Are you insane like me? Been in pain like me?

Jeremy (milko non si sa, ma di sicuro:)Bitch

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    Ed anche per lei, quella sarebbe stata l’ultima lezione prima delle vacanze: magico. Non andava a scuola, se non per loschi affari da Dottori, da ormai tre anni. Aveva lasciato gli studi appena compiuti i sedici anni, salutando con non troppo affetto professori e compagni che l’avevano accompagnata in quel travagliato, ed alquanto seccante, tragitto. Jeremy e Todd andavano ad Hogwarts, e a lei cosa toccava? Il liceo babbano. Se non avete mai frequentato un liceo, non avete idea della casta che s’aggirava da quelle parti: cheerleader, gente che odiava le cheerleader; sportivi, gente che odiava gli sportivi, secchioni, gente che odiava i secchioni; drama club, anti drama club; emo, non emo; e via discorrendo. I rari outsider, detti anche reietti o plebe, si limitavano a scartavetrarsi le palle osservando le diatribe interne, ed esterne, nelle tribù autoctone. E Run, fra le varie bande, dove si inseriva? Da nessuna parte. Lei conosceva un mondo diverso, delle amicizie diverse, una vita diversa. Heidrun sognava la magia, e non comprendeva come loro potessero concentrarsi su cose futili come lo studio, la chimica, o il football (no okay, il football le piaceva). Se ne stava bellamente per i cazzi suoi, a fumare sugli spalti mentre l’insegnante tentava, per la decima volta, di mandare una lettera di rimproveri a Bradley, chiedendole almeno una foto della mitica Heidrun Ryder Crane, così da poterla finalmente conoscere. Non aveva mai compreso che la giovane le aveva dato l’indirizzo sbagliato, beata innocenza. Ne erano cambiate di cose, nella vita di Heidrun; ne erano cambiate così tante che un intero libro non sarebbe bastato, tante che non ne avrebbe voluta alcuna memoria.
    Eppure, come quando frequentava il liceo, Heidrun si trovava seduta sugli spalti, una sigaretta non dissimile stretta fra pollice ed indice. La spostava da una mano all’altra, ancora spenta; la osservava, come se guardarla potesse far scorrere più rapidamente il tempo, rendendole chiaro cosa avrebbe dovuto fare –o cosa ci si aspettava da lei, che era forse ancor più complesso. Come per buona parte della sua vita, la scelta di trovarsi lì, in quel momento preciso, era stata solo in parte dettata dalla razionalità. Semplicemente appena Henderson aveva finito di parlare (e quanto parlava) Heidrun era sgusciata fuori dall’aula, percorrendo il prato innevato finchè non era giunta alla struttura adibita al Quidditch. Ricordava quando Jeremy e Todd erano più piccoli, e non smettevano di raccontarle quanto fosse bello. Se n’era appassionata anche lei, nonostante mai avesse visto una partita. L’avevano istruita sui vari ruoli, e spiegato come si giocava, con entusiasmo tale che Run avrebbe quasi potuto affermare di essere una giocatrice provetta pur non avendo mai toccato una pluffa. Si trovava lì, seduta a gambe incrociate, accompagnata solo dal frusciare dei rami e dal vento che cercava, amore di mamma, di gelarle le chiappe. Peccato che a lezione Run avesse conosciuto un adorabile criocineta, ed il freddo non la turbasse più. Avrebbe potuto rimanere lì in eterno, ma era anche consapevole che se l’avessero scoperta al campo, fuori dalle lezioni, le avrebbero fatto il culo. Osservava gli anelli, le tribune, e cercava di immaginarsi come potesse essere quel campo quando pullulava di gente, fossero giocatori o spettatori. Ma quella, signori, era solo la punta dell’iceberg dei motivi per il quale Heidrun Ryder Crane si trovava lì, il culo immerso nella neve e gli occhi verdi chini sulle proprie mani.
    Il giorno prima aveva incontrato Todd Milkobitch ad Hogsmeade, ed il ragazzo le aveva detto che Jeremy non sarebbe tornato a casa per le vacanze; il solito stupido, egoista, Jeremy Milkobitch. Heidrun si morse il labbro inferiore, abbassando nuovamente lo sguardo sulla sigaretta. Poteva, quel cilindro di tabacco, darle le risposte che andava cercando? Lei ancora ci sperava. Ci sperava, Run, che qualcuno avesse le risposte che a lei mancavano. Ci sperava che potesse bastare un sorriso, un’alzata di spalle, per cancellare quanto aveva fatto. Todd le aveva detto che era stato preso come mascotte nella squadra, e la Crane non aveva potuto che riservargli un sorriso orgoglioso, mentre gli stropicciava i corti capelli ramati. «E Jeremy è cacciatore» «…» «Quelli che cercano di lanciare la…palla nei… cerchi» Aveva specificato il Corvonero, rispondendo all’interrogativo inespresso negli occhi verdi di Run (memoria mia, che brutti scherzi mi fai). E l’aveva reputato così… assurdo! Aveva sempre pensato che Jeremy avrebbe fatto il Battitore quando fosse stato grande abbastanza per entrare in squadra, ossia il ruolo che a lei sarebbe andato a pennello: colpire le cose con una mazza? Andiamo, era un invito a nozze per la Crane. In mancanza di quidditch aveva dovuto ripiegare sulle asce (manco sue), ma quella è un’altra storia. Comunque, il ruolo di Battitore sembrava più adatto per gente come lei, e di conseguenza gente come il Milkobitch Tassorosso; per tutti quelli che covavano una rabbia cieca, silenziosa o meno che fosse. Per chi avrebbe voluto gridare, e gridare, e gridare ancora finchè avessero avuto voce per farlo. Per quelli spezzati, che rispondevano al buongiorno alzando ironicamente le sopracciglia, un sorriso sghembo che nulla aveva di divertito. Per quelli che ci provavano, indipendentemente da tutto. Sarebbe stato un modo consono per sfogare quell’insieme di emozioni, perché nessuno l’aveva detto a Jeremy?
    Perché avresti dovuto dirglielo tu, Heidrun. Ma tu non c’eri.

    E taaac, ecco che tornava. Quel vuoto, quel dolore che semplicemente si propagava dal nulla verso il tutto, lasciandola in quell’apatico silenzio nel quale cercava risposte perfino in una fottuta sigaretta. Ah, buon Dio, che palle. Avrebbe voluto fosse più semplice, avrebbe voluto avere più risposte che domande. Purtroppo, la vita era una bella merda: ecco la triste realtà con cui chiunque avrebbe dovuto fare i conti, chi prima chi dopo. Jeremy e Run erano molto più simili fra loro di quanto non lo fossero con Todd; per Heidrun, Ian era sempre stato un punto di riferimento, quello che con il sorriso goffo alzava le mani in segno di resa millantando una colpa che non aveva, mentre tutto intorno a lui andava a fuoco. Ian Todd Milkobitch le aveva sempre ricordato che nonostante il mondo potesse fare veramente schifo, c’era sempre qualcosa che valeva la pena d’essere salvato, che rimaneva intoccabile. Era ciò che Heidrun non era né mai sarebbe stata, la prima persona all’infuori di sua madre che aveva imparato ad amare; e per lui, Heidrun era stata molto più di quanto Run stessa si fosse mai resa conto. Malgrado ciò, Todd mai avrebbe potuto comprendere quella nota dissonante nello sguardo della Crane, quel labbro morso con forza, la diversità, l’abbandono. Se lui pensava di essere un alieno a causa della sua sbadataggine, cos’avrebbe pensato della ragazza cresciuta nel Limbo, nata con il potere d’imitare gli altri? E certo, non aveva mai avuto la concreta possibilità di conoscere suo padre, ma… Non era stato il suo punto di riferimento, il suo mondo. Qualcosa che invece accumunava Run e Jeremy, entrambi lasciati a casa dei Milkobitch come pacchi troppo ingombranti mentre la madre voltava loro le spalle. Occhi diversi, sapore diverso, anni diversi; non aveva importanza, erano cicatrici uguali per tutti. Marchiavano quelli come loro fino alla fine dei giorni, e si sarebbero sempre riconosciuti a vicenda. Ecco cosa Heidrun vedeva in Jeremy Milkobitch: una più giovane Run versione maschile. Il che, secondo i suoi calcoli, significava che a quell’età, sedici anni, doveva trovarsi in quello specifico punto della sua vita nel quale: a) stava perdendo la verginità b) si stava drogando c) si stava approcciando a limonare una bottiglia di vodka, o qualunque roba bevessero i giovani maghetti di Hogwarts. Quella era Heidrun a sedici anni (ma anche poco prima, ed indubbiamente anche dopo), ed immaginava una sorte non poi così diversa anche per Jeremy. Allora perché lo stava aspettando al Campo da Quidditch, e non in una bettola di perdizione #wat stile Stamberga Strillante?
