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Judas x Rea

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  1. Judas‚
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    JUDAS GABRIEL ORTIZ ( ) - 21 - Clayrvoiance - Muggle
    « and you'll see me waiting for you on the corner of the street »♪ ♩♫
    Percorse con lo sguardo quel piccolo tratto di prato del giardino londinese in cui aveva sostato con Ashely fino a quel momento, prima di separarsi da lei con una scusa. Judas non era sicuramente un santo, nè tanto meno era mai stato un tipo altruista e che si preoccupava per il bene del prossimo, anzi possibilmente piuttosto che prendersi una responsabilità sulle spalle avrebbe lasciato tutti morire. In fondo a lui non era mai importato davvero di ciò che gli accadeva intorno, riservando a chiunque un atteggiamento passivo ed incostante. Ma si parlava di Ashley, ed era l'unica persona che gli aveva sempre suscitato un profondo senso di protezione, persino ancora prima di conoscerla davvero. Per questo quando il suo sesto senso, quell'invisibile allarme personale che aveva scoperto essere il suo potere, si era attivato, lui allo stesso modo si era attivato per proteggere la ragazza. Dopo la lunga conversazione avuta con lei, aveva avuto un momento di perdimento, da cui si era ripreso subito ed aveva guardato il proprio orologio, uno dei pochi oggetti quasi di valore che possedesse - e che era straordinariamente riuscito a tenersi stretto per qualche anno senza venderselo - e poi aveva guardato Ashley. È ora di andare, mia madre starà già sclerando per la mia assenza. Aveva sorriso, o almeno ci aveva provato, per farle credere che davvero sarebbe tornato a casa, quando in realtà voleva solo convincerla ad allontanarsi da quel posto. La guardò negli occhi senza fissare troppo il proprio sguardo nel suo, perché aveva letto su Focus che mantenere lo sguardo innaturalmente fisso negli occhi di un altra persona era un segno di menzogna. "Ah, che paranoia. Ashely credici e basta."
    Tu cosa farai? Ashely lo aveva guardato con espressione sospettosa, come se riuscisse a leggere la verità nello sguardo di Judas. Eppure lui era sicuro di sè, ogni volta che mentiva, ma forse non era tanto sicuro di riuscire a mentire a lei.
    Tornerò anche io "a casa" Aveva mimato con le dita due virgolette. Judas sapeva che lei non poteva considerare casa quel posto in cui era costretta a vivere, e questa era una delle tante cose che aveva scoperto avere in comune con lei, nemmeno lui stava bene in casa propria. Stai attento. Lui annuì, ma Ashley non poteva sapere ciò che Judas aveva visto in un solo istante, ciò che aveva avvertito: un pericolo che sapeva si stesse avvicinando, per lui. Voleva lui, solo lui. Non Ashley.
    Aveva visto capelli castani che si muovevano al vento per la camminata veloce, aveva udito il rumore dei suoi tacchi e sentito il suo sguardo scuro posarsi sopra di lui con un sorriso indecifrabile. Un'altra ragazza? E che cavolo, ad un certo punto la situazione iniziava a diventare imbarazzante persino per lui, non che gli dispiacesse vedere donne sempre molto diverse tra loro ma c'era altro dietro quella visione, lo sapeva. Come Ashley gli aveva portato...qualche rogna...era sicuro che qualsiasi altra donna immaginaria non sarebbe stata positiva per lui, aveva i suoi tempi! Avrebbe potuto contrastare quella visione scappando, ma percepiva che questo avrebbe solo peggiorato le cose e difficilmente scappava dinnanzi alle situazioni difficili, al massimo provava ad aggirarle ma sapeva che quel sorriso di circostanza sul volto della donna non sarebbe stato duraturo a lungo se lui le avesse reso quella ricerca più complicata e comunque lei lo avrebbe trovato, in un modo o nell'altro. Non poteva sapere chi fosse, né perché lo stesse cercando. In fondo era solo una sensazione, come ne aveva avute tante in passato, perché preoccuparsi tanto? Perché qualcosa gli sussurrava di prestare attenzione, di non abbassare mai la guardia. E nonostante si sarebbe voluto trovare in altri posti, a fare altre cose - o meglio non fare niente, lasciando che la droga facesse tutto per lui - Judas non si mosse da lì. Dopo aver salutato Ashely ed averla vista allontanarsi con la promessa di rivedersi il giorno dopo, o il giorno dopo ancora, o prima o poi in quello stesso posto - sempre che lei fosse riuscita a lasciare la baracca in cui viveva, per un'ora - rimase in attesa di colei che lo stava cercando, pazientemente. Cercò di trovare una risposta in quel mare di sensazioni indefinite che lo avevano travolto senza nemmeno lasciargli il tempo di riflettere, cercava, senza sosta, una soluzione. E forse la chiave stava proprio in ciò che era successo solo due giorni prima dentro quel labirinto, forse quella donna aveva a che fare con tutti quegli strani poteri e segreti che avevano iniziato a manifestarsi apertamente nella sua vita negli ultimi giorni, ma che gli appartenevano da anni. Scappare sarebbe stato facile, probabilmente, restare e capire sarebbe stato più difficile. Quella donna portava con sè la chiave di molti enigmi e Judas sapeva di doverla affrontare.
