Are you insane like me?

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    Mi sveglio di soprassalto. Un altro incubo. Il brutto è che stavolta non mi ricordo neanche cos'ho sognato, il che è davvero molto creepy, ma creepy sul serio. Tento di normalizzare(?) il respiro, passandomi la mano destra sulla fronte madida di sudore. Mi alzo quindi con un gran sospiro dal letto...avviandomi verso la cucina. Non ho bisogno di accendere la luce: conosco quelle stanze, quei corridoi, quei muri a memoria. Dopotutto, ci ho passato un'intera vita! Riesco a raggiungere la mia meta in pochi secondi, con passo calmo, senza andare a sbattere da nessuna parte. Ho in mano la bacchetta. Strano, non ricordo di averla presa da sopra al comodino.In ogni caso, per pronunciare l'incantesimo sussurro, perché mamma e Michael stanno dormendo. Lumos maxima. un minuscolo fascio di luce viene sprigionato dalla punta della mia salice, che illumina alla stanza aiutandomi nella mia ricerca: dove ha lasciato Mike il cartone di latte? Guardo sul bancone, ma non ce n'è traccia. Inevitabilmente, la luce illumina lo specchio alla mia sinistra, poco distante. Ed è allora che capisco che c'è qualcosa che non va. Mi avvicino allo specchio con passi decisi, mentre il mio riflesso mi imita. La mia pelle ha certe imperfezioni sugli zigomi, tipiche degli adolescenti. I miei capelli sono fin troppo folti, non li porto così da anni. E sono sicuro di non essere più così basso almeno dall'ultimo anno di scuola. Ovvero da quando me ne sono andato di casa ed ho iniziato a vivere da solo. Prima ancora che possa riflettere e chiedermi che Morgan sta succedendo? mi sento prendere da un paio di forti braccia, che in un attimo mi stringono la vita. Una mano poi si mette a cercare il mio viso ed io non faccio in tempo a divincolarmi, a morderla, a fare qualcosa. Ed in ogni caso, non sarei stato in grado di difendermi neanche se mi fossi reso conto dell'arrivo di quella figura misteriosa. Ecco che mi copre la bocca ed il naso ed io non riesco più a respirare. Provo ad urlare, ma non ci riesco. Non perché ho la bocca tappata, ma proprio perché dalla mia bocca non esce alcun verso. Non capisco ed ho una paura tremenda. Vedo ancora il mio riflesso nello specchio davanti a me. I miei occhi sono quelli di un animale ferito dai cacciatori che sa di essere ormai spacciato e aspetta soltanto il colpo di grazia. Nello specchio, però, riesco anche a vedere il volto di colui che sta tentando di uccidermi e che certamente, se non smette adesso, ci riuscirà: è August. Ed ora è mamma. Ed ora è Michael. E io mi sveglio.

    Appena apro gli occhi sento un urlo terrificante, che solo dopo pochi istanti mi rendo conto essere mio. Stavolta ci metto molto a riprendermi e rimango a letto, con la schiena poggiata alla testata, almeno per un'ora. So benissimo cosa significano tutti questi incubi -come potrei non saperlo? amo auto-psicanalizzarmi per poi sentirmi un totale idiota ed una persona orribile - , semplicemente tendo a non pensarci. Fuori sta sorgendo il sole ed io mi decido ad alzarmi. Appena poggio i piedi a terra, incontro il liscio pavimento di parquet e mi rendo subito conto di essere a casa mia. Stavolta dovrei essere sveglio. Mi dico tra me e me, come se dovessi tranquillizzarmi. In cucina -che è anche salotto ed ingresso, #mainagioia #dovevopropriofareilfigliomodelloenonaccettareisoldidimamma - trovo la caraffa di caffè freddo che evidentemente mi sono dimenticato di rimettere in frigo ieri sera. Poco importa, siamo a Dicembre, fa un freddo bestiale e dubito che si sia riscaldato più di tanto. Me ne riempo una tazza e vado a sedermi sul divano dove, portandomi la tazza alle labbra, scopro di non aver avuto torto riguardo alla temperatura del caffè. #facciamochequestaèunagioia Una volta terimnata la caraffa intera, - se non dormo per un bel po' sono ben contento - mi accorgo del gufo che picchietta il suo becco sul vetro della mia finestra. Mi avvicino dunque e tiro in su il vetro, mentre lui entra e mi abbandona sul bancone della mia cucina il nuovo numero del Daily Prophet. L'abbonamento era una cosa pratica, alla fin fine, avevo fatto bene ad ascoltare il consiglio di Michael. Inizio a sfogliare il giornale svogliatamente, pensando che dovrei essere in ospedale alle due del pomeriggio e sono soltanto le sei di mattina. Decido di avviarmici in quello stesso istante: non avrò appuntamenti, ma il lavoro non manca mai: potrei occuparmi dei pazienti in reparto, mettere a posto i fascicoli in un ufficio...e così decido di fare: mi faccio una doccia, mi vesto in fretta e raggiungo l'ospedale.

