; doveva avvicinarsi a loro, scoprire le mosse successive, e riferirle al Ministro o chi per esso. Non comprendeva la politica dei maghi, ma sapeva che un modo l’avrebbe trovato. Heidrun avrebbe finalmente fatto la scelta giusta. Visualizzò il luogo dietro le palpebre abbassate, quindi aumentò la stretta sui due compagni di viaggio e, trattenendo il respiro, li teletrasportò davanti alla casa nella quale aveva passato gli ultimi tre anni. Heidrun Ryder Crane ed Elsa Queen stavano tornando alle origini, a ciò cui entrambe avevano voltato le spalle con la minacciosa promessa di non farvi più ritorno.
    Non farvi più ritorno, a meno che non fosse per vendetta. Quello era il momento di fare la loro mossa: i predatori sarebbero diventate prede.
    20.09.2015
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    Quando era piccolo e la vita era semplice, Shane aveva problemi con il sonno, non ne voleva sapere di dormire perché la sua curiosità lo spingeva a voler esplorare la notte. Non aveva nemmeno sette anni ancora, e suo padre per porre rimedio a questo problema era solito raccontargli delle favole per farlo addormentare. Le ricordava tuttora.
    In un lontano paese viveva un giovane, egoista e viziato. Durante una fredda notte una donna si presentò alla sua porta per chiedere aiuto ma lui la cacciò via malamente. La donna allora, rivelatasi una giovane strega, lo maledisse trasformandolo in un'orrenda bestia. Solo se fosse riuscito a farsi amare per ciò che era allora avrebbe spezzato la maledizione. Troppo spesso le favole si dimostravano perfettamente attuali e reali, ed a quel punto Shane avrebbe dovuto semplicemente aspettare di vedere cosa sarebbe diventato. Quando aveva aperto gli occhi dentro quel magazzino chiuso ed isolato, in cui la puzza di muffa riempiva le narici senza lasciar spazio ad altro che ad un respiro forzato, aveva rischiato di illudersi di essere tornato alla vita. Aveva abbassato molto i suoi standard di vita ultimamente, tanto che anche solo sopravvivere lo avrebbe reso felice, ma adesso che anche la sua sopravvivenza era a rischio, in cosa poteva sperare? Mentre i colpi di quella donna diventavano sempre più pesanti, Shane avrebbe potuto pensare a tante cose, avrebbe potuto provare rabbia verso la sua aguzzina, odiarla per essersi intromessa nella sua vita, ma non era così, non provava niente verso di lei, nè odio, nè un altro sentimento che potesse anche solo dargli un sentore di vita. Shane Howe aveva provato tutto dentro quel labirinto, prima con Dakota e poi con Hope, per la quale avrebbe dato volentieri la propria vita, e forse in parte era stato così. Chi gli avrebbe assicurato che non fosse morto là dentro? Ancora, tornò su questo pensiero, confuso sul perché, nonostante tutto, non riuscisse ad odiare quelle due ragazze.
    Non era a sè che pensava mentre il calcio di Gamma si schiantava contro il suo stomaco mozzandogli il fiato e facendogli emettere strani versi che non riusciva a controllare. Il suo respiro si era bloccato, non riusciva a prendere aria e rantolava a terra come un cane in agonia. Non era per sè stesso che era preoccupato mentre accasciandosi a terra sentiva le proprie braccia alzarsi da sole, impedendogli di muoversi. No, pensava a Damian, all'uomo che si era sforzato di odiare ogni giorno per dieci lunghi anni, quell'uomo crudele che in fondo non sarebbe riuscito ad odiare nemmeno se avesse voluto, perché il ricordo della loro infanzia insieme, come veri fratelli, era presente in Shane ed era più forte di ogni cosa. Damian aveva perso tutto, avevano perso tutto insieme quando Tiger e Sarah erano