[one year closer to death] happy new year!

role aperta a tutti! #partyhard

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    only illusions are real

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    dress - song - atrio - 21:00 - 31.12.2015
    REA
    hamilton
    and i don't want the world to see me 'cause i don't think that they'd understand when everything's made to be broken i just want you to know who i am
    monsters are real - 25 y.o. - team hamilton - hunter - the illusionist
    Passò le dita sul ripiano, alzando lo sguardo sul proprio riflesso. Sbatté le ciglia, come se quell’atto potesse cambiare l’immagine proposta dallo specchio; come se Rea Hamilton, chiudendo per un tempo impercettibile gli occhi, potesse diventare un'altra persona. Non v’era un briciolo della solita vanità, non v’era traccia dell’orgoglio che sempre trapelava dallo sguardo scuro. Semplicemente si osservava, quasi fosse stata la prima volta che incrociava quelle stesse labbra, carnose e vagamente imbronciate, nella vita. Chi era Rea Hamilton, quando non interpretava un personaggio per il proprio interlocutore? Chi, quando nessuno la guardava? La luce soffusa nella stanza metteva in evidenza il volto ovale, dorato di natura, gli zigomi dolci quanto la curva del mento, e la chioma castana dai ricci morbidi che ne incorniciava i tratti; lasciava però in ombra gli occhi, dove non si riusciva a distinguere l'iride dalla pupilla. Passò i polpastrelli sulla propria guancia, sfiorando appena la pelle, quasi stupita che la donna allo specchio ripetesse l'operazione. Un riflesso. Solo un'altra, per quanto affascinante, illusione. Erano in momenti come quello, che la Hamilton si domandava se lei, proprio lei, esistesse. Si era lasciata trascinare dall'idea di ciò che era, dimentica di quale fosse l'originale dalla quale aveva rubato le sembianze. Non che le dispiacesse; semplicemente, non sentiva nulla. Insensibile a sé stessa, e paradossalmente affine a tutto ciò che la circondava: conoscere gli altri era una necessità, il proprio essere soggettivo era invece un vezzo che non poteva permettersi. Che non voleva, permettersi. Lanciò un'occhiata di sottecchi alle sue spalle, l'attenzione attirata dal vociare fuori dalla camera. Aldilà di quella porta, c'era la sua nuova vita: una famiglia, persone che contavano su di lei. Il solo rifletterci, cosa che si permetteva quand'era in solitudine, le causava una fastidiosa stretta allo stomaco, un prurito impossibile da grattare. Sentiva la loro presenza quasi fossero stati accanto a lei, sopraffatta da un gioco esteso a troppi partecipanti. Tornó sul proprio riflesso, riconoscendo nella piega delle labbra l'architetto dietro quel labirinto; se era fiera di ciò che stava facendo? Orgogliosa del suo essere così perfettamente sbagliata ed incredibilmente giusta? Appagata dal posto che riservava, irrimediabilmente, nelle loro vite? La risposta, inutile sottolinearlo, era . Quello che però non riusciva a tollerare nelle loro voci e nei loro sguardi, era una realtà che la definiva come bersaglio, ricordandole che per quanto ci provasse, sarebbe sempre stata umana: e che quell'umanità, a discapito di tutto, la rendeva debole. Rea aveva l'urgenza, il bisogno, di essere ricordata. Doveva essere più di un numero, di una cavia, dell'effimera memoria di un profumo. Voleva radicarsi nell'animo altrui, voleva lasciare un segno indelebile che, se seguito, avrebbe come una briciola di pane portato sul percorso verso la salvezza. Voleva essere il lupo e la casa nel bosco, l'eroe ed il cattivo, il lieto fine e la tragedia. Ce l'aveva nel sangue.

    Quand'era bambina, passava molto più tempo di Charlotte allo specchio, chiedendosi come un riflesso potesse essere identico a lei e la gemella no; un controsenso per Rea, che a cinque anni preferiva aggrapparsi agli interrogativi piuttosto che ai punti, al tempo sospeso piuttosto che alla conclusione. «quando sarò grande avrò un castello enorme, con una dama da compagnia che mi aiuterà a indossare le gonne grandi, e gli uomini vestiti di blu che puliranno, laveranno i piatti, apparecchieranno tavola e faranno... Le cose» Non aveva ben chiaro come bisognasse curare una casa, ma a quell'epoca non aveva importanza; c'era tempo. «come una principessa?» le aveva chiesto Charlie, versando il te al suo orso di peluche. Rea a quel punto della conversazione aveva corrugato le sopracciglia, voltandosi verso la sorella. «ma certo che no, sciocchina» E aveva riso, di quel termine che le pareva proibito, accessibile solamente agli adulti. E aveva riso, con l'ingenuità propria dei bambini, di quella gemella che ogni tanto le pareva troppo diversa, illuminata da un'altra luce; una luce che a Rea, a dire di molti, non sarebbe mai arrivata. «come una regina» l'aveva corretta, infilando nella chioma castana un cerchietto argentato, rubato alla ragazzina che abitava vicino a loro. Raeburn ed Elisewin non permettevano alle gemelle Hamilton di possedere accessori così pacchiani, nonostante fossero bambine. "Solo gli angeli possono portare un aureola" L'ammonivano, quando la coglievano in flagrante. "E io" avrebbe voluto rispondere Rea, mortificata. "Io non lo sono, un angelo?" Così intensamente, l'avrebbe voluto: essere speciale, poter volare, brillare. Fortuna che mai aveva osato tanto; lei, che a quanto pareva aveva il demonio in corpo sin da quando era nata. Lei, che di lì ad un anno non sarebbe più stata bambina, ma creatura. «tu verrai a vivere con me» «certo» come se un opzione diversa non fosse neanche immaginabile (ed in effetti, non lo era. Per nessuna delle due). «e anche il fratellino che mamma dice arriverà l'anno prossimo. Avremo tutto ciò che vorremo, Chaz» ne erano seguiti una manciata di secondi di silenzio, dove Charlotte imboccava Orso e Rea, sorridendo, continuava a rimirare il proprio profilo allo specchio. «croce sul cuore?» Rea aveva incrociato lo sguardo della gemella sulla superficie riflettente. «croce sul cuore»

    Croce sul cuore. Quando nessuno guardava, Rea Hamilton era l'insieme delle promesse che non aveva mantenuto, la sequela di errori fatti nei venticinque anni della sua vita. Quando nessuno guardava, era l'obiettivo cieco ai costi da esso comportati; quando nessuno guardava, ella stessa era nessuno, perché non aveva necessità d'essere: era quello, il suo segreto. La sua debolezza. Non v'era malizia, seduzione, malignitá. Solo cicatrici di un passato a lungo termine.
    E rabbia, quella non l'abbandonava mai: la seguiva in ogni gesto, in ogni parola, in ogni riflesso. Un meccanismo che le permetteva di sopravvivere a sé stessa. «come fai? come fai a non sentire niente?» (non le esatte parole, non era poi così interessata alla sua voce, ma il concetto era quello: un velato, neanche troppo, insulto alla mancanza di sensibilità della Hamilton, mentre lui pareva essere il nuovo Martire della Benedicta con, in aggiunta, la sofferenza di Madre Teresa di Calcutta costretta a prendere a calci un cucciolo di foca) ingenuo, sciocco, ed alquanto superficiale: tre aggettivi perfettamente adeguati, d'altronde, all'uomo che le aveva posto tale domanda. Rea manipolava, perché capiva; perché lo sentiva sulla pelle, se ne appropriava, e gli dava una forma differente: un giocatore di prestigio non mostrava mai il trucco nascosto dietro l'inganno, così come Rea mai mostrava ciò che era, o - buon Morgan- pensava. D'altronde, chi la circondava non erano persone, nessuno di loro lo era -o poteva esserlo- ai suoi occhi. Solo pedine. Attori, maschere sul suo palcoscenico. Si era convinta di non aver bisogno di loro, senza rendersi conto che erano loro a definirla. Non ditele mai, mai, che la realtà era differente da quanto, invece, ella vantava credere: la Hamilton non sopportava di rimanere sola, ed al contempo aveva paura di avvicinarsi troppo; temeva di non esistere, nulla più di un sussurro passeggero; non le interessava cosa vedessero in lei, mostro o cuore, speranza o delusione: bastava che la vedessero, che la sentissero. Preda di sé stessa, sedotta ed ingannata dalle sue stesse illusioni. Dopotutto, Rea Hamilton mentiva sempre. Se non avesse mentito anche a sé stessa, non sarebbe stata coerente. Un paradosso, l'ennesimo.
    Lo vedeva, e lo odiava. Ne era consumata, come uno scoglio levigato dalle onde. Quel vuoto, assenza di ordine o caos; freddo ed infinito, un universo privo di stelle. Sbagliato. Sorrise, incurvando le labbra in una piega crudele, mentre le ciglia si abbassavano languidamente nascondendo allo specchio l'ottavo vizio capitale. Non era cattiva; era malvagia. Dovevano, e doveva, smettere di dimenticarsene. Come una regina, e ce l’aveva fatta; indiscussa proprietaria di una corona ai più invisibile, ma radicata fra i fini capelli castani. Regina dei casi disperati, di chi nella sofferenza cercava una via d’uscita, di chi nel profondo covava un’oscurità non dissimile alla propria. Non era mai stata un angelo, ma avrebbe potuto. Come Lucifero, il più bello ed amato da Dio, così anch’ella da portatrice di luce era diventata semplicemente ciò che, per sentito dire, era destinata ad essere: il buio. Un aureola, le spettava di diritto. «avremo tutto ciò che vorremo» sussurrò, muovendo appena le labbra, mentre lo sguardo scivolava sul cassetto dove teneva, tuttora, i pezzi di puzzle che Charlotte le inviava ogni anno per Natale. Inutile dire che rimaneva chiuso il resto dell’anno, come se bastasse celarne il contenuto per racchiuderne il significato più recondito in linee ben definite. Si sporse in avanti, avvicinandosi allo specchio: le lunghe ciglia rese più fitte e scure dal mascara, la linea nera stentatamente percettibile sulla palpebra mobile a sottolinearne lo sguardo ferino; una spolverata di quello che poteva tranquillamente essere l’oro più puro sulla pelle, ad illuminarle l’epidermide con una carezza, lasciando incerti gli spettatori se si trattasse d’un trucco o solo dell’effetto Hamilton. Le labbra piene presentavano un rosso cremisi, che ben accompagnava la maliziosa increspatura della bocca; v’era chi mentiva, chi si permetteva di sanguinare per avere un briciolo di quella smorfia solo per sé. C’era chi prometteva, mettendo in gioco tutto quanto, chi cieco si lanciava in mezzo alle fiamme. Armeggiò qualche secondo con i lacci dell’abito, rendendosi conto che, da sola, non sarebbe riuscita nell’ingrato compito di allacciarlo –perlomeno non senza fatica. Per quanto immaginasse di essere preferibile priva di alcun indumento, considerato l’evento che l’attendeva di lì a poco ritenne opportuno chiedere l’aiuto del pubblico. Chiariamoci, se ella avesse voluto, avrebbe tranquillamente potuto fare a meno del sostegno altrui. Si trattava solo di una dimostrazione di fiducia, dell’intento di far sentire tutti necessari ed utili, importanti. Le persone non attendevano altro nella vita se non quell’opportunità, sentirsi speciali ed insostituibili. Non che fosse una gran cosa, ma era dai piccoli passi che si ottenevano grandi risultati. Inoltre era difficile, se non impossibile, che la Hamilton si facesse avvicinare: era lei ad attirare a sé, mai il contrario. Non l’aveva mai permesso, e non avrebbe cominciato quel giorno. V’era un nome, a fior di labbra, che premeva d’uscire. Il più scontato in quell’ottica, considerando il ruolo che sempre aveva riservato al ragazzo fino a quel momento. Non che approfittasse di lui per cattiveria, Rea cercava d’istruirlo. Non poteva permettersi, lui, di essere buono; non com’ella leggeva nei suoi occhi troppo chiari. Aveva bisogno che imparasse, che riuscisse laddove Charlotte era fallita. Se voleva sopravvivere, doveva abbandonare il bambino ch’era stato; soffriva, se di sofferenza si poteva parlare, all’idea di fargli perdere quel filo d’innocenza che lo ancorava al passato. Soffriva, perché era una perdita personale: solamente lui la guardava in quel modo, vedendola; forse non per quel che era, ma lui era sempre riuscita a vederla. La promessa di una bambina di sei anni, fatta ad un infante ancora nella culla, aleggiava fra loro, udibile solamente alle orecchie di Rea. Sarò la tua sorella preferita. E quell’implicito, ma saldo nella carne, mi prenderò cura di te. Sarebbe stato così scontato chiedere una mano ad Amos Hamilton, il ritrovato fratello di cui aveva perso ogni traccia. Troppo. Non… Si morse l’interno del labbro inferiore, alzandosi di scatto dallo sgabello che l’aveva ospitata tutto quel tempo.
    Amos era un legame al passato; Amos erano gli occhi azzurri di un bambino fissi in quelli scuri, dannatamente scuri, di una ragazzina costretta a letto con corde più spesse del suo avambraccio, il timore perfino di respirare troppo profondamente. In Amos Hamilton, c’era ciò di cui Rea aveva bisogno per convincersi di essere sulla strada giusta, ed allo stesso tempo ciò che le ricordava che quanto aveva perso, non sarebbe tornato indietro. Lei non era, e non sarebbe diventata, la sorella che lui ricordava di avere. Spalancò la porta, uscendo sul corridoio con le decolleté nere già indosso e l’abito stretto al petto, il solo braccio ad impedirgli di scivolare a terra. Aveva bisogno del presente, Rea, di qualcuno che l’avesse conosciuta per quel che era diventata; di qualcuno che in lei non vedeva nient’altro se non Rea fuckin Hamilton, priva delle debolezze che avevano contraddistinto la sua infanzia. «JayJay?» Chiamò, all’uscio. Si ritirò quindi nuovamente nella stanza, attendendo che il ragazzo arrivasse. Nel mentre si guardò attorno, una stanza quasi spoglia: il letto, più grande di un matrimoniale, occupava gran parte dello spazio disponibile; l’armadio a muro conteneva più vestiti di quanti mai avrebbe avuto occasione d’indossare –la cosa divertente, era che non aveva mai speso un centesimo per averli-, lo specchio occupava un’intera parete, continuando anche dove non v’era più la toeletta. Sulle mensole, le cianfrusaglie raccolte quell’anno: un burrocacao, uno scettro –sul serio-, la spilla drama che tanto amava usare con Gemes, il collirio che la rendeva più simile a Charlie, la moneta silente. Prese fra le dita la foto, un sorriso ironico sulle labbra. Non sapeva neanche perché ancora l’avesse, eppure era lì, ricordandole per l’ennesima volta quanto fosse incredibilmente favolosa; lì, nel bacio mancato a Chris, ed il conseguente occhiolino prima di volgergli le spalle ed andarsene per la propria strada. Alzò gli occhi al cielo, continuando la passeggiata sul viale dei ricordi. La divisa del Labirinto, vicina alla sfilata alla quale pareva aver partecipato. C’era qualcosa di incredibilmente scenografico nel fatto che in entrambe le situazioni avesse rischiato di morire, ed in entrambi i luoghi le avessero lasciato fantastici souvenir marchiati Palmer. Per carità, poteva trattarsi di una coincidenza –anzi, quasi sicuramente era così-, ma ella credeva poco alla casualità. Dopo il Labirinto, Al le aveva nuovamente chiesto di tenere d’occhio il cugino, ed in cambio avrebbe fatto qualsiasi cosa. Come se, a prescindere, ella non l’avesse avuto in pugno sin dall’inizio. Malgrado la premessa, era stata una richiesta così… sincera, forse, che Rea nonostante mai avesse confermato le sue intenzioni di rispettare l’accordo, aveva davvero tenuto Christian Palmer sotto controllo. Le erano bastate un paio di paroline dolci, un lento sbattere delle ciglia, per ottenere dal giovane prefetto il passepartout per aprire ogni porta di New Hovel –c’era qualcosa di dannatamente sbagliato nella mente degli uomini. Invisibile scivolava all’interno dell’appartamento, indisturbata nel silenzio che altro non era se non il frutto di un illusione. Si era perfino trovato una coinquilina! Adorabile. Bionda, non il genere della Hamilton, ma i gusti erano gusti. Si assicurava che stesse bene, ben attenta a non toccare niente che potesse indicare il suo passaggio, e quindi usciva nuovamente sotto la luce del sole, come se nulla fosse successo. Non l’aveva mai detto ad Al, né si era mai preoccupata di fare qualche genere di rapporto sulle condizioni di vita di Chris; innanzitutto, lei non lavorava per lui, quello era uno svago; in secondo luogo, essendo Rea amante dei segreti e dei colpi di scena, preferiva riservare le sue conoscenze per il momento più opportuno. Sembrava sempre sapere tutto, la Hamilton, prima ancora che quel tutto avesse il tempo di accadere. Tu… Tu lo sapevi. Quante volte quelle parole avevano accarezzato le sue orecchie, facendola sorridere: no, non lo sapeva. Ma il mondo andava avanti grazie alle supposizioni, giusto? «ed anche oggi non ho rischiato di morire. facciamo progressi, Palmer» Bisbigliava ironica chiudendosi la porta alle spalle, accennando fra sé agli sfortunati incidenti capitati quand'erano insieme.
    E dire che pareva così adorabile, con quel sorriso dolce ed i grandi occhi blu. «mai fidarsi delle apparenze» sussurrò, lasciando la foto dove l’aveva trovata, mentre lo sguardo scivolava sulle cartoline. Paesaggi diversi, culture differenti, mondi nuovi ch’ella non aveva mai visto, se non grazie alle parole di Nathaniel Henderson. Aveva sempre amato viaggiare, mentre lei –focalizzata sin da subito sul lavoro- aveva preferito rimanere a Londra, godendo dei viaggi di Nate solo nei suoi racconti. Non gliel’aveva mai detto, ma li aveva sempre amati. Esagerati ed esuberanti, esattamente come Henderson; lui era l’unico, da quando era entrata a far parte del Mondo Magico, che era sempre stato in grado di farla sorridere con sincerità. Non aveva mai avuto uno scopo con lui, non un obiettivo, così come lui non aveva mai tratto vantaggi dall’esserle amico. Perché ancora si preoccupasse per lei, considerato quanto si fosse mostrata una stronza egoista, non lo comprendeva. Perché non si era semplicemente arreso come tutti gli altri? Perché non aveva ancora alzato gli occhi al cielo, con la fiducia a brandelli, rendendosi conto che quelle di Rea erano sempre state menzogne? Perché lui lo sa, Rea. Lo sa che non sono menzogne. Ed era forse l’unico: neanche la Hamilton credeva più a quello che usciva dalle sue labbra. Avrebbe voluto che lasciasse perdere. Avrebbe voluto che insistesse, che nonostante fosse una bastarda ingrata, e nonostante non si fosse fatta sentire per un anno, rimanesse al suo fianco. Era quel legame l’unico motivo per il quale, dopo quasi due mesi, ancora teneva a casa propria quel… particolare esemplare di Lowell, il metamorfo Brandon. Non le andava particolarmente a genio, non erano sulla stessa lunghezza d’onda, e malgrado riuscisse a rendersi utile, avrebbe di gran lunga preferito non averlo attorno. C’era qualcosa che la turbava, qualcosa di non detto. Ma era pur sempre un Lowell, e Rea ricordava il vero nome di Nate: Nathaniel Keenan Lowell. Ricordava di averlo visto distrutto, quand’erano poco più che bambini, e di non aver alzato un dito. Non sapeva come confortare, l’unico modo che la Hamilton conosceva per superare il dolore era andare avanti; e così, Nathaniel era andato avanti, mentre poco distante –e senza farsi vedere- Rea si preoccupava che non cadesse nuovamente. Si preoccupava, quanto poteva suonare assurdo? Ma allora la famigerata Rea Hamilton ce l’ha, un cuore. Forse. Ma che senso aveva averlo, se non ci si ricordava più come farlo battere? Proprio perché Brandon la turbava, si era convinta a tenerlo sotto controllo: era sociopatico? Era un assassino, o si era trattato solo di un incidente? Non poteva saperlo, ma non poteva neanche permettere che si avvicinasse a Nate –non ancora. A suo modo, il suo capriccioso modo di vedere il mondo, si stava prendendo cura del pirata d’oltremare; a suo modo, il suo particolare modo di vivere i rapporti, voleva bene a Nathaniel. Non era importante ai fini della storia che lui lo sapesse. Non era forse quella una forma d’amore?
    «entra» esordì, allontanandosi dalle cartoline per tornare di fronte allo specchio, dove incrociò gli occhi caramello di Jayson. Lo osservò qualche istante in silenzio, quindi gli rivolse un vago sorrido inarcando le sopracciglia. Da quando erano tornati dal Labirinto non avevano più avuto occasione di fare una chiacchierata a quattr’occhi, principalmente perché la Hamilton tendeva a distribuire con parsimonia il proprio tempo. Poteva vedere nel suo sguardo gli interrogativi inespressi, così come Jay avrebbe visto nei suoi le virgole che, indipendentemente dalle domande, non avrebbero mai messo un punto definito alla frase, lasciando che fosse lui a completare la risposta da sé. «mi aiuti con il vestito?» Accennò con il capo ai lacci che, dalla parte più bassa, salivano fino a metà schiena. Doveva solamente stringere e fermarli con un nodo, mentre lei teneva la parte davanti al posto giusto. Quando ebbe finito, fece un passo indietro fino a trovarsi al suo fianco: l’abito era composto da un corpetto con la scollatura a cuore decorato con intarsi argentati, stretto fin poco sotto il seno; si apriva poi in una gonna morbida che scendeva fino a coprire i piedi, nero come la notte che fuori dalla porta li attendeva. Dietro era più lungo, così che potesse scivolare sul pavimento dando l’impressione che Rea stessa vi scivolasse sopra, elegante e seducente come il sorriso che le illuminava lo sguardo. «c’è qualcosa di così familiare in te» ruppe il silenzio, spostando solo al concludersi della frase gli occhi dallo specchio al giovane. c’è qualcosa di così spezzato, in te. Prese il viso di lui fra le proprie mani, grazie ai tacchi lo superava di una manciata di centimetri, osservandolo con attenzione. Perché lo stava facendo? Perché, mesi prima, l’aveva fatto con Al? Si rendeva conto di dare messaggi contrastanti al mondo, ma non le importava: l’enigmista altro non era che un enigma a sua volta. «vuoi sapere perché ti ho invitato qui? penso che tu sia bellissimo» ed era chiaro dal suo tono, e dalla serietà con cui lo stava guardando, che non parlava dell’aspetto fisico. Nei suoi occhi, a fondo, ma la Hamilton lo coglieva; era quel buio ad attrarla nel genere umano, quella parte che tendevano a celare perfino a loro stessi. amava ciò che non veniva compreso, Rea, e lo trovava meraviglioso. Pareva sempre così indeciso, così combattuto: era suo dovere indicargli la via d’uscita dalla gabbia che si era creato. «e neanche te ne rendi conto» bisbigliò, corrugando le sopracciglia mentre i pollici appena ne accarezzavano le guance. «hai due scelte, davanti a te: lasciare che il mondo ti cambi, o cominciare a cambiarlo. Non hai ancora scelto, JayJay, ma il tempo non è dalla tua parte. non farlo scegliere per te» accennò un sorriso, che forse su un altro viso avrebbe potuto apparire gentile; ma nelle sue parole, dovevano convenirne entrambi, non c’era nulla di gentile. Era solo l’amara, ed alquanto rinnegata, verità. Lei, l’illusionista, lasciava che intravedessero ciò che erano stati troppo ciechi per guardare realmente. Paradossale? No, solo Hamilton.
    C’era una piccola, ed alquanto infinitesimale, parte di Rea, che desiderava che gli altri sapessero che c’era di più in lei. Non era razionale, anzi: se solo se ne fosse resa conto, avrebbe tagliato i ponti con tutti in quattro e quattr’otto, possibilmente lasciandosi dietro fiamme che avrebbero poi fatto posto solo a cenere. Egoista, manipolatrice, insensibile; intelligente, senz’ombra di dubbio, ma nel modo perverso che metteva i brividi per quanto asettico era. Calcolatrice. D’umano, pareva sempre avere ben poco. Anche nel suo incedere, nelle sue parole, sembrava sempre esserci un qualcosa in più ed un qualcosa in meno. Ci si poteva convincere di averla compresa, ma nel momento in cui qualcuno ne avesse richiesto una descrizione, si sarebbe compresa la realtà: non c’era un modo, per descriverla. Complessa come la millesima sfaccettatura d’un diamante, oscura come il lato non visibile della luna. Luce, ombra, fuoco, ghiaccio. Perdere, vincere. Tutto, in quella scura chioma che lenta s’allontanava verso strade sconosciute, lasciandosi alle spalle più domande che risposte. Eppure, con le sue menzogne sincere e la sua sincerità bugiarda, Rea Hamilton era umana. Forse un po’ più di tutti gli altri. Ed era a quell’umanità che Amos s’appigliava, che Nate aveva conosciuto negli anni; a quel filo, invisibile ma presente. Ed aveva necessità che qualcuno lo ricordasse quando lei se ne dimenticava, quando fingeva e s’ingannava di essere qualcosa di diverso. Un bisogno che non sapeva di possedere, ma che quando appagato le faceva percepire, se pur in modo lieve, il battito del proprio cuore. Lievissimo, magari non abbastanza.
    Morgan, che difficile essere un Hamilton.
    Si allontanò da Jayson, volgendogli le spalle. «stanno arrivando gli ospiti. chiudi la porta, quando esci» Il tono di voce non era cambiato, eppure era percepibile la differenza rispetto a poco prima. Distante. Attese di sentire il rumore della serratura, prima di versarsi un bicchiere di whisky. Lanciò un’occhiata di sottecchi al letto, dove invisibile ad occhi che non erano i suoi, riposava una ragazza. I capelli castani sciolti sul cuscino, le mani incrociate sul petto a preannunciare un futuro possibile -monito di ciò che accadeva a chi le stava accanto. Si inumidì le labbra con il liquido ambrato, sedendosi vicino a lei. Sorda ai rumori fuori dalla sua stanza, cieca a quella camera che tanto aveva visto e nulla poteva riferire. Era stata una mossa azzardata, forse perfino sciocca. Quel coma magico l’avrebbe mantenuta in salute finché non fosse stato il momento opportuno, così le avevano detto quella mattina; doveva solo preoccuparsi di farle una flebo due volte al giorno sino a che non avesse deciso di interrompere il sonno indotto, riportandola alla libertà. Nessuno lo sapeva; perfino Rea, chiudendo gli occhi, poteva illudersi di non saperlo. Dietro quella spessa porta, lontano da occhi indiscreti, erano solo loro due. Allungò una mano, arrivando quasi a sfiorare il braccio della ragazza, prima di ritirarlo nuovamente sul proprio grembo. Un altro sorso di whisky, nella speranza che quel bruciore potesse dare conforto al freddo che di naturale aveva ben poco. Vuoto. «croce sul cuore, charlotte» alzò il bicchiere in un ironico brindisi, lasciando il materasso per rassettarsi l’abito. Un’ultima occhiata allo specchio, un ultimo sospiro, prima di dipingersi sulle labbra il più meraviglioso dei sorrisi: ogni meraviglia, dopotutto, era mera finzione.
    A suo modo, Rea Hamilton, le promesse le manteneva sempre.

