In the moment we're lost and found

PRE QUEST #06 Aveline x Will

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    - SALA TORTURE -


    17 ▪ MEDIUM ▪ SHY SOUL ▪ RED HEAD ▪ SWEETBLOOD ▪ TORTURE ROOM ADDICT ▪ OH, DEAR!
    Nonostante i numerosi gingilli che le erano stati regalati e che avrebbero dovuto assicurarle una nottata tranquilla, molti degli spiriti che infestavano le sue notti sembravano più potenti di quelle magie, riuscivano ad aggirarle con sentimenti ed intenzioni più forti di qualsiasi cosa. Riusciva a sentirli ancora prima di vederli, provava ad ignorarli nascondendosi sotto le coperte, avvolta come un fagotto ma nemmeno là sotto riusciva ad essere al sicuro. Non bastava nascondersi per sparire, né chiudersi sotto le coperte per pensare di essere al sicuro e non sentirli. Eppure non tutti erano cattivi, non volevano farle del male, ma la morte, così incredibilmente misteriosa e terribilmente dolorosa, non riusciva a capirla come avrebbe voluto. Sarebbe mai stata in grado di utilizzare quel potere in maniera utile? All'inizio, quando ancora non aveva capito in quale strano mondo fosse finita, quegli spiriti l'avevano terrorizzata. La notte scivolava fuori dal letto, correva a piedi nudi nella stanza buia cercando di non inciampare e provando a rintanarsi nel primo angolo disponibile, credendo di impazzire. Provava a nascondersi finché qualcuno di vivo non andava da lei a calmarla e farle capire che non avrebbero potuto farle del male perché non esistevano davvero. Spesso questo qualcuno era Jericho, la stessa ragazza che la ospitava nel suo letto quando la notte diventava insopportabile. Accadeva raramente, perché l'ultima cosa che Aveline avrebbe voluto era di diventare un peso per gli altri, ed anche se Jericho continuava a ripeterle che non sarebbe mai stata un peso, Aveline cercava di affidarsi alle sue premure notturne il meno possibile. Sapeva che presto o tardi avrebbe dovuto traslocare da quell'alloggio che ospitava gli studenti fino ai diciassette anni, ed il suo tempo lì era limitato, a settembre avrebbe iniziato a vivere a New Hovel e questo la spaventava, perché non avrebbe avuto più Jericho vicina, per un intero anno - o forse di più? - Quella notte non ce la fece, si convinse ad alzarsi dal proprio letto, con il cuore nel petto che non voleva saperne di calmarsi, e con passi lenti, attenti a non fare rumore per non svegliare tutto il dormitorio, si diresse verso il letto dell'amica, per sdraiarsi con lei. Un mugolio le fece capire che aveva capito che fosse lei, e le fece spazio per farla sdraiare al suo fianco. Un giorno avrebbe imparato a fregarsene e a non temere più quelle presenze, ma quel giorno era ancora lontano, al momento riusciva a malapena a conviverci. Quando i primi raggi di quella mattina grigia illuminarono il dormitorio femminile di Different Lodge, Aveline era sveglia già da un po', ma fortunatamente aveva dormito senza problemi per qualche ora. Come al solito, si sentì in dovere di scusarsi con Jericho per averla svegliata e come al solito lei si dimostrò disponibile ad aiutarla. Non era tutta dolore e sofferenza, l'esistenza di Aveline, certo che no! Anzi lei si era sempre reputata una persona felice e persino fortunata: sarebbe potuta essere morta, come sua nonna o sarebbe potuta impazzire, come sua madre. Invece era sana, in salute e soprattutto era viva. Poteva definire quel periodo della sua vita in un solo modo: difficile, ma questo non le toglieva la voglia di vivere, ancora meno la voglia di combattere per uscirne. Si impegnava davvero per rafforzare quel potere che aveva, sperando un giorno di riuscire ad accenderlo e spegnerlo a proprio piacimento, sperando di imparare a difendersi quando ne sentiva il bisogno e non solo grazie a casi fortuiti. Per il momento però doveva accontentarsi delle capacità che aveva, che non erano tante. Quando quell'aguzzina l'aveva presa quella mattina, come altre volte era successo quell'anno, Aveline non aveva nemmeno fatto in tempo a salutare Jericho che era ignara di quello che sarebbe successo e convinta che la rossa si stesse recando in biblioteca per il suo turno di lavoro. Non aveva fatto in tempo ad urlare, perché le risate di quella ragazza avevano coperto ogni suo verso. Lasciami stare, devo andare a lavorare. Non oggi! Patetica. Non oggi, certo, un'ottima scusa, era sicura che dopo quelle parole l'aguzzina l'avrebbe lasciata andare senza fiatare e senza opporsi. Povera sciocca. Si era aggrappata alla parete adiacente alla porta di entrata della Sala torture, cercando di rimanervi attaccata il più possibile mentre la donna la tirava da un braccio per costringerla ad entrare nella stanza. Quella Sala rossa e priva di finestre la faceva soffocare, sentiva il respiro diventare pesante, faticoso ed infine mancava, non arrivava più aria nei suoi polmoni. Ti prego lasciami stare! Minacciava di piangere per la paura, ma al tempo stesso cercava di frenare ogni emozione perché se avesse pianto si sarebbe sentita anche peggio di come stava. “Non devi avere paura, oggi non sarai tu ad essere torturata” Quelle parole la fecero calmare un po', ma solo relativamente, perché sapeva che qualcun sarebbe stato torturato comunque.
    Rimase interdetta per un attimo, con sguardo fisso sull'aguzzina che intanto sorrideva. “Oggi tocca a qualcun altro, ma sarai tu a torturarlo. AVANTI” Le lanciò contro una frusta nera di cuoio, che cadde ai suoi piedi, e con un braccio indicò un'altra ragazza legata alla parete con delle catene ai polsi. ”Avanti! Pensi che abbia tutto il giorno? Questa stronzetta è più babbana di te, che schifo. Comunque, sono sicura che lei sarebbe più che disposta a frustare te. L'aguzzina sorrise, raccogliendo la frusta che aveva tirato poco prima e mettendogliela in mano. Con una spinta decisa sulla schiena, poi, la mandò direttamente dinnanzi alla ragazzina legata e piangente. Sembrava non avere più di quattordici anni o giù di lì. La stessa età che aveva lei quando era stata rapita, strappata dalle braccia di sua nonna e buttata in un laboratorio. Esistevano tante storie tristi al mondo, ed una delle tante era lì dinnanzi a lei, e piangeva, mentre Aveline non riusciva a spiegarsi come si potesse voler far del male ad una persona che aveva già sofferto tanto, si domandava come si potesse voler far del male ad una persona indifesa e legata alla parete. Osservò con sguardo triste i giovani lineamenti della ragazza dinnanzi a lei e con la mano munita di frusta le accarezzò la guancia. Non piangere, loro non aspettano altro, davvero. Le asciugò una lacrima, dispiaciuta per non essere abbastanza forte da poter salvare entrambe. Non era ancora abbastanza forte da riuscirci.