    Una cosa tira l'altra, guardo l'orologio: le due meno un quarto. Mancava poco al mio primo appuntamento della giornata: Arabells Dallaire. Alzai un sopracciglio. Non ricordavo quando la ragazza avesse preso appuntamento, poiché non mi sembrava di aver mai sentito quel nome. Mi lasciai cadere sulla sedia con uno sbuffo. In ogni caso, avrei avuto una risposta alle mie domande di lì a poco.
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    «vuoi andare da uno psicomago?» la domanda di suo padre l’aveva colta impreparata, un cucchiaio di cereali ancora a metà strada fra la tazza e la sua bocca, spalancata per la sorpresa. Elijah era in giro con quella palla di pelo che si erano ritrovati a dover tenere a casa propria, evidentemente Nate era troppo impegnato a fingere di essere un pirata cazzuto per potersi permettere un cane, al massimo un pappagallo, e lei si era ritrovata a condividere un altro di quegli amabili silenzi con Theo. Bells non riusciva ancora a perdonarlo per averla fatta andare in Francia l’anno prima, e lo sapevano entrambi. Era tornata a casa per le vacanze natalizie, e non si era sprecata a mostrarsi una, ma che dico, mezza volta felice di essere nuovamente ad Inverness. L’unica cosa che rendeva tollerabile la sua permanenza in Scozia, erano i Fraser dall’altra parte della strada. E Elijah?. Elijah era un tasto dolente, per Arabells Dallaire. Ci aveva provato a fingere che tutto fosse come prima, ci aveva provato ad ignorare l’estraniante senso di vacuità negli occhi di suo fratello. Ma non era come prima, e prima l’avesse accettato, prima sarebbe riuscita ad andare avanti. «dovrei?» domandò retorica, corrugando le sopracciglia mentre infilava il cucchiaio con quella che era ormai diventata poltiglia insapore fra le labbra. E per lei, la conversazione era finita lì. Ovviamente non si era sprecata a portare il Veritaserum a casa, ritenendolo un accessorio superfluo. Elijah non avrebbe riconosciuto una menzogna neanche se gli avesse morso il culo, con suo padre non parlava, sua madre non scherziamo neanche, ed i gemelli sapevano ch’ella non poteva essere sincera. Meglio tenere le scorte per quando sarebbero state effettivamente necessarie, dato che erano un lusso che Lies non poteva permettersi. Inoltre, se proprio fosse stata questione di vita o di morte, avrebbe potuto essere sincera, e tutto grazie al marchio che la legava ad Oscar. Ma lui, oh, lui avrebbe sofferto. E Bells, al contrario di quell’ingrato di un Fraser, ci teneva a non fargli alcun male, non più. Blaze sembrava dimenticarsi di quanto ogni cellula dolesse ogni volta ch’egli tentava di dire una menzogna, lasciando la francese in preda a deliranti sofferenze apparentemente ingiustificate. «ciclo» sibilava lei fra i denti a chiunque le chiedesse cosa avesse, maledicendolo in tutte le lingue conosciute e non. «io credo che dovresti» Ovviamente Arabells si era già dimenticata di cosa stesse parlando, sempre che si potesse definire parlare, con Theo, al quale infatti rispose con un’occhiata interrogativa, continuando a masticare apaticamente i cereali. «fare cosa?» Nel dubbio, in una condizione come la sua, era sempre meglio rispondere ad ogni domanda con un’altra domanda. «andare da uno psicomago» si tamponò elegantemente le labbra con un tovagliolo, cercando di soffocare una risata amara. Dovette perfino tirarsi qualche pugno sullo sterno, perché un cereale aveva deciso che fosse troppo mainstream seguire la strada del cibo. «certo…» rispose, convinta che stesse scherzando. Insomma, era un modo di dire, giusto? Lei lo diceva sempre a Jack.