    Aveva pensato di organizzare una festa di capodanno alla quale invitare ogni membro del mondo magico, consapevole che il miglior modo per nascondersi era non farlo affatto. Bisognava mantenere le apparenze, sempre e comunque. Aveva affittato un catering per l’occasione, e la Villa di recente acquisita dalla mora –non acquistata, acquisita: grazie Byron, ora il tuo segreto è al sicuro con me- era perfetta. Enorme, anche troppo, pronta ad accogliere ogni anima che avesse voluto unirsi alla causa. E ad un occhio esterno pareva così filantropa, la Hamilton, a dare una seconda opportunità a tutti coloro che avevano perso la prima nei Laboratori. Dopotutto in pochi sapevano che quella era un’opportunità data anche a sé stessa, e quei pochi avrebbero fatto meglio, per il benestare di tutti, a tacerlo. Non dichiarata, una fuorilegge che lavorava al Ministero come Cacciatrice. Ora ditemi, v’era forse qualcosa di più seducente di Rea Hamilton, al mondo? Guardò gli ospiti riuniti al piano di sotto, dove i nostri eroi erano attesi anche dal resto della famiglia e del team. Non si soffermò su nessuno di loro, guardando invece Gemes Hamilton. Erano passati mesi, e Rea si era ormai stancata di cercare di comprendere l'assurdo legame fra loro. Semplicemente, l’aveva accettato. Non erano due facce della stessa medaglia, non erano i poli opposti di una pila carica: erano la stessa faccia, lo stesso polo. Gemes e Rea erano la stessa cosa, magia o destino che fosse. Non sapeva se la loro potesse essere definita amicizia, dato che travalicava ogni umana comprensione; mente e braccio di un unico organismo ben oliato e funzionante. Non che avesse importanza, cosa o meno fossero: erano Hamilton, e tanto bastava. Sistemò il fazzoletto bianco nel taschino della giacca nera del giovane, rivolgendogli un sorriso che lei stessa non sarebbe stata in grado di definire. Io però, narratore, posso ben dire cosa quel sorriso rappresentasse: gratitudine. Era un nuovo inizio, un salto ad occhi chiusi. E, di nuovo, avrebbero saltato insieme. Fino alla fine, eh? Infilò il proprio braccio sinistro sotto il suo destro, tenendo con la mano destra la lunga gonna nera. La chioma castana scivolava morbida sul lato sinistro del viso, lasciando dal destro solamente qualche ciuffo strategicamente dimenticato. Una collana sottile attorno al collo, con il ciondolo regalatole da Elsa l’anno prima che le permetteva di incanalare un frammento della propria magia, abbinata ad un paio di piccoli orecchini argentati. «ho invitato un’amica, spero non sia un problema» sussurrò appena, volgendo il viso in modo da dare la sua completa attenzione a Gemes. Sorniona, prima di posare l’accenno di un bacio sulla sua guancia. «non ringraziarmi» mosse appena le labbra sulla sua pelle, e nulla, nella vita della Hamilton, suonava più sarcastico di quelle due parole. L’amica millantata da Rea, altro non era che Charmion Hamilton; punto fondamentale della vicenda: indipendentemente da Gemes, l’avrebbe invitata in ogni caso. Adorava quella bionda sin dai tempi di Hogwarts, malgrado la loro non fosse mai stata un’amicizia sana o normale. Avevano una visione dannatamente simile del mondo, vedeva nei suoi occhi la stessa oscurità che dimorava nei propri, ed entrambe non necessitavano d’altro. Aveva sempre trovato ironico che si chiamasse proprio Hamilton, e che al contrario di Rea fosse una Purosangue DOC. Ironico, ch’ella fosse bionda e chiara, almeno nell’apparenza, tanto quanto Rea era scura. Senza parlare del fatto che, casualmente compivano gli anni lo stesso, evidentemente maledetto, giorno. Quanto, oh, quanto amava i rompicapi. Devi dirmi qualcosa, Gemesllo? Amava i segreti, ma solo quand'ella ne era portatrice. #ehgemes. Scesero fino a metà scala, quindi si fermarono. Rea chinò il capo, volgendo agli spettatori un rispettoso cenno di saluto, prima di prendere parola. Impercettibilmente strinse il braccio dell'Hamilton, sia per rammentargli di non dire nulla di stupido, che per ricordarsi qual era il suo posto: troppo spesso si lasciava trascinare dalle proprie illusioni. «benvenuti nella mia umile dimora» cheschifoipoveri un sorriso lento, divertito; scusa Gemes, ma è ancora casa mia. «grazie per aver accettato il nostro invito» un altro scalino verso l’atrio, lo sguardo che scorreva su ognuno di loro senza realmente guardare nessuno. «in caso non riusciate ad orientarvi, chiedete di Rea Hamilton. per il resto, fate come se foste a casa vostra» Concluse semplicemente, con un occhiolino. Non aveva consegnato alcun invito personalmente, ma li aveva fatti trovare alle persone giuste, quelle che desiderava avere sotto lo stesso tetto quella notte: anche senza esporsi, un modo per arrivare all’obiettivo Rea lo trovava sempre. Inoltre avevano disseminato Hogsmeade di biglietti recante l’indirizzo della Villa, poco fuori Londra, dove avrebbero potuto raggiungerli per festeggiare insieme la fine dell’anno e brindare ad un nuovo inizio. Amava avere gli occhi su di sè, amava essere al centro dell'attenzione; amava la loro ammirazione, quasi quanto amava la loro disapprovazione. Brivido, sentirsi vivi. Quando arrivarono al piano terra, la Hamilton fece un vago cenno con la testa a Gemes, separandosi da lui per dirigersi verso Xavier e Jay e rivolgere al primo un’occhiata ammonitrice -«Xav, quando si parla di auguri calorosi, non si intende in senso letterale»- ed al secondo un sorriso ammiccante, reduce del siparietto che li aveva visti come protagonisti poco meno di una mezz'oretta prima. Li superò, trovandosi di fronte Amos. Ogni volta, nonostante dovesse ormai esserci abituata, era spiazzante: lo stesso, identico, sguardo di quand'era piccolo e si nascondeva dietro la porta socchiusa della sua camera. La stessa, identica, ricerca di una conferma: stai bene, Rea? La stessa, identica, menzogna, sussurrata in un sorriso. Certo. Inspirò, quindi gli si avvicinò d’un passo per sistemargli il colletto della camicia. «abbiamo compagnie importanti, attento alle persone con cui parli.» inarcò le sopracciglia, impedendo alle proprie mani di carezzare le gote di quello che, ai suoi occhi, sarebbe sempre stato un bambino. Istruirlo, doveva solo istruirlo. Non poteva… Scosse il capo, lasciandoselo alle spalle per proseguire la sua hall of fame, spargendo nel mentre saluti ed amichevoli strette di mano a persone che, sinceramente, avrebbe preferito seppellire nel giardino sul retro. Ed eccolo, brillante come non mai: Lord Rastrello, proprio l'uomo che Rea stava quasi cercando; no, okay, stava cercando un’altra persona, ma già che c’era. Prese la cravatta di Alonso fra le mani, quindi lo tirò a sé in maniera secca e sbrigativa, rapida nel non farsi vedere da nessuno. «Aladino, patti chiari e amicizia lunga» cominciò con tono greve, citando al suo orecchio una delle prime cose che le aveva detto dentro il Labirinto, la voce tagliente e dolce come una lama ricoperta di melassa. «non ti attaccare alle bottiglie -i bicchieri esistono apposta- e non molestare gli ospiti con patetici discorsi riguardo la tua triste vita. In caso contrario, mi assicurerò di uccidere personalmente te e tutti i tuoi cari» Si allontanò in modo da incrociare gli occhi chiari di Al, e sempre sorridendo posò l’indice sulle sue labbra mettendolo a tacere prima che potesse risponderle. «Lo so, anche io mi voglio bene; non posso biasimarti» Un buffetto sulla guancia dopo, si lasciò alle spalle anche lui. La real is real-mente una trollata, ma il loro rapporto andava bene ad entrambi così: Rea lo bullizzava, psicologicamente e fisicamente, lui rispondeva arrabbiandosi con la vita o con sé stesso, e lei lo ignorava. Funzionale fino a prova contraria. Passò accanto a Shia e Kendall, i cugini da poco ritrovati, soffiando un bacio nella loro direzione. Inizialmente, Rea aveva odiato Shia Hamilton. Quando aveva incontrato i suoi occhi qualche mese prima, era andata a sbattere quasi fisicamente contro il ricordo di quello specchio che gli ultimi anni a Presteigne aveva ormai riflesso la sua sola, triste e stropicciata, immagine. L’aveva cercato a lungo, in ogni anfratto della propria camera. Aveva aspettato ogni giorno di rivedere quel sorriso, il ragazzino che le aveva promesso che l’avrebbe aiutata. Ci aveva creduto, alle sue parole, con l’abbandono di chi cercava disperatamente una speranza alla quale aggrapparsi. Nessuno si salvava da solo, così le avevano detto.
    Rea doveva essere l’eccezione che confermava la regola, perché Shia non era mai tornato.
    Ma è il passato, continuava a ripetersi. Non ha importanza. Sei una donna, ormai. E doveva, voleva crederci. Era anche per quello che aveva organizzato quella festa: era un nuovo inizio anche per lei. Posò un bacio sulla guancia di Charmion, meravigliosa come sempre. «incantevole» sussurrò al suo orecchio, mordendole con dolcezza il lobo. Avrebbe voluto fermarsi di più al suo fianco, ma dopotutto avevano l’intera serata a loro disposizione. Solo allora, sul finire di quell’esatto momento, la Hamilton alzò gli occhi scuri su Nathaniel Henderson. Un anno, era passato un anno da quando aveva smesso di dargli sue notizie. Un anno riassunto in cartoline, le stesse che al piano di sopra attendevano un punto all'ennesima virgola nella sua vita. Non si sprecò neanche a guardare lo scialbo biondino al suo fianco, vaghissimo ricordo del periodo ad Hogwarts. Elisa? Ezio? John? Ah già, ma a nessuno interessa. Si avvicinò al quartetto, nelle labbra e negli occhi un sorriso quasi sincero. «Biondo» Optò infine, sfarfallando le dita nell’aria per salutarlo in maniera spiccia. Non le era mai piaciuto particolarmente, avrebbe preferito di gran lunga Jackson al fianco dell'ex Lowell, ma a quanto pareva le persone nella sua vita continuavano a preferire i biondo-dotati. Inconcepibile, eh? JeanClaude era stato un Grifondoro, come Charmion e Nate (ma dei due, aveva ben poco): non era necessario che fosse carina nei suoi confronti, nonostante avesse intimato al resto della crew di mostrarsi disponibili ed adorabili con tutti.
    Andiamo, erano pur sempre Hamilton. «Signore» salutò invece educatamente le rosse vicino a loro, soffermandosi però languidamente solo su quella più piccola. Aveline, le suggerì la memoria dei giorni in cui aveva finto di essere Charlotte; Aveline Michieditroppoilcognomenonloso. L'aveva già vista al fianco del Pirata alla festa di quell'estate: coincidenze? Roteò gli occhi su Nate, allusiva ma senza dire alcunchè. Lui avrebbe capito, e come al solito avrebbe finto di non capire. Poteva non sembrare, apparentemente disinteressata a chiunque se non ella stessa, ma Rea era un'ottima osservatrice. E Morgan, ormai conosceva Henderson da anni. «possiate perdonarmi, ve lo restituisco a breve. mi concede l’onore di questo ballo?» Domandò formale rivolgendo l'attenzione a Nate, mentre stringeva l’abito fra le proprie mani mimando un inchino. C’erano modi e modi per rompere il ghiaccio dopo un lungo silenzio stampa; chi lo faceva con delicatezza, girando intorno al nocciolo della questione; chi sorrideva, sperando che il solo sorriso bastasse ad aprire un varco; chi metteva le mani avanti chiedendo perdono, sperando che il vuoto venisse colmato dalle parole sospese.
    Poi, c’erano Rea Hamilton ed il suo peculiare concetto di amicizia: Nathaniel sapeva che Rea era una stronza, egoista ed egocentrica, mai la Hamilton aveva cercato di nasconderlo, quindi era superfluo che le tenesse il broncio. La conosceva.
    Avrebbe dovuto aspettarselo.
    hamiltons do it better


    Allora, innanzitutto chiariamo che la festa è aperta a tutti, quindi se avrete voglia di partecipare non potete che farci felici *^* *win e i complessi con le feste* Che abbiate pg studenti, adulti, ribelli, mangiamorte, #nobodycares. Alle feste non ci sono schieramenti, c'è solo l'alcool #wat QUINDI PARTECIPATE NUMEROSI, CHE BRINDIAMO INSIEME! Anche solo un post per passare a salutare(??) dato che di questi inviti è stata tappezzata Hogsmeade; sì, la smetto
    Poi, dato il bibbione che, vi assicuro, non vale la pena di leggere, vi riassumo... la vita (?) e descrivo ciò che non ho detto (l'unica cosa che avrei dovuto dire #ovviamente) nel post:

    - La festa è organizzata a Villa Hamilton, situata poco fuori Londra; una struttura immensa, con tanto di cancelli da Superstar con una grande H al centro. Superati i cancelli, c'è un viale delimitati da alte siepi che celano dei giardini segreti #wat che vi conducono alla casa; tre scalini d'entrata, ed una massiccia porta in legno che Brodino il catering si premurerà d'aprirvi quando arriverete. Vi toglieranno la giacca, come i bravi gentleman (?), e se serve vi parcheggeranno la macchina #wat
    - L'entrata è grande e circolare, ed una scala si apre dinnanzi a voi (?) -quella dalla quale arrivano Principe Ereditiere e Dittatrice del mondo conosciuto e non Gemes e Rea, non fanno un vero e proprio discorso quindi non ve lo cito neanche ahahah!
    - al piano terra, ci sono (specificate in che zona vi trovate, magari sotto spoiler da qualche parte così vi è più semplice capire chi è con chi (?)):
    1. giardini (boh, diciamo che c'è una fontana? e due panchine, poi cespugli random #boh
    2. piscina (la struttura è tutta in vetro (?); il riscaldamento è spento, se volete prendervi una broncopolmonite però potete fare un tuffo *mamma win alza le mani*)
    3. sala da ballo seria (cioè, dove si ballano i lenti e quelle cose lì da pipol seria)
    4. quello che tutti stavate attendendo: il salotto, ossia dove potete trovare gli alcolici e i divani (?)(in realtà i camerieri portano ovunque cose, shottini e champagne (?), ma vedete voi lì c'è il barista che fa i cocktail #wat)
    5. (stay tuned, ora arrivano le stanze speciali #wat) SALA VERDE: stile stanza delle necessità, chiunque vi metta piede vede quel che più desidera/vuole (non so, un parco (?) o la tavola calda sotto casa (??)); ovviamente poi il materiale sarà lo stesso, semplicemente Tizio si siede su una "panchina" e Caio su un "pouf")
    6. SALA GIALLA (ma chi me l'ha fatto fare? #boh): luogo dove tutti sono felici #propriomoodhamilton
    7. SALA BLU (detta anche #mainagioia): chiunque vi metta piede, non potrà mentire.
    8. I bagni, belli e tanti; se dovete vomitare, cercate di raggiungerli
    9. ah, e la simil discoteca per chi ne ha per le palle di farsi un lento

    Al secondo piano ci sono le camere, quindi non potete salire; al piano di sotto, invece delle cantine, c'è la Stanza dei Giochi (ma voi non lo sapete). Non potete entrare #forse #wat #mlmlml #siciao #machegiochi #scala40
    Inizia alle 21:00 del, ovviamente, 31.12.2015. Ciao vi amo.


    VENGHINO NUMEROSI SIGNORI E SIGNORE, VI ASPETTIAMO


    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 03:07
     
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    Lasciò ondeggiare indisturbato il liquido ambrato racchiuso in quel bicchiere forse anche troppo pregiato per appartenere alla persona che, tanto gentilmente, l’aveva riempito solo in suo onore. «Hamilton, è un piacere averti qui» Dimmi qualcosa che non so, rispose silenziosamente Gemes, dietro quell’amabile sorriso -sprecato, considerando che questo era rivolto al Capo della divisione nel quale aveva iniziato a lavorare- non interrompendo il continuo parlare del Palmer, un susseguirsi fastidiosamente noioso di “bla, bla, bla” al quale, naturalmente, il telecineta non stava affatto prestando attenzione, nascondendosi dietro affabili cenni del capo e maliziosi sorrisi. Ancora si chiedeva come potesse sopportare di prendere ordini da lui -non lo faceva-, come facesse a sorbirsi ogni volta quei melensi complimenti sul suo operato -come se ci fosse bisogno dell’uomo affinché sapesse che faceva le cose a dovere-, come potesse tollerare di non rivestire lui per primo quella carica. Non che ambisse a quel tipo di potere, aveva già tutto il potere del quale avesse bisogno anche spoglio di qualsivoglia titolo: la mediocrità, l’inettitudine, l’inutilità stessa delle persone, quello non riusciva ad accettarlo. Avrebbe potuto quasi sostenere qualcuno che vestisse quegli abiti, un qualcuno di valido e capace, ma non poteva che disprezzare Harrison Palmer nei suoi modi, nei suoi metodi, nella sua incompetenza nel trattare quel delicato dipartimento del quale si professava Capo indiscusso. Non riusciva a analizzare lucidamente il suo lavoro, e non perché non ne fosse in grado, anzi avrebbe saputo rinfacciargli ogni minima pecca nei suoi disegni e progetti, dimostrandogli quanto fosse sciocco e poco specializzato: era l’odio viscerale verso quell’individuo, superato solo da quello che riusciva a canalizzare verso gli Estremisti, a non permettergli un’anamnesi coscienziosa. Avrebbe potuto ucciderlo, anche in quel momento, mentre era voltato di spalle intento a blaterare ancora, e ancora, e ancora. Avrebbe potuto ucciderlo senza che nessuno potesse ricollegarlo all’omicidio, cosicché non avrebbe più dovuto vedere lo sguardo di sufficienza con il quale squadrava lui, Rea, Heidrun e tanti altri cacciatori che non avevano più il privilegio di essere maghi o che non l’avevano mai avuto: nessuno l’avrebbe mai accusato dell’assassinio del proprio capo, andiamo, era così adorabile, chi mai avrebbe potuto sospettare di lui? «Lo stipendio ti è già stato recapitato, mi pare» -lo stipendio, indubbiamente uno dei motivi per i quali era ancora vivo era quello: pagava bene i suoi dipendenti, difficile da dire ma era vero- «Ti serve altro?» Che domanda sciocca, superflua, da rivolgere ad un Hamilton. Tutto poteva servirgli, tutto era utile come niente era indispensabile, e Gemes avrebbe potuto fargli un elenco delle cose alle quali ambisse in quella vita ma non aveva tempo da perdere con quell’essere, non quel giorno - né mai. Approfittò della stupidità dell’uomo nel lasciare il proprio bicchiere sulla scrivania, facendo librare in aria la fiala ricolma di quel fluido non meglio definito e che l’Hamilton non desiderava definire dal colore verdastro e lasciando che si svuotasse nel brandy -che gusti riprovevoli. «No, la mia era una visita di cortesia» annunciò, attirando l’attenzione del Capo Cacciatori, il quale reputò il momento propizio per riprendere il suo posto a sedere, afferrando tra le dita il distillato corretto. «Volevo augurarle un felice anno nuovo e, a tal proposito, mi chiedevo se avesse intenzione di passare a fare un saluto alla nostra festa» Levarono entrambi il calice al cielo, brindando alla loro e tracannando il contenuto di essi senza indugi. Gemes restò fisso sul viso appuntito del suo superiore, gli occhi chiari intenti a studiare ogni minimo dettaglio della sua fisionomia, ogni minimo cambiamento percettibile, anche nel suo modo di parlare, nel suo modo di dirgli che non poteva proprio partecipare. Che peccato. Finché, finalmente, non si ammutolì, immobile sul posto. Lentamente, Gemes si alzò dal proprio posto, indagando il perimetro di quella stanza, attento a non toccare nulla. Fosse stata la prima volta, quella, che si prendeva gioco tanto facilmente di quell’imbecille, vagare per quella stanza avrebbe avuto anche un senso: sapeva benissimo cosa stava cercando e sapeva benissimo dove trovarlo. «Ovviamente non volevo fare nessuna delle due e ovviamente mi serviva altro, mi sembrava futile anche solo dirtelo ma, a quanto pare, il tuo cervello è tanto piccolo quanto credevo. Dio, come fai a sedere su quella sedia? Ah, volevo un aumento, purtroppo “il sistema non lo permette, non posso, mi dispiace, bla bla bla”, quindi...» Metodo Hamilton. Lo doveva sapere, il Palmer, che qualsiasi cosa chiedesse il moro dagli occhi cerulei non era una vera e propria richiesta, quanto un avvertimento: quello che voleva, in un modo o nell’altro, l’otteneva. «Quindi me lo prendo comunque, grazie della gentile concessione» Disse, mentre la testa del Capo Reparto crollava, con un tonfo sulla scrivania, sotto gli effetti del veleno datogli da Shia qualche giorno prima. “Per ogni tipo di evenienza”, gli aveva assicurato, e quel tanto era bastato affinché -dopo un mellifluo “sputa qui, cortesemente” da parte sua- il cugino di Rea, come il più docile e mansueto dei serpenti, secernesse quel delizioso acido. Paralizzante, drogante, allucinogeno, qualsiasi cosa fosse andava bene: era importante che chi lo assumesse non avesse memoria di quello che avveniva nel mentre, e gli aveva dato la sua parola di scout che faceva al caso suo. Di certo, se non avesse funzionato avrebbe avuto un motivo in più per tenerlo sott’occhio: inutile ribadire quanto fosse maniacale e ossessivo Gemes in tutto quello che faceva e, nel suo esserlo, nel suo voler tenere tutto sotto controllo, l’Hamilton barbuto di certo era quello che più gli risultava sospetto. Sembrava quasi un maniaco sessuale ( o lo era? ), con quella sua passione così simile a quella del telecineta, eppure intrinsecamente sbagliato in un modo che il venticinquenne non sapeva spiegarsi. Gli sarebbe andato anche bene che questo facesse il maniaco sessuale, ognuno aveva i suoi problemi -Gemes per esempio aveva quello di essere... no non ne aveva-, non spettava a lui giudicarli -#sì- ma era il fatto che pedinasse una sua preda che non gli andava giù, e presto o tardi, di certo, glielo avrebbe fatto notare. Poteva essere il cugino di Rea, poteva essere un Hamilton e poteva anche essere la persona migliore del mondo, non gli sarebbe interessato. Non si sarebbe fatto calpestare i piedi, aveva smesso di lasciare che la gente lo facesse quindici anni addietro e di certo nessuno aveva neanche più osato pensare di fare una cosa del genere. Prese un fermacarte, posato affianco agli occhi spalancati dell’uomo, il quale purtroppo non era morto, nonostante potesse sembrarlo, e lo trasformò subitamente in una piccola chiave grazie alla quale riuscì ad aprire il cassetto nel quale erano riposti alcuni contanti sparsi. «Pensare che voi usate una bacchetta per fare ciò mi stupisce ogni volta» commentò, richiudendo il cassetto e facendo tornare ad essere un fermacarte quell’occasionale chiave. «Quindi, in sostanza, dovrei aspettare che tu ti risveglia, sarebbe scortese sparire così, su due piedi, giusto?» Amava il suono della propria voce, ma il fatto che nessuno stesse a sentire cosa aveva da dire riusciva ogni volta ad infastidirlo. Poggiò la sedia contro lo schienale, contando annoiato il malloppo di galeoni che aveva appena preso in prestito dal buon vecchio Harrison Palmer e pregustando già il modo in cui avrebbe potuto spenderli: inutili cianfrusaglie da mettere un po’ ovunque in casa, addobbi natalizi e fuochi artificiali per l’imminente nuovo anno, regali per coloro ai quali ancora non aveva fatto nulla. O forse nulla di tutto ciò: poteva anche tenerseli e rubare tutto quello di cui aveva bisogno, perché sprecare tutto quel ben di Dio quando poteva tenerlo per il futuro a venire? «Potrei comprarmi dei vestiti, tu che dici?» chiese, alzando la testa verso l’ancora... svenuto? paralizzato? drogato? «Chi tace acconsente, dicono» Dovette aspettare qualche decina di minuti prima che questo riprendesse coscienza, dopodiché l’Hamilton poté congedarsi - «Ti vedo un po’ frastornato, non dovresti bere se ti fa questo effetto» - da quell’ufficio con il bottino di guerra ben nascosto nella tasca.

    Ti serve altro? Se solo Gemes Hamilton, a quell’uomo, gli avesse rivolto un sorriso sincero anziché malizioso, se solo gli avesse dato il beneficio del dubbio che riservava alle sue vittime o a gente che difficilmente si sarebbe ricordata di averne avuto il benché minimo sentore, quelle tre parole non sarebbero mai uscite dalla sua bocca. Se solo avesse conosciuto quel giovane dai capelli scuri e gli occhi gelidi non si sarebbe nemmeno preso la briga di porre tale interrogativo, conscio del fatto che a Gemes serviva tutto, che non gli sarebbe mai bastato quello che aveva. Dietro quell’uomo che si apprestava a sistemare i gemelli sul polsino della giacca si nascondeva un mondo che mai aveva permesso a nessuno di scorgere, che mai aveva lasciato trapelare. Nemmeno lui, ormai, poteva dire di conoscersi più: viveva nella luce che egli stesso aveva spento anni addietro, viveva di quella rabbia silenziosa, di quella sete di vendetta e di odio che alimentava da tanto tempo e di quello che era stato aveva solo un vago ricordo. Ed era l’unico, effettivamente, ad avere un vago ricordo di quel bambino dai grandi occhi azzurri che amava giocare con Charmion, che amava fantasticare sulla nuova gravidanza della madre, che amava stendersi su un prato verde con Raine, che amava sognare un futuro ad Hogwarts con le due ragazze, che amava. Che amava senza secondi fini, che amava con trasporto e sincerità. Ma di tutto ciò, appunto, non v’era che una vaga e recondita memoria stipata nei meandri più profondi ed inesplorati dell’anima dell’Hamilton, un’anima che aveva imparato a dire, ormai quasi fosse una filastrocca imparata a dovere, che non c’era più, o che forse non era mai veramente esistita. Un’anima venduta al migliore offerente, un’anima soggiogata da un piacere dal quale la maggior parte delle persone cercava di evadere. Aveva visto il baratro e il buio oltre la siepe, Gemes Hamilton, e l’aveva accolto, l’aveva fatto proprio, divenendo quello che gli altri volevano che fosse, malleabile ed opportuno al momento migliore. Sapeva dare una speranza così come sapeva toglierla, sapeva giocare le proprie carte quand’era più consono farlo e sapeva quando era il caso di foldare, sapeva bluffare e fare in modo che nessuno se ne accorgesse, sapeva essere quello di cui hai più bisogno anche quando non credi di averne: sapeva essere tutto, all’occorrenza, così come sapeva essere niente. Vuoto, empio, spento.
    «Non senti niente, Hamilton» E l’aveva accolta, quell’accusa, non pronunciandosi contrario. L’aveva accolta, perché sapeva che era così che doveva sembrare agli occhi di chiunque entrasse in contatto con lui. Non sentiva niente per il semplice fatto che non voleva farlo, non voleva sentire il proprio dolore sulla sua pelle, l’aveva ormai lasciato alle spalle. Non aveva voluto sentire quel bruciore nel petto nel rivolgere uno sguardo speranzoso e non ricambiato alla cugina rinchiusa nei Laboratori, non aveva voluto sentire la fitta allo stomaco nell’incrociare gli occhi di una gemella che non lo riconosceva, non aveva voluto sentire il tremare convulso delle mani nell’apprendere della scomparsa di Frederick. L’aveva ignorata, quella sensazione di sbagliato, pensando che fosse meglio così, che fosse meglio per loro essersi allontanati dal frutto marcio dell’albero degli Hamilton. Era errato, tuttavia, sostenere che Gemes non sentisse nulla: provava tutto, le varie emozioni proprie ed altrui, sapeva canalizzarle, sapeva trasformarle, sapeva sfruttarle affinché colmassero quel vuoto che sentiva dentro. Qualsiasi esse fossero, erano materiale necessario ed utilizzabile nel migliore dei modi, così come solo un Hamilton era in grado di fare. Ma poteva fingere, di non sentire nulla, dopotutto lo faceva da sempre, con sé stesso e con gli altri, e agli altri piaceva quell’apparente menefreghismo da parte sua rispetto a quello che provavano gli altri, o che egli stesso poteva sentire. «Tu puoi rimanere con me?» Se l’avesse conosciuto, Heidrun Ryder Crane, non gli avrebbe rivolto quella domanda. Se l’avesse conosciuto, avrebbe saputo che sarebbe potuto rimanere, che magari l’avrebbe anche voluto, ma che non l’avrebbe fatto. L’avevano scoperto Charmion, Raine e Frederick con la sua scomparsa accompagnata da tre epistole lasciate appositamente per loro. L’avevano scoperto tramite due semplici parole, dodici lettere scritte nella grafia di un bambino di dieci anni. L’avevano scoperto con quel “non cercatemi” che Gemes Hamilton non poteva rimanere, non poteva essere una presenza costante: un punto di riferimento, un esempio dal quale prendere spunto ed al quale ispirarsi, quello lo sarebbe stato. Poteva affascinare, poteva fare in modo che le persone lo cercassero e che necessitassero di lui: egli, in risposta, si nutriva del precario equilibrio dell’altro avvertendolo sottopelle; sentiva la frustrazione, l’angoscia, il panico e la paura altrui e ne faceva un’arma per sé stesso; fingeva, e lo faceva così dannatamente bene che mai nessuno aveva provato a dubitare delle sue parole, delle sue menzogne.
    Chiunque, se avesse conosciuto Gemes Hamilton, l’uomo oltre l’apparenza, la facciata grezza e rovinata sul retro di una maestosa e fantastica casa, le crepe sotto la tappezzeria, avrebbe evitato di chiedergli se gli fosse servito altro, o se potesse restare. Chiunque, se avesse visto quanto era veramente marcio, e non nel modo in cui si era abituato egli stesso a definirsi, sarebbe risultato restio a pronunciare parole di quella portata. Si avvicinò allo specchio, contemplando il riflesso di sé stesso. Contemplando la persona che era diventata, alla vigilia di un nuovo inizio. Contemplando la sua figura slanciata e stipata in quella camicia bianca e candida, il collo libero da qualsivoglia farfallino o cravatta, la giacca dello smoking -scura come i pantaloni e dello stesso pregiato tessuto- chiusa sui due unici bottoni che presentava. Contemplando il volto, ricoperto da una corta barba curata per l’evenienza, dall’espressione indefinibile. Non c’era, in quello specchio, l’ombra del sorriso malizioso dell’Hamilton sulle labbra che anzi erano serrate, non c’era lo sguardo sornione, non c’era nulla.
    Non c’era nulla, e c’era tutto in quello sguardo severo. Non maligno, non colmo della solita rabbia: serio, pensieroso come raramente si permetteva di essere con le persone. Non avrebbero capito, ovviamente, perché Gemes Hamilton fosse così sovrappensiero: lui d’altronde era colui che gli altri dipingevano. Sadico, malvagio, opportunista, bastardo, calcolatore, insensibile carogna. Non senti niente, Hamilton. Eppure, sentiva tutto. All’alba di un nuovo giorno, di un nuovo inizio, poteva sentire tutto chiaramente sotto i polpastrelli, come se i risvoltini di seta della giacca racchiudessero in sé tutte le memorie di quell’anno che stava per terminare. Sentiva, vedeva, in quegli occhi cerulei che ricambiavano il suo sguardo, così tante cose. Ricordava il Labirinto, tra tutte queste. Ricordava il dolore palpabile sotto le dita aleggiare nell’aria, ricordava la figura di quel sé stesso così sbagliato, così estremo. E ricordava come aveva affrontato il tutto, come se l’era lasciato alle spalle, cosa che molti, invece, non erano riusciti veramente a fare. Poteva scorgerlo negli stessi abitanti di quella villa che, in poco tempo, era diventato un albergo, individuare il rammarico, la nostalgia, le fitte al petto negli sguardi fugaci, nelle parole non dette e nei profondi silenzi.
    Fu riportato alla realtà dal vociare confuso di quello che lui e Rea amavano definire “Team Hamilton”: dannatamente egocentrico quanto figo, rispecchiava perfettamente i canoni dei due. Sentì in particolare la ragazza chiamare Jayson, probabilmente in cerca di aiuto, al ché Gemes indietreggiò, ricomponendo la facciata perfetta che tutti si aspettavano di vedere, alzando gli angoli della bocca in quel beffardo sorriso al quale ormai chiunque era affezionato. Voltò le spalle al suo riflesso, lasciandosi dietro tutti quei pensieri che per un attimo che poteva essere sembrato infinito, lasciandosi alle spalle il bambino che non aveva mai avuto l’occasione di crescere, che nessuno conosceva e che sarebbe rimasto in quel vetro probabilmente per sempre. Dopo essersi spruzzato sul collo e sulle vesti un po’ di profumo, uscì dalla propria camera, chiudendosi la porta alle spalle. Mancava poco all’arrivo degli invitati, i quali per l’occasione erano tutti coloro che erano riusciti a trovare i biglietti sparsi per le strade di Hogsmeade, e gli abitanti della casa sembravano essere indaffarati come mai prima d’ora. I suoi occhi furono inevitabilmente colpiti da quelli scuri del Matthews che gli passò d’innanzi diretto alla camera dalla quale era stato convocato. Era una cosa, ormai, che succedeva spesso: uno scambio di sguardi, poche parole se non di cortesia, un sorriso sornione da parte di Gemes e nient’altro. Eppure, nonostante non sapesse il motivo, sapeva che di malizioso quel sorriso non aveva nulla e che era sincero, di una sincerità che non avrebbe saputo spiegarsi. Passò oltre, incrociando i cammini di ciascun Hamilton e di ciascun membro della squadra, della famiglia, raccomandando loro di non fare troppi danni -«Non sono pronto a chiedere ad Amos di pulire il casino di tutti voi, sarebbe veramente troppo crudele»- e salutando tutti con un occhiolino. Se qualcuno l’avesse visto, in quel momento, avrebbe potuto dire che era di ottimo umore, che era quasi felice, quando, in realtà, una vera felicità Gemes non aveva più saputo come potesse essere. Appagamento, soddisfacimento, realizzazione: quello sì, sapeva perfettamente che sapore avessero, il retrogusto dolce che lasciavano sul palato. Felice, tuttavia, non lo era.
    Aspettò che scendessero, che persino Jayson uscisse dalla stanza di Rea e raggiungesse tutti al piano inferiore mentre l’atrio iniziava a gremirsi di gente. Fece scorrere lo sguardo su loro, constatando che la maggior parte dei suoi inviti erano giunti a destinazione, mentre attendeva l’avvento della mora. Poggiato con le braccia contro la ringhiera, quasi non sentì i passi della ragazza, ma non ve ne fu bisogno. Percepì il suo arrivo prim’ancora che essa potesse chiudersi la porta alle spalle, in una maniera che non aveva capito e che, stranamente, sapeva non avrebbe mai capito. Gli interessava? No, andava bene quella connessione, era qualcosa che superava qualsiasi vincolo che sia l’uno che l’altra potessero immaginare di imporsi. Mentre ella si premurava di aggiustargli il fazzoletto sul petto, il ragazzo, con un dito, sistemò qualche riccio di troppo dietro l’orecchio destro di lei, lasciandone alcuni abbandonati davanti ad esso: uno, due ciuffi, quelli che abbondavano e stroppiavano, probabilmente ricaduti fuori dal controllo minuzioso della ragazza senza che essa potesse rendersene conto. Ricambiò il sorriso di lei con uno altrettanto indecifrabile, e che non aveva bisogno di essere letto da chicchessia: era umano, più di quanto umani potessero essere quelli maligni, maliziosi e beffardi ai quali era avvezzo; perché sì, nonostante tutto, anche quelli erano umani.
    «Mi casa es tu casa» ironizzò, sentendo il sussurro di Rea sulla propria pelle e rivolgendole un fugace sguardo ammiccante, dopodiché non indugiarono oltre, scendendo metà della scalinata, lei ancorata al braccio di lui. Erano legati anche in quello, ormai: l’aveva sentito in quella cella, l’aveva sentito in quel bar, l’aveva sentito nell’arena quel legame indissolubile. Il discorso di Rea fu insolitamente corto e Gemes non si sentiva in dovere di dover aggiungere nulla: era scontato il fatto che non vi sarebbero state regole e soprattutto che erano loro ospiti, per cui avrebbero dovuto conoscere bene il modus operandi degli Hamilton. Si staccò da Rea una volta giunti alla base della scalinata, prendendo una strada diversa dalla sua. Incrociò, sul suo cammino, la bionda per eccellenza, pistolera mancata, verso la quale puntò medio e indice, mimando una pistola con il pollice sopra di esse e rivolgendole un occhiolino veloce. Anche Elisyan, altro membro del caratteristico e male amalgamato team che si era ritrovato nel Labirinto, sembrava aver ricevuto l’invito. Le si avvicinò, dandole un buffetto sulla guancia ed indicandole, con un cenno della testa, il giardino -«Se devi fumare, fuori, sennò mi droghi tutti gli invitati: abbiamo già Shia per quello»-, dopodiché si ritrovò, finalmente, dinnanzi l’obiettivo che... No, si ritrovò dinnanzi alla Crane, al quale seguito sembrava esserci una banda di adolescenti. Avvicinò le labbra al suo orecchio, così da venir ascoltato solo da lei. «C’è una persona che ti vuole parlare. Biondo, giacca scura, cravatta, credo di averlo intravisto nel salotto» Le scoccò un bacio nell’orecchio, senza accennare al fatto che un altro Crane la stesse cercando - cosa che non era vera ma sarebbe stato alquanto divertente #letthegamebegin #lelinception #cramiltonception #wat #lasmetto – e, prima di allontanarsi, le sorrise.
    Ma eccola, la sua preda. «Posso offrirti da bere?» Sapeva sarebbe approdata in quella villa, in un modo o nell’altro. Non per il legame che la univa a Rea o a Shia, quanto per quello che lo legava a lui. Per quell’incontro al Fiendfyre, così chiaro per lui e vago per lei. Le aveva lanciato un esca, le aveva dato un nome e un cognome, aspettando che fosse lei a completare il puzzle, e se non vi fosse riuscita, sarebbe stato meglio. Per Gemes, per Charmion, per entrambi.
    hamiltons do it better


    Edited by .ipseity - 15/12/2015, 17:29
     
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  3. heroes?bitch‚ please.
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    Lienne Hale ( ) - 35 - Hufflepuff - #teamhamilton - dress - atrio
    « Can you paint with all the colors of the wind? »
    Aprì l'armadio con la mano sinistra visto che la destra era troppo impegnata a sorreggere un calice di cristallo ricolmo di liquido trasparente acqua o vodka non vi è dato saperlo. Era da troppo tempo che non partecipava seriamente ad una festa, era da troppo tempo che non si degnava di frugare tra gli scompartimenti di quella cabina, finalmente Gemes aveva utilizzato quell'unico neurone presente nel suo cervello per organizzare, non un genocidio di massa ma una festa come si deve... e ci voleva tanto eh? Sorrise portando il bicchiere alle labbra e cominciando a scartare uno dopo l'altro tutti i vestiti presenti nei vari scomparti, un partyhard a livello cittadino non era poi considerato un'evento così importante da perdere ore per capire cosa indossare, e soprattutto a come andassero allacciati quei dannati bottoncini di velluto lungo tutto il retro dell'abito... Morgan dove sono gli uomini quando servono? Ma quella festa era speciale, a parte il fatto che si svolgeva durante la prima notte del nuovo anno e che quindi Lienne sicuramente non aveva alcuna intenzione di passarla da sobria, era un'evento che si svolgeva a villa Hamilton e praticamente ci sarebbe stata mezza comunità, magica e non. Dovette posare il calice pericolasemente in bilico sull'angolo del mobile per potersi mettere d'impegno alla ricerca di qualcosa di decente da indossare, in quell'istante odiava Gemes, non poteva fare una banalissima festa piena di alcol in qualche locale disperso nel centro? No, lui doveva fare le cose in grande, doveva essere sempre per il sociale. Gemes for president. Morgan com'era caduta in basso, frequentare gente simile fissata con i tomawok e con le manie da protagonismo. Davanti a lui, ma anche davanti a se stessa eh, non avrebbe mai ammesso che infondo a quel bimbo dai vari disturbi e complessi mentali ci si era affezionata, dopo l'esperienza del labirinto le mancava molto non poter più instaurare con lui, Run e Elysian quelle conversazioni assurde che avevano caratterizzato quelle allegre giornatine passate negli studi cinematografici degli estremisti, o dei Plagiatori... come volete chiamarli fa lo stesso. Mentre studiava una stategia per liberare il suo vestito preferito dall'inquietante presenza dell'appendiabiti che sembrava non volerlo liberare dalla sua stretta mortale, Lia fece cadere il suo sguardo su una scatolina colorata... e fu in quel momento che le venne l'illuminazione, con un sogghigno soddisfatto la raccolse da terra ed andò a posarla sopra il calice, le piaceva giocare alla piccola fisica e vedere se riusciva a far rimanere vari oggetti in equilibrio *come se avesse ancora cinque anni*, il problema è che non usava una logica ma era comunque convinta che prima o poi, dalle sue pile di libri e cose random, ne sarebbe scaturito il progetto per una nuova Tour Eiffel. Nel dubbio, #ceseprova. Tutto questo per dirvi che dopo circa un ora, Lia stava ancora, solamente in indumenti intimi, combattendo una battaglia all'ultimo ferro (?) con l'esercito di appendini che invadeva la sua cabina armadio. Arrancò recuperando il vestito, la scatola e ovviamente il bicchiere, rischiò di smaltare più di una volta la faccia sul palchè ma alla fine vinse la sua guerra e buttò l'abito sopra il suo letto. Tratto in salvo il suo principe azzurro rosso,richiuse velocemente la porta dietro di se per evitare che le mire espansionistiche degli oggetti che popolavano la sua cabina armadio, puntassero ad invadere anche la sua stanza. Doveva convincersi a sistemare il guardaroba prima o poi. Mmmh... meglio poi.
    Il terrore invase i suoi occhi azzurri quando si rese conto che, da brava idiota, doveva tornare su suoi passi per recuperare una cosa essenziale... le scarpe. Riuscì ad aggirare il campo minato fatto da terribili trappole come il ripostiglio delle sciarpe, lei lo sapeva, prima o poi quei gomitoli di lana intrecciati l'avrebbero strozzata nel sonno senza pietà, e riuscì a raggiungere la tanto agognata scatola nera che racchiudeva quell'ultima parte mancante del suo look per il tempo libero by Enzo e Carla da donna elegante e raffinata. Già perchè a quanto pareva doveva cercare di mantenere una dignità quella sera e non poteva di certo farlo se indossava una maglia ed un paio di jeans accompagnati dalle tipiche All Star, lo stile "babbana sedicenne" non era molto ben visto dalla comunità magica già di per se, figuriamoci addosso a una trentacinquenne. Insomma finalmente, dopo quasi due ore, Lienne riuscì ad indossare un lungo vestito rosso acceso, semplice e dalla gonna non troppo ampia che finiva in uno strascico sul quale sapeva, ci avrebbe rotolato. Si osservò allo specchio soddisfatta, prima di cominciare l'ennesima battaglia con trucco e parrucco, le dispiaceva dover raccogliere i capelli ma lasciarli sciolti sarebbe risultato inopportuno e poi perchè non lasciare in bella vista la schiena scoperta? Dopotutto era solamente gennaio... che volete che sia. Aveva promesso a Elysian che l'avrebbe accompagnata lei, che la sarebbe andata a prendere per poi condurla a villa Hamilton, Lia recuperò una giacca dello stesso colore dell'abito, si infilò i tacchi cremisi alti una dose spropositata di centimetri ai piedi, prese la scatolina colorata ed una pochette random, chiuse la porta di casa ed uscì nella notte.