    Perché faceva freddo, e non c’era nessun altro. Perché sapeva, sapeva, che sarebbe andato lì.
    Di fatti.
    Si infilò la sigaretta dietro l’orecchio, planando –letteralmente- sul Campo, poco distante da Jeremy. Quanto era cresciuto? Dio, sembrava perfino più grande di lei. Ma che gli davano a Hogwarts, ormoni e sostanze dopanti? Ignorò quella fitta, quel battito mancante, rivolgendogli invece un sorriso sornione. «Eau la madonna Milkobitch, eri un comodino e sei diventato un armadio. Nessuno mi aveva detto che Hogwarts era la nuova Ikea, a saperlo venivo a cercare delle lampade nuove» Inarcò le sopracciglia, accennando alle proprie tette non particolarmente prosperose.
    Normali discorsi in famiglia: (milko)bitches are back.
    the heart is deceitful above all things,


    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 00:48
     
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    Venivano narrate numerose storie e leggende sul Natale, sul clima che questo, con il suo avvento, si portava addietro. Festività cristiana o pagana che fosse, i racconti la dipingevano sempre come un idilliaco periodo di felicità, di affetto e di compagnia. La ricorrenza per eccellenza, quella per la quale la cucina si riempiva di odori dolci e prelibati al solo olfatto, in grado di saziarti prim’ancora di aver addentato una di quelle gustose ed allettanti pietanze. La celebrazione annuale che riuniva la famiglia e che permetteva a tutti i componenti di essa di ornare ogni angolo della casa con festoni, addobbi, ghirlande ed il maestoso ed immancabile abete sempreverde, rigorosamente scelto dal padre della famiglia e decorato dalla donna di casa la quale, ovviamente, non faceva che ricordare a tutta la propria parentela di quanto il suo gusto estetico fosse migliore e sopraffino rispetto a quello del marito e dei figli. Ed era così glorificato da tutti, il Natale, in una maniera veramente esasperante: qualsiasi cosa bella o anche solo piacevole che accadeva a ridosso del venticinque di dicembre era riconducibile al calore che la festività portava con sé, e tutti erano sempre così entusiasti. La neve che cadeva era entusiasmante, il calore del camino era entusiasmante, le luci che giravano tutt’attorno alle case erano entusiasmanti, non c’era una cosa che non lo fosse. Per non parlare della Vigilia di Natale! Dio, l’apoteosi della felicità, la massima esasperazione di quel periodo invernale. Quello che tutti attendevano con ansia, chi per condividere l’imbandita tavolata con parenti vari, chi per il fantomatico arrivo di quella figura bianca e vetusta con il suo sacco ricolmo di doni. Impazienti, sotto l’albero, i bambini reclamavano solo il momento propizio per ricevere i regali che tanto agognavano, per i quali avevano persino scritto la famosa lettera per il leggendario e magico Babbo Natale.
    Tutte le storie, le canzoni, i film, avevano questo filo rosso che le collegava l’un l’altra, che fosse una morale o una base da cui partire: la famiglia felice riunita, il calore natalizio anche nelle avversità, o anche la semplice e scontata presenza di decorazioni sparse qua e là nelle descrizioni. Tutte le storie potevano vantarle, certe minuzie, eccetto una. Jeremy Milkobitch aveva vissuto i primi dieci anni della sua vita da Grinch, senza conoscere veramente cosa fosse il Natale, sapendo solo che in quel periodo faceva freddo e che non si andava a scuola, ma era un giorno come tanti altri. Non aveva mai sentito quel calore tanto millantato, credendolo identico a quello che riceveva ogni giorno; non aveva mai provato l’ebbrezza di appendere sfere, fiocchi e stelle sull’albero, né quella di circondare i cornicioni delle finestre con illuminazioni ad intermittenza. Non le raccontava nessuno, le storie come la sua, prive del minimo pathos, di sviluppi interessanti o di importanti colpi di scena: un continuo susseguirsi di quotidianità, niente di abbastanza avvincente da rientrare nei canonici canti festivi. Ma soprattutto, non erano storie belle, e nessuno avrebbe mai desiderato leggerle, ascoltarle o vederle. Quella del Tassorosso, appunto, era una di queste: nonostante le conoscesse, nonostante lui stesso fosse andate a cercarle nei mercatini allestiti per le strade di Londra, mai ci si era immedesimato. L’idea di abbellire la propria, umile, casa non era mai passata per la mente di sua madre, né quella di fargli festeggiare quel giorno come era costume si facesse.
    Ma era comunque una storia, e in quanto tale si poteva quasi dire avesse un lieto fine: il suo erano stati Todd, Run e Bradley, la loro accoglienza, i loro sguardi ed i loro sorrisi. Il loro calore ed il loro volerlo condividere con lui anche se non era la loro famiglia: si bastavano, non gli dovevano nulla, era solo un estraneo. L’aveva trovato il suo lieto fine, la felicità che mai aveva cercato, accontentandosi e amando quello che aveva, eppure stava fuggendo da esso, lo stava rinnegando; era di troppo lì in mezzo, non faceva che ripeterselo ed il fatto stesso che né il fratellastro né sua madre avessero fatto molto per farlo tornare sui propri passi non poteva che essere una conferma ai timori del ragazzo. Dopotutto, era stato per un favore che l’avevano accolto, se di sua spontanea volontà decideva di allontanarsi non erano tenuti a dirgli nulla per fargli cambiare idea. Se Jeremy doveva molto a quella famiglia, di certo loro non dovevano nulla a lui e di ciò ne era perfettamente consapevole. Heidrun aveva pensato le stesse cose, alla sua età? Era per quelle domande che, senza un apparente motivo, avevano perso ogni contatto con la Crane? Era per quello che li aveva, che lo aveva lasciato da solo? Se solo non fosse stato vincolato da quella scuola, se solo non volesse uscire di lì con un foglio di carta in mano e fare qualcosa, in vita sua, non avrebbe avuto indugi nel seguire il suo esempio. Ma anche perché, lo sapeva perfettamente, non sarebbe riuscito ad allontanarsi da loro. Aveva solo bisogno del suo tempo, aveva solo bisogno di capire cosa stesse cercando, aveva solo bisogno di capire il perché dei molti punti interrogativi alla fine di ogni suo pensiero. Aveva bisogno di qualcuno che lo capisse, qualcuno come lui e quando l’aveva trovato, questo qualcuno, questo non aveva fatto che lasciarlo, preferendo cosa poi? La propria felicità, la propria vita, la propria famiglia? Non era più così sicuro gli interessasse saperlo, perché erano ovviamente buone ragioni e lo sapeva, ma era egoista, anche lui cercava una conclusione, o un inizio. Cercava qualcosa, qualcosa che non sapeva definire nemmeno lui e che non sapeva dove guardare per trovarla.