morti un anno e mezzo prima, ed anche se era forte e Shane lo sapeva, perdere anche lui lo avrebbe fatto impazzire. Non poteva lasciarlo, anche se ogni giorno aveva desiderato di scappare da lui e vivere in un altro paese, non poteva morire, sarebbe stato scorretto. Era questo che pensava nella sofferenza, ed era anche per questo che avrebbe cercato di sfuggire alle due donne. Il respiro lentamente tornò a fluire dentro di sè, ma il dolore allo stomaco non sarebbe passato. Guardò in cagnesco la bionda che calandosi sulle sue labbra soffiò fino a creare qualcosa sopra di esse. Sentì subito freddo ed era lacerante. La sua pelle iniziò ad arrossarsi ed al contatto con quella sostanza quasi ribolliva. Lei gli legò le mani dietro la schiena per impedirgli di muoversi, come se riuscisse a farlo dopo quei colpi. Provò comunque sfregare i polsi uno contro l'altro, lentamente, per sciogliere il ghiaccio. Una smorfia di dolore lo costrinse a chiudere gli occhi e stringere i denti. Un qualsiasi movimento gli procurava fitte profonde. La sua domanda era rimasta senza risposta, ovviamente, e quando Gamma poggiò una mano sulla sua spalla, lo sguardo di Shane si fece più scuro e freddo. Non voleva essere toccato da lei, ma non poteva lamentarsi perchè il bavaglio gli impediva di farlo, e forse era meglio così, se avesse parlato avrebbe solo peggiorato le cose: non era con le parole che se la sarebbe cavata. Ma avrebbe preferito uno schiaffo, piuttosto che sentire il peso della mano della donna così a lungo sopra di lui. Gamma manifestò subito le sue losche intenzioni smaterializzandosi dal posto in cui si trovavano in un altro. Aveva fatto bene Shane a non fidarsi, lo sapeva. E questo pensiero in parte lo rasserenava perché sapeva che non era stata colpa del suo caratteraccio se adesso si trovava in quella situazione: gli avevano teso una trappola per altri fini, in fondo non era poi tanto una bestia. Le bestie erano loro. Ricacciò la nausea che lo assalì dopo quel breve viaggio e si concentrò invece sull'abitazione in cui si erano rimaterializzati. Per prima cosa lanciò uno sguardo alle finestre per capire in quale zona di Londra si trovassero, doveva cogliere più informazioni possibili, ma era buio per vedere qualsiasi cosa o cogliere anche solo un dettaglio. Poi un lampo di genio, o meglio un pensiero più lucido degli altri, lo colse vedendo la propria bacchetta spuntare dalla divisa di Gamma. Continuò a sfregare i polsi tra di loro per creare calore in modo da sciogliere il ghiaccio più velocemente, finché di quella cordicella non rimase che un filo che riuscì a spezzare facendo forza con le braccia. Fu questione di un mezzo secondo, fulmineo scattò con la mano aperta sul manico della propria bacchetta che riuscì ad afferrare e sfilare dalla divisa della ragazza, ed altrettanto velocemente la sua mente materializzò la stanza della sua camera a Londra. Vedeva ogni cosa, così come l'aveva lasciata quell'estate: il suo letto ad una piazza e mezzo con il lenzuolo blu estivo, il comodino bianco sopra il quale era poggiata una lampada, la sua lampada speciale che nel buio illuminava le pareti con draghi di ogni specie - Hope ed i suoi regali perfetti - , e la mensola sopra il letto nella quale erano disposti in ordine sparso i draghi in resina della sua collezione. Allora sarebbe sparito smaterializzandosi in una densa nube nera.
    the heart is deceitful above all things,
     
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  9. #QUEENHAMILTON
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    Elsa Queen
    I CAN'T FORGET BUT IS THE ONLY CHOICE TO SURVIVE.