    L'aguzzina non contenta del suo gesto le arrivò alle spalle afferrandole i capelli rossi e stringendoli in pugno per poi tirarli e farle chinare la testa di lato. Ahh… faceva male ogni volta, si lamentò lasciando cadere la frusta a terra e cercando di liberarsi da quella presa violenta, allontanando la donna con le mani.
    ”Stupida babbana senza poteri, quando imparerai ad ubbidire?“
    Qualcuno avrebbe potuto dire che Aveline non fosse in grado di odiare, ma non era così, lei sapeva odiare benissimo ed odiava quella donna.
    Aveline Jodene [ sheet ]
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    Edited by Aveline Jodene - 17/3/2016, 12:40
     
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    Mnemosine, io dovrò farti il simbolo sulla nuca: la ragione. E tu.. dovrai farmelo sul petto, sopra il cuore: fede. Un brivido lo percorse, mentre le dita scivolavano delicate laddove sapeva essere il tatuaggio fatto l’anno prima del quale nessuno, men che meno William Barrow, pareva avere memoria. Era un semplice triangolo la cui punta andava verso il basso, una linea orizzontale vicino alla base che ne travalicava i confini, scivolando sulla pelle. «sarà qualche puttanata da hipster» aveva risposto allo sguardo perplesso del proprio riflesso, cercando di cancellare con il pollice quei segni neri. Aveva scosso il capo, decidendo –perché di decisione razionale s’era trattata- di non approfondire: era come se, inconsciamente, fosse consapevole che la risposta avrebbe potuto fargli più male che bene, riaprendo ferite che, nuovamente, l’avrebbe lacerato senza possibilità di scelta. Si sono fidati, e li ho traditi. Hanno scelto me. Hanno sbagliato. Gli sembrava di essere sempre sul punto di fare una scoperta importante, come un bambino che s’affacciava alla finestra sul cortile sperando di poter cogliere un brandello di quel mondo che ancora gli era precluso per poi rendersi conto, al limite del campo visivo, di non aver ancora aperto le persiane. Senza contare che Will, la speranza, l’aveva persa da un po’. Anzi, peggio: non ricordava di averne mai posseduta, immemore di quell’elettricità sotto pelle che per cinque anni l’aveva convinto, ogni mattina, a svegliarsi e combattere. A crederci un po’ di più. Mai abbastanza, però. Era un retrogusto amaro alla base della lingua, un magone fastidioso ed inspiegabile che gli faceva storcere il naso. Quella notte aveva dormito di merda, come ogni fottuta notte da che potesse ricordare. Era come se gli mancasse qualcosa senza il quale, malgrado la stanchezza sembrasse stringergli un cerchio attorno al capo e sigillare le palpebre fra loro, non potesse dormire. Aveva provato ogni rimedio, da quelli più tradizionali come gli infusi alle pasticche spacciate all’angolo del Leicester Square Theatre da un ex galeotto, optando in fine per un bel vaffanculo cumulativo accompagnato dal dolce sapore del whisky. Non bastava, non bastava mai. Quando riusciva finalmente a prendere sonno, a farla da padrona erano gli incubi. La cosa più tragica di quegli incubi, era che non c’era assolutamente nulla di pauroso: sorrisi, parole sussurrate nel buio, mani che gli stringevano le spalle. Qualche promessa, sguardi fugaci che non ricordava avessero mai accarezzato la sua pelle. Ed una cantilena, sempre la stessa: omnia fert aetas. Veritas filia temporis. Mutatis mutandis. Æquabit nigras candida una dies. Dolore, ma non nel senso che era solito conoscere. Era più … una ferita trasversale, dalla cima dei capelli biondo cenere perennemente spettinati, alla punta dell’alluce. Spezzato a metà in così tanti modi da non avere neanche più voce per gridare. Era solo quando abbassava la guardia, abbandonandosi madido di sudore fra le lenzuola, che Will - quel Will- riusciva a farsi abbastanza spazio per urlare con la voce di entrambi. Svegliati Will, svegliati. Hai bisogno di loro. Hanno bisogno di te. Così surreale da svegliarlo ogni volta, il cuore in gola ed il battito sulla lingua: nessuno poteva aver bisogno di lui. Debole, appena un’ombra di ciò che era stato, un bisbiglio fra le fronde di alberi irrequieti. E lui, semplicemente, non poteva capire. Rimaneva in quello stato di perenne incertezza, sicuro che ci fosse qualcosa di sbagliato in lui. Sicuro che bastasse affogarlo nell’alcool, ottenebrarlo con le droghe, lenirlo con le risse nei bar che lo lasciavano sanguinolento e sofferente.