    the heart is deceitful above all things,


    Edited by shane is howling - 26/11/2015, 14:43
     
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    rea fuckin' hamilton ( ) - 24 - Slytherin- team hamilton - the illusionist
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    Incrociò le gambe, giocherellando con il bicchiere ormai vuoto. Lo passava distrattamente da una mano all’altra, studiando gli avventori del locale: la maggior parte, come prevedibile, erano relitti disperati alla ricerca di una scintilla, anche solo infinitesimale, che li facesse sentire vivi; e se pensavano, con i loro sguardi lascivi, che quella scintilla potesse essere Rea Hamilton, sbagliavano di grosso. Infilò fra le labbra una ciliegia, sorridendo maliziosa ad un gruppo di uomini al bancone. Era un gioco perverso il suo, seducente finchè non cominciava a diventare semplicemente pericoloso. Pensavano innocentemente che Rea fosse la preda, e si accorgevano troppo tardi che si trattava invero dell’unico predatore. Quella era la sua caccia; quella era la sua partita. Scoccò un’occhiataccia al giovane che le si era, incautamente, avvicinato. Quello però parve non demordere, e per sovrastare il volume della musica avvicinò le sue labbra all’orecchio di Rea. Fu rapida la Hamilton ad invertire la posizione, portando la propria bocca al lobo di lui. «Vorresti offrirmi da bere, portarmi in camera, dimenticare sulla mia pelle il respiro di un’altra donna, il sapore di un’altra lingua. Credi che la bella signorina seduta al bancone possa essere una distrazione piacevole, ma ecco come andranno le cose se accettassi la tua proposta» Si inumidì le labbra, alzandosi per frapporre il corpo dell’uomo fra sé ed il bancone, lasciando scivolare una mano sul suo petto. «Ti innamorerai di quella donna seduta al bancone, di come si muove, di come ti fa sentire vivo. Ti innamorerai delle sue mani, del suo corpo, e finirai per venirne consumato. Vuoi questo? Vuoi un amore che ti consumi? Perché finirai per amare quella sofferenza, per sentirne la mancanza, finchè non ti sarà più chiaro dove ha fine il piacere ed inizia il dolore» Il fiato a solleticare il collo del ragazzo, la voce che rauca lasciava intendere tutt’altro discorso, mentre i denti appena sfioravano quell’epidermide troppo chiara. «Pensi che ne valga pena?» Inarcò le sopracciglia, allontanandosi abbastanza da poterlo guardare in faccia. E lui, l’ingenuità bramosa di chi è convinto si tratti di una partita a due, annuì. Rea sorrise, mentre gli occhi scuri indugiavano sulla sua bocca. «Hai ragione. Un vero peccato che tu non sia il mio tipo» Concluse liquidandolo con una pacca sulle spalle, lo sguardo fisso su un punto alle spalle del giovane. Prima di andarsene afferrò il bicchiere colmo di liquido ambrato ancora stretto fra le mani di lui, ne ingollò il contenuto in un solo sorso ed appagata dal piacevole bruciore dell’alcool si avvicinò al vero obiettivo della serata.
    Il labirinto aveva cambiato tante persone; laddove c’era qualcosa da poter contaminare, da sporcare, l’aveva fatto. I sorrisi si erano fatti più spezzati, gli sguardi più reticenti, le dita intrecciate fra loro per disperazione. Si erano persi, in quel Labirinto. Un gioco organizzato da mani esperte, nel quale ciascuno di loro era uscito sconfitto. Tutti, fatta eccezione per Rea Hamilton: perché in Rea Hamilton, non c’era più nulla da cambiare. Non v’era una purezza da preservare, una bontà dietro le parole che come fuoco marchiavano i suoi interlocutori. C’era solo quella rabbia, quel desiderio di vendetta viscerale, un fascio d’obiettivi senza un’anima a guidarli. Ma lo sapevate già, non era vero? Era stata l’unica assassina. Pensava si trattasse di sopravvivenza, ed invece era stato soltanto un sadico divertimento per constatare chi fosse o meno idoneo a quella cura: e lei non solo era stata al loro gioco, ma aveva ucciso per loro. Non era stato necessario, ma Yvonne era morta. Poteva ancora sentire il sangue caldo scivolarle sul braccio, percepire il respiro di lei sul proprio collo, lo sguardo farsi vitreo. Non era averla uccisa il problema della Hamilton, quanto l’essere stata ingannata. Ad essere sinceri, comunque, la donna era l’ultimo dei suoi problemi. Era accaduto qualcosa in quel labirinto che Rea non aveva previsto: anziché essere la cattiva, ne era uscita come un eroe. Il grazie appena sussurrato di Sam, il sorriso di Elsa, lo sguardo di Jayson poco prima che perdesse i sensi. Li sentiva, e li vedeva ancora, ancora, ancora. Era soddisfatta dal suo operato? Certo, sempre. Non poteva che essere orgogliosa del risultato ottenuto, di quel grazie, di quel sorriso o di quello sguardo; appagata in un certo qual modo. Eppure non poteva liberarsi di quella fastidiosa sensazione di vuoto allo stomaco, una morsa che non cessava di stringere la presa. Sarebbe da pensare che in quei pochi giorni la Hamilton avesse sviluppato una coscienza… ma lei, una coscienza, l’aveva sempre avuta. E allora perché? Non era la prima volta che ingannava qualcuno, perfino sé stessa. Perché loro si erano fidati. Perché loro, incomprensibilmente e brevemente, avevano creduto davvero a Rea Hamilton, con l’abbandono di chi cercava un’ancora in mezzo alla tempesta. L’oscurità che diventa luce per sfuggire da un abisso ancor più buio. Illusi. Non che, potendo tornare indietro, avrebbe cambiato le cose: si parla pur sempre della Hamilton, ed a lei piaceva quella sensazione di viscido, meschino, e subdolo potere. Adorava essere la donna che non esisteva, formata dalle fantasie altrui, disegnata dallo sguardo del mondo partendo da un solo sorriso. E poi, ci aveva fatto l’abitudine a quella sensazione di pesante assenza nel petto. Il labirinto aveva cambiato tutto. Aveva cambiato le amicizie, le famiglie, le alleanze; aveva aperto gli occhi di molti e ne aveva chiusi tanti altri, strappato la realtà e creato fantasie –quando non viceversa. Una costante però c’era, in quel cambiamento; e probabilmente era quello a fare della Hamilton la donna più adatta, la terraferma a cui aspirare in periodo di crisi: le parole di Sam, il sorriso di Elsa, lo sguardo di Jay.