    23 - PUROSANGUE - DEATHEATER - WIZARD - CRIOCINESI - #TEAMHAMILTON

    Tornare indietro... tornare indietro era avere una possibilità... una possibilità di fare il culo agli estremisti, era una possibilità per vendicare Elsa, la vera Elsa, per finalmente sopprimere i sensi di colpa, per annegare i sentimenti, per distruggere le prove. Tornare indietro...tornare dove tutto era cominciato... Oh lo avrebbe fatto la Queen, lo avrebbe fatto all’istante solamente per provare quell’incredibile sensazione sotto la pelle, quel brivido, solamente per vedere le facce di quegli inetti mentre BOOM BITCHES entrava dalla porta di servizio con tanto di carte in regola. Era stata una di loro per anni, li aveva visti muoversi, li aveva visti lavorare, li aveva visti uccidere senza pietà e distruggere le vite di migliaia di persone, li aveva visti cadere uno dopo l’altro mentre lei fuggiva, fuggiva ripromettendosi di tornare, di uccidere, di trasformarsi in quel mostro, in quella illusione, in quella macchina che avevano tentato di creare. Esperimento 00AB un codice, il suo, che nessun altro aveva inciso sulla pelle, un codice, il suo, formato non solo da numeri ma da lettere, era stata la prima della fila, la prima dopo sua sorella, era stata forse l’unica a sopravvivere a quel trattamento che non lasciava nulla al caso, a quel trattamento che tanti altri dopo di lei non erano riusciti a sopportare. Fortuna? Destino? O semplicemente questione di costituzione fisica? Nessuno poteva dirlo con certezza ma quello che ormai scorreva nelle vene di Elsa Queen non era più semplicemente sangue umano, lei lo sapeva bene, lo poteva percepire, lo poteva sfiorare, lo poteva manipolare... quella sensazione, quell’energia, quella forza, ne era rimasta spaventata ma ora, ora ormai ne era solo inebriata, aveva preso controllo di se, sapeva quel che doveva fare e lo avrebbe fatto. Quasi le dispiaceva per quel ragazzo che stava a terra ai suoi piedi, i laboratori non erano sicuramente un luogo facile e magari non ne sarebbe mai uscito vivo di li... ma infondo erano piccoli dettagli irrilevanti. Osservò Run mentre reagiva, mentre si scagliava contro quell’anima quasi come se non le importasse nulla, come se avesse perso la ragione, come se fosse tornata una di loro, un dottore, una cacciatrice. L’aveva vista molto diversamente nel labirinto, l’aveva vista talmente umana, quasi fragile, l’aveva vista persa, insicura, come se il mondo sotto i suoi piedi si stesse inevitabilmente sbriciolando. Heidrun Crane aveva troppe personalità, aveva troppe facce, troppi modi di reagire, Elsa poteva cercare di spiegarsi cosa diavolo stesse facendo solamente fissandola, fissando i suoi atteggiamenti ed esaminandoli uno per uno. Rimase qualche secondo a pensare ma poi si frenò, frenò la sua curiosità, frenò quel moto di sensazioni, non erano affari suoi, Gamma in quel momento era più importante di Run, Gamma in quel momento doveva solo compiere il suo lavoro mentre lei si sarebbe semplicemente lasciata spalancare le porte dei laboratori, una volta dentro, che Heidrun o Gamma fossero state dalla sua parte poco le sarebbe importato.
    Alzò appena il palmo della mano Elsa, mentre su di esso vorticava un’onda d’energia blu, una piccola sfera, un piccolo globo di luce che lasciava cadere qualche piccolo fiocco di neve, le ci volle qualche istante per direzionarlo verso le mani di Shane legandole tra loro, corde di ghiaccio... magico. Si diede della stupida per non averci pensato prima e con un sorriso attese che la mora le poggiasse amabilmente una mano sulla spalla, direzione: laboratori street. Pochi secondi, pochi secondi e davanti agli occhi azzurri della donna comparve quel mondo, comparve quel corridoio, che a lungo aveva cercato di dimenticare. Poteva sentire quella stessa aria invaderle i polmoni impedendole quasi di respirare, poteva sentire quel forte profumo di disinfettante, poteva di nuovo vedere le celle, i pavimenti le stanze, mentre tutto nella sua mente riaffiorava di colpo, mentre quei luoghi si riempivano di gente, gente ormai morta, gente passata a miglior vita sotto il suo sguardo, sotto lo sguardo spaventato di una ragazzina che non sapeva che fare, che non sapeva come combattere. Un flashback e poi un altro, le urla , il dolore, la sua famiglia che andava in pezzi ed Elsa, Elsa in quella stanza, in quel letto, in quel luogo, non doveva finire così, non avrebbe mai dovuto essere andata così. La Queen per un attimo impallidì lasciando che l’aria intorno a lei si cospargesse di piccoli fiocchi di neve che cominciarono a vorticarle attorno, non tentò di fermarli, li osservò per qualche secondo prima di eliminarli facendo un rapido gesto con la mano. Tre anni, tre anni della sua esistenza, quei luoghi, quella gente, tutto era come rimasto impresso nei suoi occhi, un po’ come quel codice che ancora stava sul suo avambraccio.