    Gli occhi azzurri, rotondi come quelli d’un pesce, erano circondati da rade ciglia bionde; leggermente infossati, attorniati da un alone rosso e stropicciato che lasciava ben intendere l’insonnia dell’ex corvonero, rotearono da sopra un libro dalla copertina sdrucita, osservando l’origine di quel fastidioso prurito fra le scapole il quale indicava, al giovane, che qualcuno lo stava osservando. Le palpebre pesanti lasciavano solamente uno spiraglio dal quale guardare il mondo, ma tanto gli bastava per incrociare lo sguardo di decine di studenti dalle divise colorate i quali, con le mani poggiate sul banco, attendevano istruzioni. Un libro di latino poggiato fra le gambe e le mani impegnate a rollare una sigaretta, li fissò interogativamente. Cosa volevano da lui? Era solo un assistente, e perfino da poco. Il professore che aveva avuto l’onore di averlo al suo fianco, altro non era che quel lavativo incapace di Ted Mcbride, insegnante di Strategia. Per William era stato semplice avere quell'impiego, anche se non era certo del perché un bel mattino si fosse svegliato con il pallino di tornare ad Hogwarts. Una giacca logora, un paio di jeans che avevano visto giorni migliori ed i soliti, immancabili, anfibi, aveva bussato alla porta del Vice preside. «mi piacerebbe lavorare come assistente di Strategia» aveva esordito senza alcuna inflessione particolare, ancora poggiato sullo stipite. «nome?» aveva domandato quello, apparentemente seccato, alzando gli occhi nella sua direzione. Will aveva alzato gli angoli delle labbra nell’accenno di un sorriso sardonico, avanzando verso di lui per prendere posto nella sedia libera di fronte alla sua scrivania. «william. William yolo barrow» al cognome dell’ex corvonero, il vice non aveva potuto che inarcare le sopracciglia. I Barrow erano sempre stati una delle famiglie purosangue più importanti ed incisive del mondo magico, Purosangue da sempre. Non una macchia ad alterare la loro impeccabilità, non un disonore. «il figlio di Simon?» Will si era irrigidito impercettibilmente, poco incline a tollerare d’essere identificato come progenie di quel mostro. Eppure sapeva che era proprio Simon ad aprirgli tutte quelle porte, malgrado la faccia inaffidabile da ragazzino disagiato. Aveva annuito con arroganza, lasciando che capisse da sé l’implicito di quell’affermazione. «mi dispiace per tuo padre, era un grand’uomo» e Will, piegandosi verso la scrivania con i gomiti sulle ginocchia, aveva risposto: «il più grande», un tono complice e quasi idolatrante nell’innocente ombra malinconica di uno sguardo troppo serio per la sua età. Davvero un enorme peccato che quel giovane uomo dall’aria sgualcita, innocuo come una brezza estiva, fosse macchiato dell’omicidio di un tale grand’uomo. Davvero un peccato di cui, per altro, era l’unico consapevole. Eh, vabbè.
    «sì?» domandò annoiato, riportando la propria attenzione sull’enorme libro aperto davanti a sé. omnia fert aetas. Veritas filia temporis. Mutatis mutandis. Æquabit nigras candida una dies. Doveva voler dire qualcosa, maledizione! «signor… signor Barrow, dov’è il professor Mcbride?» Will si infilò la sigaretta dietro l’orecchio, lanciando un’occhiata al Corvonero che aveva posto la domanda. Lo sguardo scivolò sull’aula, contando quanti ragazzini ci fossero. Perché non c’erano i suoi adorabili cuginetti? Sarebbe stato più che felice di lasciar fare lezione a loro, come simbolo di rispetto verso quei fanciulli che fra le mani tenevano il futuro del mondo, o qualche altra stronzata simile. Dei Milkobitch però non c’era traccia. Sospirò. «Sifilide» commentò serio, dondolando sulle gambe della sedia, ignorando le risatine di qualche ragazzo. In realtà non aveva la più pallida idea di dove fosse, ma era forse un problema suo? . «allora cosa facciamo?» Barrow si grattò la fronte, infine fece spallucce. «dividetevi in coppie. Uno dei due tiene le mani a palmo aperto verso l’alto, l’altro invece le poggia sopra» mimò il gesto, allungando ogni sillaba e biascicando leggermente com’era solito fare. «quello che tiene le mani sotto, deve cercare di schiaffeggiare le mani dell’altro; quando ce la fa, fate cambio. Divertitevi» concluse, tornando al suo libro. «ma…» «è una lezione di strategia, gusto? in questo gioco serve strategia. Buon lavoro» sorrise, salutandoli con un cenno della testa, prima di immergersi nuovamente nella lettura. Ne aveva bisogno. Aveva bisogno, William Barrow, che quella cantilena significasse qualcosa.
    Ma porca troia. Una sigaretta infilata nervosamente dietro l'orecchio destro e le mani abbandonate dentro le tasche dei jeans, Will camminava a passo veloce per i corridoi del castello. Muoversi lo aiutava a riflettere, ed il non avere una meta precisa lo aiutava a concentrarsi su pochi dettagli, lo sguardo vacuo aperto sul nulla. Non guardava dove fosse diretto, né tantomeno prestava attenzione alle persone che lo circondavano, salutandolo di tanto in tanto. Sembrava un cazzone, lo sapeva, ma non era stupido. Era sempre stato brillante, perfino un po’ troppo gli aveva sussurrato qualche compagno zelante nel corso degli anni, semplicemente non riteneva opportuno doverlo dimostrare a chicchessia. Non sapeva neanche il perché si fosse sforzato tanto per essere quello intelligente; non sapeva, William, di essere stato sul punto di cambiare la storia. Nessuno fu più stupito di lui quando un grido ovattato s’infiltrò fra i suoi pensieri, obbligandolo a fermarsi a metà corridoio e mettere finalmente a fuoco l’ambiente. Dove cazzo era? «Avanti! Pensi che abbia tutto il giorno? Questa stronzetta è più babbana di te, che schifo. Comunque, sono sicura che lei sarebbe più che disposta a frustare te» William Barrow aveva sempre sofferto della sindrome dell’eroe, il costante bisogno di salvare tutti anche a costo di sacrificare sé stesso. Un tempo, perlomeno; di quel tempo però non aveva alcuna memoria. Tutto ciò che gli era rimasto, caparbiamente stretto fra le dita, era una sensazione. Ricordava di essersi comportato in determinati modi, ma non aveva la più pallida idea del perché, o del cosa l’avesse spinto ad agire. In tutta sincerità, non riusciva neanche ad importargli. Allora perché, senza neanche rendersene conto, si stava avvicinando a quella porta? Perché sentiva il battito accelerato, come se il muscolo cardiaco fosse in procinto di esplodere? Lo sai perché, William. L’hai sempre saputo.
    Apri gli occhi
    .
    Allungò il braccio, spalancando la porta con fare altamente scettico. Battè le palpebre e corrugò le sopracciglia alla scena che gli si presentò dinanzi: una ragazza teneva un’altra giovane per i capelli, tirando abbastanza da far gemere la propria vittima, ed un’altra ragazzina ancora era incatenata davanti a loro. Un altro battito di ciglia, e la situazione gli fu più chiara. Si disse che non erano cazzi suoi, che avrebbe dovuto andarsene. Si ricordò che non gliene importava un accidenti, che non erano nessuno per lui. Che non c’era motivo per interessarsene.