    La cercava anche in quel momento, scopa alla mano, mentre molto clandestinamente entrava negli spogliatoi della propria squadra. Non sapeva nemmeno lui come ci fosse finito lì, Morgan santissimo la cosa gli stava sfuggendo di mano. Non si era portato nulla per la quale potesse pensare che aver raggiunto il campo di Quidditch, quel pomeriggio, fosse un qualcosa di premeditato. Probabilmente nemmeno aveva avuto la decenza di cambiarsi il maglione di lana, regalatogli l’anno addietro da Bradley e, annusandolo, ne poté avere la conferma: era lo stesso che aveva dalla mattina stessa, quando aveva passato un po’ di tempo in compagnia di Tyreek, il quale dopo poco sarebbe dovuto partire per tornare dalla propria famiglia. Sta di fatto letteralmente #wat che erano entrambi partiti, ma non esattamente nel modo usuale e solo quando se n’era andato, il Milkobitch si era accorto di essere rimasto veramente da solo. Non c’era nessuno, era rimasto nella Sala d’Ingresso dopo aver visto il Serpeverde uscire dal portone di Hogwarts ma senza incrociare alcuno sguardo che potesse risultargli anche solo vagamente familiare, con il quale potesse dire di aver piacere di scambiare qualche parola in amicizia.
    Cercava anche in quel momento un perché, un qualcosa, mentre i piedi calpestavano l’erba del campo, lasciando orme dietro di sé sul lieve strato di brina che si era venuto a creare durante quell’inverno. Lo cercava, gli occhi puntati a terra mentre i ramoscelli della scopa lasciavano una scia dietro di sé, un motivo che lo portasse lì: rabbia, frustrazione, solitudine, insoddisfazione, o forse tutto ciò insieme, non poteva darsi una risposta. Nessuno, secondo lui, poteva. Non gli andava nemmeno di volare, perché era lì, dannazione? Di certo non sperava di farsi scoprire e mandare nella fantastica Sala dei giochi della Jamicla, per quanto ormai ci fosse avvezzo. «Eau la madonna Milkobitch, eri un comodino e sei diventato un armadio. Nessuno mi aveva detto che Hogwarts era la nuova Ikea, a saperlo venivo a cercare delle lampade nuove» Per fortuna, c’era qualcuno, in quel momento, che poteva dargli un motivo per non tornare al castello, qualcosa per cui valesse la pena restare. Si voltò sentendo le dita perdere la presa sul manico della scopa, aggrottando la fronte e mettendo bene a fuoco la figura di sua sorella, cercando di capire se si trattasse di un’allucinazione -dopotutto era fatto come una pigna ed era sbucata dal nulla, provate a dargli torto- o no. Dopo un’attenta ed accurata analisi, facendo scorrere più volte gli occhi azzurri lungo tutto il corpo di Heidrun, poté essere sicuro della sua reale esistenza. Solo quando ne fu abbastanza certo, sovvenne il dubbio, nel ragazzo, sul da farsi: lei l’aveva ignorato per tre fottuti anni, e ora si ripresentava lì, di punto in bianco, facendo la solita sorellona di sempre. « Sei una stronza. » Decise di restare ma non di fargliela passare liscia. Forse. « Nemmeno una lettera, un messaggio, una chiamata, niente. Ti avrò scritto non so quanto e tu? Facevi la bella vita, vero? » Troppo diretto? Troppo diretto, ma era l’erba a parlare, o meglio era merito suo se il tasso aveva deciso, infine, di non ignorarla. Indugiò un po’, riservandole quello sguardo freddo, distaccato, che mai le aveva rivolto ma che, santi numi, in quel momento si meritava più di mezza Hogwarts. Ridusse le distanze tra loro in una maniera forze troppo brusca e fulminea, senza dare alla Crane il tempo di accorgersi di avere le braccia del ragazzo strette dietro la schiena: ormai era più grande di lei, riusciva ad avvolgerla (?) tutta senza troppi problemi, non come quando a malapena la sua testa gli arrivava ad altezza tette -il che non era poi così male. « Mi sei mancata » Le sussurrò all’orecchio, mentre una mano, nel frattempo, si avvicinava silenziosa alla preda già individuata poco prima. Si staccò, infilando la sigaretta di Run dietro l’orecchio ed alzando le sopracciglia con fare innocente. « E grazie, le avevo finite »
    Sembrava quasi normale, quell’ultimo scambio di battute, quasi non fosse passato nemmeno un giorno. Ma di giorni, in vero, ne erano passati anche troppi e tre anni non erano facili da recuperare, non così facilmente: lo sapeva Jeremy e, indubbiamente, lo sapeva Heidrun.
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    Edited by al-coholism - 10/12/2015, 03:45
     
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    Rimase immobile, osservando Jeremy mentre il ragazzo la squadrava, ben attenta a non fare mosse azzardate. Si morse il labbro quando notò, in un misto di orgoglio Run e disapprovazione perché non l’aveva aspettata (a suo favore, bisognava dire che probabilmente aveva smesso di aspettare Heidrun Ryder Crane tre lunghi anni prima), le pupille innaturalmente dilatate. Mosse con una lentezza esasperante la mani davanti al suo viso, sia per salutarlo che per ricordargli che lei, proprio lei, era ancora davanti a lui. Non s’osava a muoversi rapidamente sapendo quanto, da fatti come zucche, la paranoia potesse prendere possesso del proprio corpo in un battito di ciglia. « Sei una stronza. » Beh, dire che non se lo fosse aspettato sarebbe alquanto stupido. Il sorriso non lasciò comunque le sue labbra, mentre il cuore si addolciva nel sentire quella voce che tanto le era mancata. Forse più greve, non più bambino ma giovane uomo, eppure sempre la stessa. Jeremy, Jeremy Milkobitch. Non rispose, principalmente perché aveva ragione: Run era una stronza, lo era sempre stata. Prima di partire, durante la sua assenza; era l’unica etichetta che non l’aveva mai abbandonata, ricordandole le sue origini. Di conseguenza, non era una novità. « Nemmeno una lettera, un messaggio, una chiamata, niente. Ti avrò scritto non so quanto e tu? Facevi la bella vita, vero? » La bella vita. L’espressione della Crane si fece più triste e melanconica, nascosta però da una maschera d’ironia; a sua volta, sul fondo degli occhi verdi, una scintilla di rancore per quella sciocca innocenza del Milkobitch. Pensava davvero che lei non avesse dato notizie di sé per tre fottuti anni perché impegnata a girare l’Europa in yacht? Inspirò profondamente, obbligando sé stessa a ricordare che non era colpa sua. Lui non sapeva, e non poteva immaginare cosa fossero stati quegli anni per lei. Non poteva certamente conoscere Gamma, al contrario di molti altri. La bella vita. L’avevano torturata; l’avevano modellata, forgiata a loro piacimento; l’avevano resa quel genere di persona che non si preoccupava degli altri, fiera del suo lavoro e ben contenta di portarlo a termine. L’avevano resa asettica, priva di qualunque legame sano, un palloncino lasciato allo sbaraglio in un cielo troppo grande. E quand’era tornata, l’avevano presa e l’avevano sbattuta in una merda di Labirinto doveva aveva combattuto ogni maledetto giorno per non morire.
    E dove qualcuno, invece, non ce l’aveva fatta.
    La bella vita. Non sapeva quanto. Strinse impercettibilmente i pugni, a quel ti avrò scritto non so quanto; chissà dov’erano quelle lettere, chissà se gli Harvelle mai si fossero domandati se tagliare la nipote fuori dalla sua vita facesse bene alla loro causa. Forse, e parliamo di un ipotetico universo alternativo, se le avessero permesso di rimanere in contatto con i Milkobitch sarebbe rimasta. Probabilmente no, ma non poteva fare a meno di domandarselo. Non poteva dirglielo, però, ed era lì la fregatura. Heidrun Ryder Crane non poteva dire alla sua famiglia, od a chiunque altro, dove avesse speso quel tempo lontano da casa. O meglio, poteva farlo, ma necessariamente con una menzogna. Non poteva… Non a loro. Non dirgli che genere di mostro fosse diventata: era la loro sorellona, quella che scompigliava i capelli, tirava frecciatine sulla sfortuna di Todd e iniziava un più piccolo Jeremy al tabacco. Tredici anni, embè? A tredici anni si era già grandi #wat. “Sono partita a cercare mio padre, perché mia madre mi aveva detto di farlo; pensavo fosse morta, volevo vendicarla e sistemare le sue questioni in sospeso, così com’ella mi aveva chiesto. Pensavo di tornare in fretta, di certo non sapevo che anche Al fosse stato rapito. Mi hanno intercettato prima i nonni, adorabili vecchini che si erano divertiti a torturare prima la figlia e poi chiunque altro. magici, davvero. Ma loro mi hanno detto di non aver nulla a che fare con la scomparsa di mamma. Ah, ma la parte divertente viene dopo: mi hanno torturata finchè non sono diventata ciò che volevano fossi, un’Adescatrice. Da quel momento ho passato tre anni a rapire babbani e maghi per farli diventare Cavie da Laboratorio. Quando sono rinsavita e sono riuscita a fuggire, l’intento di trovare mio padre per lo scopo originario di quella fuga, sono stata rapita da mistici individui incappucciati. Ma ehi, ho trovato i miei genitori! Sìsì, dopo aver pensato che fossero fuggiti insieme su un’isola caraibica senza di me, ho in realtà scoperto che avevano rapito Jo per tutti quegli anni. Ma sai qual è la parte più bella?