    La storia dell’esperimento 00AB era complessa, era una storia come tante, era una relazione chiusa in un cassetto, una scheda clinica abbandonata sul tavolo della scrivania, erano un insieme di urla, di studi, di preghiere, era una storia d’amore senza apparente lieto fine. Beh dopo oltre un anno era finalmente andata a rimediare, era andata a prendersi quel finale che le spettava, quel momento di gloria, quell’attimo di egocentrismo che l’avrebbe ripagata di tutte le torture e sofferenze. Non poteva portare indietro sua sorella dal regno dei morti ma poteva spedirci qualcun altro che le facesse compagnia... sempre detto che Elsa era una persona altruista. #topdeltop #hamiltonside
    Howe però aveva tutta l’intenzione di darsela a gambe e come dargli torto? Lo vide liberarsi e sparire in una nube di fumo nero, denso e tra se e se non poté far a ameno di sogghignare, illudere le persone ad averla vinta era veramente troppo divertente ma sinceramente lui era un idiota. Aveva davanti Gamma, una specie di donna che poteva imitare qualsiasi potere, lo avrebbero riportato indietro anzi, avrebbero fatto di meglio, non gli avrebbero nemmeno lasciato la possibilità di scappare. La bionda incrociò lo sguardo di Run, lei sapeva già cosa fare, lei sapeva già come agire “Riportiamolo a casa.” Esclamò sorridendo mentre si apprestava a seguire la compare in un bel salto temporale, bastava qualche minuto, bastavano pochi secondi per evitare l’inevitabile, bastavano pochi attimi per cambiare il futuro... peccato che per la Queen quella carta non era servita a nulla, quell’asso nella manica non le si era presentato nel momento del bisogno e a quanto pareva, nemmeno Heidrun sembrava aver avuto fortuna in quel campo...
    20 SETTEMBRE 2015
    LABORATORI

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    heidruncrane
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    mimesis - 19 y.o. (#ops)- the mutation - gamma (γ) - death eater
    Un sospiro. C’era tutto in quel sospiro, in quella bolla d’aria mal trattenuta fra il palato e lingua, che testardo si spingeva fuori dalle labbra portandosi dietro più di quel semplice blocco rarefatto. Una di quelle azioni scontate a cui nessuno aveva voglia di prestare attenzione, troppo concentrato sui propri problemi per dar adito a quelli altrui; una di quelle azioni riconducibili forse alla noia, l’esasperazione, la stanchezza. Una di quelle azioni che vedevi con la coda dell’occhio, senza uno sguardo diretto a comprenderne la portata. Eppure, nel sospiro di Heidrun Crane c’era tutto. Bastava solo saperlo leggere, averne le istruzioni, e tutto avrebbe acquisito quel senso che sembrava mancargli.
    In quel sospiro c’era un compleanno, quello dei suoi sedici anni, accompagnato da una lettera lasciata fra le sue mani dalla signora Milkobitch. Un sorriso di scuse per quei tre anni in cui gliel’aveva nascosta, la porta chiusa alle sue spalle mentre Run, le gambe incrociate sul letto, apriva la busta. In quel sospiro c’era la storia di Aloyius Crane e Joanna Harvelle, due ragazzi uguali a tanti altri ed a contempo completamente diversi; c’era una storia dove nulla era stato lasciato al caso, e tutto era stato progettato per un fine: lei. In quel sospiro, c’era lo sguardo freddo dei suoi nonni quando l’avevano trovata, intrappolata dietro uno specchio senza via d’uscita, costretta a fare i conti con sé stessa. In quel sospiro c’era la famiglia che si era lasciata alle spalle perché, incoscientemente, aveva creduto di poter conciliare due vite, Milkobitch e Crane. In quel sospiro c’era lo sguardo scuro di sua madre alzato verso la sua finestra, il giorno che se n’era andata. In quel sospiro c’era la voce dei Dottori che le affidavano un compito che Run avrebbe poi svolto più che egregiamente, ossia quello di cacciare e catturare persone come lei da portare come Cavie a loro. In quel sospiro c’era lo sguardo spaventato di chi, troppo tardi, si rendeva conto che Run non era una bambolina, che dietro il viso giovane nascondeva un’anima senza età e senza direzione. In quel sospiro c’era ogni passo percorso nella Londra babbana, ogni sorriso rivolto alle sue vittime, ogni capo chinato