    Incomiciò così il suo peggiore incubo, attraversare la piazza che la separava dalla casa della mora fu tragica, tacchi dodici + fessure tra le mattonelle + oscurità = morte e poi le dicevano che non sapeva fare le addizioni. Eh già le sue scarpe ed il terreno sembravano proprio non andare d'accordo, Morgan arriverà viva alla festa? *no.* Con più che qualche difficoltà giunse finalmente a suonare il campanello di Elysian May e quando lei aprì inutile dire che sulla faccia di Lienne comparve un dolce sorriso,incorniciato dal rossetto rosso. «Buonasera principessa! Andiamo a fare aperitivo e poi a fare le persone serie!» le esclamò ammiccando e ponendole un braccio aspettando che lo afferrasse. Quindici minuti dopo erano entambe sedute sugli sgabelli di un normalissimo bar con tra le dita un bicchiere di spritz, fecero quattro chiacchiere sul più e sul meno... e sulla diviso, sulla per, sulle equazioni di secondo grado e sui limiti delle funzioni dio quanto li odio #storyofmylife. Risero più volte sul fatto che avevano accettato l'invito per quella festa, dal canto suo Lienne si sentiva ancora una volta la madre della situazione *cuore di mamma* #adottaunhamilton ma infondo poco le importava, più che per l'alcol ci andava per la compagnia ma questo non doveva saperlo nessuno. Un'altro giro e furono pronte ad andare, a recarsi in quella Villa alle porte di Londra e quando arrivarono, quando smontarono dalla carrozza a forma di zucca #wat Lia non riuscì a trattenersi dal ridere. Aveva immaginato la casa di Gemes grande si, magari con un bel giardino e un bell'orto con gli schiavi che raccoglievano patate, ma quella più che una villa sembrava un castello. O l'Hamilton faceva parte della mafia russa, quei tipici tizi del "spaco botilia amazo familia" che giravano con colbacco anche il 15 di agosto, oppure c'era qualquadra che non cosava. Nonostante questo, le due, dopo aver poggiato i cappotti fecero il loro ingresso nell'enorme sala terminante in una scalinata, ed eccolo lì il suo bimbo tirato a lucido, per Morgan poteva quasi passare per un gentiluomo Gemes vestito così. La bionda adocchiò quasi subito Heidrun, non l'aveva più vista da quando avevano lasciato quel labirinto, da quando aveva perso sua madre, sembrava stare meglio anche se dubitava che le cose stessero realmente così ma dopo tutto quella era una festa, niente ricordi, solo Al-col. Le si avvicinò recuperando due calici di... si doveva essere champagne, e la prese alla sprovvista di spalle, erano rare le occasioni in cui Lia si vestiva elegantemente e non era un caso se la gente non la riconosceva. «Chi non muore si rivede eh? » rise porgendole il bicchiere ed andando a posare lo sguardo cristallino sul suo viso per qualche istante prima di abbracciarla. Era veramente contenta di vederla e probabilmente avrebbero iniziato una conversazione se la padrona di casa che , udite udite, era una certa Rea e non Gemes, prese la parola dando loro il benvenuto. Ok i casi erano due, o Gemes aveva una doppia identità o quella mora dalla pelle candida e perfetta era una sua parente, anche se a Lienne non sembrava proprio che i due si somigliassero, stesso attegiamento, stesso sguardo ma fisicamente non ci trovava molte caratteristiche in comune. «Ma guarda un po' il nostro stronzetto telecineta» sussurrò ridendo all'orecchio di Run mentre si distanziava da lei un poco salutando il ragazzo che le raggiunse poco dopo. Intimare a Ely di non fumare era già di per se un sacrilegio ed il cenno che l'Hamilton aveva fatto in sua direzione con la mano non gli era di certo sfuggito, fece un piccolo inchino abbassando lo sguardo e rialzandolo poco dopo ridendo «Gemes partecipa anche tu ai botti di capodanno... sparati. sei quasi credibile come uomo senza tomawok e con una giacca lo sai?» anche se erano vestiti come damerini questo non faceva certamente di Lienne una perfetta e regale principessina e poi, diciamoci la verità, fare la persona seria con davanti quel faccino non ci riusciva proprio, era più forte di lei. Non si intrattenne molto l'Hamilton con loro, alto tradimento Gemes non va bene e se la svignò molto presto allontanandosi con una ragazza a loro sconosciuta, Lia guardò Ely, Ely guardò Lia e ci volle solo un secondo perchè si capissero e finissero sedute su un comodo divanetto con l'ennesimo bicchiere di champagne tre le mani. Champagne... ma andiamo Gemes tira fuori le cose strong che poi insegnamo a questi tizi creepy come si balla.
    the heart is deceitful above all things,

    Le elyenne arrivano alla festa e lia molesta run e gemes sorry post osceno e completamente random vi amo ciao
     
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  4. (apsychos) Callaway.
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    Emerald Callaway ( x ) - 20 - Griffindor - deatheater - apsychos - dress
    « can you hear the silence? »
    Quel sangue che colava dalle sue dita, quell'urlo strozzato, quell'aria pressante, quell'atmosfera bianca, la neve che cadeva rendeva tutto così irreale, la macchia si faceva strada tra i cristalli argentati, un color cremisi che disegnava sfumature di tonalità più accese e più deboli, una scia tracciata da un pennello invisibile, trasportata da quell'aria gelida. Non sentiva nulla, non vedeva nulla se non l'opera d'arte che compariva a terra accanto al corpo senza vita di una strega, dell'ennesima vittima, dell'ennesimo lavoro portato a termine con una precisione maniacale. Ed era invisibile Apsychos, era di nuovo a contatto con quell'universo parallelo, era circondata dall'ombra che offoscava anche le luci della città di Londra, che le offuscava la visione del London Eye, che le impediva di godere un paesaggio mozzafiato, una giornata magica, felice, viva. Poteva definirsi viva Emerald? Sentiva il cuore pulsare appena a ritmi regolari all'interno del suo petto, sentiva i muscoli contrarsi una volta... Due volte, sotto la pressione esercitata dalla mano stretta intorno a quel pugnale, un'altro lavoro pulito, un'altro silenzio, un'altro vicolo cieco. Perchè ogni via intorno a lei sembrava finire sempre nel buio, perchè ogni singolo attimo la trascinava a compiere un salto nel vuoto, si guardava dentro e poteva sentire solo qualche osso schioccare, qualche respiro bloccarsi a metà ma non c'era nulla di più, non c'era nulla nella sua mente che le impedisse digirare quel pugnale contro se stessa, aveva desiderato morire tante volte... perchè non farla finita? Semplicemente non le interessava, semplicemente quella vita non le dispiaceva, non le dava nulla se non sorrisi effimeri, vittorie illusorie, sensazioni velate, in definitiva quello che vedeva erano frammenti della realtà. Non ricercava la perfezione, la felicità, la speranza o chissà quale altro valore, non desiderava la pace nel mondo e nemmeno l'eterna giovinezza, voleva solo essere ricordata, voleva solo non diventare un'ombra destinata a vagare nel Black Hole fino alla fine dei secoli. Aveva appena strappato una donna ad un marito o forse una madre ai propri figli, era l'ultimo dell'anno ma lei non andava in vacanza, non ne sentiva il bisogno, aveva appena distrutto la felicità di qualcun altro, aveva appena rotto dei legami o forse, forse a quella mora aveva fatto semplicemente un favore. Interpretatela come volete ma il gesto della ragazza non trovava punti a favore ne a sfavore, non prendeva ordini la Callaway, solo consegne, si aspettava solo che il patto venisse rispettato, gli esseri umani sanno essere estremamente disponibili a trattare quando si portano in tavola argomenti di loro interesse. Nome, cognome, indirizzo, bastava questo per trasformare una persona in un assassino, era facile, un lavoro per tutti ma pochi avevano il coraggio di strappare una vita alla vita. Pochi avevano il coraggio di guardarsi allo specchio e non provare ribrezzo, non sentire la testa urlare come impazzita ed i pensieri confondersi, pochi avevano il coraggio di annullarsi e di venire annullati da quel che molti chiamano oscurità. Quel che rendeva la Callaway diversa dagli altri è che lei quasi ci prendeva gusto, stava a contatto con quella società tutti i giorni, osservava silenziosa il mondo mutare ed invisibilmente colpiva, invisibilmente faceva anche lei la sua parte che non poteva venire scoperta perchè gli umani erano umani, perchè gli umani si riconoscevano tra loro. Perchè gli umani provavano qualcosa nell'ultimo istante dell'ultimo respiro, nell'ultimo sguardo vitreo, sentivano il cuore fermarsi un attimo prima e quando capivano che non c'era più nulla da fare si lasciavano andare all'inevitabile fine. Emerald sapeva bene che quella non sarebbe mai stata la sua fine, sapeva che quando il momento sarebbe arrivato sarebbe riasta immobile, i muscoli bloccati, il respiro regolare, le mani ferme, gli occhi fissi nel vuoto , senza luce, senza riflessi. Le avevano tolto tutto e lei, lei con quel vuoto aveva creato un'arma, lei con quel buio aveva creato uno scudo, lei con quel silenzio aveva creato una sinfonia, la sua. Un sentire inconcepibile per gli altri ma reale per la bionda che si lasciava alle spalle una scia rossa ed un'impronta nella neve, passo dopo passo, minuto dopo minuto ed il gelo che penetrava nelle ossa faceva eco tra i suoi pensieri, ed un sorriso calibrato compariva sulle sue labbra, su quel volto candido come le nuvole che affolavano il cielo in quella giornata.

    Doppio giro di chiave e la serratura della porta si sbloccò, rientrò quando ormai fuori cominciava a gelare e il big beng tichettava le 20.00 , accese il fuoco, aprì l'acqua della doccia finchè non raggiunse una temperatura quasi bollente e poi si lasciò scivolare via tutto quanto, assieme al sangue che ancora aveva sulle mani. L'avevano invitata a una festa quella sera, non vedeva un motivo per non andarci anche se per lei era soltanto una sera come tante altre , ultimo o primo dell'anno che importanza poteva mai avere? Che senso aveva tutto quel che una volta le riempiva le giornate? Era stato tutto cancellato, il male ma anche il bene, un reset completo, un'estraniazione dal mondo che ritornava di colpo, sorprendendola, che strisciava dentro di lei in silenzio come un serpente tra i fili d'erba. Vita, morte, libertà, costrizione, luce, ombra. Opposti che per Emerald non erano altro che semplici similitudini, semplici sensazioni che nemmeno la sfioravano, non le percepiva e quando questo accadeva voleva solo tagliare i fili che la tenevano ancora imprigionata al suo cuore, le corde che le impedivano di strangolarsi sciogliendosi in una acuta melodia simile ad un sibilo. Poteva dire di credere, di saper ancora amare, di saper ancora ridere ma fino alla prova contraria stava mentendo, stava mentendo agli altri e a se stessa perché fino a quando non provava altro che vuoto, se non percepiva altro che un silenzio materiale, quelle sensazioni venivano trasformate in illusioni, in apparenze.
    Apparire. Apparire contava molto, forse troppo, fu per quel motivo che lasciò scorrere le dita su un abito verde piuttosto corto abbastanza elegante e attilato per l'occasione. Amava guardarsi allo specchio e definirsi una persona, vedersi come una semplice persona con un qualcosa in più, con un'oscurita che all'occorrenza si trasformava in mera bellezza, la bellezza di una Callaway, di una strega purosangue discendente da una delle più prestigiose famiglie londinesi. L'abomino che c'era in lei forse non faceva altro che completare quel quadro, quell'essere perfetto, quella donna che i suoi genitori volevano diventasse, quella donna che abbandonarono da ragazzina e che aveva imparato a vivere a proprie spese, a bere per dimenticare, a fumare per non pensare. Si raccolse i capelli dorati in una coda alta tirata e fermata da qualche forcina, si sistemò il trucco e si infilò le scarpe abbinate al vestito, osservandosi allo specchio fu compiaciuta da quella visione, da quel sorriso quasi vero, da quel corpo perfetto che la rendeva invidiabile agli occhi di molte, desiderabile agli occhi di molti. La verità a nessuno era dato saperla, nessuno doveva immaginare chi, cosa ci fosse dietro quel viso angelico, dietro quello sguardo cristallino.
    Raggiunse il luogo che le era stato indicato, una villa alla periferia di Londra, gli Hamilton, una famiglia che aveva solo sentito nominare, che celava segreti dietro a languidi sorrisi. Emerald non si sentiva a disagio con gli sconosciuti, anche perché aveva la dote innata di inquadrare subito chi le capitava davanti, le venne tolta la giacca ed entrò anche lei in quel luogo. Stanze ampie, nulla di troppo pacchiano ma tutto di una bellezza abbastanza sfarzosa, impossibilitata ad accendersi la sigaretta proprio nel momento clou quando facevano il proprio ingresso i padroni di casa, la bionda rimediò un bicchiere di champagne non prestando molta attenzione a quelle due parole che vennero dette da Rea Hamilton, una mora che suscitò il suo interesse. Aveva un modo diretto di rapportarsi alla gente, un sorriso enigmatico, un atteggiamento che eludeva le sue vere intenzioni, le mascherava. Al suo fianco c'era Gemes Hamilton, stesse caratteristiche di lei, stesso fascino, stessa prospettiva, Emerald si accese una sigaretta alla vaniglia, traendone una boccata dal dolce aroma zuccherato, aveva perso i contatti con molti quelli che considerava compagni a Hogwarts ma avrebbe ben presto rimediato.
    Il suo sguardo però cadde su un'invitata in particolare, su un volto familiare che mai sarebbe riuscita a dimenticare, dovette lasciarsi sfuggire un amaro sorriso mentre le si avvicinava per accertarsi che fosse realmente Gamma, per accertarsi che fosse Heidrun. Si era giurata di ucciderla per puro divertimento, di vendicarsi sulla sua famiglia, di vederla soffrire quanto aveva dovuto patire lei prima e dopo gli anni passati nei laboratori. Ma a Emerald era stato tolto tutto, anche l'odio, anche la vendetta, anche la rabbia, guardando quella ragazza dai capelli mori l'unica cosa che riusciva a fare era continuare a fumare, a fissarla con finto disprezzo, con uno sguardo vuoto. Parlarci? Perché no? Perché non farle constatare che era ancora viva dopo tutto? Attraversò quei pochi metri che le separavano a passo leggero e solo quando le fu davanti, quando fu all'altezza dei suoi occhi gli sussurrò un « Ciao Crane. » Forse quella festa sarebbe risultata meno noiosa di quanto aveva prospettato, forse avrebbe rivisto faccie di gente che aveva dimenticato, gente per cui una volta provava qualcosa, persone che ora per lei erano solo fantasmi, solo ombre, solo ricordi vuoti.
    the heart is deceitful above all things,

    molesto solo run per ora u.u
     
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    - 26 - ACIDIC AND POISON GENERATION - TWO-FACED - DON'T TRUST ME

    25 Dicembre 2015
    Casa Hamilton-Goyle
    Londra

    Tutto sembrava tranquillo in casa Hamilton-Goyle: le decorazioni erano sempre state le solite da che Shia potesse ricordare, i biglietti di Natale erano appesi per tutta la casa, al posto dei fermacarte sugli scaffali sostavano delle palle di neve incantate, tutte le fotografie erano rigorosamente inserite in cornici natalizie ed un orologio a cucù ogni ora intonava una canzone di Natale. Tutto faceva presagire – e sperare - che quell'anno il Natale sarebbe stato uguale agli altri, con la sola differenza che dopo anni finalmente Shia aveva deciso di passarlo in casa, con disappunto dei suoi. Kendall aveva provato a convincerlo che fosse la cosa giusta e lui non aveva resistito ai suoi occhi dolci, come poteva non farla felice? Riusciva a fregarlo ogni volta. Ma in fondo, Shia lo sapeva, non sarebbe cambiato niente. I suoi genitori lo odiavano, questo era appurato, e per loro in confronto al fratello lui non era altro che un fallimento da evitare e dimenticare. Lo avevano fatto entrare in casa, con freddezza e solo la sorella ed il gemello lo avevano accolto con calore, ma era abituato a ricevere quel trattamento sprezzante dai genitori. Era già qualcosa che gli avessero permesso di mettere piede in casa. Continuava a ripetersi che era lì solo per Kendy, doveva solo resistere, dare il proprio pensiero alla piccola – che tanto piccola non era più da molto tempo – e andarsene, ma questa lo aveva convinto a rimanere a pranzo, era speranzosa che lui e i genitori in qualche modo potessero fare pace. Ma era tutto inutile.
    “Kendall segui le orme di Samael...
    Samael, raccontaci del tuo lavoro...
    Samael...Samael...”
    Di Shia non una parola. Non che il ragazzo fosse geloso del gemello, anzi, era contento per lui, non poteva odiarlo; Ma doveva ammettere che tra loro non esisteva quel legame che si sarebbe aspettati da due gemelli. Molte storie narravano che il dolore di uno veniva percepito anche dall’altro, ma non sembrava essere realmente così, per gli Hamilton, dicevano che di solito i gemelli erano complici, riuscendo quasi a leggere uno i pensieri dell’altro, ma Shia e Samael a stento comunicavano a voce. Kendall invece era tutta un'altra storia, amava quella ragazzina come non aveva fatto con nessuno, forse se sua madre non avesse rotto quello specchio anni prima, solo Rea avrebbe retto il confronto, ma i due non avevano avuto l'occasione di conoscersi davvero. Solo negli ultimi anni, anzi mesi stavano iniziando ad avvicinarsi, ma erano così cambiati, così diversi. Incollare cocci del passato non era così semplice come dicevano. Quindi in quella faccenda il problema erano i suoi genitori, avevano tolto ogni foto di Shia da quella casa, come se non fosse mai esistito. tanto valeva che vi obliviaste.....posso farlo io! A modo mio. Disse ad un certo punto, nero come la pece, era stufo di quelle continue critiche, di essere denigrato di non essere perfetto per i loro canoni. Era stanco. Si alzò dalla sedia, e questa lentamente cadde a pezzi, come se un acido l’avesse corrosa dall’interno. Guardò i suoi con odio nello sguardo Quanto siete idioti...siete degli inutili maghi senza senso. Non dovreste neanche esistere Fece un passo verso di loro, con l'idea di ucciderli. Lo avrebbe fatto volentieri, si sarebbe tolto un peso che da anni l'opprimeva. Bastava un tocco, un solo e semplice tocco sul braccio e sarebbero morti tra urla e allucinazioni. La morte che meritavano; ma fu Kendall a mettersi davanti a lui e senza toccarlo, sapeva che poteva farle del male senza volerlo, riuscì a calmarlo.
    Piccola io devo andarmene, ti voglio bene l'aveva abbracciata ed aveva sorriso Ricordati che se ti servo, puoi contattarmi con questo gli toccò l'anello facendo illuminare sia quello della ragazza che il proprio sempre dopo di che uscì da quella casa.


    31 Dicembre 2015
    Casa Hamilton-Goyle
    Ore 20.00


    Kendy andiamo, Charmion ci sta aspettando. Lei odia i ritardatari ed anche io, perciò se non ti presenti entro trenta secondi ti lascio a casa con i tuoi genitori La richiamò dalla soglia della porta. Il tono impaziente avrebbe dovuto suggerirle di sbrigarsi, ma era una donna. Lui era già pronto da ore, ancora doveva capire come si era fatto convincere a portare sua sorella ad una festa a Villa Hamilton, da loro cugina. Inizialmente le aveva detto che per niente al mondo l'avrebbe portata, era così pura ed innocente, doveva star lontana dai guai. Se fosse diventata come lui? Non poteva accettarlo. Eppure quando lo guardava con quegli occhi dolci e lo supplicava, Shia non riusciva a non cedere, quella stronzetta sapeva il fatto proprio, era decisamente una Hamilton.
    Arrivo le sentì dire, ma chissà quanto valeva il suo “arrivo” , poteva andare dall'immediatezza ad ore, le donne! Ma doveva muoversi, odiava stare in quella casa, i genitori erano in salotto che ignoravano Shia come al solito, lo avrebbero cruciato volentieri, se non fosse stato che erano stranamente immobili sul divano e fissi a guardare il camino. Non avevano detto una parola, niente, non si erano neanche opposti al fatto che la loro figlia adorata se ne stesse andando a fare l'ultimo dell'anno con il fratello difettoso. Finalmente non li sentiva borbottare, non sentiva le occhiatacce su di lui e tutto ciò che di più cattivo potevano fare i suoi genitori, erano una delizia. Li osservò, poggiandosi al muro con un ghigno divertito sulle labbra Siete davvero silenziosi, vi ringrazio.
    Ma questi continuavano ad ignorarlo Che maleducati, potreste almeno augurarmi un buon anno nuovo . Merlino, quanto si divertiva? Sorrise ed alla fine si avvicinò a loro. E li vide lì in preda a qualche strano spasmo e con le pupille dilatate. Vi divertirete quest'anno dai Diede un bacio alla madre sulla fronte e al padre, erano adorabili, finalmente. Poi vide comparire la sorella, bella come il sole e lui rimase senza parole Sei bellissima disse estasiato, doveva stare attento che nessuno l'avvicinasse. Beh noi andiamo, ciao madre e padre disse e affiancò la sorella prima che questa si rendesse conto di quello che lui aveva fatto.
    Mamma, papà potreste anche rispondere a Shia disse quasi offesa, come se fosse lei quella a cui stavano facendo un torto, ma poverini non era colpa loro se non potevano parlare, Shia rise e prese per mano la sorella Lasciali stare...stanno vivendo un'esperienza mistica

    31 Dicembre
    Villa Hamilton
    Ore 21:00


    Siamo in perfetto orario disse contento, odiava essere in ritardo invece era riuscito in tutto, era a quella festa con due delle tre donne che più amava; l'altra era Rea anche se i due cugini non erano più così in buoni rapporto come una volta. Lei era così diversa, così fredda, ma era normale, si disse. Non che lui fosse da meno, ogni mossa che il ragazzo faceva era ben studiata e non faceva mai niente che non fosse un piccolo passo per un piano molto più ampio. Conosceva molte persone in quel luogo solo perché era stato nei laboratori con loro, li aveva osservati, aveva finto di essere uno di loro, con alcuni aveva stretto anche amicizia, come Shane. Già Shane, era un tipino interessante, peccato che fosse scappato. Aveva ottenuto Arwen Undòmiel in cambio, ma perdere Shane per i dottori era stato devastante, chissà cosa aveva di così importante. Comunque a Shia non importava poi così tanto, gli avevano dato un compito e lo avrebbe portato a termine. Ne aveva condannati tanti, come Elijah e Jayson. Riguardo al primo, era stato un danno collaterale, riguardo a Fred, beh non era colpa sua...quando l'aveva preso non sapeva che era un Hamilton. Se Gemes lo avesse saputo, lo avrebbe ucciso all'istante, così come la sua migliore amica Charmion, ma per sua fortuna la bionda non sapeva neanche di avere un fratello.
    Strano che non si sentisse un mostro o un stronzo pur facendo il doppio gioco da anni ed anche con le persone che conosceva ed a cui teneva, come si sentiva appena si svegliava la mattina? Bene. Aveva dei segreti, ma chi non li aveva in quel mondo? Se questi non gli portavano un vantaggio che senso aveva svelarli? Sarebbe venuto fuori tutto al momento opportuno.
    Vide Rea, bella come una divinità e Gemes che davano il benvenuto agli ospiti per poi perdersi tra gli invitati. Seguì con lo sguardo sia il ragazzo, era strano, sembrava sempre così diffidente con tutti, aveva un sguardo omicida , freddo, chissà quante persone avevano ucciso quelle mani, e pensare che era il gemello di Charmion. Gli aveva anche chiesto di passargli del veleno, e Shia glielo aveva dato, ma aveva anche precisato che fosse in debito con lui. E sapeva che presto o tardi avrebbe riscosso quel debito. Guardò la donna al suo fianco, bella da mozzare il fiato, le diede un bacio Ma lo sai che sei splendida? disse finalmente, l'aveva vista anche in precedenza, ma le donne vanno sempre elogiate no? Poi guardò Kendall Ti tengo d'occhio...non fidarti di nessuno, specialmente degli Hamilton, ok? disse serio, non doveva assolutamente fidarsi di nessuno, specialmente delle persone che portavano il suo stesso cognome. Ma la ragazza gli rise in faccia, come biasimarla, avrebbe fatto lo stesso. La vide allontanarsi, ma l'avrebbe tenuta sotto controllo anche da lontano. Intravide Heidrun, e le fece un cenno con la mano, avevano uno strano rapporto i due, giocavano tra di loro e molte volte facevano anche a gara per chi portasse più persone nei laboratori; Ma non era da sola, al seguito aveva due ragazzini, non li conosceva, ma erano di sicuro suoi fratelli; anche se quello più alto sembrava anche il più carino. Scosse la testa , era troppo piccolo, certo come se per lui fosse mai stato davvero un problema. Fece per andare da lei, quando vide Gemes affiancare Charmion e offrirle da bere, meglio se la sarebbe dileguata senza destare troppi problemi.
    Un cameriere con un vassoio ed alcuni bicchieri di vino gli si parò davanti e ne prese uno al volo pur sapendo che non si sarebbe ubriacato, poteva anche berne dieci. Chissà magari poteva però far ubriacare qualcun altro, solo per divertirsi. Oh si lo avrebbe fatto, doveva solo scegliere la preda giusta. Guardò i due ragazzi al fianco di Heidrun Ciao bellissima, chi ci hai portato? chiese squadrando prima quello alto, che si presentò con un cenno di testa come Jeremy, ecco lui poteva drogarlo, aveva la faccia giusta. E poi notò un rossino, con le lentiggini e piuttosto imbarazzato, che non riusciva a distogliere lo sguardo da una mora. Ecco lui era il prescelto per bere, i due che poco dopo scoprì essere i Milkobitch erano quelli prescelti per farsi qualche risata. Anche se, sicuramente qualche altro soggetto, toccandolo, per sbaglio, si sarebbe ubriacato o drogato. Peccato che non c'era Shane, o Judas, già il ragazzo aveva preferito seguire quella svitata di ragazza, Ashley e fare una serata diversa. Peccato, avrebbero potuto fare una stanza dedicata all’oroscopo ed al meteo del 2016.
    Guardò i due ragazzi Piacere io sono Shia e tu saresti? disse offrendo la mano a Jeremy, per conoscerlo.
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    Con la neve incastrata nella chioma corvina e le guance arrossate dal freddo, Heidrun Ryder Crane spalancò la porta della casa dei Milkobitch che era ormai mezzogiorno passato. In qualità di esperimento non poteva vivere con loro, non senza un garante, il che significava che ogni notte doveva tornare a New Hovel, per poi ripresentarsi lì il mattino successivo. Non che le dispiacesse, insomma… poteva andarle peggio tipo vivere con gli Hamilton #cheschifolaca$ta. Condivideva l’appartamento con Jade, la be-bionda dei Laboratori, e per quanto apparentemente poco affini potessero parere, a Run piaceva la sua compagnia. Compagnia forse era un po’ esagerato, considerando che la Beech pareva sempre vivere nel suo mondo (smemorina, diceva; non mi prendere per il culo, la silenziosa risposta di Heidrun), ma ci si accontentava di quel che passava il convento. «Dai un bacio a Sean e Lienne da parte mia, se li vedi» Le disse sulla soglia la mattina del 25 Dicembre, prima di sparire in direzione di Londra. Aveva promesso che ci sarebbe stata, così com’era riuscita a convincere quel pirla di un Tassorosso a non fare la primadonna e presenziare con la sua famiglia, ma mai aveva detto che sarebbe arrivata in orario. Di fatti, quando entrò in cucina, erano già tutti al loro posto. «Buon…oh» Spalancò le labbra in segno di sorpresa, frenandosi poco prima di stringere le braccia attorno all’esile corpo di Bradley. La donna, madre di Ian, non aveva battuto ciglio quando Run si era presentata al loro indirizzo qualche giorno prima: lo sapevo che saresti tornata, le aveva sussurrato all’orecchio, mentre la Crane strizzava le palpebre per non permettere alle lacrime di rigarle le guance. Famiglia, aveva dimenticato cosa fosse. Aveva dimenticato come ci si sentisse ad essere amata malgrado ogni difetto, dimenticato il calore che solamente loro sapevano darle. Un balsamo sul suo cuore spezzato, che mai aveva creduto potesse tornare integro. Quando era con i Milkobitch, ogni ferita smetteva di sanguinare. «Todd ha portato un’amica» Esordì Jeremy in tono melodrammaticamente serio, lanciandole un’occhiata di sottecchi mentre tratteneva, con scarsi risultati, un ghigno. Oh. My. God. Heidrun strinse con forza le labbra fra loro, guardando Todd diventare sempre più rosso. Oh. My. God. «Ciao amica di Todd, io sono Run» La salutò, stringendole la mano con un sorriso a trentadue denti. Abbracciò Bradley, stampò un bacio sulla guancia irsuta –«ew, stai proprio diventando un ometto»- di Jeremy, e stropicciò i corti capelli ramati di Ian Todd Milkobitch, rimanendo qualche istante alle sue spalle. Osservava Sheridan, e stringeva impercettibilmente il ragazzino fra le proprie mani, ammiccando non troppo silenziosamente. «ma che bella amichetta che ci siamo trovati» gli bisbigliò all’orecchio, chinandosi per baciare anche la sua morbida guancia. Quando si sedette al suo posto, lanciando giacca e sciarpa sul divano («Run, lo sai che abbiamo un attaccapanni?» «Sì» «Usalo» «Che c’entra, abbiamo anche la crema per le emorroidi… non significa che io debba farne uso» Heidrun 1, Bradley 0: palla al centro), sentì finalmente ogni tassello andare al suo posto. Quello era il luogo che le spettava di diritto. Era lì che avrebbe sempre dovuto essere. Certe cose, era proprio vero, si comprendevano solo quando si erano ormai perse. «Bitch poco Milko» Alzò gli occhi su Jer, attirando la sua attenzione con il nomignolo che, egli sapeva, indicare proprio lui. «te quand’è che ti decidi a portare un’amica? Possibilmente che non si chiami Maria, quella la conosciamo già» Inarcò le sopracciglia con un mezzo sorriso allusivo, schivando con la maestria di un ninja una pallina di mollica. Gli schioccò un bacio nell’aria, pregustando il pranzo cucinato dalla matrona della famiglia. Non faceva un pasto decente da… tre anni, ossia da quando aveva lasciato casa loro. Figurarsi festeggiare il Natale. Era tutto così familiare, così semplice, che fra quelle mura domestiche Heidrun Ryder Milkobitch, Crane a tempo perso, poteva convincersi che tutto potesse andare per il meglio. Poteva dimenticare il Labirinto, i suoi genitori, la fogna dove l’avevano costretta a vivere, gli sguardi di superiorità dei maghi e quelli imploranti degli Esperimenti difettosi che era costretta a cacciare. Poteva semplicemente essere, poca importanza avevano passato o futuro. A metà del pranzo, Run si costrinse a smettere di sorridere come un’ebete, mentre si beava di quello che, per tanto tempo, le era febbrilmente mancato. Era a casa. Si schiarì la voce tracannando il quindicesimo bicchiere di vino; si sentiva già accaldata, e non riusciva a smettere di ridere per qualunque cosa, neanche si fosse fatta di Ganja –quella la attendeva dopo, per digerire. «ma te l’ho raccontato di quando avevamo un'oca, e Todd…» Iniziò, pronta a sputtanare il fratellino mentre, rapida, alzava il tovagliolo per fermare il prosciutto volante lanciato dalla forchetta di Ian, il quale probabilmente avrebbe finito per colpire, ed accecare, Jeremy. Fu però interrotta dalla voce dello stesso Jeremy, bello allegro anche lui, che ridendo –cosa che, come le aveva detto Todd, pareva accadere di rado- se ne uscì con: «questa è un classico del Natale, Lestrange» Il sorriso rimase congelato sulle labbra di Heidrun, come una scheggia di tempo sotto l’unghia: il battito parve decelerare, l’aria farsi più densa, e tutto intorno a loro si muoveva troppo piano. Lestrange?