    L’ho scoperto solo quando è passata a miglior vita.
    Volevo mandarti una cartolina, ma non trovavo paesaggi abbastanza fotogenici. Scommetto che ti sarebbe piaciuto, davvero. Il selfie con il morto era un’alternativa, ma mi sembrava di cattivo gusto perfino per il mio humour. Così mi sono cercata un lavoro per sistemare le altre faccende in sospeso, tipo l’aver rovinato la vita a centinaia di innocenti. Vivo in un posto di merda, temendo ogni giorno che qualcuno scopra la verità. Ah, alla fine mio padre è sparito, non so neanche io cosa fare.”

    Si strinse nelle spalle, alzando i palmi verso un cielo testimone silenzioso di quanto fosse stata, la sua, una bella vita. Finse di non farsi toccare dagli occhi freddi di lui, il tono tagliente della sua voce; lo giustificava, nonostante lei sapesse di aver avuto i suoi motivi. Lo capiva, davvero. Ma capirlo non rendeva meno spesso il groppo alla gola, mentre il sorriso forzato suonava naturale quanto Run mai era stata. Dopotutto aveva imparato a mentire per salvaguardarsi, non avrebbe avuto senso smettere in quel momento, quando da salvaguardare c’era qualcun altro. Coprì la ferita inferta da Jeremy con quel sorriso, in cui gli anni sembravano assottigliarsi in un solo, flebile, respiro. E rimase ancora ferma, Heidrun, mentre Jeremy la stringeva in quell’abbraccio da orso. « Mi sei mancata » Chiuse gli occhi, cercando nella sua pelle il profumo di casa, prima di avvolgere le proprie braccia attorno a lui, affondando il viso nella sua spalla. «Anche tu» Sussurrò, sempre ad occhi chiusi, trattenendolo ancora un poco a sé anche quando quello, bastardello come quand’era bambino, gli fregò la sigaretta da dietro l’orecchio. Sospirò, alzando gli occhi al cielo. «Figurati, a cosa serve la famiglia altrimenti? Ah no, aspetta» Ticchettò con l’indice il labbro inferiore, improvvisamente pensierosa, mentre il pugno sinistro si chiudeva sul proprio fianco. «Non puoi saperlo, altrimenti non avresti dato buca a Todd per Natale» Concluse dandogli un pugno sulla spalla destra, più forte di quelli a cui lui era stato abituato tre anni prima. Dopotutto Run non era più la stessa ragazzina, era ormai addestrata per fare male, e Jeremy non faceva eccezione -anzi. «Ma cosa ti dice il cervello? Vai immediatamente dal Preside a dirgli che hai cambiato idea e torni a casa per le vacanze, altrimenti sarò io a trascinarci il tuo culo. Con le buone o con le cattive, Bitch poco Milko. Poi, perché diamine vorresti preferire passare il tuo tempo qui anziché con Brad e Ian? Il solito melodrammatico» Bofonchiò, alzando entrambe le sopracciglia. Sapeva di dovergli qualche spiegazione, ma sapeva anche che per quelle avrebbero avuto tempo. Si rendeva conto di suonare come il fantomatico Merlo che dice "sei nero!" al Corvo, ma era conscia -e lo sarebbe stato anche Jer- di aver avuto le sue ragioni: lei non li avrebbe mai abbandonati per tutti quegli anni se non fosse stata obbligata dalle circostanze, ed era triste che Jeremy non l'avesse capito. Che ragazza credeva fosse? Nel mentre bisognava rimediare agli errori più recenti, e riunire la famiglia era compito suo. Lo era sempre stato.
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    Aveva deciso di restare lì, su quelle zolle erbose perfettamente curate, di non ignorare l’inaspettata –non più, ormai- comparsa di Heidrun Crane. Malgrado dopo le prime parole dette alla mora la voglia di salire sulla scopa ed uscire dal raggio visivo di lei, o di tornare negli spogliatoi fino a giungere al castello, sembrasse crescere esponenzialmente nel petto del Tassorosso, questo aveva deciso di restare davanti alla sorella. Di perdersi in quegli occhi verdi, uno dei pochi capi saldi di quei primi anni dai Milkobitch, gli unici che andavano a cercarlo quando decideva di scappare, di rinchiudersi in camera sua – gli unici ai quali effettivamente si apriva; di ammirare quel sorriso storto e sornione che tante volte aveva cercato di imitare, tanto dissimile da quello imbranato e spontaneo di Todd, ma non per questo meno sincero. Aveva deciso di non scappare, Jeremy Milkobitch, sebbene non fosse affatto pronto a rivedere Run dopo tutto quel tempo: aveva così tante cose da raccontarle, così tante cazzate di cui ridere e per le quali fingere di sorbirsi i rimproveri, i più falsi sul mercato probabilmente; doveva raccontarle della prima sbronza potente, di come era finito a dormire sopra ad Arci mentre Blaze si limonava un albero e Jack con Bells parlavano poco sobriamente della coppa del mondo di Quidditch, durante una delle estate precedenti. Oppure avrebbe voluto narrarle di quando, quell’estate, ad una festa in spiaggia alla quale era andato con il cugino era così fatto da aver ceduto alle avances di una MILF -che su per giù avrà avuto venticinque anni, ma per lui sempre di una MILF si trattava-, perdendo così la sua verginità e ricordandoselo solo per i resti di quella sera sparsi intorno al letto e per le parole del Barrow. Voleva dire, ad Heidrun, che aveva iniziato a lavorare come assistente nello studio di Psicomagia di Hogwarts –che fosse per guadagnare soldi per la droga era un altro discorso-, che uscito da scuola avrebbe voluto continuare per quella strada e che non sapeva nemmeno lui per quale motivo, che non aveva effettivamente idea di cosa fare. Che aveva paura. Voleva dirle che aveva paura, di tutto, di tutti, persino di sé stesso e di quello che stava facendo. Non fraintendiamoci: gli piaceva. Gli piaceva divertirsi, esagerare, arrivare all’eccesso ancora prima di accorgersene, ma non per questo non ne era spaventato, non per questo si impediva di fuggire ancora, a sedici anni, dalla sua famiglia, dai suoi amici, da sé stesso.