ai suoi aguzzini. In quel sospiro c’era ogni pomeriggio passato con Elysian, ogni menzogna detta con leggerezza, ogni parola meccanica che le aveva trafitto il cervello in quella maledetta stanza con lo specchio nei tre anni precedenti. In quel sospiro c’era la conversazione udita per sbaglio riguardo la sua data di scadenza, quel bisogno di correre e fuggire che dopo tanti anni, di nuovo, si riattivava. In quel sospiro c’era la speranza, la nuova consapevolezza di ciò che era e ciò che avrebbe potuto essere; c’era il Labirinto, la domanda della Voce, il viso dei suoi genitori sugli specchi perlacei quel primo, lontanissimo, giorno. In quel sospiro c’erano i suoi compagni, Esperimenti che altre Adescatrici, come lei, avevano portato nei Laboratori. C’era il corpo di sua madre che lentamente cadeva a terra, la sua voce che non riusciva a raggiungerla. C’era quel respiro ancora incastrato in gola, il battito impazzito di un cuore troppo giovane e troppo stanco. In quel sospiro c’erano le parole di Gemes Hamilton riguardo una ragazza che credeva di aver visto negli occhi di Run, qualcuno che meritava la delicatezza riservata ad una scatola dal contenuto fragile; lo sguardo di Lienne e l’espressione preoccupata di Elysian quando il suo nome era stato chiamato per la Prova Speciale. In quel sospiro c’era Rea Hamilton e la sua passione per i rompicapi, c’era la porta in fondo al corridoio; c’era l’interrogativo negli occhi blu di Chris quando le aveva chiesto chi fosse, la sua alzata di spalle. C’era lo sguardo che non aveva voluto vedere, ma che aveva sentito, di suo padre quando non era stata ritenuta idonea, e tutto ciò su cui avevano scherzato sembrava assumere un nuovo significato. In quel sospiro c’era la collana che, gelosamente, conservava nelle tasche della divisa. In quel sospiro c’era la scelta di continuare a correre, ignorando i mille motivi che l’avrebbero spinta a rimanere. C’era l’addio rimasto sulla lingua a cui non aveva avuto cuore di dar voce.
    In quel sospiro c’era una ragazza di diciannove anni che ogni giorno si rendeva conto di aver perso qualcosa. La sua infanzia, la sua libertà, la sua famiglia, la possibilità di scegliere. In quel sospiro c’era una ragazza di diciannove anni che voleva sempre fingere di essere qualcuno che non era, troppo debole per reggere a lungo. In quel sospiro c’era qualcuno plasmato dagli altri, che da sola non avrebbe mostrato alcuna sfaccettatura, alcun colore, alcuna forma. In quel sospiro c’erano tutte le lacrime, le urla, la rabbia, la disperazione, il dolore, l’angoscia, la paura. In quel sospiro c’era Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, Gamma per obbligo.
    Bastava solo saperlo leggere.
    Shane era riuscito ad impadronirsi della sua bacchetta, sparendo davanti ai loro occhi. Rimase una manciata di secondi a guardare il punto nel quale fino a poco prima c’era il ragazzo, sentendo ancora quel sospiro premere sul labbro inferiore. Pensava di essersi salvato, pensava di essere riuscito a cavarsela. Fuggito dai mostri, i quali sapeva non essere più sotto il letto, che aveva riconosciuto negli occhi chiari delle due donne. Probabilmente si stava cullando nella speranza di quel pericolo scampato, lieto di avercela fatta. Chissà se stava sorridendo alle loro spalle, tirando anche lui un sospiro di sollievo, qualunque luogo avesse scelto per la smaterializzazione. Era tornato a casa? Chiunque, fuggendo da un luogo estraneo, avrebbe pensato a casa come meta. Lei, Heidrun, quando fosse stata stanca, dove sarebbe andata? Non poteva tornare dai Milkobitch, e non poteva cercare suo padre. Avrebbe vagato al Ministero in cerca di un nuovo luogo che avrebbe finto chiamare casa, fintanto che non fosse nuovamente giunta l’ora di scappare. Una nomade, senza più nulla. Abbassò lo sguardo sui propri piedi, chiedendosi per la prima volta se tutto quello fosse necessario. Era riuscito ad andarsene, Shane Howe; avrebbero potuto trovare qualcun altro, non sarebbe cambiato niente. Un cacciatore, però, raramente cambiava preda senza una motivazione valida: lei non ne aveva, e la fuga non faceva che far puzzare il giovane di preda, incitandola all’inseguimento.