    Ma soprattutto, le suppliche di Aladino. Quelle proprio non riusciva a cancellarle, fastidiose come una macchia d’inchiostro su una pergamena immacolata. Morgan, si era spinta così oltre da far credere all’uomo di essere una specie di Babbo Natale sexy? Non esaudiva desideri, semplicemente si dilettava nell’aggiustare a proprio piacimento i giocattoli rotti. Doveva però suscitare una sorta di reverenziale rispetto materno o qualche stronzata del genere, perché non era il primo: Damian le aveva affidato la cugina, Sheridan; Al aveva ritenuto opportuno affidarle il cugino, Chris. Davvero inconcepibile. Ma sapete qual era la cosa più assurda? Che l’avrebbe fatto, e non solo perché così sia Icesprite che Crane le sarebbero stati debitori. A suo modo, ma l’avrebbe fatto. Era più che abbastanza. Ovvio che le circostanze erano molto diverse, e ad Aladino non s’era neanche sprecata a rispondere, risparmiando a lei la fatica di affogarlo una seconda volta ed a lui di rischiare –nuovamente- di morire per mano di Rea. Il suono patetico ed alquanto triste di quella preghiera, era ciò che più la irritava. Non l’avrebbe mai ammesso, neanche pensato razionalmente, ma era invidiosa di quel legame, di quel bisogno espresso solo in un nome. Così come ne era rimasta colpita nell’arena, la prima volta in cui aveva incontrato il non troppo sveglio Biondo della situazione, ne era rimasta nuovamente stupita, con una stoccata quasi fisica. Aveva già detto quanto amasse l’amore? Che fosse platonico, familiare, o amicizia, poco importava: era quel legame a permetterle di stringere i fili sulle persone, guidando i loro movimenti nella direzione ritenuta da lei più propizia. Il paradosso, era che si trattava dello stesso motivo per il quale lo odiava: arma a doppio taglio. Ovviamente un abuso del genere aveva il suo prezzo, ma l’aveva pagato anni, ed anni, prima. Continuava a pagarne lo scotto, negli occhi scuri di Charlotte ed in quelli chiari di Amos; lo pagava nel sorriso di Elsa, nelle parole di Sam, nello sguardo di Jay, nelle suppliche di Al. Quando, malgrado tutto, si rendeva conto che era realmente ciò che più aveva temuto di diventare quand'era bambina, ed irrazionalmente cercava di rimediare -peggiorando la situazione.
    E questa è l’entusiasmante storia di come Rea sia diventata baby sitter di un ignaro Christian Palmer. Se aveva silenziosamente accettato l’incarico, non era solamente per sé stessa: come nel caso di Sheridan, Rea aveva visto un’opportunità, un’ombra di ciò che anche lei era stata. C’era qualcosa di… interessante, e lungi da lei ignorare gli elementi interessanti posti appositamente sul suo percorso. Aveva un team da mandare avanti, dopotutto.
    Quindi ecco, in breve, le inforandom il motivo per il quale la mora si trovava in quel locale. C’era chi affogava i pensieri nell’alcool, chi nella droga, chi nel lavoro, chi nel cuscino; c’era chi sperava che con il tempo sparisse il retrogusto amaro, lasciando solamente la dolcezza sulla punta della lingua. Infine c’era Rea Hamilton, la quale per non pensare aveva solo la necessità di essere sé stessa. «Tu sei il mio tipo» Senza dargli il tempo di replicare, la Hamilton afferrò la cravatta del giovane, trascinandolo lontano dai suoi amici. Lui mosse le dita nell’aria, ma la mora fu più veloce nell’afferrare i suoi polsi e tirarli verso l’alto, legandoli fra loro con il pezzo di stoffa che aveva snodato dal suo collo. «non rovinare tutto» miele sulla pelle, balsamo sulle ferite; le labbra seta sul collo di lui, la mandibola, mentre le mani lo spingevano contro il muro e slacciavano i bottoni della camicia bianca. Proprio il suo genere di uomo: muto, e non solo metaforicamente. Odiava quando cominciavano a parlare, ed era così semplice stroncare sul nascere la parlantina di un muto: bastava legargli le mani, ed il gioco era fatto. Such a bitch, we know, ma lui non aveva nulla di che lamentarsi dato che andava tutto a suo vantaggio. Rea spalancò le porte scure del privè senza mai lasciare spazio fra loro, che fossero le labbra di lei sulla pelle di lui o quelle di lui ad assaporare la tenera carne della Hamilton. Il respiro si fece più pesante, e fu proprio in quel momento che squillò il cellulare di Rea. Lavorando per gran parte del tempo nella Londra babbana, aveva ritenuto opportuno attrezzarsi con la tecnologia, ma non significava che le piacesse. Spinse l’uomo sul divano ed afferrò sbuffando l’aggeggio, senza neanche sprecarsi di guardare chi fosse in chiamata. «L’Hamilton bella» Esordì, aggrottando le sopracciglia e premendo irritata il tacco a spillo sul petto del giovane che, testardo, continuava a cercare di rialzarsi per strapparle l’oggetto dalle mani. «Sono un po’ impegnata al momento, mandate Gemes» Strinse le labbra fra loro, pronta a chiudere la chiamata, quando la parola giunse alle sue orecchie: chiaroveggente. Era stata lei a dire di cercarla, in caso avessero avuto problemi con un chiaroveggente. A caso?
    Che domanda stupida, si trattava di Rea Hamilton: aveva sempre un piano.