    Voleva dirle tanto, voleva dirle tutto, voleva sfogarsi e urlare, conscio che ella l’avrebbe ascoltato ed avrebbe fatto di tutto: l’aveva sempre fatto, per lui e per Ian. E, proprio per questo, non voleva dirle assolutamente un cazzo di niente, tenersi tutto per sé e sfogare la rabbia, l’incertezza, le parole non dette contro un muro insofferente, spettatore e vittima di un rancore represso che in altro modo non si sarebbe affatto manifestato. Perché lei non c’era stata, quando serviva. Non c’era stata per tutto quel tempo, ed ora cosa le dava il diritto di parlargli così, come se niente fosse mai successo? Cosa impediva, al Milkobitch, di fare dietrofront, e lasciarla in quel campo altrimenti deserto? Nulla, se non quel misto di marijuana e sorpresa che lo aveva inchiodato sul posto, un groppo in gola che lo rendeva incapace di proferir qualcosa di apparentemente sensato. Niente, poteva andarsene anche subito. Ma aveva deciso di restare, malgrado tutto. Aveva deciso di restare, perché in fin dei conti solo lui poteva sapere quanto gli era mancata. Lei no, cazzo!, lei non lo sapeva quanto era mancata. Non aveva idea del buco allo stomaco che aveva lasciato con la sua partenza: ancora un po’, poco altro tempo ad arrugginire quel legame che li univa, ed il mezzosangue l’avrebbe accettato, staccando quel cordone ombelicale. L’avrebbe data per morta, o almeno morta per lui, e in tal modo, sperava, non avrebbe più sofferto. E invece no, invece era lì: l’aveva sentito, in quella stretta, il tentativo di colmare quel foro. La cosa peggiore, alla quale si era aggrappato per quei secondi che erano sembrati eterni ed infiniti, era che ci stava riuscendo. Aveva deciso di restare, Jeremy Milkobitch, nel prato del campo di Quidditch, perché anche lui voleva far finta che tre anni potessero essere cestinabili, risanabili: lei ci stava riuscendo tanto bene, vero? Ma dopotutto, lui l’aveva sempre fatto: era sempre rimasto sulla soglia della “casa” di Lilith, gli occhi chiari persi oltre la linea dell’orizzonte, sperando che quell’uomo la cui figura si stagliava dal limitare del viale potesse essere il padre, finalmente; per tre anni aveva scostato i tendaggi del soggiorno dei Milkobitch che si affacciava sul giardino, per tre anni aveva intensamente sperato che la madre tornasse a prenderlo, capendo quel che aveva fatto, capendo che aveva abbandonato suo figlio da perfetti sconosciuti e non perché non stesse bene con loro, ma era sua madre; per i tre anni successivi aveva aspettato, le braccia congiunte sul tavolo e lo sguardo fisso davanti a sé, su quella sedia vuota, che Run tornasse. Era un tipo paziente, il Tassorosso, forse unica dote che lo aveva sempre fatto ricredere sulla scelta del cappello parlante: avrebbe continuato ad oltranza, ad aspettare. A restare.
    Ma nessuno, nessuno di loro era mai tornato. Se la Crane non l’avesse davvero fatto? Se, nuovamente, se ne fosse andata?
    «Anche tu» Tacque, chiudendo gli occhi e beandosi di quell’abbraccio. Non ci aveva nemmeno provato, a dirgli che razza di fine avesse fatto per tutto quel tempo: cosa si aspettava? Che da fatto, vedendola sorridere mesta, in un modo che non le era poi così congeniale –non ai suoi occhi, non quando andava tutto bene-, ed alzare le mani al cielo, quasi innocente, potesse capire quel che volesse intendere? Ma che razza di Run era? L’unica cosa che aveva capito, è che non aveva capito un cazzo. Si allontanò dalla presa per primo, quasi temendo che stando troppo si sarebbe illuso, con la refurtiva appena recuperata stretta tra la nuca e la cartilagine dell’orecchio. In quel momento rimpianse, di fatto, l’idea di non essersene andato. «Figurati, a cosa serve la famiglia altrimenti? Ah no, aspetta... Non puoi saperlo, altrimenti non avresti dato buca a Todd per Natale» Il pugno alla spalla lo subì senza troppi complimenti e, in realtà, quasi senza sentirlo. Oh, capiamoci: aveva fatto male, e probabilmente una volta messosi sulla brandina nel dormitorio vicino alle cucine lo avrebbe accusato parecchio, ma lì per lì la soglia del dolore di Jeremy era troppo alterata per recepire bene il messaggio delle nocche della ragazza contro l’arto. Quasi molleggiando, destabilizzato da quell’attacco che si aspettava ma che no, non accettava affatto, arretrò di qualche passo, senza mai smettere di fissare Heidrun Crane. Quindi, lo era andato a cercare solo perché aveva parlato con Todd. Avrebbe dovuto capirlo: magari, se non avesse parlato col rosso nemmeno sarebbe andato a cercarlo. Magari, se egli non avesse detto ad Ian che non avrebbe partecipato al Natale made in Milkobitches quell’inverno non si sarebbe spinta fin laggiù, perché poi?, per fargli la ramanzina. Se la immaginava, già adagiata sugli allori perché tanto il moro sarebbe tornato a casa, l’avrebbe rivisto lì sicuramente, ma era più importante assicurarsi che Ian stesse bene, vero? Una risata trattenuta gli scosse il petto, facendo quasi male –un male viscerale, che non voleva capire, ma di certo più doloroso del colpo alla spalla-, mentre decideva di non riuscire a guardare ancora la sorella. Ah, vaffanculo! Ci aveva creduto davvero. Ascoltò, un po’ come Viola, le parole che gli arrivarono alle spalle, mentre si preoccupava maggiormente di portare la sigaretta alla bocca per poi accenderla con la bacchetta. «Ma cosa ti dice il cervello? Bla bla bla ti pesto di botte bla bla bla scusa non ti sto ascoltando bla bla bla perché preferisci stare qua che a casa?» In effetti, non aveva motivo di restare ad Hogwarts: nessuno dei suoi amici l’avrebbe fatto, ognuno aveva la sua famiglia dalla quale tornare. Non che se la passassero meglio di lui, a livello familiare, anzi!, però ognuno aveva un motivo per tornare. Jeremy? Aveva solo il fratellastro: non che non fosse un buon movente, ma era anche per lui che aveva preso quella decisione. Che vita difficile. «Perché tu» iniziò, dandole ancora le spalle, espirando una boccata di fumo da troppo trattenuta. La voce roca poteva quasi perdersi per quanto era sussurrata, nonostante in quell’ambiente empio probabilmente alle orecchie di Run era comunque arrivata. «Perché tu sai, invece, a cosa serve la famiglia. Vero?» Si voltò, carico di una rabbia che aveva covato fin troppo, insieme alla speranza. «Ah no, aspetta» la imitò, portando l’indice a colpire il labbro inferiore. «Tu non puoi saperlo, ci hai abbandonato. Ci hai abbandonato, e ora torni qui a farmi la morale solo perché te l’ha chiesto Todd, o sbaglio? Se ti mancavamo, se ti mancavo, l’avresti trovato un attimo Run, un attimo soltanto!, per farti viva. E invece» La risata secca, gorgogliante e fastidiosa sul palato, stavolta non la trattenne. «invece» alzò le mani al cielo, cercando di fingere un sorriso mentre gli occhi, già arrossati, si coprivano di una sottile patina. «Non venirmi a dire di andare a casa. Ti ho implorato di farlo per tre cazzo di anni, e non l’hai fatto. Non era meglio passare il tuo tempo con noi, eh?» E avrebbe voluto chiederle scusa, perché lo sapeva Jeremy che sicuramente aveva delle motivazioni. Avrebbe voluto perdonarla per essersene andata, perché alla fine era tornata. Ma non lo fece, preferendo aspettare che parlasse, che dicesse qualsiasi cosa, che fosse lei a scusarsi: era il minimo.