    «Mi hanno presa, mi hanno tenuta rinchiusa in un magazzino a Hogsmeade fino a tre sere fa, una famiglia di maghi, Lestrange e Logan.» E Run, che per tutto quel tempo aveva creduto che sua madre avesse scelto un’altra vita, qualcuno che non era lei, aveva sentito il proprio cuore spaccarsi a metà. Percepito fisicamente, uno strappo al petto. Non aveva potuto accettarlo, neanche in quell’ultimo sbuffo sofferente; come… Lestrange. Logan. Da quel maledetto giorno, quei due nomi erano diventati un mantra per lei: Lestrange. Logan. L’avrebbero pagata per quanto avevano fatto, per tutto quello che le avevano tolto. «Se ti imbatti in qualcuno di questi cognomi devi andartene il più lontano possibile mi hai capito?» Ma certo che no, mamma, non ho capito. E lo sapresti, che non ho capito, se solo fossi rimasta con me. Sapresti come sono fatta. Lestrange. Logan. Avevano tenuto prigioniera Jo per quasi metà della vita di Heidrun, e quando finalmente aveva potuto riabbracciarla, comprendere, le avevano nuovamente strappato via quell’opportunità. Ci si divertiva il mondo, a regalarle il più bello e colorato dei fiori solamente per potergli staccare tutti i petali in un solo, secco, soffio. A costruirle un ponte dorato, promettendole che sarebbe arrivata sana all’altra riva, solo per farglielo sparire sotto i piedi.
    Lestrange. Logan.
    Sheridan.

    «raccontala tu, Jer» Non seppe mai se avesse davvero fatto richiesta formale a Jeremy, o se il fratello avesse semplicemente deciso di riempire il vuoto che Run aveva lasciato con la sua frase in sospeso. Gli occhi fissi sul proprio piatto, non più capaci di guardare quella … ragazzina, buon Dio, ancora bella – di quella bellezza ingenua e non ancora sapiente- e sorridente come la prima volta in cui ne aveva incontrato lo sguardo cristallino. E c’era qualcosa, nella smorfia delle labbra, a suggerirle che non era qualcosa che faceva spesso. Come se, solitamente, fosse abituata a piegare in altro modo le proprie labbra, o se a divertirla fossero ben altri passatempi. Ingenua, ecco cosa c’era in quegli occhi. Vittima, dopotutto aveva percepito da subito la Moltiplicazione nel suo sangue, e come un parassita se n’era appropriata per iniziare una vera e propria dittatura Cranebitch: una copia a rollare sigarette, l’altra a servire i piatti a tavola, e la terza a lavare le stoviglie già nel lavandino. Lestrange. Logan. Cominciava a credere che il respiro incastrato in gola fosse sempre lo stesso, ancora un ricordo dell’aria viziata dell’arena. Cominciava a pensare che quel singulto, semplicemente, non se ne fosse mai andato. Sotto pelle. «Ma puoi restare ancora con me?» «Run, non andrò da nessuna parte»
    Bugiarda.
    «credo…» Tossì, rivolgendo un sorriso ai commensali mentre trascinava la sedia sul parquet, sentendola più pesante di quanto realmente fosse. Ebbe un momento di cedimento, e rise di quanto patetica, e triste, fosse improvvisamente diventata. Le era bastato un nome per sfilacciare quel briciolo d’equilibrio che credeva d’aver trovato, per catapultarla nuovamente in quella fottuta arena. Lestrange. «di aver bevuto un po’ troppo» fortunatamente era vero, non si trattava di una menzogna. Il passo lento e distratto, la stanza che vorticava attorno al suo sguardo non a fuoco. Si appoggiò al muro, sbuffando. «prendo una boccata d’aria» Credibile, dannatamente credibile, in quel sorriso che aveva perso tutto.
    Poteva fingere. Poteva illudersi che nulla fosse cambiato rispetto a tre anni prima, quando il suo massimo di trasgressione era bigiare a scuola per rollarsi una canna sugli spalti, guardando un cielo inconsapevole dei suoi occhi verdi. Poteva convincersene, seduta a quel tavolo, mentre Jeremy e Todd cercavano di sopravviversi a vicenda senza farsi del male.
    Poteva fare il cazzo che voleva, ma la realtà era un’altra.
    Lestrange, tanto bastava. Ed era tutto finito.

    «eau la madonna» biascicò, chiudendo lo sportello dove le arrivava la posta al Ministero, mentre fra le mani brillava un magnifico invito. «potevi risparmiare i soldi di questi biglietti per prendere altro alcool. Sei proprio un Gemes» Rimproverò ad alta voce, girandolo per leggere… nulla, c’era solo un indirizzo. Heidrun si era fatta quest’idea, che come avrebbe scoperto poi non era così errata, che l’Hamilton avesse infinocchiato una pora vecchietta con il cash: ce l’aveva l’aria del toy boy, con quell’espressione fra l’adorabile ed il sbattimi al muro, prepotentemente e di faccia. O forse quello era solo il messaggio che arrivava a lei. Sempre così criptico, come se qualcuno al mondo fosse interessato al suo pensiero, od a ciò che era: sveglia, ragazzino, a nessuno importa di me, di te, o di chiunque altro. Ironico che a pensarlo fosse una fanciulla che, sulla carta, non raggiungeva neanche i dieci anni. Chiamatelo cinismo, se volete, ma in Gemes Hamilton c’era qualcosa di dannatamente snervante; pareva che ogni passo, ogni scelta avesse un peso maggiore per lui, quasi ne dipendesse il futuro dell’Universo così come lo conoscevano #tooHamilton, i Crane non comprendono. Malgrado ciò, c’era qualcosa di irrimediabilmente affascinante nell’oscurità del giovane, ma soprattutto nella cieca consapevolezza di ciò che era. Di solito, e Run non faceva eccezione, si rimaneva sempre in bilico, indecisi su quale parte lasciare a prendere il sopravvento. L’eterna ed antica lotta fra luci e ombre, male e bene, aria e terra; Gemes invece non l’aveva mai nascosto, per quale lato patteggiasse. Perfino, forse soprattutto, quando sorrideva, lasciava intendere una storia completamente diversa. Lei, in cuor suo, non poteva che ammirarlo per quel lato di sé; ed era sempre per quel lato che, ogni qual volta lo incrociava per i corridoi, doveva resistere all’infantile pulsione di affogarlo nella boccia dell’acqua al loro piano. Era… particolare, ecco. Intenso. Greylinski.
    Ma soprattutto, sembrava avere soldi da sputtanare. Prese il cellulare, mentre salutava con un bacio Harrison Palmer -«Crane, il tuo turno non è ancora finito» «Cosa? Trova che io abbia un bellissimo dito? La ringrazio!»- e prendeva l’ascensore per uscire dal Ministero. Dovette attendere di essere a Londra, prima di aprire belah (o come lo chiamava il resto del genere umano, whatsapp). Gruppo, Bitches, con tanto di unicorno. Mandò quindi un audio a Jeremy e Todd, anche se non sapeva quanto utile sarebbe stato: lei nel mondo babbano aveva vissuto la sua adolescenza, loro… loro, Morgan, erano abituati a comunicare via gufo, non usare il cellulare. Come i cavernicoli, esatto. «bitches a rapporto, ripeto, bitches a rapporto. stasera si va a una festa. Ian, scrivi anche alla tua amica Sheridan, così viene con noi… e fatti dare l’indirizzo di casa sua, non lo ricordo. Non so assolutamente quale sia il codice d’abbigliamento previsto, ma nel dubbio preparate gli smoking. Anzi, niente, ve lo porto io. Sto arrivando. Jeremy lo so che stai alzando gli occhi al cielo, Todd digli di smetterla. Passo e chiudo» Inviò, senza controllare che le spunte blu le indicassero se il messaggio fosse stato letto o meno.
    Ora… non era rubare, era prendere in prestito. Se fossero sopravvissuti alla serata, sia loro che gli abiti, li avrebbe riportati indietro, giurin giurello. Che poi, quale diavolo di motivo l’aveva spinta a trascinarsi i fratelli a Villa Hamilton? Ne conosceva tre, e nessuno di loro era un soggetto particolarmente adatto cui affidare due minorenni –tre, contando Sheridan. Probabilmente si trattava di un ritrovo satanico dove avrebbero sacrificato qualche Isaac agnello, o vergine, all’Oscurità così da assicurarsi un 2016 ricco di gioie. … No, Heidrun lo pensava davvero. Shia, Gemes, Rea. Già i nomi lasciavano intendere cose losche e proibite, poco adatte agli occhi innocenti dei Milkobitches.
    Buon Morgan, ma che stava facendo? «detto fra noi, i padroni di casa sono, presumibilmente, sociopatici bastardi –questo a Bradley non lo diremo. Vogliamo ancora andare?» Domandò sincera mentre, in solo intimo categoricamente rosso, saltellava da una parte all’altra della camera cercando di infilarsi le collant nere. Preferiva non mentire a Todd e Jeremy –non più- e mettere subito in chiaro la faccenda. Ovviamente lei era entusiasta all’idea di presenziare all’evento: avevano degli inviti, come il biglietto d’oro della fabbrica di cioccolato. Era roba seria, mica cazzi. Senza contare che v’era un’alta probabilità di incontrare la Elyenne, ossia i Fred e Ginger dei Wind. Il pensiero di riunire la combriccola, perfino contando l’Hamilton, anziché demoralizzarla la rendeva euforica. Tanto, chi vogliamo prendere in giro? La merda emotiva che si era trascinata dal Labirinto, non l’abbandonava solamente perché stava lontano da qualunque cosa potesse ricordarglielo. Era sempre lì, in ogni battito di ciglia; in ogni chioma bionda di spalle, in ogni cronocinesi sui polpastrelli invisibili della mimesi. Lì, in ogni generatore d’acidi, nel sorriso degli sconosciuti per le strade. In ogni battito, respiro. Sempre lì, inevitabilmente . Tanto valeva gioire di quel poco di positivo che le aveva lasciato: amicizie. All’incirca. Mi correggo, amicizie + Gemes, dato che ancora era indecisa su quale scomparto delle conoscenze doveva riservargli. Nel dubbio, rimaneva una categoria a sé stante.
    Realizzò, ancora mezza nuda, di non avere idea su cosa avrebbe indossato. Il suo armadio non pullulava esattamente di abiti… eleganti. Shit. Rimase al centro della stanza con i pugni sui fianchi finchè la voce di Todd non la richiamò dal corridoio, dov’ella si affaccio giusto in tempo per allungare un braccio ed impedirgli di cadere. «mamma ti ha lasciato un pacco sul letto, l’hai visto?» Sbattè rapidamente le ciglia nella famigerata occhiata da #qualepacco, retrocedendo in un panic moon walk fino a trovarsi di fronte ad un… pacco. Bianco, grande, solo Morgan sapeva come avesse potuto non vederlo prima. «ora sì. Grazie Ian. E guarda dove camm-…ecco, niente» Alzò gli occhi al cielo, un sorriso divertito sulle labbra mentre udiva al di là della porta socchiusa i mugugni del Milkobitch, sicuramente ruzzolato a terra. Lo amava, sinceramente e con disinteresse, come solo una sorella maggiore avrebbe potuto fare: quanto le era mancato? All’interno della scatola, come scoprì poco dopo, v’era un abito delizioso. Bradley aveva sempre avuto sia buon gusto che buon occhio; se fosse stato per Run, mai avreste trovato un vestito del genere nel suo armadio, per il semplice fatto che mai lei sarebbe andata a comprarlo. Ciò non significava che, da fuori la vetrina, non potesse trovarlo…«meraviglioso» Sussurrò compiaciuta, guardandosi allo specchio. Le maniche lunghe erano composte di pizzo sottile che lasciava appena intravedere la pelle, coprendo il tatuaggio che la identificava come Adescatrice; era attillato, ed al contempo di una morbidezza sorprendente. Fasciava il giovane corpo di Heidrun fino a poco sopra il ginocchio, facendola sembrare più elegante di quanto mai fosse stata in vita sua. Ammaliata dal proprio riflesso, passò con delicatezza le mani sul tessuto nero; un rammarico, sempre lo stesso, nei troppo grandi occhi verdi: che ne pensi, mamma?
    La cosa creepy, fu che qualcuno rispose. «Sei bellissima, Run» Bradley, sulla porta, la osservava compiaciuta. Teneva fra le mani una fine collana dorata, ed a nulla valsero i dinieghi della Crane. «fammi contenta» quello era giocare sporco. L’aiutò anche a sistemare i capelli –«non posso lasciarli sciolti?» «no» watch out, we’ve got a badass over here- , che vennero legati in una coda bassa a lato del viso. Tanto sapevano entrambe che a metà serata, l’opera di parrucco e trucco (perché sì, un leggero strato di rossetto nude -utile, davvero- non poteva mancare, così come la matita nera, l’ombretto… ohmygod, sentiva la mancanza di Sean e Chris #ridatemilosleepoverclubdelLabirinto #Papà,tuno) sarebbe andata a puttane. Quando uscì dalla stanza sotto lo sguardo trionfante di Bradley, alzò subito le mani in segno di resa verso i Milkobitches. «sh. non dite niente, andiamo» li ammonì, considerato quanto poco erano avvezzi ad una Heidrun così… così. Incitò Jeremy a passarle avanti e Todd a seguirla, così da evitare imbarazzanti effetti domino, mentre i tacchi picchiettavano sul lucido pavimento.

    Quando videro Sheridan arrivare, poco distante da dove la stavano aspettando, Run fu rapida ad affiancarsi al piccolo –neanche troppo- Ian. «mi raccomando, so che ha un vestito argentato, ma… non fare battute sulle stelle, o sugli angeli. dille solo che pensi sia bellissima» Inarcò le sopracciglia, stringendosi nelle spalle. «beh? Non sono cieca, vedo come la guardi. Jer, diglielo anche tu» Nel mentre però la ragazzina era già arrivata, e la Crane non potè che dare ragione allo sguardo di Ian Todd Milkobitch: era davvero bellissima. Ed aveva deciso che no, non le importava quale fosse il suo cognome. Era un’amica di Todd, ed era troppo giovane per avere colpe. Lei: la sua famiglia, d’altronde, era tutto un altro discorso. Qua c’è il pezzo di come arrivano alla Villa, ma a nessuno interessa, quindi balziamo oltre che s’è fatta ‘na certa ed ho sonno. «oh, ma che carini… non dovevano» esordì, indicando prima la H sul cancello e poi sé stessa. H-eidrun. Voleva fare una battutaccia stile: dolce da parte loro chiarirlo fin da subito, alludendo alla h di handicappati… Ma non pensava davvero che fossero handicappati.
    … e poi Sheridan pareva essere loro amica, preferiva non rischiare. Si fecero la passeggiata di salute fino alla grande porta della Villa, che definirla Villa pareva quasi un insulto: era una fuckin reggia. Ecco, l’aveva detto lei: toy boy, e doveva anche essere bravo in quello che faceva #mlmlml.
    Le bastò qualche secondo in quella casa, per comprendere ciò che prima le era sfuggito: ci abitavano delle persone. degna figlia di suo padre. Non solo Gemes e la sua Vecchia Ricca… ma proprio altre persone; si chiamava villa Hamilton, ma non era lui l’Hamilton della villa #wat. «Elizabeth e Charles!» Esclamò ad alta voce, mentre Gemes e Rea scendevano la scalinata proprio in stile Regina e Re d’Inghilterra: Buckingham Palace? Nope, Villa Hamilton. Avendo attirato occhiatacce a causa della battuta, alzò le mani a palmo aperto. «god save the queen» aggiunse. che patriottici gli inglesi, oh, non si poteva dire niente. «ho fatto la simpatica, poi ci chiediamo come nascono le rivolte; qualcos’altro, sono Rea BitchPlis Hamilton –come se non lo sapeste, plebe-, fine» … e gli alcolici? Dov’erano, gli alcolici?
    Sorrise dolce, mentre stringeva a sé la compagnia di cicarini che s’era portata appresso. Aveva abbassato notevolmente l’età della festa, magnifico. In compenso, fu piacevolmente colpita nello constatare che non v’erano agnelli da sacrificare, né strani riti voodoo che li attendevano. Per adesso, Run. « Chi non muore si rivede eh?» goddamn right. Doppiamente ironico considerando dove si erano conosciute. Si lasciò andare ad un gridolino emozionato, mentre la stringeva sorridente fra le proprie braccia. «non dirlo ad alta voce, la serata è ancora lunga…» accennò agli ospiti con la testa: le possibilità di non arrivare a mezzanotte, non erano poi così basse. Prese il bicchiere che Lienne le stava porgendo, e non ebbe quasi il tempo di stringere il calice fra le mani, che il suo contenuto evaporò: era quella la vera magia di Heidrun, mimesi un par di palle. Datele un alcolico, e diventerà Flash. «Ma guarda un po' il nostro stronzetto telecineta» Si strinse nelle spalle, osservando Gemes sulla scalinata. «sempre la solita primadonna. chissà dove ha nascosto l'ascia» questione di priorità. commentò con un mezzo sorriso ironico, senza distogliere lo sguardo dall’Hamilton. Lo squadrò dal basso verso l’alto, senza alcun pudore né vergogna, quel damerino d’un Hamilton. Sarà che era abituata a vederlo in abiti da battaglia, letteralmente, ma non poteva fare a meno di mordersi il labbro per non ridere. Sempre bello eh –anzi, forse di più #fetishsmoking- , sarebbe stato sciocco sostenere il contrario, ma anche così… diverso. «omhmiodio hamilton. sei … un essere umano» commentò inclinando il capo. «C’è una persona che ti vuole parlare. Biondo, giacca scura, cravatta, credo di averlo intravisto nel salotto» doveva sempre rovinare tutto. per altro, grande Gemes, questo sì che racchiude la cerchia: come se non ci fossero stati abbastanza biondi, con la giacca scura e la cravatta. Prima che se ne potesse andare, chiuse la mano destra a pugno e fece scorrere il medio dalla fronte di lui fino alla punta del suo naso, sorridendo adorabile: vaffanculo, e mai vaffanculo fu più tenero del suo. *perché ti voglio bbene veramentee* Quando anche Lienne si fu allontanata, rivolse la sua attenzione ai Milkobitches. «Li ho conosciuti in… giro» Si giustificò, stringendosi nelle spalle. Aveva amicizie importanti, che ci poteva fare #wat. E non sapeva quanto, importanti. Gli occhi verdi scivolarono in quelli blu di Emerald, mentre ogni muscolo le gridava run, RUN! «Ciao Crane» Holy shit. Sorrise a labbra serrate, afferrando un altro calice di champagne. Non aveva ancora bevuto abbastanza, per affrontare Emerald Callaway. Probabilmente non sarebbe bastata l’intera libagione alcolica degli Hamilton per quella conversazione. «Emerald» Alzò le sopracciglia. Mi dispiace. Non avevo scelta. Ma non lo disse, preferendo il silenzio finchè HELLYEAH un’altra guest star della serata non venne a farle gli onori di casa. Troppo VIP, troppo VIP. E Morgan, sempre dannatamente gnocco Shia, esattamente come lo ricordava. «Mio Dio, sei sempre più…» Si strinse nelle spalle, indicandolo senza saper trovare un aggettivo abbastanza lusinghiero. Quindi si volse verso la bionda, grata di aver trovato un ancora di salvezza. «Callaway, ti presento Shia Hamilton. Shia, Emerald Callaway. È una vecchia… amica» La indicò, senza mai lasciar scivolare il sorriso dalle labbra carnose. Chissà se Shia, in quell’allusivo movimento delle sopracciglia, avesse compreso quale genere di amicizia fosse: una cavia, l’ho portata io. Per favore, non permettere che mi uccida davanti ai miei fratellini. Non che uccidere Run fosse facile, per carità….
    Però, bisognava considerare che la bionda aveva più di un motivo per essere incazzata con Heidrun, e Heidrun al contrario –se non si conta la mera sopravvivenza- non aveva un motivo per odiarla. Non lei, mai. «e loro sono Ian e Jeremy Milkobitch.» Indicò i ragazzini alle sue spalle, avvicinandosi a Shia per schioccargli un bacio … sulla barba? La guancia era difficile da trovare. «vacci piano, sono sotto la mia responsabilità» COMPLIMENTI BRADLEY PER LA SCELTA AFFIDABILE sussurrò appena, mentre si allontanava afferrando un bicchiere –neanche dieci minuti che era lì, ed era già al terzo bicchiere: di quel passo, la mezzanotte avrebbe dovuto darsi una mossa ad arrivare, se non avesse voluto vederla collassata su un divanetto- dal cameriere che poco prima aveva servito Shia.
    Si prospettava una serata interessante.
    Sempre che fosse sopravvissuta per raccontarlo.
    role code made by effe don't steal, ask



    svarioni vari, natale a casa milkobitch, parla con jeremy / todd / gemes / lienne / shia / emerald / Morgan (soprattutto lui)


    Edited by selcouth - 16/12/2015, 03:17
     
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    Allora cosa ne pensi? Questo o questo? Da quando la Jodene aveva iniziato a lavorare, dapprima come estetista e poi come assistente in biblioteca, i soldi per i capricci non le mancavano. Sempre che gli abiti eleganti fossero dei capricci, Aveline preferiva chiamarli necessità. Era una ragazza, per quanto troppo spesso venisse paragonata ad uno dei tanti fantasmi che ella stessa riusciva a vedere. Era una ragazza, ed alle ragazze piacevano i bei vestiti. Non a tutte però... Sventolava fieramente i suoi acquisti sotto lo sguardo indeciso di Jericho, Ashley l'aveva abbandonata alle prime battute di "mi aiutereste a scegliere..." Ma non gliene faceva una colpa, sapeva benissimo quanto la ragazza fosse poco avvezza alle feste, tanto meno ai vestiti eleganti, ancor di più se femminili. Eppure era convinta che anche Jericho le volesse solo fare un favore e che non avesse davvero voglia di perdere un pomeriggio dietro alle sue indecisioni. Per questo la ringraziava ogni secondo, tacitamente nel proprio pensiero, alternando delle scuse.
    "Grazie grazie grazie scusa grazie scusa scusa" Conscia del fatto che l'amica l'avrebbe potuta sentire. Era anche grazie a Jericho se Aveline aveva deciso di accettare l'invito di Nathaniel. Sì, Nathanie l'aveva invitata ad una festa! Inizialmente scoraggiata dalle sue molto scarse capacità sociali e da una forte dose di timidezza ed imbarazzo, non aveva dato una risposta sicura al ragazzo, limitandosi a crearsi mille e più paranoie per le cose più stupide. Perché l'aveva invitata a quella festa? Che vergogna, avrebbe dovuto accettare? In parte lo voleva, certo, ma d'altra parte temeva di passare la serata completamente in silenzio e di annoiare Nate con il suo essere così impedita. Poi aveva saputo che ci sarebbe stata anche Lydia, e questo aveva fatto sì che i suoi pensieri tragici prendessero una piega meno paranoica. Forse con lei sarebbe riuscita a comunicare più che con Nathaniel, magari sarebbe riuscita anche ad aprirsi ed a diventare una persona più...normale con tutti (?) e poi Jericho era stata la sua decisione definitiva. L'aveva spinta ad accettare l'invito, non solo per Nathaniel, ma anche perché avrebbe potuto infiltrarsi nella casa degli Hamilton. Casa? Si diceva che Rea Hamilton avesse una reggia a sua disposizione, ed Aveline non poteva non immaginare quell'abitazione come un covo di vampiri bellissimi ed irraggiungibili. Sì, come Twilight. Insomma, avrebbe potuto studiarne l'ambiente che in fondo incuriosiva un po' tutti i babbani che non facessero parte del...com'è che si chiamava? Team Hamilton? Per di più, se si fosse sentita sola, avrebbe potuto comunicare con i suoi amici rimasti a New Hovel - Jericho, Donnie, Ashley ed altri - tramite degli speciali orecchini incantati, collegati ad una collana che avrebbero funto da walkie talkie. Un mezzo di comunicazione tanto simile a quelli babbani e che la riportavano alle sue origini. Come nei migliori film, Aveline aveva anche chiesto a Jericho di suggerirle qualche frase da usare nel caso lei ne fosse stata sprovvista. Figo eh? Non che l'amica fosse meno socialmente imbarazzante di lei, e nemmeno Donnie, ed Ashely non poteva essere classificata come persona sociale, quindi era tragica, ma magari in tre sarebbero riusciti ad aiutarla nei momenti complicati (?) ed era sicura ce ne sarebbero stati tanti.
    Alla fine, dopo un po' di indecisione, Jericho aveva optato per il vestito, perché il completo nero con i pantaloni non lo vedeva adatto a lei. Sei sicura? Ho le gambe troppo bianche, poi dicono che sembro un fantasma Ma si, in fondo la gonna del vestito che avevano scelto non era troppo corta. Ad una certa ora, circa le sei del pomeriggio, Aveline aveva iniziato a prepararsi, tentando inutilmente di scacciare l'ansia ed i pensieri negativi. Aveva preso posto alla scrivania della camera, dinnanzi allo specchio, ed aveva tirato fuori il suo arsenale di trucchi, tutti rigorosamente comprati con i suoi soldi, altri invece le erano stati regalati da Coco, la proprietaria di Amortentia.
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    Ah, quella ragazza era un tesoro! #ragazza?qualeragazza? Ma non riusciva a non notare un accenno di tristezza nel suo sguardo chiaro che così attentamente fissava la superficie dello specchio tra una pennellata di trucco ed un'altra. Forse più che tristezza, sarebbe stato normale parlare di nostalgia. Il periodo natalizio le ricordava i giorni trascorsi con sua nonna, e stentava a crederci, e persino lei avrebbe preferito non fosse così ma... Le ricordava anche suo padre. Quell'uomo che si era costretta ad odiare, ma che comunque non riusciva a non amare. Sospirò domandandosi tra sè come fosse possibile non riuscire a smettere di amare una persona, nemmeno dopo tanto dolore e tante delusioni. Probabilmente i suoi pensieri tristi avevano attirato l'attenzione di Jericho che era comparsa sulla soglia della porta e poi si era avvicinata a lei, abbracciandola. Dai, ti divertirai Le aveva sorriso, accarezzandole una mano con movimenti leggeri. Come avrebbe fatto senza di lei quella sera? Ma poteva capire il suo rifiuto a parteciparvi, aveva capito gli strani comportamenti della sua amica durante le lezioni di Henderson. Quel Natale si era rivelato ricche di sorprese, molte delle quali non si erano trovate impacchettate sotto l'albero. Jericho le aveva confessato una cosa che l'aveva...scioccata? Lasciata secca? Insomma, non si sarebbe mai aspettata che Jericho fosse la sorella di Nathaniel. Ne si aspettava che non fosse in buoni rapporti con lui, che stava cercando di recuperare la sua fiducia e gli anni persi. Aveline confidava che tornassero in pace, qualsiasi cosa ci fosse dietro ma non era così semplice, non lo era davvero mai.
    Aveva salutato i suoi amici, augurando loro di divertirsi, li aveva salutati come se quella fosse l'ultima volta. Ma era così Aveline, riusciva a farsi prendere dall'ansia in un modo straordinario ed anche le cose che sarebbero dovute essere più belle e semplici riuscivano a diventare faticosamente difficili. Erano quasi le ventuno, quando Lydia Hadaway bussò alla porta degli appartamenti di New Hovel e fu proprio Aveline ad aprire e salutarla, facendole anche gli auguri di Natale, visto che non aveva potuto farglieli il venticinque. Le avevano sconsigliato di far volare gufi in quella data, a causa del troppo afflusso di lettere, e poi Aveline non avrebbe nemmeno saputo dove reperire un gufo da utilizzare. Nemmeno quelli della guferia erano disponibili, perché i ragazzini rimasti al castello approfittavano dell'assenza di gran parte del personale scolastico per bullizzare i babbani rimasti a scuola. Tanti auguri le baciò le guance e si guardò le spalle, alcuni studenti si erano avvicinati per salutare Lydia. Non accennò ad il regalo che le aveva comprato e che ancora non aveva avuto occasione di darle. Glielo avrebbe dato quando l'avrebbe rivista in in occasione meno...impacciata. Va bene il mio vestito? Le domandò indicando il proprio abito la cui parte superiore era realizzata in pizzo semitrasparente sulle spalle e che diventava più corposo sul seno, la gonna nera partiva da sotto il seno ed arrivava sotto il ginocchio. Ovviamente Lydia era bellissima come sempre, ed Aveline non mancò di sottolinearlo, mentre si avviavano nel vialetto della struttura. Sei pronta? Le porse la mano che Aveline afferrò prima di annuire e chiuse gli occhi, preferendo non farsi venire un gran mal di testa per il vorticare che la smaterializzazione avrebbe creato. Erano dinnanzi ai cancelli della Villa degli Hamilton, ed Aveline si sistemò i suoi speciali orecchini, ed al tempo stesso la collana. Sembra un palazzo reale. Commentò sperando che Jericho la stesse già ascoltando. ERA IN MISSIONE. È...incredibile. Si fecero aprire dal guardiano della Villa ed ebbero accesso ai giardini, e che giardini! Varcando poi l'altro dell'abitazione, qualcuno di non meglio identificato domandò loro se volevano lasciare la giacca, ed Aveline gliela porse ringraziando. Guardandosi intorno potè riconoscere alcune persone a lei famigliari. Jayson, per primo, e sì Aveline è maggggica e lo riconosce tra i tanti (?) Si avvicinò a lui per salutarlo, nonostante non fosse passato troppo tempo dall'ultima volta che lo aveva visto. Buonasera. Gli sorrise slanciandosi verso di lui per baciargli una guancia. Poi si guardò intorno, riconoscendo Nathaniel, che l'aveva invitata e lei non aveva ancora ringraziato. Ci ribecchiamo, non scappare. Disse a Jay, e si avvicinò a Nathaniel che si trovava a due passi dal fremello, comparendogli alle spalle. E cosa avrebbe dovuto dire? Come avrebbe dovuto chiamarlo fuori da scuola? Avrebbe dovuto dargli del tu? Insomma, era già stata ad una festa con lui, ed aveva preso confidenza tanto da rimettergli sulla giacca. Quella sera non sarebbe andata così, Aveline ne era sicura. Nate? Ok come inizio poteva andare, in fondo non poteva certo chiamarlo professore, nemmeno fosse in gita scolastica. Nathaniel era un nome troppo lungo, ed Aveline non era sicura che sarebbe riuscita ad arrivare alla fine di quel nome senza complicazioni (?) Nate avrebbe dovuto cogliere al volo il suo imbarazzo, palesato nel suo volto arrossato dalle circostanze. Era così Aveline, senza le sue converse non si sentiva se stessa e provava un profondo disagio. Bel vestito! commentò, stupida. In quel momento arrivo Rea, la padrona di casa, che chiese a Nate di ballare. Aveline ci avrebbe anche provato a salutarla ma si sentiva leggermente a disagio dinnanzi alla mora. Lydia era ancora a suo fianco ed in qualche modo dava ad Aveline sicurezza. Guardandosi intorno, la sua attenzione venne attirata da una figura che non le era sconosciuta, ma che al tempo stesso non riusciva a collegare ad un evento passato. Affiancava Jeremy, che Aveline conosceva da Hogwarts, così come Todd, ma...Dio, lei chi era? La vedeva, la conosceva, ma non riusciva ad associarla a nessun contesto. Una cosa era sicura, le suscitava non pochi brividi. Quando un cameriere le passò di fianco, porgendo un vassoio con dello champagne, Aveline ne prese un calice. "Vacci piano e ricordati la giacca vomitata di Nathaniel"
    the heart is deceitful above all things,


    Allora cito Jericho (?), poi parla con Lydia, Jay, Nate, vede Run (la sua adescatrice) ma non riesce a ricordare bene (?)