    Ok, forse quando lo diceva a Jack non era un modo di dire, era sincera: Jack, sul serio, fatti curare. Ovviamente non veniva mai presa sul serio, dato che lo Psicomago ad Hogwarts era Stilinski (sul serio, Stiles) ed il suo assistente era Jeremy (proprio Jeremy Milkobitch). Ogni volta che faceva visita a quei due, tornava più sbronzo di quanto non fosse uscito dalla sala comune. Quasi magia. «sul serio, arabells. Ti ho preso appuntamento per oggi» che… cosa? Lasciò ricadere il cucchiaio nella tazza, producendo un tonfo sonoro che ben s’addiceva all’espressione sconvolta della ragazza. «perché mai?» domandò, controllando il proprio tono così da non mettersi a gridare. Non era pronta ad affrontare di primo mattino una discussione con suo padre, consapevole che l’avrebbe persa – e male. «credo che tu abbia bisogno di aiuto, per la faccenda di elijah» Ma pensa, allora vivevano sotto lo stesso tetto! Bells ne aveva dubitato più volte, ritrovandosi troppo spesso a prendere posizioni del tutto opposte a quello di suo padre, chiedendosi s’egli vedesse, sentisse, quello che vedeva e sentiva anche lei. E dire che avrebbe dovuto essere lei quella cieca. In tutta sincerità, era stupita dal fatto che Theo si fosse accorto che qualcosa non andava, ma preferì tenerlo per sé. Deglutì, incrociando le braccia sul petto. «non c’è nessuna faccenda di elijah» mentì, senza distogliere lo sguardo dalla figura di suo padre, seduto dirimpetto a lei con la Gazzetta del Profeta aperta sotto al naso. «arabells…» Alzò le sopracciglia, sfidandolo a continuare la frase. Cosa che, ovviamente, lui fece. «è un ragazzo giovane, puoi parlargli anche dei tuoi… amici» non le piacque il tono con cui aveva pronunciato la parola amici, quindi rispose corrugando ulteriormente le sopracciglia. Ad Elijah non avevano mai detto niente, malgrado le sue compagnie non fossero mai state le migliori. Anzi, sembrava perfino che Nate gli piacesse. Ma certo, il problema non erano gli amici di Arabells: il problema era Bells, unica ragazza fra troppi maschi. Misogino! «i miei amici non hanno niente che non vada» non riuscì a trattenere un mezzo sorriso di scherno, un’ironia che avrebbe compreso solamente lei. Chiunque avesse avuto il piacere, ma più spesso il dispiacere, di conoscere i Catafratti, avrebbe saputo che era più raro trovare qualcosa che andasse piuttosto che il contrario. Theo si strinse nelle spalle, abbassandosi gli occhiali sulla punta del naso per lanciarle un’occhiata allusiva. «l’hai detto te, non io» che padre bitch. Il broncio si fece più acuto, i pugni stretti contro al costato. Ma aveva mai guardato la gente con il quale usciva Elijah? Sul serio? «è solo un appuntamento, arabells» ma lo sapevano entrambi che non sarebbe mai stato solo un appuntamento. In cuor suo, un po’ si sentiva sollevata dal fatto che suo padre avesse preso in mano la situazione. Alla deriva. Una parte di lei avrebbe voluto rifugiarsi fra le braccia, metaforiche, di uno sconosciuto, lasciando galleggiare i propri problemi nel vuoto laghetto degli affari di qualcun altro, alleggerendo il proprio fardello. L’altra… l’altra era Arabells Dallaire, bugiarda per obbligo e passatempo; non ammetteva i problemi neanche a sé stessa, figuriamoci a qualcun altro. «e se dicessi di no?» azzardò ipoteticamente, poggiando la schiena contro il sedile. «andresti comunque»ah, che piacere avere delle conversazioni così stimolanti con Theodore Dallaire. Strinse le labbra fra loro, alzando gli occhi al cielo con un sorriso dal sapore agrodolce sulla bocca. Non aveva mai avuto voce in capitolo. «grazie, Theo» si congedò, strisciando la sedia sul pavimento. Proprio in quel momento entrò Elijah, accompagnato dal latrare felice di… Natajah. Lo so, non avete parole. Neanche Bells ne aveva avute, quanto un orgoglioso Nate ed un felice Elijah gliel’avevano presentato. «fatti accompagnare al san mungo da elijah, hai appuntamento alle due» Un lieve sorriso, di nuovo ironico, increspò le labbra della Corvonero. Certo, come idea sarebbe stata davvero brillante, se solo Elijah avesse potuto smaterializzarsi. Ma questo, ovviamente, Theo non lo sapeva. Lanciò un’occhiata al fratello, e continuò a guardarlo ammonendolo a tacere mentre rispondeva a suo padre. «certo, nessun problema» asserì. ma un problema, invece, c’era. Fortuna che la Dallaire aveva anche già la soluzione.