    «Ricevuto» Sospirò e tornò a guardare l’uomo, rivolgendogli uno sguardo che mescolava compassione e dispiacere. Si piegò su di lui lasciando che quello, sicuro di sé, continuasse l’opera iniziata qualche secondo prima lasciando delicati –neanche troppo- baci sulla pelle dorata di lei; approfittando della distrazione, Rea infilò le mani nelle tasche dei pantaloni, stringendo le dita attorno ad un paio di chiavi. Le strinse nel pugno per non farle tintinnare e si allontanò di scatto, uno sguardo di scuse e le guance ancora arrossate, volgendogli poi pudicamente le spalle mentre entrava nell’abito che aveva lasciato scivolare a terra. Passò le dita fra i capelli, ricomponendosi rapidamente. Un mugolio le ricordò che non aveva ancora snodato i polsi del ragazzo, al che la Hamilton non potè che sorridere. Ops. Era sempre troppo facile. Fece dondolare davanti a sé le chiavi che gli aveva sottratto, socchiudendo le palpebre sorniona. «Grazie per la macchina. Posso prenderla, vero?» Non vi fu risposta, e si sa: chi tace acconsente.
    Ma Rea, è muto!
    Acccciderbolinachepeccato.

    Si lasciò cullare dal tepore dell’automobile, stringendo le mani sul volante. Ovviamente non aveva la patente, ma qualunque idiota sarebbe stato in grado di guidare ahah sara come sei simpatica e per ovvi motivi la polizia stradale non sarebbe mai stato un problema. Sfrecciò fra le vie di Londra senza prestare particolare attenzione alle precedenze, ai pedoni, ai cartelli; alzò anzi il volume della musica, così da non doversi sorbire i fastidiosi clacson altrui. Si fermò solo nelle vicinanze di un parco, dove attese pazientemente che qualche anima al Ministero le mandasse un gufo con il fascicolo sul ricercato, che Rea aveva già avuto modo di leggere in precedenza: si trattava di un certo Judas Ortiz, chiaroveggente. Fine. Nessun’altra informazione era di loro possesso, essendo il giovane non schedato. Come fossero riusciti a sapere del potere del ragazzo, era per Rea un mistero: forse infiltrati, forse ex dottori che avevano vuotato il sacco, oppure qualche altro chiaroveggente che aveva letto la storia di Ortiz sulle mani di qualcuno. Si trattava di informazioni riservate: l’unico compito della Hamilton era cacciare, non le era dato sapere altro. Stolti. Nel momento in cui aveva visto la foto del ragazzo, Rea si era resa conto di conoscerlo già –almeno, di vista. E doveva poteva averlo incrociato, se non nel Labirinto? Ovviamente. Perlomeno avevano già qualcosa in comune. Tamburellò sulle proprie labbra un sottile strato di burrocacao, chiuse lo specchietto ed uscì dalla rossa spider del muto, beandosi del lampeggiare delle luci che le confermarono l’effettiva chiusura della macchina e l’inserimento dell’anti furto.
    Ah, forse era un po’ tardi per l’anti furto. Non era esattamente nel suo solito outfit da caccia, ma non aveva avuto tempo per cambiarsi: il suo informatore le aveva detto di aver visto Judas nello stesso parco dove la Hamilton stava giusto mettendo piede in quel momento, e non poteva permettersi che le sfuggisse. Già era complicato avere a che fare con loro, considerando che sapevano in anticipo di essere braccati, non poteva rischiare. Anzi, v’era già un’alta probabilità che lui…
    Che lui fosse lì in sua paziente attesa, a quanto pareva. Sarebbe stato alquanto superficiale per la Hamilton pensare ad una fortunata coincidenza, specialmente considerando che Judas non pareva affatto sorpreso. Allora la chiaroveggenza non era solo bluff. «Judas Gabriel Ortiz» Scandì cauta con un tono di voce amichevole, avvicinandosi piano al giovane. Non sembrava affatto minacciosa, con quei lunghi capelli sciolti ad incorniciare il viso ovale e quel delicato, e così dolce, sorriso sulle labbra. La giacca beige, ben abbottonata, era più lunga dell’abito che indossava, e le sfiorava le ginocchia ad ogni passo. Fece schioccare a lingua contro il palato, inclinando lievemente il capo senza celare lo scetticismo. «Dobbiamo fare una chiacchierata, io e te» Intrecciò le dita fra loro, senza mai lasciar scivolare il sorriso dalle labbra. E v’era quella scintilla, nel suo sguardo; quella luce che nessun pittore sarebbe mai stato in grado di dipingere, così come nessun scrittore sarebbe mai riuscito a descrivere. La promessa, la tentazione ed il pericolo: tutto in quell’unico, lento, sbattere delle lunghe ciglia.

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    JUDAS GABRIEL ORTIZ ( ) - 21 - Clayrvoiance - Muggle
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    Aveva potuto immaginare la sua Cacciatrice - della quale comunque non conosceva altro che il volto - arrivare in svariati modi, ed aveva avuto il giusto tempo per pensare ed idealizzare il modo che più lo convinceva. L'immagine più accreditata era quella lei su un cavallo nero, come Carestia, uno dei cavalieri dell'apocalisse, quella fine terrena che suo nonno andava predicando da anni. - che poi, perchè una donna avrebbe voluto usare uno scomodo cavallo nel centro di Londra? Troppe porcherie, Ortiz - Ma davvero, se avesse immaginato la sua venuta sarebbe stata in modo trionfale, ed un po' lo era stata, ma non come Judas si era aspettato. Aveva atteso qualche minuto prima di vedere arrivare puntuale come un orologio svizzero una macchina rossa lucida e vistosa e si era guardato intorno, aspettando ancora il cavallo nero.
    E questa è una piccola chicca che rivela quanto i poteri di Judas siano mistici.
    Ma poi la mora era scesa dall'auto sfavillante e si era mostrata dinnanzi a lui con una sicurezza che lo aveva lasciato profondamente interessato ed al tempo stesso illuso. A parte che le immagini che aveva di lei, al pari di Ashley, non le rendevano giustizia, non sapeva chi lei fosse, ma dal volto dolce, i cui lineamenti mediterranei non avrebbero lasciato sospettare niente di brutto, non poteva certo arrivare a pensare che fosse una spietata assassina, una Cacciatrice di esperimenti che sapeva più cose di quanto Judas immaginasse. Cosa sapeva di lei? Davvero poco, sapeva che lei lo stava cercando e che le sue intenzioni, al momento, non erano brutte, ma non sapeva altro se non che fosse un'anima scura. Non aveva idea di cosa lei volesse o cosa sapesse su di lui, a parte nome e cognome ed il fatto che sapesse che lui la stava aspettando.