    Allora perché la bacchetta, sguainata in modo fluido e rapido, premeva la guancia dell’aguzzina scavando un solco profondo nella carne? «Lasciala» Pacato, sempre vagamente annoiato. Non fece cenno di essere intenzionata a mollare la presa, quindi Will spinse il legno con più vigore, le sopracciglia cinicamente arcuate. «non era un consiglio. Porta via il tuo culo, Chadwick, e forse non farò rapporto al preside» «è solo una babbana, non interessa a nessuno» Non sapeva come darle torto, né perché, effettivamente, a lui importasse. Così si limitò a stringersi nelle spalle, avvicinandosi di un passo. «e tu sei solo una mezzosangue» rispose, rimanendo sullo stesso terreno di gioco. «è la mia parola contro la tua» constatò, portando la mano libera a prendere la sigaretta dietro l’orecchio per infilarsela fra le labbra. D’altronde non si trattava di una battaglia equa: sapevano entrambi che se Will avesse accusato la Chadwick di aver infranto qualche regola –una a caso, tipo atti osceni in luogo pubblico con un animale da compagnia- avrebbe avuto ragione lui, a prescindere di quanto l’accusa fosse o meno fondata. Funzionava così da quelle parti, ed era esattamente la giustizia a cui si appellava la Chadwick con la babbana dai capelli rossi. Scacco matto. «non finisce qui» Eau la madonna. La osservò allontanarsi, il cilindro di tabacco mollemente stretto fra i denti, quindi rovesciò gli occhi socchiusi sulla babbana in questione. La Chadwick aveva ragione, non avrebbe dovuto importare a nessuno. Eppure, lui era lì. La ignorò, volgendo la sua attenzione a quella poco più giovane ancora incatenata. Liberandola, le fece cenno di andarsene, sempre ritenendo poco opportuno il dar aria alla bocca. Non capiva, non capiva perché gli importasse. Dopotutto William Barrow non poteva sapere di aver promesso a sé stesso che li avrebbe salvati. Che li avrebbe salvati tutti. «tutto a posto?» biascicò alla rossa mentre usciva dalla sala delle torture, senza neanche preoccuparsi di fermarsi abbastanza da ascoltare la risposta. Eppure avrebbe voluto saperlo, con sincero interesse, se stesse bene. Avrebbe voluto capire, ma v’era una patina troppo spessa ad impedirgli di essere il William al quale interessava. Non era riuscito a controllare un istinto troppo radicato, ma non significava che comprendesse il motivo di tale comportamento. Non era rimasto abbastanza William, per compensare il Barrow preponderante. Uscì nel cortile interno. Saltò agilmente sul muretto, quindi poggiò la schiena sulla superficie fredda, un brivido lungo la colonna vertebrale. Accese finalmente la sigaretta assaporando quel primo tiro dolce sulla lingua, mentre il fumo scivolava a sbuffi dalle narici. «riesci a salire?» domandò, fra il divertito e la zona grigia dell’indifferenza, con una rapida occhiata alla babbana che l’aveva seguito fin lì.
    Sempre smarrito, William Barrow. Eppure consapevole, nell’arrendevolezza di chi tutto aveva già perso, di poter ancora scegliere.
    Di poter nuovamente scegliere.
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    Edited by lama del barrow. - 24/2/2016, 12:05
     
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    - PE PER LA QUEST #06 -


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    Come nelle migliori favole, alla fine arriva sempre il sereno dopo una brutta tempesta. Non pensava di riuscire a credere ancora in un lieto fine, non per pessimismo o altro - okay, forse un po' anche per quello - ma insomma, ormai si era abituata a pensare al peggio, semplicemente perché pensando in quel modo non veniva mai delusa dagli eventi. Sapeva in anticipo come sarebbe andata a finire la storia e certo non le serviva un chiaroveggente a cui chiedere per sapere che, entro quella giornata, la Sala torture avrebbe accolto un po' del suo sangue. Quando la porta della Sala cigolò stridulamente, la Jodene provò a voltare la testa, ancora serrata nella mano dell'aguzzina, in direzione dell'entrata e pensò che si, adesso ne avrebbe sentite tante, ma tante. Sperava, in effetti, che non fosse Larrington, né la Queen. Quella donna era terrificante, odiava i babbani quasi quanto sembrasse odiare la pudicizia. Lei ed i suoi vestitini attillati, ma chi era Aveline per giudicarla?
    Eppure, come nelle fiabe, in cui la principessa in pericolo viene salvata dal principe azzurro, in quel momento la porta si era aperta lasciando entrare uno spiraglio di luce, di speranza.
    Il principe azzurro non aveva l'aspetto di Nathaniel Henderson, e considerando il rapporto della rossa con il professore questo era un grande colpo di scena in quella fiaba improvvisata. La luce fioca della stanza illuminò leggermente il volto pallido del giovane appena entrato, i capelli biondi vennero illuminati da quella stessa luce ed il suo sguardo azzurro vagò nella stanza puntandosi sul trio del dolore (?). Incredibile a dirsi, ma quel ragazzo stava dalla sua parte. Con fare sicuro non ci aveva messo troppo a mettere a tacere la sua aguzzina con poche parole che, sinceramente, non facevano una piega. Un salvatore. Un Eroe. Un...ma chi era?
    La sua aguzzina aveva pensato bene di mollarle i capelli, e se n'era andata imprecando qualcosa verso il giovane. Allo stesso modo e con la stessa sicurezza di prima, il giovane la ignorò palesemente andando a liberare la ragazza incatenata al muro ed Aveline, ancora sbigottita, si sbrigò ad aiutarlo liberando una parte del corpo della ragazzina, con il cuore che martellava nel petto. Questa, biascicando un grazie con voce incredula e grata, scappò dalla stanza non appena libera.
    Non se ne vedevano di atti così tutti i giorni, non perché tutti fossero codardi, ma perché erano davvero pochi quelli che potevano dire di poter scampare le torture in questo modo: in genere si salvavano i dipendenti del castello, delle volte quelli che venivano definiti "Purosangue", ciò che doveva essere il suo salvatore, date le motivazioni che aveva ribattuto all'aguzzina. Tutto apposto? si sentì domandare, quasi come fosse un atto di cortesia, Aveline non poteva giurare che volesse fare conversazione perché un attimo dopo, con tanto di sigaretta tra le labbra, si era avviato all'uscita della Sala, e lei era rimasta impalata lì ancora qualche istante. E-ehi, aspetta! Buttò a terra la frusta e lo raggiunse a passo esterno fino a raggiungere il cortile del Castello. La luce esterna le fece male agli occhi, tanto che dovette socchiuderli e portare una mano sul volto per farsi ombra e localizzare il giovane, che si era appostato su un muretto. Il sole non era più alto nel cielo da un pezzo, ma Aveline aveva abituato il suo sguardo al buio, tanto che faticava a riconoscere la luce ormai.