    E si chiamava Campbell.

    Infilò il cappotto blu che le arrivava fin sotto le ginocchia, coprendo così il semplice maglioncino grigio ed i jeans scuri; un paio di scarpe eleganti, quelle da ginnastica non facevano al caso suo, blu come il cappotto, cercavano di farsi strada fra fastidiosi cumuli di neve, mentre la Dallaire procedeva a passo spedito verso la casa dove sapeva abitare il suo insegnante di Corpo a Corpo. Era un ometto tutto particolare, adorabile e paciocco come un biscotto al cioccolato. Arabells l’aveva sempre trovato esilarante, ancor prima di scoprire fosse il fratello di Deimos (che poi, le dinamiche dei Campbell, le erano davvero oscure). Comunque era un brav’uomo, ed ogni volta che Arabells aveva avuto bisogno di una mano, c’era stato. Incomprensibile come gli sconosciuti fossero sempre più gentili rispetto alle persone a cui avrebbe effettivamente dovuto importare. Quando giunse al numero civico di Phobos, Bells aprì il cancello senza attendere istruzioni, arrivando alla spessa porta di legno dove cominciò a battere il pugno. Quasi sicuramente stava facendo la sua pennichella, ormai era abituata ai suoi ritmi (wat) ma gli voleva bene anche per quello. «professor campbell?» neanche fuori da Hogwarts Bells si azzardava a chiamarlo con il nome di battesimo, temendo che potesse pensare lo stesse usando per avere voti più alti #wat. Era solo l’unico adulto che conosceva, togliendo per ovvi motivi suo padre, Elijah, Nate (ma andiamo, Nate non era considerabile adulto) e… i suoi professori, ma nessuno di loro viveva da quelle parti. «profes- buongiorno professor campbell» gli rivolse il più dolce dei suoi sorrisi, battendo dolcemente le palpebre sui particolari occhi eterocromatici. «potrebbe per piacere darmi un passaggio al san mungo?»
    Ed ecco come Arabells giunse davanti alla porta dell’ufficio di un certo De Lamort Greengrass. «non è possibile» bisbigliò, trattenendosi dal prendere a testate il muro. Suo padre le aveva preso appuntamento con il FIGLIO DELLA BUSLTRODE? Quella donna era malvagia, non lo sapeva? Come minimo, e non sarebbe stato così surreale supporlo, aveva farcito l’ufficio di suo figlio con cimici e altra roba da spionaggio dei Censori. Fantastico. Strinse i denti rassettandosi la giacca, e dopo un profondo respiro si convinse a picchiare le nocche contro il legno; senza attendere di essere invitata, Bells posò la mano sulla maniglia e socchiuse la porta, facendo capolino solo con parte della testa. «è qui la festa?»