    Molto piacere... Lasciò in sospeso la frase, sperando che la donna la completasse per rivelargli il suo nome. Avrebbe dovuto saperlo? Giocare all'indovino non era mai stato il suo forte, nonostante il suo potere avrebbe potuto lasciar intendere altro. In effetti era un po' un potere troll, di quelli che si presentano come assoluti, e che poi riescono al massimo a farti scoprire il meteo della settimana dopo (e solitamente nei giorni in cui non ha alcuna intenzione di piovere) Non sapeva indovinare il nome delle persone che gli stavano di fronte, ma poteva idealizzare la risposta di lei, se lui le avesse chieso il suo nome. Forse avrebbe potuto rispondere "Dimmelo tu" o qualcosa di simile e lo sapeva perchè sarebbe stata la risposta più scontata da parte di chi era a conoscenza del suo potere, ma non sapeva che era un potere troll. Ma Judas avrebbe imparato presto a non dare troppo per scontati gli Hamilton. Sì, lo penso anche io. Continuò allora, avvicinandosi a lei, il tanto che bastava per poterla osservare meglio. Dubitava che lo avrebbe portato nella sua fiammeggiante spider, anche se Judas lo avrebbe voluto sinceramente. Credo che dovrai dirmi il tuo nome, prima. Ma se vuoi posso provare ad indovinarlo. Le avrebbe fatto il gomitino, se non fosse che aveva forti dubbi che dopo quel gesto il suo braccio sarebbe rimasto intatto. Preferì invece ironizzare sul suo status di figlio non voluto, senza soldi ne lavoro. Possiamo sederci nel mio ufficio, per parlarne meglio. E prese posto sulla panchina a due spanne da loro.
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    rea fuckin' hamilton ( ) - 24 - Slytherin- team hamilton - the illusionist
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    Lo squadrò dal basso verso l’alto, entrambe le sopracciglia cinicamente inarcate. Quel tono sospeso sembrava voler far intendere che Judas non sapesse chi lei fosse, e la cosa non potè che indispettirla: non solo sarebbe stato il suo compito, in quanto chiaroveggente, perlomeno conoscere l’identità del suo cacciatore, ma si trattava di Rea Hamilton. A prescindere, avrebbe dovuto saperlo; a prescindere. C’era qualcosa nel potere di Ortiz, che l’affascinava e la turbava allo stesso momento, medesima antinomia suscitata dalla cronocinesi. Delicati ed imperfetti, ma riuscivano dov’ella, pur provando con allusioni casuali ad indovinare, non poteva arrivare. Passato, futuro, ricordi e quelli che ricordi non lo erano più. Bastava un contatto perché a quelli come loro fosse possibile appropriarsi di conoscenze che, quelli come lei, impiegavano mesi, se non anni, a raggiungere. Ciò che più la lasciava interdetta, e che in maniera quasi sadica suscitava se possibile ancor più interesse nella mora, era l’impossibilità di poter porre delle difese a quel loro semplicemente essere. Non sarebbero bastate tutte le illusioni del mondo per impedire ad un Judas, un Ashley o un Palmer di cogliere ciò che la Hamilton aveva lasciato sopito sotto la cenere, invisibile dietro le iridi cioccolata. I telepatici erano un rischio che preferiva non correre, ma non era insito nelle loro corde (prendevano il presente, i telepatici; prendevano la paura più nascosta, prendevano tutto ciò che eri e lo rivoltavano contro te stesso, un’arma puntata alla tempia: per questo cercava di starne alla larga, conscia che Rea Hamilton era l’unico modo di piegare Rea Hamilton): chiaroveggenza, psicometria, erano un altro paio di maniche. C’era un margine di pericolo, ma era limitato. Forse non poteva difendersi, ma poteva ancora evitarlo. Ed era lì, in quella clausola sul finire della pergamena, che stava ciò che più alla Hamilton aveva a cuore: compromessi, un salto fra le fiamme che potevi scegliere di non fare. Nessuno diventava tentatore, se prima non si lasciava tentare a sua volta. Il trucco era cedere, ma mantenere il controllo; se si perdeva il controllo, la tentazione diventava solamente l’ennesimo tiro mancino. «Sì, lo penso anche io» Ma davvero? Sbattè le ciglia, continuando ad avanzare lenta nella sua direzione. Per carità, adorava quando il proprio interlocutore si trovava d’accordo con lei (ovvero sempre, a meno che l’interlocutore non fosse morto; nel qual caso, avete già compreso il perché fosse morto), ma non comprendeva cosa lui avesse da dirle. Non conosceva il suo nome, ma cosa sapeva? Cosa, quei sottili occhi nocciola, avevano visto? “Dimmi qualcosa che non so, Judas Gabriel Ortiz. Sorprendimi”. Sorrise languidamente, inclinando il capo da un lato e lasciando così i capelli scuri a scivolarle da un lato. «Credo che dovrai dirmi il tuo nome, prima. Ma se vuoi posso provare ad indovinarlo» Avrebbe potuto lasciare quell’interrogativo in sospeso, lasciare che fosse lui ad affibbiarle un nome –uno qualsiasi, che importanza poteva avere?- ma sapeva, Rea, di dover creare un mutuale contesto di fiducia, o quanto più di vicino possibile. Le piaceva andare per il sottile, ma i fatti -a suo modo- li chiariva subito: carte in tavola alla prima mano, per poi spiegare le regole un po’ alla volta, facendo sì che la sua (perché andiamo, sappiamo tutti che sarebbe stata sua) vittoria fosse colta lentamente, fili che andavano a creare solo sul concludere della partita il disegno completo. «risparmiati, judas –posso chiamarti judas?» l’avrebbe chiamato così in ogni caso, ma a chiedere faceva sempre bella figura. Quel risparmiati risuonava d’una malizia davvero poco rara nella donna, promessa non troppo sottile di qualcosa che avrebbe potuto essere molto meglio o molto peggio. Dopotutto, dipendeva da lui. «hamilton» rispose sorridendo, continuando a camminare verso di lui. ormai erano così vicini da permetterle di vedere le condizioni non troppo eleganti del giovane; si chiese, con l’interesse accademico che un entomologo avrebbe riservato ad una particolarmente delicata farfalla, cosa l’avesse spinto a divenire quel che era. Se lo fosse già prima, o se il Labirinto avesse immancabilmente