    Run aveva già scelto. Lo sapeva, prima ancora di alzare gli occhi su Elsa. Avrebbe strappato quella speranza di salvezza dalle mani del giovane Howe, riportandolo con uno strappo secco alla realtà. Non c’era alcuna salvezza, e non c’era mai stata. «Riportiamolo a casa» Ricambiò il sorriso della Queen lasciando che trasparisse il vuoto che sentiva dentro. Non era un sorriso sincero, non era una Heidrun sincera, non era una vendetta reale. Era solo Gamma, solo lavoro, ed era solo un incurvarsi delle labbra che non necessariamente doveva sfiorarle gli occhi verdi. La cercò, fra tutti i poteri che percepiva nel profondo. La cercò, e sapeva che aveva un colore diverso rispetto alle altre: cronocinesi, la facoltà di manipolare il tempo. Il potere che, prima di lei, aveva avuto sua madre. Faceva ancora così male, com’era possibile? Prima o poi avrebbe smesso di bruciare come fuoco vivo sulla pelle? Non lo sapeva, ma non aveva importanza. Doveva solo fingere di non sentirlo, quel dolore; fingere che fosse tutto nella norma, uguale al giorno prima ed a quello primo ancora. Non era una persona, era solo un potere. Era solo cronocinesi, non era Joanna Harvelle. Altri avevano quel potere, non necessariamente era ancora il suo. Ti prego, fai che non sia il suo. Fu per quello che, stringendolo fra le dita, non fu a sua madre che pensò non a quella naturale #scusaJo. Non poteva concentrarsi su di lei, rivederla, sapere per quale motivo stava attingendo alle sue capacità. Non avrebbe mai approvato una cosa del genere, e non poteva permettersi la Crane di deturpare l’immagine che sua madre aveva di lei, nonostante sua mamma non fosse lì per vederlo. Era stupido, lo sapeva, ma non voleva. Chiuse gli occhi annuendo ad Elsa, focalizzandosi su qualche istante prima: si erano appena teletrasportati, la porta blu si ergeva con orgoglio davanti a loro, le sue mani ancora stringevano le spalle dei due. Tempo. Lo vide avvolgersi su sé stesso come una spettatrice esterna, immobile mentre tutto si ripeteva uguale. Era solo una manciata di minuti, ma si trattava comunque di una manciata di minuti che lei avrebbe vissuto ed invece il resto del mondo avrebbe ignorato. Due minuti che appartenevano solo a lei, che mai sarebbero esistiti per qualcun altro. Solo due minuti.
    Ed eccolo lì, Shane, che testardo allungava il braccio per afferrare la bacchetta. Run si ritrasse spostandosi di lato, lanciando la bacchetta ad Elsa così che fosse lontano dalla sua portata. Fece schioccare la lingua con disapprovazione. «Non ti ha insegnato la mamma che bisogna chiedere per favore?» Domandò con aria corrucciata, sporgendo il labbro inferiore all’infuori.
    E mi dispiace, Shane Howe, che sia toccato a te. Ma non abbastanza. «Sogni d’oro» E quella fu l’ultima cosa che disse al ragazzo, uno sconosciuto come tanti, prima di stringerlo nella morsa delle telecinesi impedendogli ulteriori movimenti, e sfiorarne appena la mano sentendo, sui polpastrelli, una capacità che non aveva mai usato: guarigione. Ciò che la salute dava, la salute poteva anche togliere. Lo privò dei sensi, senza preoccuparsi di attutire la caduta mentre Shane chiudeva gli occhi e colpiva, a peso morto, il cemento della strada londinese. Il gioco era finito.
    E c’era tutto, in quel filo di voce. Bastava solo capirlo.
    20.09.2015
    nowhere

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    Edited by lama del barrow. - 5/11/2015, 23:32
     
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