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    Avrebbe dovuto aspettarselo, Heidrun. Anzi, a dire il vero, se l’era aspettato. Innocentemente ed in maniera alquanto presuntuosa, aveva creduto che sarebbe stata pronta. Non era esattamente il genere di persona che, prima di intrattenere conversazioni, preparava il proprio discorso. Improvvisare era parte del suo fascino, e questo era un fatto a conoscenza di chiunque. In una situazione del genere, quel dono che sempre l’aveva protetta come un fine ventaglio orientale, le si ritorceva contro: incapace, la Crane, di trattenere i pugni chiusi con forza, il respiro più accelerato, le iridi accese di fuoco verde. Rabbia, e vi mentirei se dicessi che parte di quell’ira non era diretta a Jeremy. Certo, dannazione!, che lo era. Inspirò, sentendo i poteri con cui era entrata in contatto durante la giornata fremere per sbattere il Milkobitch contro uno dei fottuti pali del campo da quidditch. Lì, a portata di mano; avrebbe solamente dovuto afferrarne uno, stringerlo con invisibili polpastrelli finchè non fosse divenuto suo, ed il gioco sarebbe stato fatto. C’era chi credeva che per gestire i poteri servisse controllo, placare le proprie emozioni onde evitare di ferire accidentalmente qualcuno. La Crane aveva sempre taciuto il proprio punto di vista, poiché ricco di sfumature sul proprio passato che non aveva alcuna intenzione di dichiarare, ma non la pensava come loro. Non bisognava spegnere le emozioni forti, ma aggrapparcisi: erano quelle a rendere inoffensivi, non il controllo. Ci si ricordava di essere umani, con quel bruciore nelle vene; e Run ci si cullava, in quella rabbia, consapevole che non avrebbe mai fatto del male a Jeremy. Almeno, non in modo fisico. Senza quelle a rimembrarle chi era, sarebbe stato fin troppo semplice lasciar trapelare un potere qualsiasi. Le persone sembravano non avere ben chiara la differenza fra animali ed esseri umani. Gamma. Gamma la conosceva, la differenza. Inclinò il capo, alzando entrambe le sopracciglia mentre Jeremy le inveiva contro. Poteva non essere la persona più matura e responsabile sulla faccia della terra, ma quello sguardo vecchio la faceva apparire molto più adulta di quanto la sua carta d’identità non mostrasse. Jeremy si stava comportando da bambino. Jeremy era, un bambino. L’espressione di Run si fece di parola in parola più impenetrabile, spegnendosi come l’ultima candelina sulla torta, finchè non rimase nulla. Non sdegno, non compassione, non tristezza, non rabbia, non malinconico divertimento. Lo guardava, mentre una voce lontana le suggeriva che forse era stato davvero, davvero molto stupido, tornare a casa. Avrebbe dovuto rimanere nei Laboratori, fingere di non aver udito nulla. Era stato sciocco ed egoista da parte di Heidrun tornare, consapevole che di lì a poco avrebbe dovuto andarsene di nuovo. Ma cosa ci volete fare, lei amava quelle due teste di zucca dei suoi fratelli. Aveva corso il rischio, quel fottuto carpe diem prima che fosse troppo tardi. «Perché tu sai, invece, a cosa serve la famiglia. Vero?»
    Heidrun Ryder Crane non sapeva un cazzo della vita, ma quello? Quello sì. Era stata una delle sue poche certezze, smantellata di mattone in mattone in quei cinque fottuti giorni nel Labirinto, e ricostruita quando aveva visto gli occhi lucidi di Todd. Una famiglia si proteggeva. Un vero peccato che l’unica cosa dalla quale andasse protetta, sempre, era Run stessa. Che rimanesse o che se ne andasse, causava sempre un danno collaterale.
    Riassunto?
    Non aveva una risposta per Jeremy. Strano. Sapeva che, preso dalla rabbia, avrebbe detto qualcosa che avrebbe ferito entrambi – qualcosa che pensava, e per questo più dolorosa. Non che la Crane fosse diversa: anche lei era una fan delle sfuriate, di quelle dove strappi qualunque cosa ti capiti sotto mano, dove inveisci contro chicchessia solamente per far smettere. Far smettere il vuoto all’altezza del petto, la stretta alla gola, quel bruciore sulla lingua. Non funzionava mai, per inciso – e lo diceva per esperienza. Ma lo lasciò fare. Lo lasciò sputare sentenze, una dopo l’altra, con le labbra dischiuse e le tristi iridi verdi a ricercare i suoi occhi, senza dire nulla. Non c’erano molte cose che potesse fare, ma subire le sembrava lecito. «Tu non puoi saperlo, ci hai abbandonato. Ci hai abbandonato, e ora torni qui a farmi la morale solo perché te l’ha chiesto Todd, o sbaglio? Se ti mancavamo, se ti mancavo, l’avresti trovato un attimo Run, un attimo soltanto!, per farti viva. E invece» Ed eccolo a spuntare come un Dale nei testi di Pitbull, quella muta competizione che Jeremy aveva sempre visto fra sé e Todd. Stupida, per giunta. Insicurezze prive di senso alcuno: ma secondo quale logica malata una persona avrebbe dovuto farsi viva, dopo tre anni, per fare un cazziatone sotto richiesta di qualcuno? Run, poi. La droga l’aveva davvero preso a male, a quel giro. Abbandonati, neanche li avesse lasciati in autostrada legati ad un fottuto palo. Ma non poteva biasimarlo: era solo un ragazzino, Jeremy Milkobitch. Rendersi conto di quanto la realtà fosse una merda molto più complicata, non rientrava ancora nelle sue mansioni. «Non venirmi a dire di andare a casa. Ti ho implorato di farlo per tre cazzo di anni, e non l’hai fatto. Non era meglio passare il tuo tempo con noi, eh?»
    Inspirò, gli occhi chiusi ed un sorriso sghembo sulle labbra. Rimase in silenzio, concentrandosi sulla brezza fredda che le intorpidiva la pelle senza farle udire il cambiamento di temperatura, sul profumo dell’inverno incastrato nelle narici. In quel momento, se ne sbatteva il cazzo che fosse suo fratello. Lo odiò, con quella sincera spinta viscerale che solo gli amore più profondi sapevano creare, con quel retrogusto salato sulla lingua che sapeva un po’ di lacrime e un po’ di sangue. Lo odiò così tanto, che dovette rimanere perfettamente immobile per non tirargli un fottuto pugno sul fottuto naso. Egocentrico bambino viziato, vaffanculo! Avrebbe voluto rispondere alla sua rabbia con altra rabbia, come faceva con chiunque. Ma non l’avrebbe fatto.
    Checché ne pensasse Jeremy Milkobitch, Run sapeva a cosa serviva una famiglia.
    Aprì gli occhi, indietreggiando di un passo. «mi dispiace» alzò le mani in segno di resa, mantenendo il sorriso sbilenco ed ironico sulle labbra. Avrebbe voluto sbattergli in faccia i propri poteri, dimostrargli almeno in parte il motivo che l’aveva spinta a rimanere lontana da casa così a lungo; avrebbe potuto far leva su quello, sulle torture subite e su tutte, iddio, le suppliche che aveva pianto nella Stanza Bianca.
    Ma era la sorella maggiore, Run: certe cose, le sorelle maggiori, non lo facevano. Non avrebbe sminuito la sofferenza di Jeremy, il quale in ogni caso non avrebbe capito quella di Run. Non avrebbe avuto senso, capite.
    Sapeva di averli feriti andandosene, e sapeva, una volta tornata nelle loro vita, che avrebbe dovuto subirne le conseguenze. E non aveva molto da offrire, Run, in cambio del perdono. Neanche tempo. «c’era la gita ad hogsmeade ieri, vi stavo cercando. Per quanto l’idea di entrare nelle scuole di notte sia entusiasmante, mi piacerebbe sopravvivere» almeno per quel che mi rimane, sa. «che ne sapevo io che tu non avresti partecipato? Però ho incontrato Todd, il quale mi ha detto che non saresti tornato per le vacanze. Quindi sì, ti sto facendo la ramanzina, ma è ovvio che non ti abbia cercato solo per questo. Se ti fanno quest’effetto, smettila con le droghe, Milkobitch» Si inumidì le labbra, indietreggiando di un altro passo. «credi sia sbagliato chiederti di tornare a casa per tuo fratello? tu puoi scegliere, jeremy; non tutti hanno potuto vantare la stessa possibilità. Ti sto chiedendo di smetterla di fare lo stronzo, in caso fossi troppo fatto per comprendere il ragionamento di base» Prima che potesse ribattere, alzò le mani intimandogli di tacere: non aveva ancora finito, che cazzo. «e sì, sono la prima a comportarmi da stronza, non sei il primo a dirmelo -e presumibilmente non sarai l’ultimo» una risata le graffiò la gola, divertita da un passato di cui avrebbe preferito non avere memoria. «ma sono stati “tre cazzo di anni” anche per me, ragazzino» continuò a ridere, scuotendo il capo mentre volgeva gli occhi al cielo.