lasciato il proprio marchio anche su di lui. «rea hamilton» ed avrebbe fatto bene, il chiaroveggente, a ricordarselo quel nome -quel suono, quel sapore sulla lingua al solo pronunciarlo. Poteva anche essere così bella che la sola idea dell’insita malvagità del suo essere fosse fuori discussione, ma non lo era; un sorriso malizioso, uno sguardo indecifrabile, il tacito accordo che non sarebbe accaduto nulla di male –non con una come lei, non con un profumo come il suo. Prima o poi avrebbero imparato che Rea Hamilton mentiva anche quando non diceva nulla, lei li aveva avvisati. Il fatto che fosse lì in veste d’amica, andava a favore di Judas: doveva capire, decidere quanto il gioco valesse la candela. Se non bruciava abbastanza, però, il compito della fiamma sarebbe toccato a lei. Ed avrebbe fatto molto, molto più male. Le sembrava un bravo ragazzo, sicuramente interessante con quell’aria un po’ sfatta e distrattamente eccitante; davvero un peccato che Rea non fosse interessata al ragazzo quanto al chiaroveggente, potenziale già sprecato dietro un molto piacere… incompleto. Se l’avesse chiamata con il suo nome, ah, il cuore della Hamilton sarebbe stato suo. O almeno, quello che ne era rimasto. «Possiamo sederci nel mio ufficio, per parlarne meglio» preferì non commentare, limitandosi a guardarlo. Con quella frase le aveva detto più di quanto, a primo acchito, potesse apparire; la prima cosa che Rea colse, fu quanto poco prendesse sul serio la visita di un Cacciatore ministeriale. Affrontare la vita con ironia forse era accettabile nel mondo babbano, ma nel loro? Oh Judy, ne hai di strada da fare. La seconda, fu la definizione affibbiata alla panchina, ufficio. Poteva essere una scelta casuale, ma avrebbe potuto usare qualunque altra parola. Con quel termine, invece, fece pensare alla mora che avesse poco altro da offrire; preferiva buttarsi subito sulla visione pessimistica, immaginando le storie più tragiche e le lacrime più amare, piuttosto che lasciarsi allettare da una prospettiva dettata dal mero caso. Si sedette vicino a lui, abbastanza da far sì che un battito più ostinato o un brivido di freddo più tenace li obbligassero a sfiorarsi, servendogli su un piatto d’argento la possibilità di sapere da lei più di quanto lei fosse disposta a rivelare. Offriva sempre opportunità del genere; tendeva sempre trappole del genere. Era un Hamilton, dopotutto. «stai rischiando grosso, Judas» disse, riferendosi alla situazione precaria di lui, ma senza specificare cosa: sicuramente al suo vivere nel mondo babbano, a non essere dichiarato; conoscendo Rea, però, dietro quell’affermazione si celava molto di più. Gli lanciò le chiavi della macchina, sorridendo sorniona. «raccontami una storia, papà castoro» Lo invitò, suadente e melliflua, mentre le ciglia si abbassavano nuovamente fino a sfiorarle le gote. Sapeva che ai chiaroveggenti bastava toccare un oggetto per venire a conoscenza della sua storia, e voleva sapere quanto Judas conoscesse il proprio potere, ma soprattutto quanto fosse in grado di gestirlo. «poi potremo parlare» si chinò verso di lui, quasi sfiorando l’orecchio con le proprie labbra. «ho la sensazione che tu abbia qualche domanda per me, ma se vuoi posso provare ad indovinarlo» concluse citando quanto detto da lui poco prima, ritraendosi con l’accenno di un sorriso divertito nello sguardo.

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  5. Judas‚
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    21 drug addict muggle CLAIRVOYANT sinner
    No, I won't apologize for the fire in my eyes
    Judas Gabriel Ortiz
    La vita di Judas era stata abbastanza inclemente da insegnarli qualcosa di molto importante: niente veniva fatto per niente e tutto richiedeva un pegno. Aveva visto l'arrivo di quella ragazza, ma avvolta nel suo corpo elegante e proporzionato c'era stata un'ombra a confonderlo. Spesso era come un sesto senso, come se guardando negli occhi una persona credesse di conoscerla da una vita, con Rea Hamilton ciò non era avvenuto, continuava a vedere un'ombra intorno a lei, continuava a vedere l'ignoto e questo lo inquietava, lo metteva in allarme. Aveva preso posto sulla panchina, corrugando le sopracciglia quando lei gli si era avvicinata, sfiorandogli la mano a lasciando intravedere qualcosa di sè. Forse era stato accidentale, o semplicemente, come Judas aveva intuito, lei sapeva molto più di lui di quanto sapesse lui stesso e quel contatto lo aveva voluto. Aveva ritirato a sè la mano, troppo velocemente, ma al tempo stesso troppo tardi. Ed era bastato quel contatto per aprirgli un piccolo spazio di mondo sulla ragazza, uno spazio breve dal quale però aveva carpito poche immagini chiare: notte, un cielo stellato poco visibile, fumo, tosse, una grande esplosione nella quale lei, però, sopravviveva. "raccontami una storia, papà castoro" gli aveva proposto, invitante come poche cose, e Judas per un attimo si era sentito quasi in dovere di far bella figura con lei. Magari doveva pensarci un po', fermarsi a riflettere su ciò che aveva visto, ma dalle poche immagini che aveva ricavato da lei, il massimo avviso che avrebbe potuto darle era di stare ben lontana dai fuochi d'artificio a capodanno. Doveva dirle qualcosa che avesse importanza, doveva capire, perchè sapeva che Rea aveva le risposte alle domande che lui non si era nemmeno mai posto, ma sapeva che lei avrebbe risposto a quelle stesse domande. Era un concetto troppo assurdo, forse? Allungò ancora la mano verso di lei, soffermando i polpastrelli a qualche centimetro di distanza dalla pelle nuda del suo polso...non sentì niente, nè una vibrazione, nè altro, e si sentì a disagio ma si spinse oltre, fino a toccare la sua pelle olivastra, entrando in contatto con lei volutamente, ancora una volta. Trattenne il respiro per qualche istante, ricevendo le stesse immagini che aveva ricevuto poco prima, ma adesso approfondite di dettagli che non aveva notato in precedenza.