    Silenziosa come un gatto, si era avvicinata a quello stesso muretto osservando il giovane dal basso, senza dire una parola. Voleva ringraziarlo, perché era stato fantastico, gentile e non sapeva nemmeno il suo nome, ma quel gesto gratuito era bastato per conquistare la sua stupida fiducia. Ed era tanto, perché aveva perso la fiducia nel genere umano da tempo, davvero. Forse, vedendo la Jodene chiunque avrebbe potuto pensare ad una credulona come tante, una ragazzina sfortunata che chiunque avrebbe potuto rigirare tra le proprie mani perché fondamentalmente stupida - lei per prima si dava della stupida ogni giorno. Ma la verità non poteva essere più diversa: Aveline era diffidente, aveva imparato ad esserlo, così come aveva imparato a riconoscere il pericolo che spesso si manifestava sotto un freddo sorriso, quello che avrebbe potuto riservarle Icesprite, ma il distacco di quel giovane ed il suo gesto spassionato erano una prova delle sue intenzioni sincere. "Riesci a salire?" Sorrise tra se, osservandola come forse si può guardare un cucciolo di cane, o qualcuno di impacciato come era lei. Così annuì. Si...dovrei. E si adoperò per arrampicarsi sul muretto, riuscendoci persino senza slogarsi un polso o rotolare a terra. Un piede su una sporgenza di pietra e le mani sul muretto le diedero la spinta giusta per salire, e sedersi dinnanzi al giovane. Sotto la luce che andava piano piano a sparire all'orizzonte, il suo volto pallido appariva cosparso di antiestetiche cicatrici, ma ormai il trucco non bastava per coprirle e lei non aveva i poteri magici per porvi rimedio e camuffarle. Guardando il giovane in volto, posizionata alla sua stessa altezza, cercò di capire dove potesse averlo già visto in precedenza. Quello sguardo serio e svogliato, forse, lo aveva incrociato altre volte nei corridoi di Hogwarts, ma solo di recente. Grazie davvero, mi hai rallegrato la serata. Bastava così poco per rallegrarle un'intera giornata, scampare la sala torture era forse il massimo che la Jodene potesse ottenere di quei tempi - ma anche passare il tempo con Henderson non era male, eh. - Come ti chiami? Io sono Aveline. Iniziò allora, cercando di fare conversazione, cercando di diventargli amica.
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    Edited by Aveline Jodene - 17/3/2016, 12:40
     
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    Non dovrebbe essere così. Era ormai diventato un pensiero costante nella sua vita, martellante dietro le palpebre abbassate. Qualcosa dal quale non riusciva a liberarsi, per quanto solo Dio sapesse quanto lo desiderasse. Era come ritrovarsi boccheggianti sulla riva, sapendo che le branchie non erano fatte per la terraferma, eppure incapaci di ricordare quale fosse il loro posto. Si ritrovava semplicemente lì, raccolto in quell’ammasso che si sforzava d’esistere senza una traiettoria, ad allungare le braccia nel buio sperando che qualcuno lo trascinasse nell’oscurità, o lo spingesse definitivamente nella luce. Il grigio non era mai stato il suo colore; ed allora, allora quando si era costruito quella vita opaca? Quando aveva cominciato a smorzare i colori, accontentandosi delle tracce intraviste con la coda dell’occhio? La verità era che non lo sapeva, e William Barrow aveva bisogno di sapere. Avrebbe voluto che qualcuno glielo dicesse, semplicemente, ma sapeva che non sarebbe bastato: non poteva dire, e non posso dirvi io narratore, che una situazione del genere non si fosse difatti già presentata. In tanti avevano bussato in quegli occhi chiari, vuoti come un cielo in primavera, sperando di sentire la sua voce. Il Will che tanto andavano cercando, però, era imbavagliato: non poteva rispondere. Il meglio che poteva fare era spingere il Barrow che era rimasto sul limite fra luce e buio, fra giusto e sbagliato, fra le sue scelte e le scelte che gli altri avevano fatto per lui. Solo tu sai chi è William Barrow. E se lui non l’avesse saputo? Avrebbe voluto supplicarlo, distrutto da quel dolore di cui non concepiva l’origine. Pregarlo in ginocchio che l’aiutasse a trovare un perché dietro quelle assenze, azioni prive di logica. Vita priva di vita. Picchiava le mani contro il capo, una, due, tre volte, pregando che fosse solo un sogno. Dilaniato, William Barrow, da un passato che non ricordava d’avere, ma il quale era rimasto aggrappato alla pelle come un parassita. Questo non sei tu. Aveva solo bisogno che smettesse. Tutto quanto, semplicemente, smettesse: il dolore, la rabbia, l’oblio che accompagnava ogni respiro. Basta.
    Ed aveva ricevuto una lettera, William Yolo Barrow. Un caso che avesse controllato la posta, scartando i colorati volantini di feste a cui sapeva non sarebbe andato: se le feste erano organizzate, si perdeva tutto il divertimento. O abusive, o niente – e quella era una delle tante perle che aveva insegnato ai suoi cuginetti preferiti, e che la cugina-non cugina sembrava aver preso come mantra di vita. #winception Una calligrafia che non conosceva, un indirizzo che gli era del tutto nuovo. Insomma, niente di niente. Avrebbe pensato ad un errore nella consegna, ma c’era il suo nome. “Chi sei, William?” Un orario, perfino. L’indomani. Si sentiva lo stomaco chiuso, la testa pulsava senza sosta. Sentiva di avere la spiegazione sulla punta della lingua, e malgrado ciò non riusciva ad afferrarla. Fu quello che lo spinse a scrivere a Mitchell Winston, il suo migliore amico sin dai tempi di Hogwarts. Non ricordava neanche il perché avessero stretto amicizia. Ad essere del tutto sinceri, aveva ricordi spezzati, come se mancassero alcuni tasselli. Mentre intingeva la penna nel calamaio, però, non aveva avuto alcun dubbio. Fra tutti, William aveva scelto Mitch. Irrazionale, solo un fugace spiraglio d’intuito che non credeva più di possedere. E fra tutti, Mitch aveva scelto Will, anni e anni prima. Tre lettere, brucianti come la scintilla più viva; scintilla che, Yolo ancora non sapeva, avrebbe finito per scatenare un incendio.