    QUI Potete leggere i commenti della Base a New Hovel #yez #totallyspies


    Edited by shane is howling - 16/12/2015, 21:10
     
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    Come aveva potuto anche solo pensare di mandare avanti quella sua sceneggiata per più di una manciata di giorni? Seduto a quella tavolata imbandita, con l’arrivo ritardatario di Run a riempire la stanza di un rinnovato chiacchiericcio esaltato e mentre gli ritornava alla mente il ricordo di quei pochi giorni ad Hogwarts nei quali sembrava così convinto a restare nel Castello per le vacanze, non poteva che dar ragione alla ragazza che nel frattempo prendeva posto con loro: era stato, come lo definiva lei, un pirla. Non che avesse ceduto subito, aveva avuto bisogno del suo tempo per pensare, schiarirsi le idee, ponderare bene la situazione. E se Run non fosse tornata? Se la sua fosse stata una sporadica visita e nient’altro? In cuor suo lo sapeva che l’avrebbe fatto veramente, che non era una delle sue solite prese per il culo e che ci sarebbe stata, altrimenti, e di questo ne era convinto, non avrebbe avuto nemmeno il coraggio di rifarsi viva: lui, per esempio, non l’avrebbe avuto. Eppure il dubbio c’era stato, e con esso il timore di stare sotto quel tetto con la sua famiglia senza la ragazza perché, per quanto fosse costantemente lui quello che ci rimetteva di più stando per un prolungato periodo di tempo in compagnia del fratello, per quanto fosse lui a contare i lividi, i graffi e le volte che qualcosa gli era caduto addosso, per quanto ancora, nonostante tutto, ci tenesse a fare la vittima della situazione, mosso da quell’inadeguatezza e quell’astio -che sapeva benissimo essere ingiustificato- i quali lo accompagnavano ad ogni passo che muoveva nella casa di Bradley, vedeva negli occhi di Ian la sofferenza, la stessa che provava Jeremy eppure diversa in una maniera che il Tassorosso non poteva capire a fondo. Eppure, la sua, non poteva sopportarla nemmeno quando era taciuta, figurarsi messa in bella vista, sotto gli occhi della madre: Todd era il Milkobitch sorridente, quello dolce e premuroso, e già vederlo -quelle poche volte che poteva dire di vederlo- ad Hogwarts, incupito e silenzioso, triste, gli faceva male. Aveva voluto riporre, comunque, la sua fiducia nella sorella, sperando che questa mantenesse la promessa fatta. Non poteva lasciarlo, non anche lei: avrebbe avuto comunque Todd, avrebbe avuto Bradley, ovviamente, ma già i nomi delle persone che, in sedici anni, l’avevano abbandonato erano tante e di certo non voleva che quello di Heidrun si unisse a questi. Ma il suo arrivo, a Natale, rese tutti i suoi dubbi vani e gli fece constatare che, in fin dei conti, era valsa la pena prendere l’ultimo biglietto che potesse portarlo a casa, il pomeriggio della Vigilia, per giunta senza dire nulla a nessuno –a meno che Run non avesse fatto la spia. Surprise, (milko)bitches. «Todd ha portato un’amica» E poi, come poteva resistere al fatto che, una volta riunitasi la famiglia, ci sarebbe stata immancabilmente, come sempre, come ogni giorno che i tre Milkobitch avevano passato insieme, l’occasione per screziare in qualche modo il rosso? Non lo facevano apposta, era lui a servirle sempre su un piatto d’argento, come se fosse lì ogni qualvolta con il suo faccino lentigginoso a dir loro “ora, mettetemi in imbarazzo”. Sheridan era stata il trampolino di Jeremy il quale, se voleva tornare ad una parsimoniosa normalità e non rinchiudersi in camera sua come era stato solito fare il primo periodo di permanenza in quella casa e l’ultimo in particolar modo, aveva bisogno di vedere il viso del fratello assumere quelle gradazioni di rosso che lo facevano sembrare più un semaforo che un essere umano. Ovviamente aveva trovato nella Lestrange, da quando era tornato a casa e trovandosela lì senza sapere nulla del fatto che avrebbero avuto lei come ospite, un’ottima alleata in quella crociata: seppure potesse sembrare una ragazza antipatica e odiosa il Tassorosso, nonostante non potesse vantare di conoscere lei come altri suoi concasati, quali per esempio Tyreek e Balthazar, non l’aveva mai giudicata in quel modo. Sì, non era esattamente quello che si definirebbe uno stinco di santo, ma ci poteva andare d’accordo, dopotutto. Ma questa, stavolta, era finita insieme a Todd nel mirino dei Bitch-poco-Milko, e la presenza di Run faceva al caso suo. Accennò appena verso di lei un sorrisetto, prima di venir fulminato da Bradley che, sotto sotto, non poté comunque trattenere gli angoli della bocca che si prodigavano in un tremolante sorrisetto: era bello veder crescere il proprio bambino #wat. Aveva però scordato di fare mente locale sulla bastardaggine della Crane che, più volte di quanto non volesse, rivolgeva a lui. «Te quand’è che ti decidi a portare un’amica? Possibilmente che non si chiami Maria, quella la conosciamo già» Lurida-sgualdrina-dormi-con-un-occhio-aperto-che-stanotte-fai-una-brutta-fine-ah-non-dormi-da-noi-fanculo-tanto-un-modo-lo-trovo-comunque «Chi è Maria?» Nascose la mano con la quale aveva appena tentato di uccidere la sorella con una potentissima pallina di pane, sperando che nessun’altro dei presenti, intento nel pranzo natalizio, si fosse accorto di nulla. «Chi?» Prese il vino sul tavolo, di norma proibito a lui ed Ian che, agli occhi della donna di casa, erano ancora troppo piccoli per sperimentare i piaceri dell’alcool -illusa- ma che per l’occasione aveva concesso loro. «Maria» Ripeté Todd, prendendosi un’occhiataccia dal fratello. Tracannò il vino ( che senza che Bradley potesse rendersene conto aveva colmato il bicchiere di Jeremy già quattro volte ) guardando prima furente gli occhi verdi dall’altra parte del tavolo per poi portare le iridi azzurre sul volto lentigginoso della donna. «Boh, secondo me ha bevuto troppo, non sa quello che dice»
    Era così normale da sembrare... irreale. Si aspettava che, da un momento all’altro, tutto potesse svanire: Run, Sheridan, il Natale, e restare soli loro, nella consueta routine alla quale erano abituati e che l’aveva fatto allontanare minacciosamente. Sapeva che, prima o poi, sarebbe successo, o meglio lo temeva, ma non poteva permettersi di rovinare quella serenità appena riacquistata da tutti i Milkobitch. Era con loro, tutti, era così normale e perfetto. Ok, magari normale no: Todd aveva portato una ragazza ( Morgan, ancora non ci credeva -tant’è che le chiese «Dicci la verità: ti ha minacciato per passare le vacanze qui?» ammiccò all’ex serpe, leggermente paonazzo in volto-, Run era scomparsa per tre fuckin’ anni, lui aveva iniziato a fumare ed i due milkoBitch dai capelli corvini erano meno sobri di quanto nessuno dei due osasse ammettere. «Ehm... Sì, l’oca...» E infatti, era tutto troppo normale, era successo qualcosa, l’aveva vista disturbata dopo il suo intervento. Ma da cosa, in particolare, non lo capì. Non doveva forse dire che era un classico del Natale made in Milkobitch? O l’aveva turbata altro? Raccontò la famosissima (?) storia dell’oca che lascerò raccontare a Todd o Sheridan perché ad una certa ora la mia inventiva se ne va e questo non rientrava nel mio piano, non risparmiandosi tra una parola e l’altra bocconi di roast beef e purè di patate e fuggevoli sguardi alla sorella. Solo quando questa, poco dopo, si alzò barcollando per prendere una boccata d’aria e raggiunse la veranda, decise di lasciare il tavolo, raggiungendola e trovandola appoggiata al parapetto. Si avvicinò senza proferir parola fin quando non le fu accanto, tirando fuori dalla tasca il kit. «Non so per cosa io dovrei farmi perdonare» iniziò, mettendo tra le mani della ragazza l’erba. «ma questo credo sia un buon metod- che c’è? Oh, non guardarmi così!» La squadrò di rimando, quando questa lo trucidò con gli occhi come a volerlo ammonire. Pff, come se proprio lei potesse fare la moralista. «Ti presento CanNabis. Non vuoi salutarla?» #mawtf Le sorrise, contagiandola con quel riso seppure sulle labbra di lei sembrò vagamente forzato, seppure di solito fosse il contrario. Non voleva vederla triste, non per qualcosa che forse lui aveva fatto/detto/pensato/boh senza rendersene conto. Non voleva farla andare via.

    «TOOOOOOOOOOOOOODD» Spalancò la porta della sua camera, richiamando l’attenzione del fratello dall’altra parte del corridoio. «HAI SENTITO IL MESSAGGIO?» «MI È CADUTO IL... IL... COME SI CHIAMA?» «TELEFONO TODD, TELEFONO. STASERA ANDIAMO AD UNA FESTA CON RUN, CHIAMA SHERIDAN» «COSA?» «COOOOSA? E ABBASSATE LA VOCE, LA NONNA DORME» «STAI URLANDO ANCHE TU» «SI BEH... VABBE’ ANDATE» «GRAZIE» Le voci di Ian e Bradley si sovrapposero a quella di Jeremy per qualche secondo, prima che ognuno rientrasse nelle sue stanze, in attesa di quel Capodanno. E, strano da dire, Jeremy ne era entusiasta. Non era un amante di cose pacchiane come feste a tema, in maschera o semplici, banali e comunissime feste; non era tantomeno il tipo da voler a tutti i costi andare in locali come il Fiend, preferendo restare nel proprio antro buio e solitario anche mentre nel cielo si disegnavano pirotecnici disegni luminosi: non li riteneva una perdita di tempo od un dispendio di denaro, semplicemente li trovava noiosi, inutili, e lo stesso evento l’avrebbe potuto passare in tantissimi altri modi. Eppure, quella volta cedette: sarà il fatto che ci sarebbe andato con i fratelli, sarà che Run sembrava quasi contenta di quella festa, sarà che, quando ella gli porse il biglietto, riconobbe nel nome della Villa nella quale si teneva tale evento una sua amica Tassorosso, sarà che sperava ci sarebbe stato alcool e roba varia, sarà che se fosse venuta Sheridan non si sarebbe voluto far mancare una telecronaca in diretta di tutti i movimenti dei due “piccioncini”, ma non vedeva l’ora di varcare la soglia di quella casa.
    «Non sono sociopatici, Roy» Rispose ad Heidrun, combattendo la propria lotta personale contro le formalità e risultandone quasi vincitore. «Una mia amica è una Hamilton, ma è tranquillissima, non so come ti sia venuto in mente -cazzo, cravatta di merda, ti odio- di dire che sono dei bastardi» Povero, ingenuo, ignaro, stolto Jeremy. La ammonì, sistemandosi la cravatta di merda e facendo un giro su sé stesso, lasciandosi osservare dai fratelli. Indossava uno smoking blu, semplice, una camicia azzurro chiaro che, secondo i suoi familiari, si intonava ai suoi occhi, ed una cravatta panna... credo... con delle... linee? Boh, era una stupida, inutile, odiosa cravatta, qualsiasi fosse stato il motivo su di essa l’avrebbe odiato a prescindere. «Vado bene?» Temette per la propria vita quando Todd gli disse che aveva il nodo messo male e si propose di sistemarglielo ma, dopo aver innalzato sottovoce varie preghiere a Morgan ad occhi chiusi chiedendogli di non farlo morire strozzato, non riportò nemmeno un graffio. «Ti giuro che appena potrò usare la magia fuori da Hogwarts ti trasformo in un portachiavi» Sussurrò alla ragazza, alludendo alla non-sfortuna che portava loro con la sua sola presenza. Le lanciò un bacio, ringraziò Todd dell’aiuto e scese in cucina, incrociando una preoccupata Bradley. «Tranquilla, cercheremo di sopravvivere. Non toccheremo alcool, non fumeremo e non accetteremo caramelle dagli sconosciuti» Si preservò dal dirle che aveva anche con sé le precauzioni da dare al fratello nel caso la situazione si fosse fatta incandescente: era comunque il piccolo Todd, quello che anche solo all’apparenza sembrava essere di gran lunga più innocente di Jeremy, non voleva turbarla. Aspettò i fratelli fuori dalla porta, nascosto da qualche arbusto al freddo e al gelo a fumarsi una sigaretta che gettò non appena li sentì aprire l’uscio. «Wow, ragazzi. Fantastici» commentò, prima di precedere Run verso casa di Sheridan, come se potesse guidarli in quell’avventura. Seguendo le indicazioni della ragazza, giunsero al luogo prestabilito per l’incontro, stringendosi nel cappotto. «Dire ”guardi”, nel caso tuo, è un eufemismo, ma sì, segui i consigli di tua sorella» disse al fratello, avvicinandosi poi alla Crane tenendo gli occhi puntati però sulla Lestrange in lontananza. «Io nel dubbio ho portato i preservativi»
    Considerando che non si sa come i nostri eroi fossero arrivati a destinazione, dopo un po’ si ritrovarono dinnanzi al grande cancello del castello Hamilton. «Sorella mia, non so come tu abbia avuto i biglietti per questa festa, ma mi puzza di Yakuza» E i suoi sospetti si sarebbero fatti più fondati ogni passo che muoveva verso la villa ( pentendosi di essere tornato imberbe per l’occasione, considerando che ora sembrava molto più piccolo della gente che frequentava quell’ambiente ) se solo di giapponesi ve ne fossero stati di più: comunque riteneva che fosse un covo di mafiosi e che li avrebbero presi a colpi di mitra per i fuochi d’artificio della mezzanotte. Restò attaccato al gruppo come una cozza allo scoglio, sperando che lì nessuno fosse ghiotto di zuppa di cozze perché non era psicologicamente pronto a morire. Osservò la bionda che, prima tra molti -«Ma hai fatto veramente la bella vita questi anni?»-, si avvicinò al gruppo abbracciando Heidrun. Jeremy si presentò con un sorriso, mentre nella sua mente balenava una sola parola, in quel momento: MILF. Quando questa si allontanò, prese un bicchiere di champagne mentre si avvicinava a loro un’altra bionda, all’apparenza meno socievole della donna di poco prima e che venne presentata poco dopo, quando al gruppo già corposo si aggiunse un uomo barbuto, dietro il quale vide la sagoma di Kendall allontanarsi. La salutò con un gesto della mano, mentre apprendeva che la psicopatica era una certa Emerald Callaway mentre il giovane Babbo Natale era Shia Hamilton. Dall’aspetto di sociopatico non aveva nulla, e lo fece intuire alla sorella con un’alzata di sopracciglia, come a volerle dire che aveva ragione: gli Hamilton non dovevano essere così male. Due ne aveva visti e sembravano persone a posto, senza contare gli altri due scesi dalle scale poco prima che sembravano due signori d’altri tempi. Allungò la mano verso Shia, afferrandola e stringendola con forza. «Jeremy Milkobitch, piacere» Nemmeno il tempo di lasciare la presa, che tutto si fece più... «Mh» Sì, si fece più mh, senza dubbio. Strabuzzò gli occhi, fin quando non decise che tenerli praticamente chiusi e vedere il mondo tramite una fessura era molto più bello. Sembrava quasi fosse orizzontale, e che il mondo così fosse migliore secondo una strana logica che lo voleva vedere, evidentemente, a terra, orizzontale. Rise sguaiatamente di quel pensiero, mentre continuava a guardare -se quello era guardare- l’Hamilton-, voltandosi prima a destra, senza riconoscere nessun volto con il quale ridere di quella supposizione, poi a sinistra, continuando a ridere in faccia ad Heidrun finché non si accorse che non l’assecondava. Forse. Non capiva. «Heidi non guardarmi così» Ok, c’era qualcosa che non andava, tipo il fatto che stava girando tutto vorticosamente. Si immaginò Shia ridere sotto i lunghissimi baffi mentre Jeremy, nel disperato tentativo di non cadere, poggiava il gomito sulla spalla della Crane, continuando a sorridere. «Che cazz st sccdend?» mugugnò a denti stretti all’orecchio di lei, continuando ad osservare la sala gremita di gente che si deformava. Dio, era strafatto: non che la cosa gli dispiacesse, ma magari prima di esserlo avrebbe voluto fumare, o bere, qualcosa. L’aveva preso alla sprovvista. Maledetti Hamilton sociopatici bastardi. Si girò, alzando leggermente il mento e rivolgendo un sorriso a qualcuno che gli sembrava l’avesse salutato. «Chi era?» «Chi?» intervenne una voce, non meglio identificata, che probabilmente sentì solo lui. «Boh»

    «Tranquilla, cercheremo di sopravvivere. Non toccheremo alcool, non fumeremo e non accetteremo caramelle dagli sconosciuti» Tranquilla Bradley, sul serio.
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    Gli hanno tagliato i capelli. Del caschetto biondo che l'aveva caratterizzato per i primi anni della sua vita é rimasta solo una zazzera quasi militaresca. É ora di crescere, Frederick. Cosí va il mondo, mettitelo in testa. Buon Natale anche a te, papá. Si raggomitola ancor di piú, per quanto possibile, schiacciandosi contro la parete spoglia della camera, sollevando il viso per osservare la neve. Cade ininterrottamente ormai da giorni, ha imbiancato ogni cosa e a guardare fuori sembra quasi che qualche buontempone abbia deciso di cancellare il paesaggio circostante. Nemmeno a Freddie dispiacerebbe dare un colpo di spugna alla sua vita, cancellare quanto giá scritto dai suoi genitori sulla lavagna che sarebbe dovuta appartenere a lui e lui solo. Ma non sa come fare. Per quanto costretto dagli eventi a modificare la propria indole quieta e pacifica, Frederick Hamilton é solo un bambino. Ha nove anni, un anno meno di Gemes quando aveva deciso di fuggire. Proprio da quella stanza, saltando da quella finestra. Erano passati ormai cinque anni, ma per il bambino era semplicemente impossibile dimenticare: Freddie ricordava bene i dettagli, sapeva recitare poesie a memoria dopo averle lette una sola volta. Dettagli, poesie e l'abbandono di suo fratello. Lo odiava, da morire, come solo un ragazzino la cui idea di giusto e sbagliato sia ancora acerba sa fare. E al tempo stesso non riusciva a smettere di volerlo nuovamente accanto, di sentire ancora la sua voce sussurrargli che andava tutto bene, di abbracciarlo. Era una cosa che non aveva mai potuto fare, con quella porta di legno sempre chiusa a dividerli. Freds? Posso entrare? Ti ho portato un po' di dolce.. Sussurrava, Char. Per non farsi sentire dai genitori, al piano di sotto. Per non far capire loro che, esattamente come faceva con Gemes, stava trasgredendo alle regole.
    Benvenuti in casa Hamilton, dove i bambini vengono messi in punizione il giorno di Natale e torturati con stupidi test a Santo Stefano. A Frederick non era stato concesso di partecipare alle feste, per quell'anno, almeno finché non avesse superato le prove dimostrando di possedere la magia. Fottuta magia, quanto avrebbe voluto potersela strappare dal petto, estirparla come un'erbaccia parassita. Era un piccolo segreto, quello, tra Freddie e Char. Amava sua sorella, con ogni fibra del proprio corpo e del proprio cuore, non solo per il legame famigliare che li univa: lei era tutto ció che gli rimaneva. Ogni volta che la guardava poteva riconoscere se stesso nei suoi occhi chiari, nei capelli biondi, nella pelle chiarissima. Lei sapeva. E aveva mantenuto il silenzio solo per farlo contento. Char era tutto e Frederick si aggrappava a lei come un malato di enfisema alla bombola d'ossigeno - #wat -. Peccato che non fosse sufficiente, non piú.
    Si volta, la guarda, sa che é giá entrata senza aspettare il permesso, e Char sa che non ce n'e bisogno. É l'unica persona che vorrebbe vedere, in quel preciso momento. Ha in mano un piatto con dentro una fetta di dolce, un pacchetto incartato alla bell'e meglio nell'altra. Gli si siede accanto, sul pavimento, e per qualche minuto nessuno dei due dice una parola. Sono solo due fratelli che soffrono in silenzio, guardando la neve cadere fuori dalla finestra, pensando entrambi a qualcuno che c'era e un attimo dopo é sparito nel nulla. É la bionda a rompere il silenzio per prima, appoggiando il pacchetto sulle gambe del fratellino. Buon Natale, cucciolino. Gli passa una mano sui capelli ora corti, senza riuscire a nascondere un pizzico di malinconia, forse persino nostalgia. Buon Natale, Char. Invece di sottrarsi al suo tocco, lamentandosi da bravo fratellino minore per le smancerie e quel nomignolo insopportabile, Frederick le si accoccola contro. Ha raggiunto un limite, quel bambino dall'aria mite. Un limite oltre il quale non pensa seriamente di poter continuare. Diglielo Freddie. Per favore. Manca poco ormai.. la lettera arriverá anche a te e allora sapranno.. La voce della sorella é di nuovo un sussurro, poi si spezza. Non puó fingere per sempre, questo lo sa anche lui. Ma sa anche qualcosa che Char sembra ignorare, o che ha volutamente deciso di eliminare dalla lista delle possibilitá. Solleva lo sguardo, cerca di incrociare il suo per specchiarvisi dentro, vedere se stesso. É lo stesso identico colore. Da qualche parte, nemmeno troppo lontano da lí, vive un ragazzino con occhi quasi identici, nato il suo stesso giorno, con due sorelle gemelle. Ma Amos Hamilton ha ancora un po' di luce nello sguardo, la possibilitá di vivere la propria innocenza. Frederick ormai era troppo mainagioia per poter utilizzare la carta infanzia Le sorride, ma é un sorriso stanco, troppo adulto, per niente adatto alla sua tenera etá. Non aspetteranno la lettera, lo sai.. Avevano aspettato a lungo con Gemes, chiudendolo in quella stanza come se la solitudine l'odio avessero potuto far germogliare un potere che il ragazzino non aveva, cosa poteva spingerli a perdere nuovamente tempo con una causa persa? Grazie per il regalo, Chacha. Si allontana da lei, giusto qualche centimetro, e in quel momento preciso qualcuno urla. Dal piano di sotto, sembrerebbe. Una voce maschile, bassa e profonda, intima alla ragazza di scendere, subito. Frederick pensa che la fara pagare, ad entrambi. Ma é solo un bambino. Solo un bambino, che Charmion non vedrá più. Grazie..


    ***


    Grazie per il regalo. Riemergere da un sogno a volte é come venire al mondo. Qualunque cosa questo significhi, fa molto poeta maledetto e oh capitano, mio capitano (?). A Jayson non rimaneva molto, solo quell'unica frase mormorata a fior di labbra mentre riapriva gli occhi lentamente, nella penombra della sua stanza. Con un peso sul petto. In parte era dovuto alla malinconia e alla tristezza che il sogno gli aveva lasciato come appiccicati addosso, simili a residui di zucchero filato sulle dita, e in parte alla grossa palla di pelo ramato che aveva ben pensato di accoccolarsi proprio sul suo diaframma, rendendogli quasi difficile respirare. Tentó di mettersi a sedere, ricevendo in cambio un minaccioso soffiare con tanto di canini in bella vista, un ammonimento a fare il bravo e rimanere immobile. Sua maestá non voleva essere disturbato durante il sonno, pena una punizione esemplare per il povero plebeo disobbidiente. Smettila di soffiarmi, stupido gatto. O dico a Rea di tagliarti i viveri. Allungó una mano, grattando con delicatezza la testa del gatto, gesto che questi accettò con una breve serie di fusa, prima di soffiare nuovamente scoprendo i denti aguzzi. Niente da fare, era il suo mood base e non lo si poteva cambiare, solo accettare. La sua famiglia: un evil cat, due fremelli e una serie di persone che lo conoscevano ancora troppo poco. Jayson ancora non lo sapeva, ma c'era qualcun altro nella sua vita, qualcuno a cui un tempo era stato indissolubilmente legato. Qualcuno che lo conosceva bene, ma di cui non ricordava nulla, a parte qualche sprazzo di sogno, reminescenze. Qualcuno che lo credeva morto da tempo. Sempre piú #neverajoy. Spostó Giuliano sollevandolo di peso affondando entrambe le mani nel pelo folto e morbido, sordo alle proteste del felino che comunque si riaddormentó all'istante non appena tornato con le zampe sul letto. Stava per cominciare una festa a villa Hamilton. Anche dal piano di sopra poteva sentire il continuo via vai dei camerieri intenti a sistemare gli arredi per accogliere gli ospiti, il tintinnare dei bicchieri di vedro quando venivano posati sui vassoi. Anche il chiacchiericcio nel corridoio fuori dalla sua stanza era aumentato esponenzialmente, nell'ultima mezz'ora. Lanció un'occhiata fugace al completo scuro che l'attendeva appeso all'anta dell'armadio, ancora protetto dal cellophane azzurro insieme ad una camicia perfettamente stirata e ad una cravatta in tinta. Era stata Rea, a farglielo lasciare in camera. Non le aveva detto di essere a corto di vestiti adatti, ma evidentemente l'aveva intuito da sola. Dopotutto, bastava guardarlo - lui e i due sacchi con cui si era presentato alla porta della villa - per capire che non aveva un completo decente con sé. Escludendo quello blu elettrico indossato durante l'ormai famoso ed indimenticato Fairytale Party. Di quella serata ricordava un bacio e quel vestito. Il primo rappresentava un pensiero sempre piacevole, in grado di risollevargli - #guesswhat - il morale anche nelle giornate piú storte, mentre il secondo.. diciamo che lo conservava solo come dimostrazione d'affetto nei confronti di Stiles.
    Si era giá tolto il pensiero di una doccia ristoratrice, sotto il cui getto aveva passato piú di mezz'ora prima di cadere tra le braccia di Morfeo e sognare sua sorella - #bruh -, il che gli dava la possibilitá di prendersela con tutta calma. Se proprio doveva partecipare alla festa, ritrovandosi in compagnia di un numero indefinito di persone piú o meno sconosciute, preferiva quantomeno affrontarla con un minimo di serenitá. L'alcool avrebbe fatto il resto. Aveva appena sistemato i lembi della camicia bianca dentro i pantaloni scuri del completo, allacciata fino al penultimo bottone, quando la voce inconfondibile di Rea lo richiamó dal corridoio. Non riusciva davvero a capire perché tutti lì dentro insistessero a rivolgersi a lui con quel nomignolo: suonava quasi infantile, persino intimo , il modo in cui ti rivolgeresti ad un bambino. Non sembrava esserci scherno nel tono di voce utilizzato dalla Hamilton, dettaglio che pareva rendere ancora piú surreale l'intera situazione, almeno per Jayson. Si affacció alla porta aperta della propria camera, giusto in tempo per vedere la ragazza rientrare nella propria, con uno strascico di tessuto scuro e luccicante alle spalle. Non era in grado di definire il rapporto che aveva con Rea Hamilton. Né il sentimento privo di nome provato nei confronti della giovane. La conosceva a malapena, sapevano uno dell'altra il minimo indispensabile, eppure... eppure. Era passato qualcosa, tra di loro, quella volta nel Labirinto ed era stata proprio la sensazione di familiaritá a spingerlo verso Villa Hamilton, lanciandosi nella tana del bianconiglio con uno sprezzo del pericolo che non gli apparteneva. O, per lo meno, non apparteneva a Jayson Matthews.
    Apri gli occhi, Freds.
    Annuí, ormai abituato - assuefatto sarebbe il termine piú appropriato - a quella voce infantile e al tempo stesso autoritaria. Aveva persino smesso di chiedersi se gli esperimenti nei laboratori, oltre alla telecinesi, gli avessero lasciato anche una bella malattia mentale, di quelle serie. La quotidianitá di Jay, negli ultimi tempi, appariva cosí surreale che niente sembrava piú essere in grado di squoterlo. Forse era quello il motivo per cui la famosa chiacchierata con Rea sulle motivazioni per le quali la ragazza l'aveva voluto con sé non era ancora andata in porto. Avrebbe aperto gli occhi, come no. Non aveva ancora idea del come o del quando, ma ci sarebbe riuscito: con calma e per favore. Raggiunse la camera di Rea, soffermandosi sull'uscio mentre lei gli dava le spalle, intenta ad osservare qualcosa che Jay non poteva vedere chiaramente. Foto, o cartoline. Erano rari i momenti in cui gli capitava di trovarla così assorta e non intendeva interromperne uno di proposito. Rimase in silenzio, la spalla destra appoggiata allo stipite, in attesa di incrociare quegli occhi scuri e profondi nel grande specchio a parete. Lo stesso colore di base, ma tonalitá completamente differenti. Non era forse quello il live-motiv che accomunava gli abitanti di Villa Hamilton? Tutti legati da un filo sottile e invisibile ai piú, che li teneva ben saldi con una forza per giovane incomprensibile, e impediva loro di sfaldarsi. Poteva essere semplicemente Rea, il collante, ma qualcosa gli suggeriva che ci fosse di piú, nascosto sotto la superficie. Avanzó di qualche passo, quando lei lo invitó ad entrare nella stanza, e annuí in risposta alla sua richiesta. Non faceva parte di quelli che smaniavano per avere le attenzioni della Hamilton, Jayson. Ma questo non cancellava il fatto che essere utile in qualche modo lo facesse sentire meglio. Piú presente. Piú vivo. Hai scelto un bel vestito. Rimase concentrato sui lacci, mentre parlava, stringendoli quel tanto che bastava per impedire all'abito di cedere sotto il peso della stoffa e del bustino durante la serata, senza comunque soffocare la padrona di casa, Quella sì che sarebbe stata una gran bella scena, davvero divertente. Il tuo e il mio. Grazie per avermi tolto dall'impiccio di chiederne uno in prestito a Gemes. Portò a termine la sua opera indietreggiando di un passo, osservando con aria critica l'intreccio creatosi sulla schiena nuda di Rea, Nessuno avrebbe potuto mai negare il fascino emanato dalla ragazza, quella forza attrattiva che andava ben oltre la perfezione del suo corpo o la profondità dello sguardo, ma Jay non riusciva a vederla in quel modo. Osservava la sua pelle e pensava a quella di Lydia, a come gli era sembrata calda e liscia, priva di imperfezioni, sotto i polpastrelli. Pensava ai capelli ramati, al profumo di vaniglia, ai grandi occhi verdi pieni di preoccupazione e tristezza. Era sulla Hadaway che si soffermava la sua mente, ogni volta che le permetteva di vagare, e per nessun'altra ragazza provava quella sensazione di vuoto, proprio al centro dello stomaco. Vuoto e calore, insieme, di continuo.
    «C’è qualcosa di così familiare in te» A lui lo diceva? A lui, che con quella sensazione di conosciuto doveva conviverci ogni santo giorno, senza potervi dare un senso, una spiegazione logica. Il cuore gli batteva più forte, iniziava la sua fuga con la minaccia di uscirgli direttamente dal petto, ogni volta che si imbatteva in uno di loro. E per loro intendo gli Hamilton. E per Hamilton intendo soprattutto Gemes, quel damerinobagasho maledetto. Giusto qualche minuto prima, mentre si recava in camera di Rea, aveva incrociato lo sguardo del ragazzo, e si era affrettato a distoglierlo. Perchè non poteva concedergli di vedere quanto il suo sorriso lo turbasse, fino a che punto fosse paralizzante il desiderio di parlare con lui e istintivo quello di tirargli una rastrellata sui denti. Buon Morgan, fai il tuo dovere, please. Non le rispose, limitandosi a fissare le immagini di entrambi riflesse nello specchio, sollevando il mento quel tanto che bastava per ritrovarsi occhi negli occhi, quando Rea con un passo gli fu davanti, le mani posate su ciascuna guancia. «Vuoi sapere perché ti ho invitato qui? penso che tu sia bellissimo.. e neanche te ne rendi conto. Hai due scelte, davanti a te: lasciare che il mondo ti cambi, o cominciare a cambiarlo. Non hai ancora scelto, JayJay, ma il tempo non è dalla tua parte. non farlo scegliere per te» Eccolo, il motivo per cui, appena uscito dal labirinto, si era diretto a Villa Hamilton, senza nemmeno passare dalla sua stanza per togliersi di dosso il ricordo doloroso misto a polvere e sudiciume di quei due giorni infiniti. Rea era capace di dirgli esattamente quello che aveva bisogno di sentirsi dire, aveva lo straordinario potere di mantenerlo ancorato ad un obiettivo, gli impediva di perdersi. Non servivano illusioni, o giochetti, con Jayson. Gli serviva solo un obiettivo, qualunque esso fosse. Annuì di nuovo, senza interrompere il collegamento creatosi tra loro, in un momento di sintonia che raramente la ragazza si permetteva di creare, se non tramite occhiate e cenni ai quali non seguivano mai spiegazioni. Non servivano. Il mondo ti ha già cambiato, Freddie. In peggio. non può cambiarti più di così. Il mondo non può cambiarmi più di così. La voce aveva ragione. Per qualche strana ragione era sicuro di aver già subito il peggio, il che rappresentava uno dei validi motivi per i quali insistere nel voler ricordare la propria vita precedente ai laboratori entrava di diritto nella lista delle peggiori idee di tutti i tempi. E se fosse stato ancora più #mainagioia di ora? Non voglio nemmeno pensarci.
    Si congedò, lasciandola sola quando il momento di accogliere i primi ospiti si presentò con uno scampanellio, accompagnato dall'improvviso vociare al piano di sotto, nel salone. Per fortuna, aveva Xavier: intercettò il fremello nel corridoio, dopo essere passato nella propria stanza per recuperare quanto ancora gli mancava del completo nero, ovvero giacca e cravatta, sventolando quest'ultima direttamente sotto la barbetta incolta del ragazzo. Dimmi che sai come si mette questa cosa. E che magari hai qualcosa per sopravvivere alla serata... Qualcosa. Dhroghe, Morgan santissimo, Dhroghe. Jayson scherzava, ovviamente. Beh, quasi. Più o meno. Ma magari anche no. Male che vada c'è sempre l'alcool, grazie alcool. Non gli restava che buttarsi nella mischia, sperando di arrivare all'anno nuovo senza essere rapito o torturato, e magari trovare un po' di tempo per trascinare Amos in qualche attività illegale. Non l'avrebbe mai ammesso a voce alta, ma adorava quel nanetto. Gli era affine, sebbene non riuscisse a capire in che modo: avevano caratteri diametralmente opposti, così come lo erano le loro caratteristiche fisiche. Amos Hamilton portava con sé l'innocenza di un bambino, il suo sorriso era in grado di sciogliere qualunque cuore, e possedeva quel genere di ingenuità capace di attirare le persone, piuttosto che allontanarle. Brodino era la luce, là dove Jay era il buio, sempre sulle sue, spesso distante, silenzioso e spezzato, proprio come lo vedeva Rea. Ah, se solo avesse saputo la verità, quanto lui e Amos fossero stati ad un passo dall'essere uguali, possibili gemelli mancati, simili non solo nell'aspetto ma anche nel modo di essere, nella capacità di dare amore e devozione. Ma il Karma li aveva fatti incontrare come sconosciuti, non come fratelli. Perchè karma's a bitch - non la montgomery eh -, si sa. Scese la scalinata principale con il fremello al proprio fianco, guardandosi intorno alla ricerca di volti conosciuti, finchè fu uno di questi a trovare lui: Aveline gli si fece incontro con la sua chioma ramata al seguito, inconfondibile. Non la vedeva da giorni, ormai, da quell'ultima lezione di Controllo dei poteri alla quale avevano partecipato insieme, e incrociare nuovamente quelle iridi chiare e un po' perse lo fece sentire subito meglio, più a suo agio, forse persino maggiormente propenso a divertirsi, cosa apparentemente obbligatoria ad una festa di quel genere. Buonasera. Ci ribecchiamo, non scappare. Dove vuoi che vada, Avelina? Il pensiero per poco non gli sfuggì dalle labbra, ma riuscì a trattenersi all'ultimo, regalandole un sorriso sincero quando la ragazza si chinò leggermente dall'alto dei suoi tacchi per sfiorargli la guancia con un bacio. Promesso. Mosse leggermente la testa, invitandola in quel modo a raggiungere il clou del party, al centro del salone, lì dove gli invitati si stavano radunando. Girò su se stesso, quando la ragazza fu scomparsa alla sua vista, sollevando il mento per intercettare il banco degli alcolici - con tanto di barista in divisa, #toohamilton - approntato dall'altra parte della grande stanza principale, ovvero la sua prossima e probabilmente unica meta. A mezzanotte e un minuto liberiamo Giuliano. Ho deciso di divertirmi, stasera. Diede un colpetto con il gomito destro al fianco di Xavier, certo che il fremello si sarebbe fatto un'idea di quale devastazione avrebbe potuto portare quel gatto se solo avesse deciso davvero di aprire la porta della propria stanza per farlo uscire. Nessuno avrebbe mai dimenticato il Capodanno a Villa Hamilton, a quel punto, poco ma sicuro.
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    allora, scusate il post terrible ma ho la gastrite #inforandomnonnecessaria
    jay si fa un bel trip sognando Charmion, poi parla con Rea, guarda male Gemes e lo maledice mentalmente, parla con Xavier, pensa romanticamente a Lydia e Brodino #wat, saluta Aveline e poi tenta di buttarsi sull'alcool.
     