    Il fumo arrivava da una costruzione in legno distrutta, i corpi sul terreno ricoprivano ogni centimetro d'erba macchiata di sangue, e lei, Rea Hamilton, era viva. Su questo non c'erano dubbi, ma tutto intorno a lei era morto, giaceva senza vita sul terreno, e lei si guardava intorno, senza versare una lacrima, ghiacciata.
    Quando allontanò la mano da quella della ragazza, la guardò negli occhi, sapendo che attendeva qualcosa da lui. Ciò che sto per dirti non ti piacerà. Annunciò, con aria solenne. Prese un respiro, come se avesse sulle spalle il fardello di dover annunciare una tragedia. Tu ed i tuoi amici darete una festa, vicino ad un capanno, porterete dei fuochi d'artificio che però non funzioneranno bene, quando li accenderete esploderanno, rovinandovi la festa ed uccidendovi, o meglio...uccidendo i tuoi amici. Tu ti salverai. Questo è tutto, ma...puoi sempre evitarlo: stai lontana dai fuochi d'artificio e stai attenta ai tuoi amici. Concluse, e diciamo pure che un potere enorme come la chiaroveggenza non basta, se non ci sono le conoscenze ed il talento innato nell'interpretare i segnali. Ed adesso, Rea...tu sai perchè vedo queste cose? Sapevo del tuo arrivo, so che hai le risposte alle mie domande ma non so quali siano le domande...l'unica che conosco è ...com'è possibile che avvenga questo?
    ✖ schema role by psìche


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    rea fuckin' hamilton ( ) - 24 - Slytherin- team hamilton - the illusionist
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    Aveva sempre avuto una particolare predilezione per i casi umani, Rea Hamilton. Non era mai stata spinta da istinti filantropici sul migliorare la loro condizione di vita, o, vedendoli come giocattoli rotti, dall’ideale utopico di aggiustarli: li reputava semplicemente affascinanti, creature spezzate mandate in un mondo malato a passeggiare fra cenere e macerie di una civiltà incapace di farli sentire a casa. Li osservava con il cinico interesse che un erpetologo avrebbe potuto nutrire nei confronti di un esemplare di vipera orlovi: distacco, e cauta attrazione; quello era il sentimento che smuoveva lo sguardo d’ossidiana della ex serpeverde, mentre pigro scivolava sul profilo di Judas, e sempre quello ciò che l’aveva spinta ad offrire una nuova casa ad Al. Voleva scoprire fin dove, soggetti del genere, erano disposti a piegare le regole della società a proprio piacimento; voleva sapere quanta lealtà potevano sviluppare.
    Sostanzialmente, voleva capire se poteva trattarsi di personaggi utili ai fini della sua trama, o se si trattava delle ennesime pedine sacrificabili: a Rea piaceva giocare, ma se da sola non era divertente, con delle zavorre diveniva semplicemente intollerabile.
    La chiaroveggenza, idealmente, avrebbe potuto tornarle comoda – e preferiva, in ogni caso, averla dalla propria parte piuttosto che come avversaria. In qualità di cacciatrice, Rea si prendeva la libertà di scegliere, fra i fascicoli che le venivano proposti, quelli interessanti e quelli che, al contrario, le avrebbero solamente fatto perdere tempo: Judas, per sua immensa fortuna, chiaroveggente ignaro, era rientrato nella prima categoria. Stava a lui, ora, scegliere da che parte stare.
    Gli permise perfino di toccarla, donando ad un perfetto sconosciuto un frammento del proprio, personale, futuro; si trattava di una sfida e, al contempo, di una dimostrazione di fiducia – perché era conscia, la Hamilton, che prima di poter scendere a compromesse con chicchessia, fosse necessario dargli un po’ di credito. Poco, ma almeno quello era doveroso.
    «Ciò che sto per dirti non ti piacerà.»
    Quale novità. Scivolò sulla panchina per mettere più spazio fra sé ed il ragazzo, le gambe incrociate e le mani abbandonate in grembo. Con un sospiro, gli scoccò un’occhiata in tralice dal liquido sapore dell’insofferenza, la lingua a schioccare placida contro il palato. «non mi dire» commentò ironica, lasciando che gli angoli delle labbra si curvassero debolmente verso l’alto. Nulla nel suo aspetto era in grado di mostrare cosa passasse dietro le iridi cioccolato: il respiro era regolare, l’espressione impenetrabile, e se solo qualcuno avesse avuto la possibilità di avvicinarsi abbastanza da tastarle il battito, sotto i polpastrelli non avrebbe sentito alcuna alterazione; eppure. I pensieri s’intrecciarono vorticosamente cercando di immaginare cosa, l’Ortiz, avesse visto – e come, dal canto suo, potesse sapere che non le sarebbe piaciuto.
    Si consolò pensando che, se si fosse trattato di qualcosa di sconveniente, avrebbe sempre potuto ucciderlo. Bastò quel pensiero a rincuorarla, dando alle labbra una curva più crudele ma sincera, di quella perfidia divertita che solleticava la gola del sadico quando il primo sangue cominciava a scorrere.