    Di nuovo, l’inizio della fine.
    Sks. E quella pressante necessità di averlo al suo fianco, malgrado potesse non avere le risposte. Era giusto così, anche se non avrebbe saputo spiegarsi il perché. La risposta del Winston non si era fatta attendere. Non era neanche riuscito a sorridere, né a sentirsi sollevato, eppure in parte lo era. Aveva ancora l’infantile convinzione che lui potesse sistemare tutto. Mitchell lo conosceva, giusto? Avrebbe saputo dirgli chi era. William non era pronto a cercare una risposta da sé.
    William una risposta non l’aveva mai avuta.
    Ihihih. E Will, William Barrow, aveva capito. Win-ston is coming.
    Guardò il cielo, tendente ormai al rosato del tramonto. Nel giro di qualche ora sarebbero state visibili le prime stelle. Le stelle non sono infinite. Muoiono, e nessuno si ricorda più la loro luce. Quella fitta, sempre la stessa. Qualcosa tirava. Qualcosa esigeva la sua attenzione. Deglutì, roteando gli occhi sulla ragazzina ancora a terra. Non sapeva cosa l’avesse spinto a reagire, quale piolo avesse ceduto per permettergli quella breve ricaduta sulla giusta via. Guardava gli occhi chiari di lei, domandandosi se fosse stato un caso, o se semplicemente il suo volto ovale dai tratti delicati gli avesse rimembrato qualcun altro. magari un’altra vita. Non c’era motivo per il quale William Yolo Barrow avrebbe dovuto risparmiare le torture a qualcuno, a meno che non fosse di sua conoscenza. Eppure, l’aveva fatto. Poteva aver dimenticato, ma sapeva ancora, anche se in maniera distorta, riconoscere il giusto dallo sbagliato. Sembrava così fragile, come se un soffio più forte avesse potuto portarla via. Chi era, quella bambolina rossa? Cosa ci faceva lì? Lo sguardo scivolò sul corpo di lei, ma non in maniera lasciva: era un’occhiata critica, logica. Oggettiva. Si soffermò sulla cravatta argentata, quindi torno a puntare i propri occhi nelle iride chiare di lei. Non trattenne un sorriso divertito quando riuscì ad issarsi sul muretto, volgendo il capo in modo da non soffiarle la nube di fumo in viso. «Grazie davvero, mi hai rallegrato la serata» Inarcò entrambe le sopracciglia, guardandola di sottecchi. Non le piaceva il modo in cui lo stava squadrando, come se avesse fatto molto di più. Non era la prima volta che vedeva un espressione del genere sul viso altrui, ma come un déjà vu non era in grado di dargli uno spazio temporale. Già visto, ma non del tutto. Scrollò le spalle, tornando a posare lo sguardo su un punto imprecisato di fronte a sé. «non mi piacciono le stronze» si giustificò, picchiettando sul cilindro di tabacco per far scivolare la cenere a terra. Ma non è solo questo, vero Will? Dio, ma quant’era che Barrow non aveva una conversazione normale? Non riusciva a ricordarlo. Guardava la rossa chiedendosi se fosse il caso darle adito, o se era meglio chiarire subito che razza di figlio di puttana fosse. È stato un caso. Il mio nome non ha importanza, te lo assicuro. Non l’ha mai avuto. Trasferì la sigaretta nella mano sinistra, porgendole ufficialmente la mano destra. «william yolo barrow, patrono delle cause perse e delle damigelle in pericolo» ironizzò, calcando la mano su quella nota sarcastica mentre le sopracciglia saettavano verso l’alto. Tornò a poggiare la schiena sul muretto, tacendo per una manciata di minuti. La sigaretta si stava consumando fra i polpastrelli, la brace che lenta ma inesorabile consumava la carta. La sfiorò appena con il pollice, sibilando quando gli scottò il polpastrello. «non dovrebbe essere così» rifletté ad alta voce, dando finalmente forma a quel pensiero asfissiante. Lanciò un’occhiata fugace ad Aveline, prima di tornare a fissare le proprie mani. Non era timidezza, né indecisione; non stava cercando conforto, né buon Dio ne stava offrendo. William Barrow stava seminando indizi, sperando di essere ancora abbastanza Corvonero per unirli. Che forse, se li avesse detti anziché pensati, l’avrebbero portato alla soluzione. La più ovvia, e la meno probabile. «il mondo, intendo. Le persone. Non dovrebbe essere così» Concluse, aspirando così forte da sentire la gola bruciare, il fumo grattargli la lingua come carta vetrata.

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    Il sole ormai tramontato aveva tinto il cielo di un rosso intenso, tanto simile ai capelli della ragazza che si trovava seduta su quel muretto, un cielo color sangue ma uguale per tutti, senza distinzioni tra babbani e maghi, mangiamorte e ribelli, mezzosangue e purosangue. A volte Aveline si ritrovava a pensare che se a tutti era stata riservata la stessa Terra in cui vivere doveva esserci un motivo e questo l’aveva sempre portata alla conclusione che se la Terra fosse uguale per tutti, allora tutti coloro che ci vivevano dovevano essere uguali e, necessariamente, avere pari diritti su ogni cosa. Avrebbe voluto fare tante domande a coloro che avevano quell’assurda opinione secondo la quale alcune cose fossero contro natura o sbagliate o inferiori ad altre. Pensava a queste persone come esseri da studiare davvero, erano loro quelli strani. Perché la Terra era stata creata uguale per tutti? perché non esistevano tante Terre differenti in grado di accogliere le numerose razze? Perché non dei mondi adatti a chi aveva un colore diverso di pelle, chi non aveva poteri, chi non era un mago puro? Il mondo era vario, ma questa varietà non avrebbe mai dovuto rappresentare un motivo plausibile di discriminazione. Il mondo apparteneva a tutti ma non era di nessuno, secondo Aveline. Quello stesso cielo ambrato che si rifletteva nel suo sguardo attento che mai si era arreso nonostante i soprusi, poco a poco era andato ad imbrunire divenendo viola scuro e poi blu. Era stata questione di pochi attimi, così pochi per cambiare completamente l’impronta ed il colore che quel cielo lasciava sulla Gran Bretagna. “William Yolo Barrow, patrono delle cause perse e delle damigelle in pericolo” arrossì lievemente a quelle parole, ma l’imbrunire del cielo rendeva incerti i colori sulla sua pelle e fortunatamente quel rossore venne camuffato alla perfezione. Aveline non aveva grandi talenti, ma la caratterizzava la capacità di vedere un’àncora di salvezza in chi riusciva ad affrontare quel mondo a testa alta e senza paura. Questo non significava certo che fosse una codarda, no. Era vogliosa di imparare, imparare a vivere, imparare a difendersi, a rispondere alle accuse, imparare a rispondere e basta. Avere dei punti di riferimento come quel ragazzo, o come pochi altri coraggiosi, la spronavano a dare il meglio di sé stessa, le infondevano sicurezza, le davano speranza.