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  10. delìght
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    dress - ATRIO - 21:00 - 31.12.2015
    CHARMION
    hamilton
    ✖ ✖ ✖ ✖ ✖ ✖

    AND THEN HE LOOKS AT ME, I SWEAR I CAN'T BREATHE .
    - 25 - DARK ARTS TEACHER - DELIGHT - EMPTY SOUL
    Sembravano passati pochi giorni da quando il sole caldo di Palma di Maiorca aveva battutto sulla sua pelle dapprima chiarissima, e divenuta poi dorata. Sembrava solo ieri che lei, Rea, Shia ed Anjelika erano saliti su quella bellissima nave da crociera per quell’altrettanto fantastico giro della costa spagnola e del Mediterraneo. “Sarà fantastico, vedrete” Aveva rispettato la sua promessa. Era stata una settimana fantastica che le aveva concesso di staccare dal lavoro almeno un po’, nonostante avesse avuto il lavoro sempre accanto a lei, dato che Anjelika era il suo “capo” oltre che amica. Ma sì, l’estate era passata fin troppo in fretta, l’autunno non lo aveva nemmeno visto ed il lavoro aveva ripreso ad essere il motore immobile ed unico della sua vita, i pensieri avevano riniziato ad echeggiare nella sua mente, ripresentandosi tutti insieme in particolare nell’attesa del Natale. Charmion odiava il Natale, ma non vi era una vera motivazione che spiegasse quest’avversione - o meglio, ci sarebbe anche stata se avesse avuto intatti i suoi ricordi, ma adesso poteva solo parlare di sensazioni - nè si poteva dire che fosse un odio giunto all’improvviso, no. Era stato maturato con il tempo, e ben ponderato finchè non si era radicato nel suo animo. Forse, dipendeva dal fatto che proprio in quella festività la famiglia Hamilton si riunisse come mai durante l’anno, e Charmion poteva percepire chiaro come una sensazione di brivido sulla spina dorsale la falsità di gran parte dei suoi parenti, dei quali forse l’unica persona che si sarebbe potuta salvare sarebbe stata Raine, ma lei non c’era stata per gran parte di quegli anni. Quando Charmion aveva diciassette anni e sua cugina era appena scomparsa, passare i Natali a casa con i genitori e gli zii erqua diventato quasi un’occasione di conforto, un momento in cui avrebbero potuto ricordarla, attimi in cui scambiarsi informazioni sulla sua scomparsa, ma poi tutto era diventato troppo triste, tutto era diventato fittizio e Char aveva smesso di partecipare a quelle giornate di festività, riuscendo sempre a trovare una scusa differente che la costringesse lontana da quella casa troppo vuota. Il lavoro era la scusa che preferiva, quella più vera. Non poteva dire di essere stata una buona figlia, per i suoi genitori, ma allo stesso modo sapeva che loro non avrebbero potuto lamentarsi perchè in fondo, nella sua freddezza glaciale, Charmion era stata per loro una figlia perfetta. Un ottimo soldato, un’estrema contraddizione. Ed ora erano morti, ed il Natale del 2015 aveva bussato alle porte dell’appartamento nuovo di zecca della ragazza. Ah, chi dice che la morte altrui non fa la felicità è proprio uno sciocco. O meglio questo Charmion andava a ripetersi da un anno, da quando i suoi erano morti in circostanze misteriose. In un modo straordinariamente anomalo, quel pensiero la rassicurava, le riempiva il vuoto cosmico lasciato dalla loro assenza. Erano morti per una giusta causa. A volte, si ripeteva che non avrebbe mai voluto fare la loro fine, non avrebbe voluto lasciare quella terra tanto presto, per il timore che le persone a lei vicine si comportassero con lei come lei si comportava con loro. Quanto era triste pensare di morire e sapere che una persona, probabilmente una delle poche che avrebbe potuto amarti, riusciva a coprire perfettamente la tua assenza facendo baldoria con la tua eredità? Che tristezza. Charmion si sarebbe assicurata che, se fosse morta, – ma quale sciocco avrebbe potuto provare ad ucciderla? – i suoi soldi sarebbero andati distrutti con lei. Nessuno avrebbe goduto del suo denaro, nè lo avrebbe speso per ricchi viaggi come lei faceva con quello dei suoi.
    Quel Natale però sarebbe stato diverso dagli altri, almeno in teoria. Da qualche mese sua cugina era tornata, da dove non lo sapeva, nemmeno quando per l’esattezza, e Charmion avrebbe finalmente avuto un motivo valido per festeggiare. Lo avrebbe avuto se avesse trovato il coraggio di contattare sua cugina. Non aveva avuto occasione di contattare Raine per sapere come stesse, ma era quasi sicura che avrebbe passato il Natale a New Hovel, la struttura adibita per gli esperimenti e questo la diceva lunga su dove fosse stata per anni. Avrebbe anche voluto ricomparire nella sua vita, invitarla a passare il Natale con lei, ma il pensiero maligno che probabilmente lei avrebbe preferito passarlo insieme ad altre persone, e non da sola con Char, le si insinuò nella mente – nonostante Charmion fosse dell’idea che la sua compagnia fosse più che gradita per tutti – Ma non se l’era sentita di invadere quell’equilibrio ancora privo di stabilità che si era creato dopo il suo ritorno, non se l’era sentita di chiederle di passare il Natale con lei che davvero non era l’anima delle festvità – non di quelle natalizie comunque. E poi l’aveva vista strana, nonostante non l’avesse mai avvicinata, aveva intuito nel suo sguardo sempre troppo sincero, qualcosa che non aveva colto al volo, ma sua cugina sembrava cambiata e non solo per ciò che aveva vissuto, c’era altro.
    E poi era passato anche il Natale, e se qualcuno glielo avesse chiesto, Charmion non avrebbe certo rivelato di essere rimasta a casa sua a provare la ricetta babbana della casetta di marzapane, figuriamoci! Avrebbe detto a tutti di aver passato un Natale da favola con amici e amici di amici oh, avanti, nessuno avrebbe davvero voluto sapere i nomi dei suoi presunti amici.
    E poi era arrivato l’ultimo dell’anno, e Charmion aveva del tutto intenzione di non passarlo a casa a cucinare. Per questo, si era preoccupata di scegliere accuratamente il vestito che avrebbe indossato quella sera speciale nella villa di Rea Hamilton. Aveva scelto infine di andare sul classico ed indossare un abito dal colore caratteristico dell’anno nuovo, ma che a lei sembrava più simile al colore del sangue che a qualsiasi altra cosa ricordasse la fortuna. Era di velluto e le fasciava perfettamente i fianchi ricadendo poi altrettando aderente sulle cosce. Non aveva problemi di forme, la Hamilton, per questo non temeva sicuramente a metterle in mostra. I capelli erano mossi e ricadevano morbidi sulle spalle.
    Aveva incontrato Shia e sua sorella Kendall, aveva salutato entrambi e dopo una smaterializzazione priva di difficoltà si era avvolta nella sua giacca nera per ripararsi dall’aria fredda della sera, e si era diretta oltre i cancelli della villa, i cui giardini ospitavano già qualche persona. Sperò di non essere fermata da qualche fanatico della politica che le avrebbe sicuramente fatto domande su come stessero proseguendo le spedizioni di ricerca dei Pavor del Ministero, sperava, in verità, di non essere fermata da nessuno, per nessun motivo. Non prima di aver varcato la soglia dell’abitazione. Appena arrivata sorrise ad un gentiluomo – o meglio ciò che pareva essere – che le domandò se volesse lasciare la sua giacca. E lei lo squadrò da capo a piedi, prima di intimargli di fare molta attenzione a come maneggiava il suo vestiario. Era vero che nel periodo natalizio tutti diventavano più buoni, e questo valeva anche per Charmion, che lo era davvero: se il gentiluomo le avesse rovinato la giacca, lei gli avrebbe concesso una morte indolore. Spostò lo sguardo su Rea, che scendeva le scale centrali della villa affiancata da un giovane... che, ma...storse il capo, strizzando lo sguardo per mettere a fuoco Gemes, Gemes Hamilton. Ricordava perfettamente il loro incontro avvenuto qualche tempo prima al Fiendfyre, ricordava che si era concluso in modo enigmatico e che l’aveva lasciata...di stucco. Nessuno lasciava di stucco Charmion Hamilton per poi sparire senza nemmeno lasciarle il proprio numero di telefono. Lo sguardo passo da Gemes a Rea, che adesso l’aveva affiancata mordendole il lobo dell’orecchio e facendola rabbrividire per quel contatto.
    Rea Hamilton sapeva essere sempre terribilmente affascinante in ogni sua movenza. Anche tu, come sempre. Grazie dell’invito bella. Ma... qualcosa non le tornava, avrebbe voluto chiedere a Rea quali contatti avesse con il giovane che l’aveva affiancata sulle scale, Gemes. Non ricordava infatti che lei avesse un fratello a parte Amos, od un altro cugino a parte Shia. Lo sguardo confuso di Charmion le si palesò in volto ancora di più quando vide Gemes avvicinarsi, ma lo spostò quasi subito su Shia che le passò affianco facendole i complimenti ancora, sapeva sicuramente come lusingarla e lei ammiccò prima di lasciarlo andare a molestare dei ragazzini.
    Quando Gemes le si presentò davanti, lei non poteva nemmeno immaginare che suo fratello le stesse di fronte, che la stesse guardando. Così come non poteva proprio immaginare che Freddie, il cucciolo che tanto aveva amato e per il quale sarebbe stata disposta a dare la propria vita, fosse lì a qualche passo da lei. I suoi occhi probabilmente lo intercettarono per qualche istante, ma come avrebbe potuto riconoscerlo? Anche se avesse avuto la memoria della loro infanzia, Freddie non era più lo stesso, senza contare che era molto simile ad altri due (o tre?) ragazzi presenti nella sala. Quando Gemes le si presentò davanti, lei aveva appena perso di vista il cameriere con sopra gli alcolici. Maledizione. Ma il ragazzo aveva molte risorse, e le domandò se volesse da bere. Forse un modo carino per sdebitarsi per essere fuggito quella sera. Certo, mi sembra il minimo. Commentò con un piccolo sorriso a renderle le labbra meno severe. Buffo, Gemes Hamilton a Villa Hamilton. Non sapevo Rea avesse un altro fratello... Lasciò la frase in sospeso. Ovviamente l’idea che Gemes potesse non appartenere a quegli Hamilton ma a quegli altri non le sfiorò nemmeno l’anticamera del cervello. Gemes Hamilton rischiava di diventare un’incognita, ed a Charmion le incognite non piacevano. Amava sapere tutto, ed avere il controllo di tutto e chiaramente non lo aveva.

    hamiltons do it better


    Saluta Rea, interagisce con Shia senza parlare (?) parla con Gemes e boh


    Edited by shane is howling - 19/12/2015, 01:15
     
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    Spero di essere Todd

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    Ian Todd Milkobitch ( ) - 16 - Ravenclaw - neutrale - loser - mascotte - dress
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    “Dopo questa sconfitta, direi che è arrivato il momento di andare a letto“ Sentenziò Sheridan, sorridente; certo aveva stracciato i due Milkobitch a Risiko, aveva praticamente conquistato il mondo e se non fosse stato solo un gioco c'era da averne paura. In poco tempo furono tutti e tre – lui, Sheridan e Jeremy - pronti per andare a dormire, ma era sorto un problema: dove avrebbe dormito il rosso? La sera prima aveva dormito nella stanza di Jeremy - per gran parte della notte - anche se alla fine si era risvegliato, chissà come, sul pavimento della propria camera, con Sheridan nel suo letto. Ma quel giorno non avrebbe potuto approfittare della camera del fratello, perchè lui era tornato a casa e non poteva dormire con lui, non glielo avrebbe mai permesso.
    Jer posso dormire con te? Ci aveva provato, glielo aveva chiesto cercando di non farsi sentire dalla ragazza che nel frattempo si era recata in bagno per cambiarsi.
    “No” come prevedibile, gli aveva risposto secco sulla porta della camera, e nonostante ne fosse abituato, Todd quasi ci rimase male; Jeremy era tornato per le vacanze e sembrava anche contento di essere lì, Todd era persino riuscito ad abbracciarlo non appena aveva messo piede in casa (e non lo aveva ucciso o ferito in nessun modo), quindi perchè doveva essere così dispettoso? Non era colpa sua se come obiettivo, Todd, aveva l'obiettivo di distruggere proprio le sue armate e che Sheridan allo stesso tempo dovesse conquistare proprio le sue stesse terre. Sembrava quasi che ce l'avessero entrambi con Jer, ma non era così.
    Eddai, c'è Sheridan in camera mia gli spiegò lagnoso, già la sera prima chissà come si era risvegliato in camera sua, con lei che quasi stava per ucciderlo, e non voleva tentare di nuovo la fortuna, anche se il regalo che gli aveva fatto era stato davvero stupendo. Quasi arrossì.
    “Allora mandala a dormire da me!” aveva risposto Jer, con quel sorisetto di chi la sapeva lunga, ma ci voleva davvero provare con Sheridan? Uffa. L'avrebbe sicuramente conquistata, Jer era più fascinoso, simpatico e non attirava la sfiga come lui.
    “Todd, dai vieni a dormire con me. Prometto che non mordo...Forse...” Sheridan uscì dal bagno in quel momento e probabilmente aveva udito tutto il loro battibecco, facendo arrossire in quel modo Todd che divenne più che rosso. A quel punto Jeremy sgranò gli occhi e rise malizioso, lo prese per un braccio e lo tirò in camera, scusandosi in modo poco carino con la ragazza che era rimasta fuori.
    Finalmente era dentro la camera del fratello, con lui e senza aver usato una scusa. Era al settimo cielo, lo guardò gongolante mentre questo toglieva qualcosa qualcosa dalla tasca dei jeans, per poi lanciargliela addosso. Ma che? Era una bustina quadrata, la vide cadere e rimase a guardarla come un ebete Cosa sarebbe? aveva domandato, raccogliendola da terra. Non appena capì che si trattava di un preservativo, quasi morì dalla vergogna “Sai usarli Todd? Io non voglio diventare zio a 16 anni ma prima...” Aveva detto e si era messo a sedere sul letto, per poi fargli cenno di sedersi accanto a lui, con aria molto seria. Cosa stava per dirgli? "Sai come funziona vero? La storia dell'ape che va di fiore in fiore? “ iniziò e Todd annuì Si...ma.. “è ora che tu sappia che tutta quella storia è una minchiata. Sesso Todd, sesso, e se lo fai senza il preservativo potresti avere brutte esperienze. Intesi?"
    Todd si era già alzato e se ne stava andando, rosso ed imbarazzato. Una delle poche volte in cui era riuscito ad entrare in camera di Jeremy e stava scappando di sua spontanea volontà, mentre alle sue spalle il fratello se la rideva di gusto. Che bitch.
    Alla fine decise di dormire in camera con Sheridan, anche se la storia di Jer lo aveva messo in agitazione. Lei sembrava essersene accorta e lo aveva calmato, così Todd si era messo sul materasso improvvisato fatto di cuscini e dentro il sacco a pelo in terra accanto alla ragazza. Aveva dormito una meraviglia.

    Arrivò il Natale e con loro ci fu anche Run. Finalmente, dopo tre anni la famiglia era riunita ed era un Natale perfetto: avrebbe consegnato i regali fatti negli anni precedenti alla sorella, li aveva custoditi in camera sperando un giorno di poterglieli dare e finalmente poteva farlo. Che era felice glielo si leggeva in volto, era al settimo cielo tanto che neanche le frecciatine di Jer e della stessa Run avrebbero potuto scalfirlo.
    Ok forse era arrossito in più di un'occasione, ma era felice e contava questo.
    Avevano pranzato senza troppi intoppi, Jeremy non si era strozzato con il cibo e Todd non aveva fatto cadere niente di bollente sul fratello. Insomma era tutto meraviglioso, per giunta era arrivato anche il momento dei regali o quasi. Lui era impaziente, e notò che Sheridan era curiosa di sapere cosa facesse agitare il rosso, tanto che alla fine glielo chiese cosa ti prende Milko? Era seria, ma era sorrideva, o almeno Todd vedeva il suo sorriso, forse perchè quel giorno sembravano tutti contenti, anche se aveva visto Run per un secondo spaesata. Andiamo ad aprire i regali? Daiii, mamma sta pulendo e Jeremy è con Run fuori, forse fumano una sigaretta disse a bassa voce, non voleva che sua madre scoprisse quel segreto. O forse semplicemente era lui l'ultimo a saperlo. Va beh. La ragazza annuì e si alzarono silenziosamente, anzi solo lei si alzò senza traumi, Todd fece cadere la sedia. Ops.
    Arrivarono davanti l'albero, correndo, cosa che era stata vietata a Todd fin da quando aveva imparato a camminare e soprattutto da quando avevano capito che inciampava ogni tre per due facendo male a Jeremy, eppure quella volta se ne era dimenticato o semplicemente aveva pensato che con Run a casa tutto sarebbe andato bene. Ma si sbagliava, ed anche alla grande. Arrivò nei pressi dell'albero troppo velocemente, tanto che non riuscì a frenarsi e cadde sopra di esso. Si bucò con gli aghi del pino e cadde all'indietro.
    Fu un attimo e vide la scena quasi a rallentatore: lui che cadeva sui regali, rompendoli o schiacciandoli, l'albero che cadeva portandosi dietro tutte le fotografie della mensola lì vicino, le urla di sua madre e di Jeremy contemporaneamente. Non voleva vedere. No. Chiuse gli occhi aspettando la fine. Esagerato. Ma nulla di tutto ciò accadde.
    Preso... Sentì una mano tenerlo dalla schiena e la voce calda di Sheridan sul volto, aprì gli occhi incerto di volerlo fare sul serio, ma quello che vide fu un miracolo. C'erano TRE Sheridan, una teneva l'albero, provando a risollevarlo, un'altra aveva spostato i regali dalla traiettoria di Todd, e la terza, quella vera, aveva Todd tra le braccia. Una scena da film, principe e principessa, solo che in quel caso la principessa era lui. Grazie... arrossì, contento di non aver creato danni. Tranquillo, non è successo niente disse lei complice risollevandolo per poi udire una risata fragorosa alle loro spalle. Sapeva chi era, anzi chi erano. Run e Jeremy vedendolo in quella posizione non risparmiarono battutine Todd forse non ho precisato che tu dovresti essere l'uomo della situazione disse ridendo insieme a Heidrun. Bitches.

    Dopo Natale Todd aveva salutato Sheridan che sarebbe andata a stare per un po' da suo cugino Shane. Ma avrebbe dovuto chiamarla per invitarla alla festa, come diavolo poteva fare? Ian, l'hai già invitata a Natale e avete dormito nella stessa stanza, che ci vuole? Gli disse Mickey già vestito elegante, ma come poteva essere già vestito? Io sono solo frutto della tua immaginazione ricordi? Già, ma l'altra sera eri così reale...mi manchi sai? Disse nostalgico. Dopo anni di lui invisibile a tutti, era riuscito a vederlo in carne ed ossa, anche se solo per poco. Già...a proposito dovresti chiamarla...dai Ian chiamala, voglio andare con lei al ballo. Mica vorrai essere solo con tuo fratello e tua sorella vero? disse serio. In effetti non era proprio il caso; non che non si fidasse dei due, ma loro sapevano divertirsi molto più di lui, anche se non conoscevano nessuno sapevano come fare. Todd al contrario si sentiva sempre un pesce fuor d'acqua; magari con Sheridan sarebbe stato diverso.
    Ok la chiamo...ma come si usa sto coso? disse cercando di ricordare quello che gli aveva insegnato sua sorella e suo fratello. Ma davvero non capiva come poteva essere utile quel coso. Era riuscito a sentire il messaggio vocale e le aveva anche risposto, o credeva di averlo fatto, ma chiamare Sheridan era difficile. Si è messa tra i numeri preferiti ricordi? Premi tre. Diceva che è il numero perfetto come lei. Vai Ah è vero...si provo

    Ok, vestito messo, giacca al suo posto e cravatta in ordine era pronto, in tempo record, aveva trovato tutto e non aveva creato nessun tipo di danno. Era caduto nel corridoio, ma purtroppo era stato inevitabile, aveva corso. Insomma aveva rischiato ed era caduto, ma la cosa importante era rialzarsi sempre e poi non si era fatto niente e cosa ancora più spettacolare fu che riuscì a sistemare il nodo a Jer senza strozzarlo.
    «Ti giuro che appena potrò usare la magia fuori da Hogwarts ti trasformo in un portachiavi» aveva detto a Run ed entrambi avevano guardato la ragazza. Già anche Todd pensava che fosse lei il loro portafortuna, ed averla come portachiavi avrebbe risolto molti problemi. Quando lei era nei paraggi la sfiga sembrava sparire, o almeno quella su Jeremy. Todd poteva starci a stretto contatto senza fargli del male. Finalmente quel Capodanno sarebbero stati insieme e tutto sarebbe andato bene. Bene andiamo disse seguendo Run, ma la madre lo fermò Todd, amore della mamma...stai attento ok? si preoccupò ancora una volta. Tutte le raccomandazioni dei fratelli sembravano inutili, era così apprensiva a volte, lui le diede un bacio Tranquilla mamma ci sarà anche Sheridan disse come se gli avesse chiesto qualcosa al riguardo. Ma lui era felice, l'aveva chiamata e lei aveva accettato, di nuovo. Inutile dire che Jeremy continuava a provocarlo e a porgergli quel preservativo, sperava davvero che non lo avesse portato dietro. Sarebbe stato imbarazzante. Corsero verso l'auto della Crane – da dove veniva fuori non potevano saperlo ma andava bene - non riuscì a fare prima di Jer che gli fregò il posto davanti. Uffa. Va beh sarebbe stato dietro con Sheridan. Arrossì al pensiero.
    Quando arrivarono dalla ragazza questa si presentò a loro in abito argentato, semplice, ma da far mancare il respiro al rosso che era andato a prenderla alla porta per farla salire in auto. Non riuscì a dire molto in realtà, a volte era così imbranato S---sei bellissima farfugliò poi parole senza senso. Ma la ragazza sembrò apprezzare perchè lo ringraziò e gli diede un bacio sulla guancia, già calda per l'emozione. Se possibile, Todd divenne ancora più rosso, tanto che le lentiggini non si videro più.
    Durante il viaggio Todd prese a parlare a raffica, era agitato, emozionato e non voleva che i due fratelli davanti lo prendessero troppo in giro per la presenza di Sher al suo fianco. Una volta alla villa, l'aveva a braccetto, si sentiva perso e non voleva entrare.
    Non lasciarmi ok? Si dice che gli Hamilton facciano le feste per poi sacrificare gli ospiti per rimanere belli e ricchi. spiegò alla ragazza, che probabilmente lo avrebbe mollato appena dentro, lui non era così In e cool, come lei e gli altri ospiti. Guardandosi intorno tutto era così...così arioso e moderno. Sembrava una trappola paradisiaca, come la luce per le falene, attirava tutti.
    Mentre ancora doveva capire dov'era e che cosa voleva fare della propria vita, un cameriere gli si parò davanti e gli offrì da bere, o forse fu lui a prenderne un calice vedendoselo davanti, non voleva dire di no, sarebbe sembrato scortese. Nel frattempo i padroni della villa, belli come divintà, fecero i saluti e diedero il benvenuto agli ospiti, augurando a tutti un buon divertimento. Si certo, prima di venir sacrificati! Inutile dire che tutti sembravano conoscere la sorella, e come poteva essere diversamente? Era molto figa.
    Sher, tu conosci qualcuno? le chiese mentre Jeremy si presentava ad un armadio con la barba. Ecco quel tipo era incredibilmente inquietante, così...strano. Improvvisamente vide Jeremy impazzire, come se avesse preso qualche droga. Ma com'era possibile? Nel frattempo l'uomo barbuto prese anche la mano di Todd, presentandosi come Shia Hamilton. Oddei no, lui era uno di quelli che avrebbero usato gli ospiti come cibo. Io To....ahahha sono Todd?! disse improvvisamente ridendo. La stanza prese a girare come se avesse bevuto eppure era ancora al primo bicchiere, o no? Ehi Sher...sei...siete due? domandò cercando di toccarla ma senza riuscirci, ma perchè si era moltiplicata?
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    16 | EX-RAVENCLAW | CLAIRVOYANT | NEUTRAL | STUDENT | ATRIO | DRESS
    L'ultima volta che aveva partecipato ad un evento di classe viveva ancora nella villa dei suoi nonni e cosa più importante, la sua mente era intatta. Ora, a distanza di anni, si era ritrovata a desiderare ardentemente di partecipare a quell'evento nell'esatto momento in cui le era capitato sotto mano un volantino di presentazione si suddetto evento a casa Hamilton. Aveva trascorso i successivi tre giorni chiusi nella sua stanza a rimuginare sulla possibilità di partecipare oppure no fino a quando era giunta ad una decisione. Nonostante la presenza di molte persone la intimorisse, non aveva alcuna intenzione di trascorrere la vita come una reclusa. Non era da lei. Quello sarebbe stato il giorno della sua rinascita, niente e nessuno avrebbe potuto rovinarlo. Quando Freya si metteva in testa qualcosa era difficile farle cambiare idea, ma mai come quel giorno era parsa più determinata. Con passo calmo si era portata dinnanzi all'armadio osservando i pochi vestiti che conteneva. Gli occhi, oh sì quegli occhi verdi che avevano perso tutta la vitalità che li contraddistingueva, si erano improvvisamente illuminati alla sola idea di un pomeriggio di preparazione per il più esclusivo party dell'intero mondo magico. Si avvicinò agli abiti spostandoli a destra e sinistra, lanciando uno sguardo critico a tutto ciò che le capitava sotto il naso. A differenza della maggior parte delle ragazze non possedeva molti abiti nonostante le finanze lo permettessero, purtroppo le priorità non era le medesime di una ragazza di sedici anni. No, la sua priorità era ricostruire pian piano la maschera che le era stata strappata a forza nel corso degli anni. Come attirata da una forza sconosciuta si ritrovò catapultata in uno dei suoi incubi, era conscia di stare dando uno sguardo al suo passato. Le torture, il dolore, il desiderio di morire, il pianto disperato e le urla che la lasciavano per giorni senza voce. Ricordava il sangue incrostato, i tagli e gli ematomi che spiccavano sulla pelle candida come la neve. Un contrasto difficile da nascondere. Non è reale. Non è reale. Non è reale continuò a ripetere come un mantra nel tentativo di calmare il battito del proprio cuore ed il principio di ansia che minacciava di fuoriuscire prepotentemente. Quando riaprii gli occhi la prima immagine che vide fu quella di un abito bianco, bianco come le pareti della prigione che l'aveva distrutta psicologicamente e fisicamente. Rilasciò un sospiro tremulo, allontanando con uno scatto quell'abito da sè. Ultimamente le capitava spesso di rivivere dei flashback degli anni passati, solitamente erano ricordi dolorosi in grado di portarla sul baratro del precipizio ma confidava nella presenza di molto alcool che l'avrebbe aiutata a dimenticare almeno per qualche ora. Una manciata di minuti più tardi aveva cominciato a provare svariate abiti, alcuni lunghi altri corti, alcuni colorati ed altri più sobri che sembravano decisamente più sofisticati di molti di quelli provati. Alla fine l'abito che l'aveva spuntata era stato un abito nero, la cui gonna arrivava fino a sotto il ginocchio con uno scollo che lasciava ben poco all'immaginazione. Abbinato all'abito vi erano un paio di tacchi neri e bianchi. Non ci aveva messo molto a prepararsi una volta trovato l'outfit adatto alla serata, così dopo una bella doccia rinfrescante ed un velo di trucco, era finalmente pronta per lasciare la stanza che le era stata assegnata per potersi recare a villa Hamilton.
    Non essendo molto pratica di mezzi di trasporto magici aveva preferito rivolgersi ad un servizio di taxi babbano, sperando di giungere a destinazione sana e salva. La sola idea di perdersi in mezzo ai babbani non la entusiasmava molto anche se visti gli ultimi avvenimenti era molto più vicina a loro di qualunque altra creatura magica. Tutto sommato l'auto gialla che era passata a prenderla non si era fatta attendere molto, stessa cosa valeva per il tempo impiegato per raggiungere la villa. Solamente una mezz'ora! Giunta dinnanzi ai cancelli della villa rimase per qualche minuto a bocca aperta, era davvero imponente nulla in confronto a quella in cui aveva vissuto nei primi anni della sua vita. Non se l'era sentita di attraversare il viale a bordo di un semplice taxi pertanto aveva camminato fino al portone d'ingresso rischiando di inciampare almeno un paio di volte, troppo concentrata a guardarsi attorno nonostante il paesaggio fosse nascosto dall'oscurità che dominava le scene. Raggiunse il portone di legno massiccio poco dopo ed una volta attraversato lasciò il cappotto al giovane che le aveva aperto gentilmente la porta, ragazzo che ricevette un lieve accenno di sorriso da parte di Freya. Non era proprio il genere di persona che amava particolarmente sorridere, non lo faceva da molto tempo ma sapeva ancora mostrare riconoscenza nei confronti di chi era gentile con lei. L'atrio era una stanza circolare molto ampia dalle quale era possibile raggiungere le altre stanze della villa, da una scala fecero la loro comparsa i padroni di casa i quali scambiarono qualche parola di benvenuto prima di dedicarsi ognuno alle proprie attività. Guardandosi intorno individuò uno dei camerieri e subito gli si avvicinò prendendo ciò che bramava da tutto il pomeriggio. Ti ringrazio disse prendendo un calice di quello che sembrava essere dello champagne e cominciando a sorseggiarlo. Sperava che l'alcool l'avrebbe aiutata ad inibire i sensi permettendole così di godersi la festa, non era piacevole guardare con sospetto chiunque le passasse accanto. Gironzolò qualche minuto nell'atrio senza uno scopo preciso fino a quando individuò poco distanti da lei quelli che aveva riconosciuto essere i padroni di casa, o per lo meno gli organizzatori della festa di capodanno in casa Hamilton. Si avvicinò ascoltando il ticchettio prodotto dalle scarpe -tutt'altro che comode- che indossava. Ma che grazioso posticino per organizzare una festa esclusiva si rivolse alla giovane dai capelli castani che stando alle voci di corridoio doveva chiamarsi Rea. Oh ma che sbadata, non mi sono nemmeno presentata. Freya Gardner, lieta di fare la tua conoscenza si presentò con un lieve inchino come quando era solita fare quando era ancora una bambina. Certe abitudini erano difficile da abbandonare considerando che per tutta la vita non aveva fatto altro che aggrapparsi ai pochi ricordi felici che custodiva gelosamente dentro di sè. Presenziare a quel genere di evento le dava quasi l'impressione di far ancora parte dell'alta società, quella stessa società che l'aveva rifiutata per ciò che aveva dovuto sopportare. Aveva cominciato a sentirsi fuori posto sempre più di frequente, eppure non si era data per vinta cercando di rialzarsi e forse un party di quel calibro era ciò di cui aveva bisogno per comprendere che non era da sola, che poteva ancora avere una vita normale al di fuori delle mura di Hogwarts o di uno degli alloggi assegnati a persone che come lei avevano perso la loro magia in seguito al periodo trascorso tra le mura di quel laboratorio gestito da estremisti Ribelli. Terminato il momento dei convenevoli si era nuovamente allontanata dalla ragazza, sorseggiando il suo secondo? Terzo? Sì sicuramente era il terzo calice di champagne che il cameriere le portava nell'arco di pochi minuti, in fin dei conti era scortese lasciare un bicchiere vuoto in mano ad una signora. Per lo meno il catering sapeva fare il suo lavoro. Girò su sè stessa tornando sui suoi passi o così pesava, non era per nulla facile orientarsi in quella grande villa. Inavvertitamente si scontrò con qualcuno, un incontro fortuito se non fosse che lo champagne era volato sul vestito di entrambe le parti, macchiandolo. Per la barba di Merlino! esclamò la giovane indignata per l'incontro troppo ravvicinato tra lo champagne ed il vestito che aveva scelto con tanta cura.
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    Scusate la schifezzuola, devo riprenderci la mano xD
    Coomunque... parla con Rea e si scontra con non-so-chi ahah
     