    «Tu ed i tuoi amici darete una festa, vicino ad un capanno, porterete dei fuochi d'artificio che però non funzioneranno bene, quando li accenderete esploderanno, rovinandovi la festa ed uccidendovi, o meglio...uccidendo i tuoi amici. Tu ti salverai. Questo è tutto, ma...puoi sempre evitarlo: stai lontana dai fuochi d'artificio e stai attenta ai tuoi amici.»
    Ma che cazzo. Era serio? L’aveva detto davvero? La Hamilton lo osservò a palpebre socchiuse, le labbra serrate a disegnare una linea dura di sincero disappunto. Sbattè le ciglia, lentamente e con intenzione, un paio di volte. Si aspettava che da un momento all’altro scoppiasse in una fragorosa risata, divertito da quell’umorismo che a lei sfuggiva, smentendo quanto aveva appena detto – principalmente, per il poco senso dell’affermazione in sé. Judas non lo fece, e Rea rimase immobile a scrutarlo. Lei ed i suoi amici avrebbero… dato una festa? Impossibile. Rea Hamilton non aveva amici, e sicuramente non era una fan delle feste. Figurarsi, poi, se avesse impegnato le proprie fatiche in agghiaccianti fuochi d’artificio; a meno che, certo, con fuochi d’artificio non intendesse pire umane, in quel caso non sarebbe stato del tutto fuori luogo. Lasciò uscire l’aria in un sibilo, la bocca tesa in un sorriso distaccato e freddo quanto le iridi pece. «ammirevole» ed il tono con cui lo disse, stringendo la parola fra i denti e sputandola con agrodolce ironia, fece intendere ch’ella non vi trovasse assolutamente nulla di interessante. Sapeva che il futuro era un tasto delicato, ma la storiella dell’Ortiz pareva inventata di sana pianta – e nella sua vita, di Wanne Marchi, non ne voleva. Fu abbastanza magnanima da decidere, seduta su quella panchina, di donare al ragazzo il beneficio del dubbio.
    Magari aveva solo bisogno di addestramento.
    Magari aveva solo bisogno di sapere.
    Fra le sue dita, quel grezzo carbone avrebbe potuto divenire diamante. Si umettò le labbra, intrecciando le dita fra loro. «ma dovrai fare di meglio, ortiz, se vuoi sopravvivere» ed allora, più leggera e seria, sorrise nuovamente – un sorriso che non giunse mai agli occhi. Pronunciò la frase come un dato di fatto, perché di quello si trattava: non era una minaccia, non era un avvisaglia. Non aveva bisogno della chiaroveggenza, la Hamilton, per vedere il futuro di Judas Ortiz nel mondo magico – masticato, e schiacciato sotto la suola di scarpe più costose del suo intero guardaroba. «ed adesso, Rea...tu sai perchè vedo queste cose? Sapevo del tuo arrivo, so che hai le risposte alle mie domande ma non so quali siano le domande...l'unica che conosco è ...com'è possibile che avvenga questo?» giovane, ignaro, Judas Ortiz. Rea Hamilton gli rivolse un sorriso di biasimo, che lungi era dal poter essere interpretato come compatimento. Da una parte, forse, invidiava l’ingenuità del ragazzo, ancora ignaro di cosa l’avrebbe aspettato.
    Di ciò che era.
    Sospirò, spostando languida una ciocca di capelli castani dietro l’orecchio. «certo che lo so» commentò con un vago cenno della mano, indicando così quanto stupido fosse stato, da parte dell’Ortiz, metterlo in dubbio. «il mondo come lo conosci tu, judas, è solamente una parte dell’intero. una piccola, parte» sottolineò annoiata, sbattendo le ciglia. «esiste un altro mondo, popolato da creature che sono reputate leggendarie nella maggior parte delle civiltà. Le persone, lì, hanno la magia. streghe e maghi, sono reali. Ad esempio, io sono una strega» l’occhiata che gli rivolse, voleva mettere a tacere qualunque commento stupido riguardo il termine che strega, nel linguaggio colloquiale, aveva assunto. Non aveva tempo per umorismo da quattro soldi, lei, e se proprio l’avesse avuto, sarebbe andata a trovare Nathaniel. «alcuni maghi hanno abusato del proprio potere, ed hanno cominciato a … rapire e torturare le persone, modificando il loro materiale genetico. Anche a chi non possedeva la magia, i cosiddetti babbani, è stato donato un… potere» lo osservò allusiva, facendo una pausa così che il ragazzo potesse metabolizzare – e se proprio non era biondo dentro, magari, avrebbe potuto comprendere il sottinteso. «è quello che è successo a te, judas. Nel tuo caso, si chiama chiaroveggenza» essendo una nata babbana, avrebbe potuto cercare di avvicinare il giovane a quel mondo con più tatto, maggiori dettagli che potessero aiutarlo a comprendere la delicata situazione nel quale si trovava.
    Un vero peccato che Rea Hamilton non avesse alcuna intenzione di improvvisarsi docente di storia della magia, e fosse empatica quanto uno scola pasta. Scosse il capo, la lingua a inumidire le labbra. «suppongo tu abbia altre domande, in merito» ma quando mai Rea faceva qualcosa per nulla? Sorrise ancora, inarcando entrambe le sopracciglia. «dimmi qualcosa che non so, ortiz, e risponderò a ogni interrogativo. Prova a chiudere gli occhi, ed a concentrarti sui dettagli. Isola il resto, e guarda solamente quello che ritieni possa aiutarti, o aiutarmi, a capire. Prima di prodigarmi in spiegazioni, voglio sapere quanto ne valga la pena» di lasciarti vivere.
    Ma quello, ad alta voce, non lo disse. Gli porse nuovamente la mano, una provocazione dal ramato sapore d’intimidazione nello sguardo.

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