    Strinse con fermezza la mano di William Barrow, e per quanto forse avrebbe potuto soffermare il proprio pensiero su quel secondo nome (o cognome? O soprannome?) inusuale, Yolo, quando il ragazzo si presentò il pensiero di Aveline fece un balzo di qualche mese indietro nel tempo. Non era da troppo, infatti, che la sua amica Ashley le aveva parlato di un certo William Barrow, conosciuto l’anno prima in una circostanza che ad Aveline non era stata chiarita del tutto, ma aveva sempre pensato che fosse stato in un momento importante della vita di Ashley. Bè, aveva sentito tante cose su William Barrow, perché si sa, il genere femminile ama i pettegolezzi, soprattutto i pettegolezzi che riguardano i ragazzi… - bè in realtà questa era un’idea del tutto stereotipata ed insulsa, perché Ashley per prima era fin troppo acida per amare qualsiasi tipo di pettegolezzo da salotto, ed Aveline… Aveline parlava con i morti e per questo aveva ben altro a cui pensare – Però il nome di William Barrow era saltato fuori spesso durante le loro conversazioni, ma al momento Aveline non pensò di andare oltre e presentarsi come un’amica di Ashley, non era proprio sicura che il ragazzo in questione fosse proprio lui, anche se di William Barrow maghi in Inghilterra non potevano essercene tanti. Doveva necessariamente essere un mago, nessun altro titolo gli avrebbe dato il diritto di rispondere a tono ad un’aguzzina. Se Aveline fosse stata una codarda avrebbe continuato a tenere la bocca chiusa alle parole di William, se fosse stata più attenta alla propria incolumità – e con una buona dose di paranoia - avrebbe pensato che, nonostante si trovasse e condividesse la sua idea, magari si trattava di una trappola ordita da un Mangiamorte più sanguinario di Larrington.
    La penso come te. Alla fine le parole erano uscite spontanee dalle sue labbra, come se fosse in confidenza con quel ragazzo che in realtà non conosceva. E se fossi una strega sono sicura che la penserei allo stesso modo, mi conosco. Quest’ultimo fu un pensiero detto ad alta voce, più a sé stessa che al ragazzo. Spesso ci aveva pensato, al fatto che ritenesse giuste o sbagliate determinate cose solo perché magari si trovava nel fossato delle vittime insieme a tanti altri. Ma non era così. Magari non era una strega, ma il disgusto che provava verso determinate discriminazioni andava ben oltre ogni razza ed ogni status sanguigno. Io li disprezzo. Tutti coloro che fanno del male agli altri. E non sono abbastanza buona da perdonarli. Li odio. Ammise senza troppi problemi. Non era abbastanza buona da non riuscire ad odiare, forse. Se avessi una qualche utilità riuscirei anche a combatterli. Poggiò la schiena contro il muretto freddo e duro alle sue spalle, incrociando le braccia al petto. Ma detto in confidenza, ho un potere bizzarro. Se vuoi contattare un tuo caro dall’altro mondo…bè, questo è il momento. Ti devo un favore. Sorrise, ma quanto è gentile e creepy la Jodene?
    Aveline Jodene [ sheet ]
    i can speak to death people, they find me...whisper things
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    Edited by Aveline Jodene - 17/3/2016, 12:41
     
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    Non si era proposto, o meglio imposto in qualità di assistente di Strategia, solamente perché amava il gioco degli scacchi. William Barrow faceva parte di quella ristretta cerchia di umanità che avrebbe potuto vivere di pensieri, osservando il cielo cambiare mentre mille domande balenavano dietro le iridi di un blu sfuggente. Avrebbe potuto nutrirsene di quelle riflessioni, come un succube si sarebbe nutrito di sangue e lussuria. Era fatto così, un osservatore. Passando metà della propria adolescenza a guardare gli altri, senza azzardarsi ad alzare un capo perennemente chino per prendere l’iniziativa, aveva imparato a porsi interrogativi a cui la maggior parte delle persone non dava il peso necessario. Si era limitato a guardare, assimilando passivamente le informazioni. Era bastato, perché in lui nascesse il germoglio della curiosità, ormai radicato nel suo animo. Potevano privarlo della memoria, di una causa, estirpargli a forza la speranza e spegnere la fede, ma non avrebbero potuto cancellare ciò che Will era. Il meccanismo era sempre stato in secondo piano, il come non faceva al caso suo: la vera domanda, dietro ogni gesto o espressione altrui, era il perché. Era stato quello a spingerlo, anni addietro, ad investigare sul padre. Era stato quello a renderlo un ragazzo brutale ma pragmatico: se riusciva a prevedere le mosse altrui non era perché fosse un pozzo di scienza, considerando poi che aveva sempre preferito lasciare i libri didattici ai suoi colleghi blu bronzo, ma perché riusciva ad immedesimarsi negli altri, indipendentemente da quanto grandi o cattivi fossero. Quando si entrava nella mente del criminale, era difficile riuscirne indenni: una parte della sua psiche rimaneva sempre ancorata alla propria, appiccicosa come melassa ed altrettanto dolce. Una continua tentazione, che nel corso degli anni aveva sempre spinto per ottenere di più, un di più che Barrow non era mai stato disposto a dargli. Non nuoceva per il puro gusto di farlo, lo sceglieva quando non aveva altre opportunità.