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    « But through the silence, you will feel it burn »
    a m n e s i a c | 19 y.o. | muggles addicted | dress | not very sure
    Poggiò il gomito sul tavolo, osservando per una manciata di secondi, con l’indecisione degna dell’uomo incaricato di premere il pulsante rosso, la propria mano. Quando l’aveva messa in quella posizione? E come, come poteva appoggiarci sopra il viso? Alla fine, Lydia Hadaway optò per far fare il lavoro sporco alla gravità, lasciando ricadere il capo su di essa. «tu chi sei?» domandò, e nonostante avesse posto quella domanda altre cinquanta volte, v’era ancora il germe del dubbio nella sua voce. «donnie» rispose il ragazzo, semplicemente, senza accennare alle innumerevoli volte in cui già ella gliel’aveva chiesto. «e io chi sono?» un lieve sorriso le incurvò le labbra, anteprima di ciò che sarebbe successo di lì a poco. Di nuovo. «lydia» ogni volta che si giungeva a quella sentenza, la Hadaway scoppiava a ridere, chinandosi sul tavolo a causa dei crampi allo stomaco. Una risata sguaiata, leggermente sibilante, di chi di sobrio non aveva più neanche la radice dei capelli. «tu chi sei?» «donnie» «e io chi sono?» «lydia» le lacrime agli occhi ed il braccio attorno al ragazzo seduto al suo fianco, il capo inclinato all’indietro mentre le spalle venivano scosse da quell’ilarità che, ad uno sguardo sobrio, sarebbe parsa eccessiva. «l’ha detto di nuovooooo» riuscì a gridare, fra un singhiozzo e l’altro, incapace di smettere. Per la rossa, non c’era nulla di più esilarante della certezza negli occhi chiari di Donald Armstrong, che con lo stesso identico tono ripeteva donnie e lydia. Quanto avrebbe voluto avere la sua stessa sicurezza riguardo il proprio, e l’altrui, essere.
    Quella serata era iniziata in maniera parzialmente normale: era il 25 Dicembre, e dopo aver passato tutto il giorno a dormire (onde evitare di rendersi conto che il resto del mondo stava festeggiando il Natale, in famiglia o con gli amici, e a lei non era rimasto altro se non uno sbarbato furetto di nome Furetto) si era preparata per la serata sociale. Aveva detto a Henderson che sì, certo, avrebbe dovuto cancellare qualche impegno (poi osavano dire che scarseggiava di senso dell’umorismo) ma ci sarebbe stata per tutti gli studenti che, come lei, non avevano nulla da fare in quella giornata di festa. «tranquillo nate, ci penso io. Vai pure con i tuoi amici» #qualiamici : il dimenticato e la dimenticatrice, che coppia vincente Henderson – Hadaway. Così era passata a New Hovel, indossando un adorabile abito da Babba Natala, dove aveva preso sotto la sua ala Armstrong, Brodino Amos, e Raine. Avevano all’incirca la stessa età, il che significava che non avrebbe neanche dovuto prendere alcolici per loro. Progressi. Ci provò, davvero, a tirare su il morale del gruppo… ma quello bravo era Nathaniel, non lei. In compenso, sentendosi buona, non commentò l’oggetto contundente nascosto nella giacca di Donnie: «deve venire con noi, è natale!» aveva smesso di fare domande molto, molto tempo prima. E questo, per ovvi motivi, è il prima. Prima di sedersi nel sordido locale della Londra babbana, dove loro sembravano essere gli unici avventori. Prima del primo giro di shottini, e del secondo, e del terzo.
    Forse erano arrivati a dodici; o almeno, così narrava la leggenda. E dire che Lydia aveva sempre creduto di essere una ragazza responsabile, quando invero –perfino prima di perdere la memoria- non lo era mai stata. In un contesto normale non si sarebbe permessa una tale confidenza, sia con la vita che con quei ragazzi. Ma era Natale, e lei… e lei, come al solito, non era nessuno. Con loro tre, incomprensibilmente, si trovava bene. Non solo perché erano studenti di Henderson, e Lydia provava per ciascuno di loro un basilare quanto inspiegabile affetto, ma proprio per il loro essere così… così. Donnie era seduto di fronte a lei, intento a conversare con la radio (e quello era il minimo, considerando che il suo potere glielo permetteva) e con quell’oggetto contundente che si era rivelato essere un cacciavite giallo con tanto di capello e sciarpa e natalizia. «cambi canzone?» «donnie» rispose in automatico lui, abituato all’interrogativo precedente posto dalla Hadaway. La rossa, ormai incapace di respirare, era praticamente coricata su Amos Hamilton, il quale a sua volta sembrava amare dannatamente il confortevole abbraccio dell’albero di natale al suo fianco. Raine cercava di convincere Donnie a cederle Polgy, «voglio solo cullarlo», ma quello si limitava ad alzarlo al cielo, divenendo moderna statua della libertà. Amos creò un piccolo rastrello dimensione Polgy, storto e sbilenco –ma, dalla loro alcolica prospettiva, perfetto. «Polgan» (ndA per i sobri: Polgy x Morgan). Bofonchiò, allungandosi per porgerlo ad Armstrong. Si strinse nelle spalle, tornando ad abbracciare affettuosamente il verde albero al suo fianco. Lydia, come probabilmente chiunque seduto a quel tavolino quadrato, non comprese. Non che di solito comprendesse. Quel buffo, ed alquanto lucido, pensiero, la obbligò nuovamente ad accasciarsi sulla panca. Non aveva più lacrime, o ossigeno a sufficienza perché quella risata avesse voce, mentre muta le distorceva i tratti del volto. Dal luogo oscuro nel quale era caduta, si udiva solamente il rantolio di un’anima morente. «VI AMOH» Gridò, rialzandosi improvvisamente per battere i pugni chiusi sul tavolo. «vorrei che aveste fatto parte della mia vita sin da prima, così vi avrei dimenticato e ora potrei conoscervi e amarvi di nuovo come la prima volta» c’era un senso profondo, dietra quella frase mal masticata della Hadaway. Profondissimo, ma a noi (o ad una Lei sobria) non è dato saperlo. Donnie invece parve capirlo perché annuì, quasi che avesse tutta la logica del mondo, mentre con orgoglio brandiva Polgan. «mi sento elettrizzato da questa confidenza confidente, ti ringrazio» così serio, incredibilmente serio, come se dalle sue parole dipendesse la sorte del mondo. Non aveva mai parlato con loro, prima di quella sera, eppure stavano condividendo qualcosa di importante. Letteralmente: Raine creò un piccolo cestino di vimini, stranamente attenta nel non farsi vedere da nessuno, e lanciò a Brodino giusto un secondo prima che cominciasse a vomitare. Il che, ovviamente, scatenò un effetto a catena non da poco: Donnie si trascinò al bagno, lasciando Polgan in balìa degli eventi, mentre Lydia continuava a ridere e Raine accoglieva finalmente Polgy fra le sue braccia, continuando però a guardare Amos. «stai bene?» e sì che la risposta avrebbe dovuto essere ovvia da sé. «donnie» rispose, prima di scrollare il capo. «cioè, mh» La Hadaway aveva afferrato un telefono dalla borsetta, ed aveva documentato efficientemente lo scambio di battute; girando la videocamera verso sé stessa, rivolse un sorriso all’obiettivo. «NATE NON CREDO CHE STIANO BENE CI VIENI (LI VIENI) A PRENDERE CIAO. CIAO HENDERSON. SALVE. BUON NATALE. VOLETE SALUTARE?» Raine alzò le braccia, lanciando senza remore Polgy nell’aria. «CIAO PROFESSORE» Donnie, con una velocità sovrumana, raggiunse il cacciavite prima che potesse toccare terra. «CHARLES? CHARLES XAVIER? No, ho sbagliato saga» La Hadaway continuava a ridere sguaiatamente, inquadrando un Brodino intento ad approcciarsi al cestino di vimini mentre la mano, flebilmente, si agitava nell’aria. Lydia stampò un bacio sull’obiettivo, lasciando il telefono leggermente umido ed appiccicoso a causa del lucidalabbra, quindi inviò il video a Henderson.
    «grazieragazzivivogliobenedavveroanchesenonviconosco» biascicò, prima di addormentarsi sul tavolo.

    Ironia: non ricordarsi il proprio passato, e ricordare alla perfezione l’unica cosa che avrebbe preferito dimenticare. Era nuovamente dentro la vasca, ormai pareva essere un letto migliore del materasso sgualcito di cui la camera era provvista, con la testa abbandonata sul bordo in marmo.«oh mio dio» ripetute così spesso quelle tre parole, da quando si era svegliata, che i vicini di camera dovevano pensare fosse una fervente religiosa impegnata in un mistico pellegrinaggio. Era il 26 Dicembre, la testa le pulsava come se stesse per partorire Atena #lydiamorelikezeus ed il telefono, abbandonato sulle ginocchia, non smetteva di ammiccarle ricordandole i suoi contenuti proibiti. Non sarebbe bastato cancellarli, erano impressi a fuoco nella sua memoria. E dire che aveva una pessima memoria: dimenticava nomi, luoghi, circostanze di continuo, oltre a non avere alcun ricordo antecedente il Natale di due anni prima. Eppure. In quell’esatto momento, Lydia Hadaway decise che il mondo non l’avrebbe più vista finchè non fosse stata questione di vita o di morte; non voleva vedere o sentire nessuno, la reputazione e l’amor proprio abbandonato nel cesso insieme a qualcosa di meno astratto e romantico. «oh mio dio» implorante, mentre le conversazioni tornavano a galla insieme all’impellente necessità di svuotare uno stomaco ormai vuoto da un pezzo. Non berrò mai più. Malgrado le terribili premesse, non poteva impedirsi di ridere da sola -come i migliori sociopatici-, quando Polgan tornava a stuzzicarle i pensieri. «sono ancora sbronza» disse ad alta voce, cercando di convincersi che il capro espiatorio migliore fosse l’alcool e non una schizofrenia latente. Prese il telefono, poco funzionale nel mondo magico, chiedendosi se fuggire e lasciare un messaggio in segretaria a Henderson valesse come lettera di dimissioni. Si era divertita, decisamente, ma troppo. Quei ragazzi le piacevano davvero, eh; probabilmente era proprio quello il motivo che la spingeva, in quel momento, a cercare una fossa dove sotterrarsi. Con quale coraggio si sarebbe ripresentata a lezione? «oh mio dio» perché? Da quando era Lydia, non aveva mai perso il controllo.
    … Ah, non era vero. Magari fosse stato vero. Era stata drogata al winter, era diventata un Oscar speciale al fairy…. Oddio, se n’era dimenticata. Si premette le mani sugli occhi, cercando di non pensare a quanto anche, in quelle occasioni, si fosse messa in imbarazzo. Doveva essere una specie di legge cosmica, e Hadaway + Alcool non s’aveva da fare. Mugugnò qualche imprecazione cercando d’alzarsi in piedi, tremando visibilmente. Quel malessere d’altronde, ed in maniera piuttosto paradossale, non faceva che farla sorridere. Normale, in un mondo che di normale non aveva mai avuto molto per lei. Quando l’adesso del carpe diem diventava passato, era facile chiudere gli occhi con vergogna nonostante nel passato quell’adesso l’avesse fatta sentire bene, perfino felice. Combattuta. La prima volta in cui Lydia non era stata sé stessa, aveva semplicemente ballato: superabile; la seconda, aveva baciato Jayson Matthews: complicato. Strinse le labbra fra loro, arrivando stentatamente allo specchio del bagno. Aveva finto non curanza per mesi, non era successo niente, ma ovvio che qualcosa era successo. Semplicemente credeva che non fosse il momento propizio per pensarci; senza contare che era stata una penitenza, quindi non aveva avuto scelta #seh. Non c’era neanche poi così tanto a cui pensare, quella ragazza meditava un po’ troppo. Si inumidì le labbra, girando il volto per guardare entrambi i lati. Sembrava che fosse stata investita, ripetutamente, da un tram che prima di lei aveva messo sotto un secchio di vernice arcobaleno, così da lasciarle chiazze blu, arancioni e rosa su tutta la pelle. Purtroppo era invece la sua epidermide naturale. «oh mio dio» chissà, se l’avesse detto un’altra volta magari Morgan, mosso a compassione, avrebbe finalmente posto fine alle sue sofferenze. «Polgan» Ripeté, e già prima di completare quella buffa parola le sue labbra si incurvarono verso l’alto, una risatina a scuoterle le spalle.

    Aveva mantenuto fede alla parola data: era il 31 Dicembre, e Lydia Hadaway era uscita dalla stanza al Paiolo solamente per procacciarsi cibo e beni di necessaria sopravvivenza in incognito, con tanto di grandi occhiali da sole nonostante di sole se ne fosse visto ben poco. Ed avrebbe continuato così fino a Gennaio, quando finalmente i sensi di colpa e le guance arrossate avrebbero smesso di ricordarle quanto inadeguata fosse a quella vita, se solo quella mattina non avesse ricevuto IL biglietto. Aveva già visto disseminati per High Street quei fogli scuri, ma mai si era preoccupata di prenderne uno. Aveva smesso di essere curiosa due anni prima, quando la curiosità l’aveva quasi uccisa: non lo sapeva, e come avrebbe potuto?, ma si trattava di mero e primordiale istinto di sopravvivenza. Allegato v’era un biglietto, e quella grafia svogliata la Hadaway aveva imparato a conoscerla bene. Shit. "LYDIA, NON CREDO DI STARE BENE. MI VIENI A PRENDERE CIAO. CIAO HADAWAY. SALVE. BUON NATALE" Chiuse gli occhi, deglutendo. «non sei divertente» Quasi in risposta alle sue parole, gli occhi ricaddero sul post scriptum poco sotto. "sì, lo so. Comunque ci vediamo lì, passa a prendere Aveline, non puoi mica lasciarla da sola" quello era giocare poco pulito, e lo sapevano entrambi. Lydia aveva un debole per quella ragazzina –e pareva non essere l’unica #ifuknow. "CIAO" Sospirò, prendendo fra le mani l’invito scuro. Villa Hamilton. Era casa di Amos? Giusto perché la vita non era abbastanza imbarazzante, doveva anche presentarsi a casa sua? Fantastico. Fu quasi tentata di rifiutare, avrebbe potuto portare Aveline e poi tornare a casa, ma… era l’ultimo dell’anno. Non voleva rimanere sola, per quanto le costasse ammetterlo. Non più. Il pensiero di rimanere in quella stanza, sentire le persone fuori dalla sua porta che ridevano e festeggiavano insieme, sarebbe stato troppo perfino per lei. Sfiorò l’invito aggrottando le sopracciglia, convinta che quell’Hamilton avesse qualcos’altro da dirle, ma senza sapere con esattezza cosa. Charlotte…? Ma Charlotte abitava poco distante, a New Hovel, ed ancora non aveva neanche capito se fosse imparentata o meno con Amos. Hamilton. Si inumidì le labbra, lasciando cadere la pergamena sul letto. Sicuramente nessuno ricordava la notte di Natale, erano tutti troppo… sbronzi, per averne memoria. Giusto? E poi… forse anche loro si sentivano imbarazzati quanto lei. Magari non ne avrebbero parlato, e come al solito lei avrebbe finto non curanza. Era davvero brava nel fingere che nulla fosse successo, mentre sorrideva cortesemente a chicchessia. Talento naturale.
    Massì Lydia, smettila di far versi. Siete amici ormai. #maquando #machitivuole #lydiastaiacasa
    Sapeva di aver già deciso, nonostante incerta camminasse avanti e indietro per la camera; lo sapeva, ma non voleva accettare di essere così debole. Ah perché, l’orgoglio non è forse debolezza? Ma perché la coscienza doveva sempre essere così perfida? Perché sono sincera. «sto parlando da sola» ruppe il silenzio con una risata isterica, passandosi le mani fra le ciocche ramate. Sto impazzendo.

    Dopo un pomeriggio di spese folli –e dire che si era ripromessa di comprare solo ciò che le serviva per la serata- Lydia tornò al Paiolo stanca ma soddisfatta. Dimentica ormai di ciò che l’aveva trattenuta all’interno di quelle spoglie mura per una settimana, si sentiva quasi… eccitata all’idea di andare ad una festa. Non tanto per l’evento in sé, che nulla avrebbe avuto da dirle, quanto per il fatto che sarebbe iniziata nel 2015 e si sarebbe conclusa nel 2016. grande lydia, tu sì che sei brillante. #facciolettere. Gli anni precedenti l’idea di fare qualcosa di diverso dal deprimersi -sotto le coperte già alle dieci, per dire-, non l’aveva neanche sfiorata. Stare insieme ad altre persone, persone che per di più le piacevano come Aveline e Nate, la faceva sentire meglio. E se avesse dovuto fare il terzo incomodo, affari di Henderson. Lui l’aveva invitata, e lui doveva aspettarsi che lei non si sarebbe lasciata abbandonare facilmente, specialmente non dove non conosceva nessuno #seh. Si infilò sotto la doccia ancora vestita, togliendosi i vestiti solo quando furono fradici. Lasciò l’acqua scorrere, il bagnoschiuma penetrarle la carne con quel profumo troppo dolce, tanto da sentirlo sulla lingua, finchè la pelle non cominciò a bruciare. Amava le docce calde, così calde che perfino respirare era un dolore ai polmoni. Uscì rabbrividendo, senza resistere all’infantile tentazione di passare la lingua sulla spalla per vedere se, a contatto con le papille gustative, avesse lo stesso sapore del bagnoschiuma: dopotutto era stata quella la promessa della boccetta acquistata da Amortentia quello stesso pomeriggio. E non potè che sorridere, nel constatare di sapere realmente di vaniglia. Resistette per amor proprio alla tentazione di mordersi, preferendo scivolare nella stanza dove l’attendeva l’abito per la serata: rosso cremisi, lungo fino sopra al ginocchio, decorato con finissimo pizzo; lasciava scoperta una porzione sottile di pelle fra i seni, ma non v’era nulla di anche lontanamente volgare in quella candida striscia di epidermide. Non indossò alcuna collana, optando però per due braccialetti argentati ed un paio di orecchini a forma rotonda, argentati anch’essi. Lasciò i capelli sciolti, onde rosso fragola che arrivavano fino allo sterno, e concluse l’outfit con un paio di tacchi neri, giacchè il nero andava su tutto. Solo grazie alle scarpe riusciva a raggiungere un altezza ragionevole, così da non dover guardare tutti dal basso verso l’alto: potere ai bassi, per carità, ma il torcicollo veniva a tutti. Dopo una seduta di elaborato trucco allo specchio, quanto amava i preparativi?, nei quali era riuscita nell’opera di un delicato sfumato nero – argento sulla palpebra, era finalmente pronta per passare a prendere Aveline a New Hovel. Pronta e, ovviamente, in ritardo. Il rossetto rosso sulle labbra, che mai poteva mancare, ed una pesante giacca nera -che le arrivava quasi a metà polpaccio- dopo, la Hadaway si appropinquò finalmente alla smaterializzazione. Stringere la bacchetta nel pugno, aveva un che di sbagliato; era come se la sua stessa mano la rigettasse, non più parte del suo organismo. Aveva letto che il legame con la propria bacchetta avrebbe dovuto essere tutt’altro: parte di lei, naturale prosecuzione del suo arto. E allora perché, Lydia, la sentiva così… compromessa? Come un secondo battito che anziché essere sincronizzato sul suo, batteva quando il proprio taceva. Deglutì. È solo ansia, Lydia. Solo ansia.
    Riusciva comunque ad essere ancora efficiente, ed una mezza piroetta dopo, la rossa si trovava davanti ai cancelli di New Hovel in attesa di Aveline. Quando la porta di un appartamento si aprì, la Hadaway si stampò sulle labbra un sincero sorriso: ma non era Aveline, era… «Lydia!» Okay, quella come prova per lo svolgimento ufficiale di lì a poco, era accettabile. «Donnie, come stai?» Lui lanciò un’occhiata alle sue spalle, mugugnando qualcosa sui joystick e sulle coppie moderne, prima di tornare con i suoi grandi occhi azzurri su di lei. Non sembrava esserci biasimo, o giudizio, in quel suo sguardo troppo chiaro.
    Ma dopotutto, era la madre di un cacciavite. Probabilmente non la persona più affidabile su quella Terra. «Bene. Aveline sta arrivando» Lei annuì, grata che Armstrong non avesse accennato al Natale passato insieme. Senza alcool, era tutto dannatamente… difficile. Le persone, sempre così complicate eh? «e per l’altra sera…» Eccalà. Lydia impallidì, pronta a lanciarsi sotto il primo treno (#qualetreno?), quando lui le rivolse il sorriso. Non quello di circostanza, non biasimo, non critico; semplicemente il sorriso, quello in grado di richiamare ogni buona memoria soffocando ciò che di corrotto v’era nel ricordo. «Grazie» Senza parole. Non riuscì a rispondere, o a dire qualsivoglia cosa, prima ch’egli rientrasse nell’appartamento; ci metteva qualche secondo ad elaborare, poveretta, figurarsi a pensare una risposta semi intelligente. Si risolse in un «prego» appena bisbigliato, troppo basso perché lui potesse averlo sentito. Ma raramente, la Hadaway, si era sentita così appagata. Felice. la winception mi regala sempre gioie Salutò con un cenno Ashley e Jericho quando le colse di sfuggita al di là della soglia, ma la sua attenzione venne subito attirata da Aveline. Aveline Jodene era bella, e su quello non v’era da discutere. Non solo era attraente fisicamente parlando, ma era ella portatrice di quella bellezza più profonda, radicata nel sorriso e negli occhi chiari, in grado di scaldare anche il cuore più duro. Perfino il suo, che per tanto tempo aveva dimenticato cosa significasse calore. Poi c’era stato Jayson Matthews…. Ma quella, lo sappiamo, era un’altra storia. «Tanti auguri» Lydia si sciolse in un espressione di sincero affetto, mentre ricambiava i baci della ragazzina. «Anche a te. Ed il vestito è perfetto…Tu, sei perfetta» Aggiunse, stupita ella stessa da quel complimento inaspettato quanto veritiero, mentre le allisciava una ciocca di capelli rossi -una sfumatura però differente dalla propria. Forse, se fosse stata meno Lydia e più qualcun altro, si sarebbe perfino arrischiata ad abbracciarla. Invece le diede un buffetto, porgendole il braccio con fare galante.
    Ora ci spacchiamo.

    Non si spaccarono, in caso ve lo steste domandando. Oltrepassare i cancelli, che incombevano con fare cospiratorio sopra di loro, di Villa Hamilton fu inquietante. Sentì un brivido correrle lungo la spina dorsale, ma si obbligò a sorridere e ad andare avanti. Era solo una casa. Grande, ma una casa. C’era sempre quel senso di appiccicoso déjà-vu sulla pelle, testardo dietro le palpebre serrate di Lydia Hadaway. Le suonava familiare in maniera dissonante, come un jingle pubblicitario che pareva l’inizio di quella canzone tanto amata. Lydia… ma tu sai cos’è un jingle pubblicitario? No, io conosco solo Jingle Bells. #touchè «ora gli chiedo se mi adottano» disse sovrappensiero, mentre gli occhi verdi scivolavano sul viale che le avrebbe condotte alla Villa. Vivere in un posto del genere non le sarebbe dispiaciuto; la cosa divertente, era che lei in un posto del genere aveva vissuto, e l’aveva odiato con ogni fibra di sé stessa. Certo, non era stato in compagnia degli Hamilton (e loro riuscivano a migliorare(a) la situazione con il solo loro esistere #hamiltonescidaquestocorpo), quindi la situazione avrebbe potuto essere differente. E poi non ricordava di aver avuto una vita, quindi acab. Qua vi racconto di quant’è stupida, ma in senso buono eh, la Hadaway, che si perde a guardare i lampadari mentre Aveline va a salutare Jay; talmente nel suo universo da non accorgersi di nessun altro degli invitati –come se non fosse, quella, l’intera classe di Controllo in abiti più eleganti-, così come non vide la scalata della vittoria (al contrario #wat) di Rea e Gemes #suchashame. Trovarono Nathaniel solo grazie al grande fiuto della Jodene, la quale probabilmente l’avrebbe riconosciuto in mezzo ad altri mille. Un po’ come quel giochino in cui, in una vignetta piene di persone random che facevano cose random, bisognava trovare l’uomo con il cappello rosso e la maglia a righe blu e bianche. Woody, forse? «Capo» sorrise a denti stretti ad Henderson, ammonendolo con lo sguardo inquisitorio a non fare battute di cattivo gusto –e sapendo, tristemente, che non avrebbe comunque resistito. «ciao, io sono Lydia. Nate mi ha parlato tanto di te» Disse rivolta a Nonricordo Nonavevamodubbi, l’amico biondo di Nathaniel. E non era neanche vero, che gliene aveva parlato. Perché aveva detto una cosa del genere? Le persone fanno così, Lydia. Mentono anche sulle cose stupide. Che affari frivoli e sciocchi, i convenevoli. Quando Charlie Non Charlie si avvicinò a loro, salutandoli come fossero attaccapanni da arredamento, implorò con lo sguardo Nathaniel di non abbandonarli. PLISNATEINEEDYA. Avevamo già accennato a quanto poco ci sapesse fare con le persone? No? Allora quello era decisamente il momento più opportuno. Pensò che fosse giunta l’ora di telare, con un bel ciaone a tutti per cercarsi un anfratto di casa buio e recondito dove far dimenticare a tutti della sua presenza, ma il karma parve pensarla in modo diverso.
    Era bastato un attimo di disattenzione, dove i suoi occhi erano erroneamente scivolati su una figura in lontananza: familiare nella familiarità, un punto fisso che ritrovava, volente o nolente, in ogni luogo. Villa Hamilton, dove molti degli Esperimenti si erano trasferiti (ora che si trovava lì, ne capiva anche il perchè): e tutto ebbe un senso. Accennò uno stupido sorriso, irragionevole e decisamente involontario; anziché avanzare verso Jay, che come prevedibile era il soggetto di cotanta sbadataggine, meccanicamente fece un passo all’indietro. Chiamatelo destino, chiamatela coincidenza, o forse pura semplice disattenzione. Urtò qualcuno nel suo goffo retrocedere, e fin lì non ci sarebbe stato nulla di strano; fu strano, o quanto meno assurdo, inciampare su… sé stessa. Rimase immobile a guardare la ragazza, le labbra dischiuse in segno di sorpresa. «Per la barba di Merlino!» Tacque, lanciando un’occhiata a Aveline ed Elijah. Aiuto, dicevano i suoi occhi verdi, mentre in gola le parole avevano troppo timore di vedere la luce. «Puoi ben dirlo» Un soffio dalle labbra cremisi, mentre il suo sguardo incrociava … il suo sguardo.
    let the hollandception begin.

    role code made by effe don't steal, ask



    natale con il gruppo disagio, degeneri random, winception, parla con aveline/cazzeggia/saluta nate/ si presenta a elijah/cazzeggia di nuovo/ si scontra con freya perchè è un ippopotamo sotto le sembianze di un adorabile donna dalla chioma scarlatta
    ciao vi amo ♥


    Edited by parasomnia - 19/12/2015, 04:22
     
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  14. lestrange's revenge
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    SHERIDAN LESTRANGE ( ) - 16 - experiment - lestrange revenge - dress
    « Say you'll see me again even if it's just in your wildest dreams »
    Non sapeva come Todd Milkobitch fosse riuscito a scoprire che quel giorno, l'undici dicembre, fosse il suo compleanno, ma lo sapeva. Aveva ricevuto tre lettere quella giornata, tutte inaspettate ma che le avevano strappato un sorriso sincero. Una era di Rea Hamilton, lei sapeva quando fosse il suo compleanno perchè quell'estate, tra una chiacchierata ed un'altra, erano finite a parlare davvero di tante cose e nonostante questo Sheridan non si sarebbe aspettata che la ragazza si ricordasse del suo compleanno, e le aveva fatto piacere. Così l'aveva ringraziata con un Gufo con una lettera luccicante e profumata, davvero tipica di Sheridan. La seconda era una lettera di sua madre, l'aveva lasciata di stucco, inconsapevolmente felice, ma aveva evitato di illudersi di qualcosa che probabilmente non sarebbe arrivato. E poi c'era stata la lettera di Milkobitch.