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    Continuava a fissare il nome della ragazza scritto con la sua grafia troppo grande e troppo storta, incerta, un po' come quella di un bambino. In effetti, non era cambiata di molto da quando aveva undici anni, così come non era cambiato lui. Più si ripeteva lettera dopo lettera le credenziali della sua paziente, meno riusciva a definire il suo volto nella sua testa. L'aveva mai vista, Arabells Dallaire? Probabilmente no. O forse sì, ma non se la ricordava, dopotutto era un ventitreenne solo, praticamente innamorato del proprio fratello gemello ed con un' adorazione esagerata per sua madre disposto di una memoria pari a quella di un pesce rosso. Tentò di ricordarsi chi aveva preso appuntamento per lei. Era venuto qualcuno? Avevano chiamato? Se era già stata in studio doveva per forza avere un fascicolo...ma certo, un fascicolo! Doveva cercare un fascicolo a nome Dallaire, Arabells. Aprì con un pugno il cassetto difettoso della sua scrivania che si aprì con un fastidioso suono metallico, mostrando agli occhi color nocciola dello psicomago una lunga serie di cartelline gialle con delle linguette che recitavano il nome del paziente, per una consultazione più rapida e semplice. Sotto la D, nessuna cartellina a suo nome. Nell'istante esatto nel quale se ne accorse, sentì un leggero bussare sulla porta e, una volta alzato lo sguardo verso di questa, bofonchiò in ritardo un Avanti! quando la ragazza era già entrata nello studio. Niente da fare, Arthur non era mai stato tipo da multitasking o da multifocusing(?). Ci metteva un attimo a passare da un'attività all'altra e di certo non si poteva concentrare su due cose allo stesso tempo. All'espressione della bruna, sul viso del giovane si dipinse un'espressione confusa ma divertita, le sopracciglia aggrottate e la bocca leggermente aperta. Come? disse con una risatina, scuotendo appena la testa. E' scemo, che vi devo dire. Non è che è intelligente ma non si applica, proprio non ci arriva. Si alzò dalla sedia per avvicinarsi alla Corvonero, il camice leggermente spiegazzato sul quale si poteva leggere, sopra ad una taschina posta all'altezza del petto a sinistra dei bottoni, nella quale sostava una penna autoscrivente, "Dr. De Lamort Greengrass" - laura presa con i punti ogni dieci euro di spesa, ve lo dico io - che si muoveva ad ogni suo passo. Le tese una mano, per poi stringerla con vigore nel caso l'altra avesse presa, mantenendo il contatto visivo. Molto piacere Arabells, io sono Arhur, Sì, tendeva a presentarsi per nome con i suoi pazienti sotto i trenta, per qualche strana motivazione. Potreste pensare che è tutta tattica(?) per mettere i nuovi clienti a loro agio, ma in realtà no, mica è così intelligente da arrivarci. E' risaputo che il cappello parlante lo ha messo tra i corvi per pena e perché in realtà lui doveva stare tra i tassi ed Aiden tra i corvi e c'è stato uno scambio di identità. Prego, accomodati pure. La invitò quindi, indicandole con un ampio gesto della mano sia la comoda poltrona in pelle scarlatta che stava di fronte alla sua scrivania, sia il divanetto, poco più lontano, della stessa fattura, sul quale la giovane si sarebbe potuta comodamente sdraiare. Tornò al suo posto, sedendosi composto e giungendo(?) le mani sopra la superficie liscia della scrivania, il collo in avanti e lo sguardo che andava a gettarsi negli occhi azzurri di Bells. Rimase così per qualche istante, a guardarla, come se si stesse aspettando da lei qualcosa. E forse lo stava facendo davvero. Si illuminò solamente qualche istante dopo, scattando sulla sedia ed alzando l'indice verso l'alto, per rimarcare il concetto(?). Oh, giusto! disse leggermente imbarazzato, andando a dare un altro pugno al cassetto sotto a quello difettoso, che era ancora più smonco del primo, che si aprì con un rumore peggiore del precedente. Dentro vi erano riposti, uno sopra l'altro, dei fascicoli nuovi mai utilizzati, che il giovane iniziò a compilare con le credenziali della sua nuova paziente. Allora, Arabells... disse, scrivendo con tutta la concentrazione di cui era capace. parlami un po' di te. Concluse con un sorriso rassicurante, alzando giusto per un istante lo sguardo nella sua direzione.