    Ah, buon Dio, che vita di merda.
    Si sedette per terra, le ginocchia allacciate al petto e le mani giunte fra loro. Non era brava in quel genere di cose, Run. Era un’ottima compagna di giochini alcolici, di omicidi più o meno a sangue freddo, di partite a need for speed, di karaoke high school musical style, di spogliarelli, di risse, ma quello era davvero troppo. Se avesse dovuto mentire, com’era stata solita fare Gamma, non sarebbe stato un problema: ma Jeremy? Jeremy meritava qualcosa di più, che Heidrun proprio non riusciva ad essere. «lo sai che mi stanco a rimanere in piedi a lungo» si giustificò stringendosi nelle spalle, alzando gli occhi sul fratello. Sul serio, non si era accomodata sulla brina (che cominciava a pungerle il culo, per inciso) solo per rotolare nella propria autocommiserazione. Era solo pigra, menatela se non vi va bene. «per quanto abbia apprezzato la performance, ho trovato leggermente» enfatizzò. «eccesiva questa parte: non era meglio passare il tuo tempo con noi, eh?» corrugò le sopracciglia, stringendo le labbra in una studiata linea sottile. Alla fine, picchiettò la lingua contro il palato. A quanto pareva, Jeremy Milkobitch non aveva ancora realizzato come Run si trovasse lì. Pensava che ad Hogwarts facessero entrare babbani a caso solamente perché erano hot, hot damn!? Schioccò le dita, lasciando languire sulla punta dei polpastrelli una debole, ma ben visibile, fiamma rossa. In quanto Tassorosso, giustificava la mancanza di arguzia; ma come si spiegava il fattore lealtà, che mancava quanto l’acume stesso? (e ci si riferisce sempre per quanto riguarda Todd; non Run, mai Run). «non hai l’x factor, ma grazie per averci provato» concluse con un sorriso divertito, inarcando le sopracciglia con vaga malizia.
    Perché aveva sicuramente toppato, con i Milko, nella parte riguardante a cosa servisse una famiglia; ma per Morgan, sapeva perfettamente di cosa la sua famiglia avesse bisogno. Così ingoiava ogni groppo in favore di quella smorfia ironica, identica a come dovevano ricordarla dai tre anni prima; così fingeva che fosse tutto più semplice, più accettabile - sia per lei, che per loro.
    «mi dispiace» ripetè, addolcendo il sorriso. «scusa?»
    Così chiedeva perdono, malgrado non avesse altre colpe che l'essere nata sbagliata.

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    Jeremy Milkobitch ( ) - 16 - Hufflepuff - Neutral - chaser
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    Aveva raggiunto il suo scopo, Jeremy Milkobitch?
    Restò lì, fermo ed immobile, mentre la fredda brezza invernale imperversava nel Campo di Quidditch, gli occhi cerulei chini a cercare, tra la brina e le chiazze d’erba ancora scoperte, qualcosa, qualcosa che non riusciva a comprendere cosa fosse . Stabile, nonostante il vento di metà dicembre sembrasse scuoterlo come una foglia secca sul finire dell’autunno, e con le braccia conserte non aveva la forza, il coraggio di guardare la sorella in faccia.
    «mi dispiace» Era quello che voleva, in fin dei conti, quello che voleva sentirsi dire da Run, dopo essere sparita nel nulla. Ne aveva sorriso, il Tassorosso, di quelle parole, quando la Crane aveva alzato le braccia, come a volersi arrendere. Un sorriso sotto i baffi, il suo, trattenuto e bagnato: non c’era molto di cui sorridere, d’altronde. Non avrebbe dovuto farlo, Jeremy: lei li aveva lasciati senza alcun messaggio, senza un saluto, senza farsi sentire. Non era passata, la mora, in camera loro la sera prima, dicendogli che non si sarebbero più visti per tanto, troppo tempo. Non aveva abbracciato due tredicenni fragili, e già abbandonati prima di allora, assicurando loro che si sarebbe fatta viva, prima o poi. Il Milkobitch, quando quella si scusò, non avrebbe voluto esserne felice: era incazzato, dannazione, ed un semplice “mi dispiace” non avrebbe dovuto incidere così tanto. Eppure, era lì. Tentò di nasconderla, quella piega storta sulle labbra, per quanto gli fu possibile: gli piaceva fare il sostenuto, che ci volete fare? Lo era per indole, lo aiutava a sentirsi più importante, più voluto; diceva di volerle ignorare, le attenzioni altrui, eppure le ricercava più spesso di quanto non avesse l’audacia di ammettere, talvolta senza nemmeno rendersene conto. Aveva dovuto farlo per dieci anni, quando Lilith era troppo occupata a cercare di annullare sé stessa per accorgersi dei due occhi azzurri che la osservavano dall’altra parte della stanza, chiedendole solo di essere suo figlio, e non il frutto di un amore malato ed andato a finire in cenere. Ci era cresciuto in questo modo, Jeremy Milkobitch, nel tante volte disperato tentativo di farsi notare da chi avrebbe sempre dovuto tenere lo sguardo puntato su di lui per puro istinto: altrimenti non sapeva fare. Le uniche persone con le quali non aveva mai avuto il bisogno di farlo erano state Todd e Run, tant’è vero che con loro sembrava essere l’esatto contrario: di tanto in tanto, le premure che avevano di lui, anche il solo volergli stare vicino in ogni momento, lo soffocava in un modo che non capiva. Non era stato abituato a vivere così, non era facile abituarcisi, e semplicemente non ci si era abituato; non credeva, perlomeno, di averlo fatto, di esserci riuscito pienamente. Fino a quando non se n’era andata, non aveva compreso quanto era diventato dipendente dalla presenza molesta di Heidrun Crane: le voleva bene, e molto, come altrettanto ne voleva al fratellastro, ma non avrebbe mai creduto possibile fosse così tanto forte il sentimento. Aveva sempre pensato che la mancanza di uno dei due, o di entrambi, avrebbe potuto fare male. Ma così tanto? No, non era possibile.