    CITAZIONE
    ps. Sono Todd il ragazzo senza sopracciglia, ricordi? Il corvonero sfigato...
    pss. Verresti a Natale da me?...
    Scusa...la penna non mi fa cancellare i messaggi

    Todd. "

    Todd Milkobitch era riuscito in ciò in cui molte persone avevano fallito: aveva fatto ridere Sheridan, una risata sincera e non di quelle che avrebbe riservato a persone inopportune, non di quelle che spesso rappresentavano per lei una maschera. E Milkobitch non si era nemmeno impegnato per farla ridere, non aveva bisogno di apparire simpatico per forza, i suoi disagi erano reali, e Sheridan ne era realmente divertita. La vita di Todd sembrava costellata di buche nelle quali il ragazzo riusciva sempre ad inciampare. Stare con lui la faceva quasi sentire un'eroina, perché ciò in cui lui non riusciva lei sapeva compensarlo alla perfezione. Non aveva bisogno di umiliarlo, e non si sarebbe divertita nemmeno a farlo perché Todd ci riusciva perfettamente da solo! Ma aveva accettato il suo invito, un po' perché inizialmente, quando lui glielo aveva chiesto tramite quella lettera il giorno del suo compleanno, Sheridan non aveva un altro posto in cui stare per passare il Natale, e non voleva passarlo a scuola, insieme a coloro che non potevano far ritorno alle loro famiglie. Hogwarts non era casa sua, e per quanto bene ci stesse e per quanto riuscisse a comportarsi dentro quelle mura da perfetta principessina, ancora faticava ad accettare di non avere più una famiglia. Aveva risposto a Todd che sì, avrebbe passato volentieri il Natale a casa sua, perché sapeva che si sarebbe divertita e che la sua compagnia avrebbe coperto almeno un po' la mancanza di tutto il resto. Tutto sembrava stesse lentamente tornando al proprio posto: la lettera di sua madre, il ritrovamento di Shane, l'invito di Todd... L'unica cosa che non sembrava trovare posto era proprio Sheridan: difficilmente la sua vita avrebbe ripreso a scorrere come aveva fatto fino all'anno prima. Difficilmente sarebbe tornata ad essere la ragazzina che era. Ma Sher si piaceva così com'era diventata: indipendente e pronta tutto per tutto. Probabilmente non sarebbe nemmeno più voluta tornare dentro quel la campana di vetro in cui aveva vissuto, stava bene così, allo sbaraglio. Non aveva una dimora fissa, ma riusciva ad adattarsi alla perfezione a qualsiasi habitat. E così aveva trovato posto a casa degli Icesprite-Howe, aveva salutato uno Shane piuttosto spaesato e confuso, che comunque l'aveva riconosciuta nonostante la memoria persa. E poi si era recata a casa dei Milkobitch. Bradley era una donna simpatica, e Sheridan non si era risparmiata di aiutarla nelle faccende domestiche - rigorosamente usando il suo potere, mentre lei rimaneva seduta o a giocare con i fratelli bitches a Risiko o ad altri giochi in cui avrebbe potuto facilmente stracciarli. Aveva sentito un profondo calore familiare in quella famiglia, nonostante avessero anche loro non poche difficoltà, ma bè Sheridan non aveva davvero vissuto in una famiglia calorosa, quindi qualsiasi altro ambiente le sarebbe apparso più accogliente. Spesso aveva discusso con Todd, che poverino non avrebbe davvero mai potuto spuntarla con lei che voleva sempre avere l'ultima parola su tutto. E con Jeremy aveva trovato una sorta di alleato quando le serviva un appoggio contro il Milkobitch rosso. Non aveva ancora ben chiari i rapporti che scorrevano tra i due fratelli, ma che importava? Erano fatti loro.

    Aveva recentemente scoperto che Todd amava parlare da solo, e non era certo rimasta ad ascoltare quelle conversazioni senza dire la sua, ne aveva fatto finta di niente. Aveva sollevato un sopracciglio, guardando il ragazzo scetticamente e gli aveva domandato con chi stesse parlando. "Mickey" Oh d'accordo...ognuno aveva le proprie turbe dopotutto. Anche a lei, in verità, spesso capitava di parlare con figure inesistenti che facevano parte dei suoi libri di favole e che prendevano vita quando lei più preferiva... Ma era un piccolo segreto che non andava a raccontare in giro. Todd non sembrava avere di questi problemi - e figuriamoci se si fosse preoccupato di un amico immaginario dopo tutti i disagi che lo pedinavano. Ma Sher aveva voluto approfondire la questione, perché amava farsi i fatti altrui, davvero.
    La sera prima aveva dormito da sola in camera di Todd ed aveva curiosato in giro, aprendo i cassetti ed impicciandosi nei suoi affari, andiamo... Non era una cosa giusta da fare ma lei era troppo curiosa, chissene importava del resto? privacy? Quale privacy? Aveva trovato un libricino intitolato "Il piccolo principe". Leggendolo aveva ricollegato la figura del bambino all'amico immaginario con cui Todd amava parlare, forse perché secondo il ragazzino lui veniva da un altro pianeta.
    Aveva indagato ancora alla vigilia di Natale, per assicurarsi che il "Mickey" di cui Todd parlasse fosse proprio quella figura. Magari aveva letto quel libro da piccolo e ci si era affezionato, Sher non poteva saperlo e non la riguardava. La sera di Natale si era convinta a fargli un regalo speciale, perché voleva ricambiare il regalo che lui le aveva fatto al compleanno - e c'era chi diceva che Sheridan non fosse una persona generosa! Dopo una discussione tra Jeremy e Todd - della quale Sheridan aveva sentito ogni parola dall'inizio alla fine grazie al suo udito, reso super fine dal suo potere (aveva pure riso quando Jeremy si era lamentato di non voler diventare zio così giovane, inconsapevole del fatto che Sheridan non avesse ne utero ne ovaie), aveva chiesto a Todd di dormire con lei quella sera, ovviamente nel sacco a pelo.
    Quando lui era andato a trovarla, per dormire, Sheridan si era fatta trovare seduta sul letto a gambe incrociate, con il mano quel libro. Siediti Bitch, e tieniti forte Lo aveva avvertito, e tenendo il libro dinnanzi a sè, aveva idealizzato la figura del bambino sulla copertina, aveva passato una mano su di esso, lentamente, ed aveva immaginato di vederlo comparire dinnanzi a loro in carne ed ossa. Ed eccolo, comparso al centro della stanza di Todd. Abbiamo visite Aveva sorriso, consapevole di essere un genio. No, Todd, non ringraziarmi e si ora lo vedo anche io. Giochiamo a qualcosa? Una bella vigilia, no?

    La mattina dopo Sheridan aveva fatto la conoscenza di Heidrun, la sorella di Todd e Jeremy e Sheridan non aveva potuto fare a meno di iniziare ad invidiare quella famiglia, che sebbene si fosse riunita in occasione del Natale, dava alla ragazza la sensazione che non si fosse mai separata.
    E la loro sorella maggiore era simpatica, spontanea, faceva desiderare a Sheridan di averne una uguale. Come poteva non ridere mentre a tavola venivano raccontati aneddoti imbarazzanti su Todd? DAI avrebbe voluto vivere lì. Si perse in questi pensieri, desiderando fermamente di avere un giorno qualcosa di simile che potesse avvicinarsi a questo. Un minimo sarebbe bastato. Era talmente presa da loro che non si rese conto nemmeno del cambiamento della ragazza quando apprese il suo cognome. Dopotutto Sheridan era sempre rimasta fuori dagli affari loschi dei suoi genitori, quindi non poteva sapere che Heidrun avesse avuto a che fare con loro.
    Poi il ventisei era tornata a casa degli Icesprite, lasciando Todd con il pensiero di invitarlo poi a Capodanno alla Villa degli Hanilton, per ricambiare il suo invito. Ma il ragazzo l'aveva preceduta, oh che tenero che era ad invitarla ad una festa a casa sua - si, Villa Hamilton era un po' casa sua alla fine u_u - così aveva chiesto aiuto a sua zia cugina Sarah per scegliere un vestito che potesse andare bene per capodanno. Ne aveva scelto uno un po' vistoso, luccicante, esattamente come piaceva a Sheridan. La preparazione per la serata le aveva portato via circa due ore e si era fatta aiutare da Sarah per rendere i capelli mossi. Aveva anche chiesto a Shane di andare con lei, ma i genitori si erano opposti, perché era ancora troppo presto per farlo andare in giro senza memoria - e senza poteri, ma Sheridan non lo sapeva - specialmente a casa degli Hamilton. Todd, Jeremy con Heidrun alla guida erano passati a prenderla in macchina e si erano così recati alla villa.

    La conosceva bene la Villa degli Hamilton, perché ci aveva passato tutto agosto, ma adesso sembrava essersi incredibilmente popolata dopo l'ultima volta che l'aveva vista. Rea era affiancata da quello che doveva essere il suo fidanzato, un giovane niente male, WOW. Sarebbe andata a salutarla quando si fosse liberata dal ballo con il suo professore di controllo poteri, ed avrebbe salutato anche lui. Todd hai portato il contapassi? attento dove metti i piedi, non voglio fare brutta figura...conosco un sacco di gente e si aggiustò i capelli con fare vanitoso guardandosi intorno, magari avrebbe anche fatto conquiste quella sera #sisi
    Una figura non meglio identificata ma che nella mente di Sheridan si era aggiudicata il titolo di "abominevole uomo delle caverne" si presentò con il nome di Shia Hamilton. Ma Sheridan, al contrario di Jeremy e Todd, si limitò a squadrarlo ancora prima di dargli la mano per stringerla e presentarsi. Non lo sapeva, ma la sua diffidenza le avrebbe risparmiato un sicuro bad trip. Prima Jeremy, poi Todd, iniziarono ad avere strane reazioni, mentre lei lì impalata non sapeva cosa fare. Guardo Heidrun, ma lei sembrava...tranquilla? Si, purtroppo sei Todd. Rispose alla sua domanda Che diavolo ti prende?... Non aveva idea di cosa Todd avesse, ma lo avrebbe controllato a vista (?) per evitare che si buttasse in piscina.
    the heart is deceitful above all things,


    ricordi di Natale, parla con Todd, interagisce con Shia Jeremy e Run ma niente di che uu


    Edited by Lestrange's Revenge - 13/7/2016, 16:27
     
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    Seguendo il sogno americano, Stiles aveva abbandonato il lavoro ai Tre Manici alla ricerca d’un futuro più roseo su altri lidi. Il suo obiettivo (no okay, il piano B) era quello di aprire uno studio tutto suo, così da poter fallire con classe, per aiutare i ragazzini disgraziati come Brian Kent, o come un più giovane Stiles (sì, ora è gnocco. Problemi?). Il punto era che per farlo gli servivano dei soldi, e per avere dei soldi gli serviva… beh, un Cooper lavoro. Aveva viaggiato in lungo e in largo per trovarsi un’occupazione, ma con scarsi risultati: sarà perché win ancora non ha fatto i MAGO? Probabile. Quindi, era un quasi diplomato (no, lui era diplomato, noi ancora non lo sappiamo ma un diploma ce l’aveva) giovane disoccupato: welcome to reality. Il suo sogno nel cassetto era, in realtà, lavorare nel mondo babbano. Probabilmente al San Mungo avrebbe trovato un posticino per sé, e gira che ti rigira avrebbe davvero portato un curriculum #maqualecurriculum, però non era quello ciò che Andrew Stilinski voleva fare della sua vita. Tanto assurdo poi non era, dopotutto, il fatto ch’egli volesse lavorare distante dalla vita che aveva contraddistinto la sua adolescenza: torture, morte, paura. Nello specifico, e questo era ufficialmente il Piano A, occuparsi di tutti quelli che, venuti a contatto con il mondo magico, fossero stati privati della memoria dagli oblivianti. Troppo spesso questi lavoravano in maniera superficiale, e non di rado i babbani assistevano a scene che per loro erano raccapriccianti, e per i maghi ordinaria amministrazione. A cavallo fra entrambi i mondi, Stilinski trovava surreali le condizioni di vita della popolazione magica; presumibilmente era quella la sensazione provata dagli inglesi durante il nazifascismo: due realtà che entravano in colluttazione fra loro, profondamente diverse ma entrambe contemporanee. Se ancora non aveva completamente abbandonato Hogsmeade e dintorni, era solo per i suoi amici. Quella vita che, malgrado tutte le sofferenze, era riuscito a costruirsi all’interno del micro cosmo parallelo all’abitudinaria vita londinese. Qualche mese prima, i fremelli gli avevano piazzato sotto al naso un foglio (che lui probabilmente avrebbe dovuto leggere) intimandogli di firmare; lui, senza farselo ripetere, aveva firmato. Non sapeva di averli, ingenuamente, appena assicurati ad una vita di tormenti e orrori, considerando che grazie a lui erano liberi di vivere a Villa Hamilton. ora, direte voi… che problema c’era? CHE PROBLEMA C’ERA?
    Il problema era nato due anni prima, nel lontano Natale 2013. I fremelli ancora non esistevano, e Stiles poteva contare i suoi amici sulle dita di una mano (chiusa a pugno): era rimasto ad Hogwarts solo perché consapevole che avrebbe fatto un piacere a suo padre; perché, nonostante fosse Stilinski, non poteva non pensare allo sguardo negli occhi chiari del suo unico genitore. Disappunto, malinconia. Lo sguardo confuso di chi si sforzava di comprendere un figlio che, dal canto suo, faceva di tutto per farsi erroneamente comprendere: copriva i lividi, le bruciature, i graffi; rispondeva in maniera sciocca anche, se non soprattutto, quando si rendeva conto che il proprio interlocutore necessitava di un punto serio; scherzava sul suo futuro, anche se il futuro era l’unica cosa che gli era rimasta. Comunque, dicevamo, Hogwarts, festa di Natale. Sembrava una serata tranquilla, da passare in compagnia di quei tre compagni stronzi che come lui avevano deciso di non lasciare il castello e degli insegnanti obbligati ad assisterli (baby sitter, sì). Ma, come ormai Stiles aveva imparato, nessuna festa è realmente una festa nel mondo magico. Rea Hamilton aveva deciso di passare una divertente serata a giocare a obbligo o verità con loro, tenendoli in ostaggio come un fiero membro dell’Isis. Una terrorista, capite? Una fottuta terrorista. Ed i fremelli cosa facevano? Le stavano alla larga? Ma no, certo che no, ecchebellichesonogliHamiltonandiamociavivereinsieme. Terroristi ed assassini. Grande, complimenti fremelli. Vivissimi. Problema loro, per carità; lui li aveva avvisati -«io non credo che siano normali» «perché, tu lo sei?» touchè Xav, touchè-, e se dopo due mesi erano ancora vivi, significava che forse da lui non avevano preso nulla. Andiamo, Stilinski sarebbe morto alla prima sillaba, neanche il tempo di dire il buongiorno. Non era il loro tipo, non era un vip. Era solo un mago, all’incirca, mediocre nella mediocrità.
    Ma almeno era simpatico.
    Tutto ciò per dire che i fremelli l’avevano abbandonato, ecco. Gli mancavano quei due ingrati, ma ehi, non si poteva avere qualunque cosa dalla vita. Voleva passarli a trovare, davvero, ma gli altri abitanti lo terrorizzavano. Sarebbe stato un pessimo supereroe, ne era cosciente. Una fortuna che fosse solo uno Stiles. Immaginate ora il suo stupore nel constatare che nella Casa Malvagia avrebbero tenuto una festa di Capodanno (cena con il delitto? Morto a capodanno morto tutto l’anno? Non abbiamo l’intimo rosso, è solo il tuo sangue?) e nessuno si era preoccupato di invitarlo. Ma dico, io, vi pare una cosa normale? Se fosse stato un ragazzo qualsiasi ne sarebbe rimasto offeso, o perlomeno affranto. Ma era Stiles, ed era abituato a non essere calcolato dal genere umano. Era riuscito a strappare Xav e Jay almeno per Natale, probabilmente il più divertente della sua vita. Non aveva avvisato Stilinski senior degli ospiti, ancora incerto sulla storia dei gemelli (chi dei due? E io avevo un gemello? Fantastico, l’avevo sempre sognato), per cui era stato a dir poco epico bussare alla porta della zia con appresso i due felicissimi babbani. Sapeva che gli volevano bene, a loro modo, e sapeva anche che se l’avevano seguito in quella follia era solo per lui: Xavier poteva fingere quanto voleva di sbattersene le palle, ma erano fremelli. Certe cose, Stiles le sentiva. E sì, anche il Natale era passato, simpaticamente come ogni anno. Suo padre aveva sparso la voce che si trovasse in un istituto di correzione del comportamento, non poteva certo dire che fosse ad Hogwarts («Pà, ma sei scemo? Gli hai detto che sono in riformatorio?» «è la prima cosa che mi è venuta in mente» capite da chi aveva preso?), per cui ogni anno Andrew si divertiva a mettere in imbarazzo i parenti con storie da galeotto. Poter vantare i fremelli al suo fianco, era stato più fantastico di quanto un umano mai potesse raccontare: Jay che cercava di sotterrarsi, e Xav che gli dava man forte. L’amore ai tempi della trinità. E nessuno l’aveva notato, ma quell’anno Andrew Stilinski aveva messo nel presepe ben tre Gesù. Uno dei tre era fluorescente, regalo dei cinesi vicino a casa, ma a chi importava? Brillava, un po’ come le mani di Xav quando si arrabbiava. Aveva tutto un senso.
    La cosa un po’ triste, era che quello era stato davvero il suo Natale migliore. Non lo scalfivano gli sguardi di suo padre, non le frecciatine di Xavier, non la disapprovazione nelle labbra serrate degli zii: era con la sua famiglia, e tanto gli bastava. Tanto si faceva bastare. Più di quanto mai avesse avuto, in ogni caso.
    Ma perché stiamo parlando della alquanto patetica vita di Stilinski? Ah, già, festa e nessun invito. Come se la cosa avesse mai potuto fermarlo: considerando che i biglietti erano sparsi in giro per il mondo, l’aveva preso come un esortazione personale. I fremelli non ci avevano pensato, ehvabbè, ma se erano gli Hamilton in persona ad invitarlo, chi era lui per rifiutare?
    Sì, temeva di morire. Sì, avrebbe preferito tagliarsi le unghie con uno stuzzicadenti piuttosto che andare. Ma cosa non si faceva per la famiglia, eh? Quello era il motivo che l’aveva spinto, qualche giorno prima, a scrivere una lettera a Karma Montgomery.
    Karma Montgomery, un altro dei motivi che lo tenevano ancorato a quel mondo impedendogli di fuggire. Cos’erano Karma e Stiles? Cosa significa? Che domanda è, eh? Cosa vuoi da me? Lasciami stare. Ora che abbiamo chiarito che questo punto non s’ha da chiarire, torniamo alla lettera: “Yo” Yo, giuro. Aveva proprio scritto yo. “Vieni a una festa il 31? Ci sarà un po’ di gente” E certo, Stiles, è una festa. Cosa ti aspettavi? Che poi, come minimo, ci siete solo tu e gli Hamilton, perfino i fremelli ti danno buca. Sai che ridere? Ah.ah.ah.ah no okay non fa ridere. “perfetto, ti passo a prendere verso le 21. Ciao.
    p.s. buon natale (?)”
    (?) COSA, stiles? È natale o no? . Allora cos’è quel punto interrogativo dubbioso? La vita. La vita è il mio dubbio.

    Mio Dio, ma come ho fatto a passare i Mago? non l’hai fatto. Ah, già. Stiles si grattava la nuca, mordendosi nervosamente il labbro inferiore. Molto, molto più difficile del previsto. Continuava a lanciare occhiate alla ragazza seduta di fronte a lui, nessuno aveva compreso esattamente come fosse successo che proprio loro fossero finiti in squadra insieme, ma lei non faceva altro che sorridergli in maniera incoraggiante. Tassorosso. Psicomaga. Avrebbe potuto essere lui fra qualche anno, specialmente se non si fosse tagliato i capelli #wat. «stiles…… mano destra sul giallo» Ora, perfino Hope stava perdendo la pazienza. Ma ce ne rendiamo conto? Lei, LA MILLS, dolcezza fatta persona. Traspariva debolmente da tono, sapeva che aveva timore d’offenderlo, ma era comunque palpabile. E scusatelo, figli miei, se quella era la mossa finale e lui viveva nell’ansia. Era già stato stracciato la partita precedente (eh, scusatelo se lui era un tronco di bambù mentre Shane era un ex spogliarellista Pole danzatore. Stiles e Idem Withpotatoes, la giovane con cui era in squadra a Twister, avevano mangiato la polvere di Howe e Hope; entrambi credevano che l’altro - Idem Stiles, Stiles Idem- l’avesse fatto apposta. “Che dolce, vuole farli vincere! Proprio un Tassorosso” e invece, la triste verità era un’altra. #allbymyself), non poteva perdere anche quella. Che poi, nessuno di loro aveva voglia di giocare, se non Idem: «è il mio gioco preferito, ormai è una tradizione a Capodanno» Ma quale immensa gioia, eh? Quello che Stilinski non sapeva, era che quando Shane era piccolo amava davvero quel gioco (solo per far cadere gli altri, ne era certo), e la …cugina? #boh, se n’era ricordata. Aveva pensato di poterlo mettere a suo agio, con ciò che all’epoca Howe amava. Ma le cose, ovviamente, cambiavano. O almeno, avrebbero dovuto cambiare.
    Lo sguardo, irrimediabilmente, scivolava spesso sull’ex caposcuola. Sapeva che c’era stato un qualche incidente durante la sua sparizione, ma nessuno era entrato nei particolari –dopotutto, chi era Stiles per loro se non uno sconosciuto?. Ha perso la memoria, gli avevano detto. Solo quello. Nessuno si era sprecato a spiegargli quella sensazione di vuoto nel vedere i suoi occhi verdi piatti, privi della scintilla che sempre vi aveva visto brillare. Nessuno gli aveva detto quanto asettica sarebbe suonata la sua voce, mentre pronunciava il nome di Stilinski. Non l’avevano avvisato di quanto ci si sentisse invisibili, sotto lo sguardo di qualcuno alla quale, incomprensibilmente per tutti, si era affezionato, e che a sua volta non lo riconosceva. Non uno dei migliori rapporti, Shane e Stiles, senza dubbio; per la maggior parte del tempo Howe voleva vederlo morto, ed aveva le sue ragioni, eppure… aveva visto la parte più nascosta di Stiles, a strategia. Andrew non l’avrebbe mai dimenticato. E non poteva che sentirsi egoisticamente sollevato, nel sapere che lui invece non ne avrebbe serbato alcun ricordo. Aveva perso dieci anni della sua vita, e nonostante fossero stati compagni di scuola, per lui non era più nessuno.
    Non gliel’avevano detto, quanto avrebbe fatto male.
    Eppure v’era un’innocenza in quel sorriso, che Andrew nei sette anni mai aveva visto. Qualcosa di incontaminato, che ancora poteva dare i suoi frutti. Non era più il ragazzo sempre triste, turbato da una vita che pareva schiacciarlo, troppo più grande. Era solo Shane Howe, uno Shane che Stiles, a differenza di Hope, non aveva mai conosciuto. Era felice per lui? ovvio. Solo… solo era un’altra persona che, senza dire addio, se n’era andata dalla sua vita. L’ennesima. Avrebbe dovuto farci il callo, eh?
    Troppi pensieri per un solo Stiles, e si sapeva che i pensieri pesavano. Cadde. Lui e Idem persero, di nuovo. «un’altra?» domandò lei, ma sia Stiles che Shane le lanciarono un’occhiataccia #chiappatia. La più diplomatica fu come al solito Hope, che sorridendole le disse che c’erano altre cose che avrebbero potuto fare. Dando uno sguardo all’ora, Andrew si rese conto che fra quelle cose c’era una festa… a cui era già in ritardo. Fantastico. E dire che, quando aveva visto Sheridan uscire, aveva pensato dovrei andare anche io: buffo come perdere faccia smarrire il senso del tempo. Si alzò spolverando i vestiti, constatando di essere ancora in semi pigiama, quindi fece una smorfia verso la popolazione: i genitori di Shane –sua madre lo terrorizzava, il padre sembrava a posto…? Nel dubbio aveva preferito non parlare con nessuno-, i suoi due ex professori –terrorizzato da entrambi, ovviamente, ma perché sto ancora a specificarlo?-,i Withpotatoes –strani eh, ma c’era di peggio-, Hope e Shane. Forse Lucas? Sara non l’ha ancora capito, nel dubbio non lo cita tanto i Grifi puzzano. «bene, io devo andare. Grazie signor Icesprite e signora Icesprite. Professori» chinò il capo imbarazzato, conscio ma non abbastanza del fatto che non fossero più suoi insegnanti. «Hope, divertiti. E tienilo d’occhio, secondo me bara» bofonchiò abbracciandola frettolosamente. «shane, io…» si grattò la nuca, togliendo dalla tasca della camicia una foto ormai stropicciata. «so che…» cosa bisognava dire in quei casi? So che non ti ricordi di me, e al momento non te ne potrebbe fregare di meno, ma mi piacerebbe che l’avessi? Mi piacerebbe che, solo guardandola, tornassi quello di una volta? Che egoista sarebbe stato, a volere una cosa del genere. «tieni, è per te. È sempre stata la tua preferita» Bugiardo. Era la foto fatta ai Tre Manici, quando era stato costretto in modo subdolo e meschino ad indossare un cappello a forma di Ananas. L’inizio della Shales, mica cazzi. anche #mlmlml #finefasciaprotetta. «buon anno…?» Alzò le sopracciglia, perennemente confuso dai convenevoli fra le persone normali. Si diceva buon anno prima dell’effettivo anno nuovo, o portava sfiga? Allungò una mano per stringere quella del ragazzo, ma poi optò per un fuckthesystem e lo strinse brevemente in un abbraccio. Ah, se solo avesse saputo che l’ultima volta che erano stati così vicini, lui era stato perdutamente innamorato di Stilinski ed aveva agognato solamente il momento propizio per incastrare il suo puzzle.
    Bei tempi.

    Aspettò fuori dai cancelli di Hogwarts che Karma, più in ritardo di lui, si presentasse all’appuntamento. Non ebbe neanche il tempo di essere nervoso, perché avrebbe dovuto poi? Pff, troppo impegnato a cercare con lo sguardo caramello il biondo -presumibilmente cocainomane, date le occhiaie bluastre- che quell’anno insegnava Trasfigurazioni. A Stiles non importava che tipo di droga pippasse, aveva le occhiaie blu più belle di sempre. Aveva sentito un legame, ne era certo. C’era feeling fra loro, era innegabile… il che era strano, considerando che Andrew aveva sempre preferito i mori. Ma nel suo cuore, Stiles lo sapeva che era moro, quel Biondo, era moro dentro. La sua anima percepiva il Russell interiore, che importanza poteva avere il suo aspetto? L’avrebbe riconosciuto ovunque. Lo sapeva che c’era un motivo di fondo, se lui e Nic erano amici: non solo erano bird watcher, erano anche bird watcher dei medesimi uccelli.
    E se non era amore quello.
    Quando Karma comparve nel suo orizzonte, potè percepire fisicamente il proprio cuore scontrarsi contro le costole, la gola stringersi, le labbra inaridirsi. Era così...«non male» meravigliosa. un sorriso sghembo sulla bocca sottile, mentre il battito continuava ad impazzare nello sterno. Morgan, lo percepiva perfino nelle orecchie. Quanto poteva essere socialmente imbarazzante? Troppo. Siete solo amici … che hanno subito qualche incidente di percorso. Ma si poteva, razionalmente, essere amici di una ragazza come la Montgomery? L’aveva vista, vista per davvero, non solo con la maschera strafottente che era solita portare in ogni dove. Senza quel sorriso di scherno e quel trucco pesante, in posizione fetale sotto le lenzuola leggere, la pelle ad un soffio dalle dita di Stiles. E quelle mani, che lei non lo sapeva ma si stringevano sul cuscino. E quelle labbra, che talvolta avevano chiamato il suo nome. Lui era stato lì, sempre, a parlare ad una stanza dove di sveglio v’era solamente egli stesso. «non vado da nessuna parte» bisbigliava, confortato da quella notte sorda dove nessuno avrebbe potuto udirlo. Ma, invero, se ne andava sempre. Non importa quanto resti, se alla fine te ne vai. «devo ancora passare a casa a farmi la doccia e cambiarmi. Sì, siamo in ritardo, ma tanto da qui alla mezzanotte c’è tempo. E poi è giusto così: siamo VIP, mica plebe. È giusto che ci attendano» credici, Stilinski.
    Si smaterializzarono nel vicolo scuro vicino a Casa Catapecchia –detta anche CataStiles-, quindi entrarono. Mentre era sotto la doccia, pregò tutti i Morgan, le Morgane, i Superman ed i Rastrelli che suo padre non lo mettesse in imbarazzo, come già aveva fatto quell’estate quando avevano ospitato la ragazza. Convinto, ingenuo d’un uomo, che finalmente si fosse fatto la fidanzatina. «sai, pensavo fossi gay» gli aveva detto una sera a cena, quando la Monty abitava ancora con loro, causando risatine nella Serpeverde ed un soffocamento nel Tasso. «stia tranquillo signor Stilinski, era in buona compagnia» l’occhiata di Stiles la convinse a tacere, mentre cercava di non morire per un nuggets incastrato nella trachea. Che modo stupido sarebbe stato per morire, lui poi, che era sopravvissuto alle fantasie più depravate della Sicla (un vero peccato che si fosse perso la Jamicla al completo). Ah, se solo suo padre avesse saputo che aveva limonato più pene che vagino muniti! e dire che, in realtà, davvero non gli piacevano i ragazzi. “Però, ehilà, ho paccato il Ministro della Magia!” E diciamocelo: se in quell’arena, nel Labirinto, ci fosse stato Stiles e non Jay, si sarebbe limonato anche Morgan. E poi #CIAONEREAL.
    Indossò vestiti a caso, obbligato dall’amore provato verso Xav e Jay a non mettere la maglia disegnata a smoking. Un paio di pantaloni rossi (non era superstizioso eh…….però, provare che gli costava? Non si sputa in faccia alla fortuna), del medesimo colore del farfallino, un imbarazzante camicia a quadri blu e bianchi ed una giacca blu. Pareva il cosplay hipster di Eleven (doctor who? No eh?), ma che si accontentassero. Capodanno veniva una sola volta all’anno (all’incirca, dopotutto si iniziava a festeggiare il 31 e si finiva l’1).

    Lindi e profumati, ma soprattutto belli, la Starma si smaterializzò davanti a dei cancelli non dissimili a quelli di Carrow’s District. Il paragone non fece che mettergli i brividi: stiamo andando al macello, morirà anche l’ultimo fremello. «spero di essere sobrio quanto questo posticino, fra un’oretta» commentò facendo schioccare la lingua sul palato, mentre si avviava verso il portone. Maigad, una persona gli prese la giacca. Ma succedevano ancora quelle cose? E, ma che cazzo, erano tutti vestiti eleganti. Beh, poteva sempre spacciarsi per Stevens e rovinargli la piazza, approfittando del fatto che per una volta la situazione fosse invertita: di solito era lui che, in giro per il castello, faceva outing per Stiles. Ma soffermiamoci sugli Hamilton. in primo luogo, q u a n t i erano? Si erano moltiplicati? Sto male, perché sono venuto qua, muoio sicuro, riportami a casa Karma, sono malvagi lo sento, Karma hanno diciassette anni da un po’, Karma sono dei fuckin Cullen, Karma ma chi me l’ha fatto fare. Stava per iperventilare. Arraffò due bicchieri di champagne, e molto poco da gentleman se li scolò entrambi, porgendo poi i bicchieri vuoti alla Montgomery. La guardò, in quel modo. Quello specifico, proprio lui.
    Panico. Pa - panico. Pa - panico.
    E per Stiles, il panico non era paura: erano guai. Le persone normali erano paralizzate dal nervosismo, lui invece diventava iperattivo. Come un bambino che s’era fatto una dose di marshmallow, inzuppati nella nutella, ed infine rotolati nello zucchero di canna. HE WAS A FUCKIN DRAGON. «aaaaaaaaaaaaaaaaaaa. Aaaaaaaaaaaaaaa. Siamo educati? Siamo educati. Certo che lo siamo, perché non dovremmo?» a passo deciso, come un leone rampante, si avvicinò a quello della scalinata. Lo vedeva nei suoi occhi, che era Hamilton. Malvagio. Stiles, morirai giovane. LIVE FAST, DIE YOUNG, BE WILD AND HAVE FUN, NO? «Salve, buonasera, grazie dell’invito. Bella casa. Salve. Ci vediamo» Un saluto del Capitano dopo, le fantomatiche due dita alla fronte con tanto di ammiccamento, si stava fiondando su Evil n°1. No vi prego, perché? «mi ricordo di lei. ha sempre avuto un debole per le feste, eh Rea? Ci ha drogato anche questa volta, eh Rea? No? peccato ciao bello fare la sua conoscenza ehi ohohoh buon Natale» Ora svengo. Arrancò fino a lato della sala, e quei corti capelli castani li avrebbe riconosciuti ovunque.
    Fremelli.
    «stevens, matthews. Mi sa che ho fatto una cazzata». @hello, it’s me, me sto morendo? «perché sono venuto? Vi odio, ma non potevate andare a vivere con i Withpotatoes? Perché gli Hamilton? raga, una sincope. Un infarto forse. Nascondetemi»
    E purtroppo, non era droga, non era alcool, e non era effetto Shia: non stupefacente di natura, solo fatto. Madre perdoname por… ah no, mamma è morta.
    Fremelli perdonateme por mi vida ai fornelli, m’han fatto entrare ai cancelli ed ora… ora sono amari uccelli.

    role code made by effe don't steal, ask



    Non ho idea di cosa io abbia scritto, MA...... alla festa interagisce, in ordine, con: Karma #ovvio, Gemes, Rea #winception, Fremelli
     
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74 replies since 15/12/2015, 03:06   4063 views
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