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    Diciamo che come primo approccio con il suo psicomago avrebbe potuto andare meglio. Arabells, la mano ancora sulla maniglia, osservò a sopracciglia inarcate l’espressione confusa dipinta sul volto del giovane, un sorriso a labbra strette fra i denti. Doveva davvero spiegargli la battuta, o si stava prendendo gioco di lei? Era forse un test? Da Corvonero, nonché anima perennemente in competizione con il mondo, non poteva che domandarselo: e si sapeva, che Arabells Dallaire passava sempre ogni tipo di test - tranne quello dell’etilometro, ma dipendeva dal giorno della settimana-, quindi si limitò a tacere. Non ricordava che la sua professoressa di storia della magia avesse un figlio così giovane. Ricordava a malapena che aveva due figli gemelli, ma effettivamente non si era mai preoccupata di informarsi sul loro conto – perché avrebbe dovuto? Al contrario di quanto si dicesse dei Corvonero, non era il genere di persona che voleva sempre sapere ogni cosa nel più minuzioso e ricercato dettaglio, partendo preparata con un dossier sulla situazione da affrontare. Un tempo, con il timore costante di non essere all’altezza, avrebbe anche potuto prendere in considerazione l’idea di spendere il proprio tempo in un’accurata ricerca, così da non risultare impreparata. Quello, però, sarebbe stato prima dei Catafratti, con i quali aveva imparato ad eccellere nell’antica arte dell’improvvisazione; un tempo senza Oscar, Arci, Jeremy e Jack, d’altro canto, faticava a ricordarlo. Dal primo giorno in cui aveva messo piede ad Hogwarts, tenacemente aggrappata al braccio di Chris ed Oscar, loro avevano fatto parte della sua vita. Si era appena conclusa la cerimonia dello smistamento, che come prevedibile l’aveva assegnata ai Corvonero, quando aveva conosciuto Jack. Seduto di fianco a lei, era stato il primo ad elencarle i cibi presenti sulla tavolata, offrendosi di riempirle il piatto. Quel genere di attenzioni non la turbavano: sapeva che erano dovute alla sua mancanza, ma andiamo!, le piaceva essere viziata, ed avere un fratello come Elijah non aveva di certo aiutato («dai bells, non ti porterò la colazione in camera, stai diventando viziata» «ma è così difficile scendere al piano di sotto… non puoi capire, vedente» «smettila» «dai eli, per favore» sporgeva il labbro inferiore all’infuori, volgeva lo sguardo opaco verso dove immaginava essere il fratello, e daaamn il gioco era fatto. Non dico che Elijah Dallaire fosse facilmente manipolabile, semplicemente nessuno resisteva alle cortesi e dolce richieste di Arabells – figurarsi un cuore di panna come il bruh.) Nel giro di due secondi seduta alla propria tavolata, qualcuno le aveva già picchiettato sulla spalla: «sono bellissimo e circondato da cheerleader» «dai arci, non approfittarti di lei solo perché non può vedere quanto sei sfigato» «non fidarti di lui, è solo invidioso perché fa schifo ai Marciotti. Io sento che lei saprà riconoscere la Verità, tassofesso: terzo occhio, ricordi?»
    Era stato amore a prima vista, come sottolineava sempre Leroy. «anche perché se ti avessi visto» rispondeva Arabells, sventolando i corti capelli castani. «non saremmo mai stati amici» e sorrideva, l’innocenza di una bambina mai cresciuta e la malizia di chi l’aveva fatto troppo in fretta. Non che si fosse mai offesa per le battute sui ciechi (dai, era cresciuta con Nathaniel Henderson: neanche ve le sto a contare le volte in cui le aveva lanciato oggetti, o aveva finto di farlo, al grido di «al volo!»), semplicemente era un po’ bitchy di natura. Ma ehi, l’avevano sempre amata così.
    Avanzò all’interno della stanza, mantenendo composto il sorriso cordiale sulle labbra sottili. Quando il giovane le si avvicinò per stringerle la mano, fu rapida a ricambiare la stretta fingendo che quella situazione non la stesse mettendo a disagio. Il problema non era Arthur, come le si era affabilmente presentato, ma il motivo (o meglio, la persona) che l’aveva spinta ad essere lì. Non le piaceva dover andare da uno psicomago, malgrado questo fosse davvero carino ed adorabile. In effetti, avrebbe tranquillamente potuto far diventare divertente la sua permanenza in quel luogo: era abbastanza brava a giudicare le persone, ed il figlio della Bubu le appariva così patatone, che sarebbe stato un gioco da ragazzi metterlo in imbarazzo. Sì, lo sappiamo tutti ormai: Arabells Dallaire era nata solo ed esclusivamente per rompere i boccini al genere umano, ed il genere umano non poteva fare altro che tollerarla – troppo precious per sbarazzarsene. Lo faceva senza malizia, con il divertito sorriso di un bambino che trovava un nuovo passatempo. Era quell’innocenza velata che impediva agli altri di odiarla (esclusa Sharyn: Sharyn la odiava e basta), oltre al fatto che raramente si spingeva al di là del limite di sopportazione.
    Raramente, però, non significava mai: chiedete a Thad per conferma.
    «piacere mio» rispose gentile, prendendo posto sulla poltrona cremisi, dirimpetto alla scrivania, che Arthur le aveva indicato. Le sembrava un po’ presto coricarsi al primo appuntamento, non era mica una facile la Dallaire (Oscar se l’era sudata per anni #ihihih). Forse prendere posto è un po’ riduttivo: da brava ribelle, Bells incrociò le gambe sulla seduta, poggiando sopra le cosce i gomiti affilati. Theo l’aveva voluta mandare da uno strizzacervelli? BENE, Bells gli avrebbe dato una ragazza da strizzacervelli.