    Mi dispiace. Era quello che voleva; allora perché sentiva che non era più rilevante? Il tempo, dopo quelle parole, quasi non sembrava volerne sapere di trascorrere. Forse, e con molta probabilità, era solo la percezione vagamente alterata del tassorosso che non gli permetteva di accorgersi del progressivo susseguirsi dei secondi, eppure era così opprimente. Tutto, qualsiasi cosa era opprimente: sembrava gravare sulle spalle tremanti, costringendo le iridi azzurre a cercare quel qualcosa sempre più vicino ai propri piedi, a chinare sempre più il capo. «c’era la gita ad Hogsmeade ieri, vi stavo cercando. Per quanto l’idea di entrare nelle scuole di notte sia entusiasmante, mi piacerebbe sopravvivere. Che ne sapevo io che tu non avresti partecipato? Però ho incontrato Todd, il quale mi ha detto che non saresti tornato per le vacanze. Quindi sì, ti sto facendo la ramanzina, ma è ovvio che non ti abbia cercato solo per questo. Se ti fanno quest’effetto, smettila con le droghe, Milkobitch» Alzò gli occhi al cielo, repentino ma senza darsi il tempo di incrociare le iridi smeraldo di Run, smorzando appena una risata ironica e che, di divertito, non aveva nulla. Quasi tentò di schivare il contatto visivo, come se questo avesse potuto ucciderlo di punto in bianco se instaurato. Nemmeno lui riusciva a spiegarsi il perché di quell’irrazionale paura, sempre che di tale si trattasse. Non la stava ignorando, affatto: la sottile e difficile arte dell’ignorare qualcuno la stava perfezionando molto in quell’ultimo periodo, ma di solito il primo punto del manuale non prevedeva che restasse da solo con la persona che voleva fingere di non vedere, o di non conoscere; se ne andava, Jeremy, se la circostanza lo richiedeva, ma non era quello il caso. Non voleva voltarle le spalle, eppure… non ci riusciva. Guardarla faceva male. E dire che poco prima l’aveva anche abbracciata, spinto dalla sorpresa. Solo dopo era sorto il dubbio, solo dopo gli era venuto da chiedersi se l’avrebbe stretta ancora, o se al contrario non ne avrebbe più avuto l’occasione in seguito. Egoistico, ma non poteva farci molto per quanto si sforzasse: non voleva abituarsi di nuovo. «credi sia sbagliato chiederti di tornare a casa per tuo fratello? tu puoi scegliere, jeremy; non tutti hanno potuto vantare la stessa possibilità. Ti sto chiedendo di smetterla di fare lo stronzo, in caso fossi troppo fatto per comprendere il ragionamento di base. E sì, sono la prima a comportarmi da stronza, non sei il primo a dirmelo -e presumibilmente non sarai l’ultimo-, ma sono stati “tre cazzo di anni” anche per me, ragazzino» Onestamente, non gli era passato nemmeno per l’anticamera del cervello di chiederle cosa avesse veramente fatto in tutto quel tempo, ed il perché era più semplice di quanto potesse credere. L’unica cosa, effettivamente, che riuscisse a farlo dormire la notte. Paradossale, ma ripetersi ogni giorno che lei li aveva lasciati di sua iniziativa era di gran lunga meglio dell’essere con il timore che qualcuno avesse agito contro la sua volontà. Erano tempi difficili i loro, strani, e la gente spariva di continuo senza che nessuno sapesse che fine aveva fatto; morti, rapimenti, quel cazzo che vi pare: non erano una prospettiva più rosea del credere che una persona, semplicemente, avesse deciso di prendersi una vacanza da tutto e da tutti. E si era convinto, Jeremy, che quello avesse deciso di fare la sorella: andiamo, chi avrebbe potuto rapirla? Per quanto non avesse la magia, era una dura per il minore dei Milkobitch, quasi un’eroina. Non si sarebbe fatta catturare, né uccidere, da nessuno. Non era, semplicemente, possibile. Solo quando si sedette sull’erba bagnata del campo decise che era il momento adatto per osservarla davvero: ai suoi occhi, agli occhi di colui che aveva sempre intravisto nella figura della Crane una versione femminile, e più grande, di sé stesso, non era cambiata di una virgola. Era esattamente come se la ricordava, stretta tra le spalle mentre con innocenza gli diceva di avere il culo di piombo. Ovviamente, non aveva la benché minima idea di quanto si stesse sbagliando: avrebbe dovuto averla, dal momento che era lì, ad Hogwarts, e che gli aveva appena detto che era stata ad Hogsmeade, luogo di norma riservato ai maghi. Non ai babbani, classe nella quale rientrava. Fategli causa se aveva preferito concentrarsi sul fatto che era lì, e basta. Poteva essere un qualsiasi altro luogo, per quanto gli riguardava; poi, è sempre da tenere il considerazione che era in uno stato alterato di coscienza. Alle cose già ci arrivava con un certo ritardo di suo, figurarsi con l’ausilio della ganja.
    Infreddolito, rimase comunque al suo posto nonostante arretrando Ryder avesse allungato le distanze tra di loro; muto, ancora, non sapeva esattamente come rispondere a tutto quello. Non sapeva nemmeno se voleva rispondere a qualcosa, o semplicemente aspettare di morire lì per mano del gelo di dicembre. «per quanto abbia apprezzato la performance, ho trovato leggermente eccessiva questa parte: “non era meglio passare il tuo tempo con noi, eh?”» La fissò, impassibile, aspettando che facesse qualcosa, riconoscendo nell’intonazione della voce il preludio di una qualsivoglia azione. Quello però, ancora, non se lo aspettava: non voleva aspettarselo. Deglutì, osservando ammirato e visibilmente turbato le fiammelle nascere sulla punta delle dita di Heidrun. Non lo negherò: il primo istinto del giovane fu quello di urlarle qualcosa come “TI STANNO ANDANDO A FUOCO LE MANI”, o di usare un Aguamenti sul fuoco appena evocato; successivamente, si rese conto che quel calore non la turbava affatto. Era suo.
    «mi dispiace» Aveva raggiunto il suo scopo, Jeremy Milkobitch? «scusa?» Aveva avuto semplicemente bisogno delle sue scuse per essere stata via, per non essergli stata vicino per tre anni: era stata una delle poche costanti –lei, Todd, i Catafratti-, e se ne era andata. «no» rispose. Se tale negazione fosse rivolta a sé stesso, o alla Crane, non ci è dato saperlo: non lo sapeva nemmeno lui, dopotutto. Avete mai avuto la sensazione di avere così tante cose, per la testa, da voler solo piangere? Così tante, che non sapete nemmeno come ci siano arrivate tutte insieme? Un’emicrania improvvisa, e dolorosa, che non sapete spiegarvi. Jeremy già si stava adattando all’idea che dopo tre anni la ragazza dal sorriso sornione e sempre attiva peggio del coniglio della Duracell era tornata da chissà dove. Apprendere che era un Esperimento non rientrava nelle nozioni che si aspettava di acquisire in un solo giorno. «vaffanculo» Prima che potesse rendersene conto –lui, poi magari ci aveva messo mezz’ora ad arrivare a destinazione- era seduto accanto alla Crane, le braccia strette attorno alle spalle di lei. «non scusarti, non… scusami tu, io… non volevo, mi dispiace» disse, scusandosi a sua volta ed allontanandosi dalla spalla della ragazza. Prima ancora che solcassero le guance, si asciugò qualche lacrima che, bastarda, cercava di scendere, impertinente. «è solo che… mi sei mancata tanto, Run. Ci sei mancata» enfatizzò, greve, spostando lo sguardo davanti a sé e stringendosi un po’ contro la sorella. Faceva freddo, dategli torto. «dopo che te ne sei… quando sei sparita» si corresse, ancora incerto su cosa le fosse effettivamente accaduto tre anni prima. «è stato tutto una merda» Cercò i suoi occhi, sorridendo mesto quando li trovò: sapevano così tanto di casa, che già l’idea di restare ad Hogwarts per le vacanze iniziava a svanire. «se non torno non è per fare un dispetto a qualcuno» ok, forse un po’ sì, ma quella era colpa della sua parte catafratto. «è per Ian. Non che non voglia stare con lui» si giustificò subito, alzando le mani per dimostrare la propria innocenza. «ma… nell’ultimo periodo è stato più strano. Sì, insomma più strano del normale “essere Todd”, capito?» continuò, divertito. La situazione, in realtà, non era affatto ilare: era arrivato a preoccuparlo seriamente, la scorsa estate, con alcuni atteggiamenti così poco… da Ian. Non riusciva a riconoscerlo, a volte. Non aveva chiesto nemmeno a Stiles –lo Stiles psicomago, non lo Stiles Stiles- cosa potesse essere: non era difficile dedurre, nemmeno per un tassorosso, che il fratellastro fosse bipolare. Non ne aveva fatto parola con nessuno, ma con Run? Ora che era tornata doveva saperlo. «non vorrei fosse colpa mia, Run. Sì, ok, lo faccio anche perché sono uno stronzo, va bene? Ma se stesse meglio senza di me?» D’altronde, non era difficile stare meglio senza di lui: lo dimostravano sia suo padre, che sua madre.
    Lasciò che qualche secondo passasse, indeciso se voleva o meno sapere. E se lei non volesse parlare di quello che le era successo? Lui non avrebbe voluto, e anzi si sarebbe anche alterato qualora qualcuno, direttamente o indirettamente, gli avesse chiesto se era stato nei Laboratori. E non ci era stato! Figurarsi lei, che con quelle fiamme doveva esserci per forza passata. «run» la chiamò, giunto ad una conclusione. Neutra, non troppo diretta né dolorosa, che non lasciasse intendere molto. «come stai, ora? Intendo… niente, come stai?»
    Va bene, magari aveva lasciato intuire che alludeva ai tre anni passati ma, ehi!, era fatto: vale come giustificazione?
    the heart is deceitful above all things,
     
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5 replies since 7/12/2015, 20:49   516 views
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