    Bastava chiedere.
    Guardò Arthur in attesa di qualsivoglia reazione, e dovette soffocare una risata nel palmo constatando quanto impacciato fosse. Moriva dalla voglia di alzarsi e dargli una mano, magari sedersi vicino a lui e suggerirgli le domande da porle. Al contempo, però, preferiva non farlo arrabbiare: non sembrava un tipo vendicativo, ma lo conosceva appena – ed era pur sempre il figlio della Bubu. Non poteva essere troppo diverso dalla madre, malvagia creatura dal cuore di pietra e la mente di ferro. Arabells teneva abbastanza alla sua media scolastica da non sfidare la sorte con il figlio della sua docente di storia della magia. Sì che c’era il segreto professionale, ma quando mammina cara era la capah della censura, c’erano pochi cazzi che tenessero. « Allora, Arabells... parlami un po' di te» avrebbe potuto prendere sue strade, la Dallaire – tre, se vogliamo includere la lontana possibilità di essere sinceri. Tentata di seguire la prima strada, mostrandosi come una giovane donna tossico dipendente, ninfomane, con istinti autolesionisti e magari, boh, un figlio?, quando preferì optare per la seconda – meno invasiva, ma altrettanto efficace. Non scherzava sul sincero timore di trovare cimici nell’ufficio di Arthur, e voleva evitare che la Bulstrode si presentasse al suo cospetto con un giornalino porno ed una confezione di pasticche, il freddo sorriso malefico sulle labbra sottili: «allora, dallaire, vuoi favorire?». Si sistemò più comodamente sulla sedia, le palpebre aggrottate nel chiaro intento di focalizzarsi su un pensiero. «nah» rispose, scuotendo il capo. Si strinse nelle spalle, inumidendosi le labbra e volgendo al giovane il più brillante dei sorrisi nel suo repertorio. «parlami un po’ di te prima. Comma n° 32 paragrafo 4 capitolo 5 del manuale “Lo psicomago perfetto”: apriti per far sentire a suo agio il paziente» se stava mentendo? Ovvio – non che avesse altra scelta. Se quel manuale neanche esisteva? Sicuro. L’aveva visto insicuro, traballante, ed aveva intenzione di far leva su quella debolezza: sì, ci chiediamo tutti come fosse possibile che condividesse il sangue di Elijah. «hai scelto di fare lo psicomago perché avevi problemi con tua madre?» domandò sinceramente interessata, chiudendo il pugno sotto il mento. Si morse la lingua, abbassando lo sguardo sulle proprie mani. «non volevo essere… irruenta» beh, sì che lo voleva. Ma fingere non le avrebbe fatto male, no? «è solo che… di solito è così. sai come siamo noi corvonero, dobbiamo sempre scoprire se ciò che viene scritto sui libri sia vero o meno» ma quando mai, e che libro. «curiosità puramente professionale. Rimarrà fra noi: dopotutto la nostra conversazione è confidenziale, giusto?» Il sorriso, se possibile, si allargò di più, illuminando tenuamente i vivaci occhi chiari.
    Oh, sì, sarebbe stato sicuramente divertente.
    Perdoname Bubu por mi vida loca.
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    Una volta finito di scrivere le informazioni base che aveva della ragazza che stava seduta di fronte a lui, aveva girato pagina, ritrovandosi davanti tanti fogli bianchi dalle dritte righe grige sulle quali sarebbe andato a scrivere tutto ciò che avrebbe ritenuto importante fra le parole della Corvonero. Arthur era quel tipo di persona che quando gli altri decidevano di confidarsi con lui riteneva ogni singola parola essenziale; il suo lavoro lo aveva costretto ad imparare a scegliere cosa fosse più utile prendere in considerazione per essere d'aiuto nel modo più veloce ed efficace possibile. Una volta capito che fare una scelta era necessario, comunque, non gli era stato difficile imparare a farlo: era ingenuo, sì, un po' svampito, ma sua madre gli aveva donato un'intelligenza e una prontezza di mente non irrilevante, che alla fine gli avevano fatto guadagnare un bel posticino al tavolo dei Corvi. Aveva alzato allora lo sguardo verso la mora per concentrarsi su di lei, le mani giunte posate sulla scrivania, i gomiti appoggiati al bordo della stessa. Ce la metteva tutta, lui, a fare bene il suo lavoro. Insomma, gli piaceva, gli dava soddisfazioni, lo faceva sentire in grado di fare qualcosa. E che cosa! Aiutare le persone era forse la cosa più bella che potesse fare per vivere, dal suo punto di vista. Certo, alle volte gli risultava difficile. C'erano dei soggetti che lo psicoanalizzavano prima che potesse farlo lui, il che lo metteva sempre a disagio e lo lasciava lì, tentennante come un pokémon dopo una mossa volta al confondere, indeciso sul da farsi. E Arabells Dallaire stava per rivelarsi un paziente proprio di quella tipologia. Se alla prima domanda che le aveva rivolto, di routine, si aspettava una risposta solita - che solitamente era quella sbagliata, perché sì, agli occhi di uno psicomago esiste anche una risposta sbagliata al "parlami un po' di te - e banale come "Sono xx, ho xx anni, frequento il xx anno ad Hogwarts e sono Corvorossifoverde. Mi piace il Quidditch, uscire con gli amici, bla, bla bla", la ragazza puntò su un'originale "No". Paziente anima pia qual' era il biondo, sebbene già un poco a disagio, il Greengrass posò la testa di lato, un sorrisetto imbarazzato disegnato sulle labbra. Come no? In tutta risposta, la paziente decise di chiedergli di lui, citando per giunta un documento del quale Arthur non ricordava nemmeno l'esistenza. Panico. Panico. Calma. Panico. Parlarle di lui? Ma come? Era come chiedere al genio, appena uscito dalla lampada, di utilizzare come primo desiderio la sua libertà per fare in modo che non vivesse più in un minuscolo spazio vitale: non aveva senso! E poi, lo psicomago perfetto. Ricordava perfettamente gli infiniti ed interminabili pomeriggi passati a studiare per filo e per segno ogni singolo manuale che sua madre gli aveva trovato sulla psicomagia, "Lo psicomago perfetto" non figurava tra quelli. Nella bionda testolina, era impossibile che una paziente appena arrivata lo stesse così spudoratamente prendendo in giro: doveva essere stata la Bubu incapace di reperire quello scritto. Glielo avrebbe fatto sapere. Nota per me numero 677: chiedere alla mamma di trovarmi altri manuali. In ogni caso, non avrebbe iniziato aprendosi con lei, no di certo. Non era il suo modus operandi: se mai si confidava, dopo un paio di sedute, di essersi trovati in situazioni simili a quelle descritte dal paziente e di aver agito così e così, per far capire loro che non erano gli unici ai quali capitavano certe cose. Ma come prima cosa dirle che il venerdì sera si faceva la cioccolata con i marshmellow mentre si guardava i film per famiglie delle 21:10 su inghilterra 1...proprio no. hai scelto di fare lo psicomago perché avevi problemi con tua madre? Ecco, quella invece era una questione diversa. Se era il paziente a fare una domanda diretta di quel tipo, preferiva rispondere. Per fare in modo che si fidasse, che non lo reputasse un totale sconosciuto - quale in effetti era - lontano anni luce dalla vita di colui che stava seduto in poltrona. Però diciamo che la Dallaire aveva posto la domanda in chiave...quasi accusatoria, o in ogni caso poco gentile dal punto di vista di Arthur, che prese un poco di colore sulle guance. Non ti preoccupare le disse quindi in risposta alle sue scuse. La ragazza frequentava Hogwarts, indubbiamente conosceva sua madre e forse, come molti altri, non riusciva a vederla come una figura materna. La verità era che Emily era affettuosa solo con i suoi figli...Anche io ero Corvonero. si affrettò quindi a dire, per farle vedere che già avevano qualcosa in comune. Level up! Empatia +1, Sicurezza +1.E sì, certamente, la nostra conversazione è interamente confidenziale. A dire il vero, ho sempre avuto un ottimo rapporto con mia madre. Ho scelto di fare lo psicomago perché le persone mi piacciono e vederle tristi, sconsolati, senza speranza mi fa stare...male. sospirò allora con tutta la sincerità e l'innocenza infantile di questo mondo. A te capita mai? Sì, le stava chiedendo se era capace di empatizzare. Era un primo tentativo per capire se era una psicopatica o poter scartare l'opzione, no?

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