    Almeno, un tempo. Un anno prima era cambiato tutto, distorcendo anche un passato che riusciva a vedere ormai solamente attraverso una lente sfasata. Si trovava sempre più spesso in situazioni a rischio, consapevole di essere stato lui stesso a cercarle. Si trovava spesso ad un passo dall’abisso, incapace di resistere al richiamo che voleva obbligarlo a compiere quel passo: ed aveva saltato, William Barrow. Aveva saltato a piè pari, macchiandosi le mani del sangue di coloro che erano stati amici, confidenti. Di chi in lui ci aveva creduto, anche quando lui non sapeva neanche più a cosa avrebbe dovuto credere. Aveva saltato, William Barrow. E da certi balzi era difficile tornare indietro. Eppure si trovava lì, seduto sul muretto dei cortili di Hogwarts, con una sigaretta a penzolare inerte dalle labbra socchiuse, in compagnia di una ragazzina che non sembrava neanche maggiorenne. Una ragazzina che non avrebbe dovuto subire il peso di quella domanda, sfuggita quasi inconsciamente dalle labbra di William. Quelli erano discorsi per gente come lui, disincantata e spezzata. Quelli che si trovavano a raccogliere i propri cocci senza ricordare quando si fossero rotti. La luce cremisi del tramonto danzava sulla pelle inevitabilmente pallida della rossa, facendo scintillare la chioma di riflessi più scuri, quasi sanguigni. Gli occhi sembravano due gemme incastonate nell’avorio, ed allo sguardo attento di William, parevano altrettanto preziosi. C’era una luce tenue, qualcosa che aveva già intravisto negli altri, e che malgrado tutto era stato incapace di riconoscere in sé stesso. Ma c’era stata, quella luce. L’aveva avuta anche lui. La osservò tacendo, cercando di appropriarsi di quel fuoco come un senza tetto vicino al barile fiammeggiante in cerca di calore. «La penso come te» Non fu stupito dalla dichiarazione della giovane. Non ebbe alcun bisogno di trovare conferma nelle sue parole, quando quel pensiero era già cristallino di suo nella posa fiera della schiena, la mandibola contratta. Dolce e forte al tempo stesso, come uno squisito liquore ricoperto da cioccolato fondente. Riuscì comunque ad incuriosirlo, abbastanza da fargli spostare nuovamente lo sguardo per poterla guardare. «E se fossi una strega sono sicura che la penserei allo stesso modo, mi conosco» Quello era un argomento delicato, e lo sapevano entrambi. La distinzione fra mondo magico e babbano si per fatta più sottile, labile come un filo di fumo, ma continuava a persistere, disegnando un netto confine fra loro e gli altri. Vicino ad Aveline, però, Will non percepiva quella differenza. Erano solo due ragazzi, indipendentemente dal sangue che scorreva nelle loro vene. Erano solo due ragazzi, spinti da ideali ineffabili di cui non riuscivano a cogliere i contorni, ma consapevoli che vi fossero. Sarebbe bastata una spinta. Forse, era già bastata. Aveva conosciuto abbastanza il mondo da cui sembrava provenire la giovane, per sapere quanto difficile dovesse essere per lei la loro realtà. Barrow, come si confaceva per la sua linea di sangue, era cresciuto in un clima di terrore sin dalla prima infanzia. La paura scorreva nelle sue vene quanto il suo lignaggio, un timore che lui, al contrario del padre, non era mai riuscito a suscitare. Dal suo metro e settantacinque scarso, con quei lineamenti duri ed un po’ artefatti, gli occhi troppo pallidi ed i capelli biondo sporco, difficilmente sarebbe riuscito a convincere qualcuno che faceva sul serio, a meno che i bluff non fossero diventate azioni effettive e non solo minacce. Per questo aveva imparato presto che una provocazione a vuoto non valeva un cazzo; per questo, non appena si fu risvegliato dall’apatia in cui si era avvolto nei primi anni al castello, aveva cominciato a non rendere palesi le sue intenzioni: se voleva attaccare qualcuno, lo faceva senza avvisare. Scorretto e poco etico, ma fino a quel momento aveva funzionato. Comunque, non riusciva laddove tutta la dinastia dei Barrow arrivava; di certo nessuno tremava sotto un’occhiata, perfino la più dura e studiata, di William. L’unica cosa che poteva fare era far valere il proprio blasone, ricordando di cosa i Barrow fossero capaci: poteva non sembrare, ma aveva effetto più di mille azioni offensive. Se fosse nato nel mondo babbano, come l’avrebbe pensata? Per lui le torture erano scontate, se non necessarie. Il sangue aveva smesso di impressionarlo quand’era solo un bambino, e con la flebile luce del bagno si fasciava il petto scarno, la pelle scoperta dalle cinghiate del padre. «Io li disprezzo. Tutti coloro che fanno del male agli altri. E non sono abbastanza buona da perdonarli. Li odio» Il calore nella voce di Aveline lo indusse nuovamente a cercare i suoi occhi, incerto su come reagire ad un affermazione del genere. «sono parole pericolose, ragazza» scandì lentamente, con una ricercata diplomazia. Non con lui, ma avrebbero potuto. Certi scivoloni potevano far storcere una caviglia, ma altri portavano alla frattura del collo. Nelle iridi cerulee, rese più scure dalla luce morente del sole alle sue spalle, c’era quella consapevolezza. «a volte il male è necessario» specificò, aspirando il fumo e lasciandolo scivolare fuori dalle narici. Cauto, ma non troppo. Aveva imparato a sue spese a non sottovalutare mai nessun avversario, ma non credeva che la rossa rientrasse nella categoria. Non lo guardava come molti prima di lei, e William non si sentiva di dover essere qualcuno che non era. Forse era semplicemente giunto il momento, a lungo rimandato, che ricominciasse ad avere fiducia in qualcuno. E forse quel qualcuno, per puro caso del destino, era la babbana dai capelli scarlatti e la voce tagliente, seppur moderata. «non sempre si può ottenere qualcosa con le buone. Se non avessi minacciato la tua aguzzina, non ti avrebbe lasciata andare tanto facilmente. Facevo sul serio, e lei lo sapeva» Ammise senza imbarazzo. La violenza, seppur in maniera più limata rispetto a Simon Barrow, era parte del suo carattere, della sua vita. «importa davvero che le abbia impedito di fare del male a qualcun altro? il dolore è dolore» concluse, picchiettando sul cilindro di tabacco per far scendere la cenere, osservando la lentezza con la quale questa si sgretolava nell’aria prima di colpire il pavimento. Malfoy non sarebbe stato affatto felice. Perfino in quel momento, un pensiero del genere lo fece sorridere. «io… non credo di poterli odiare, perché significherebbe che dovrei odiare anche me stesso. Un tempo potrei anche averci provato» l’ombra di un sorriso sghembo si riflesse nei suoi occhi, quando li riportò sulla sua pallida interlocutrice. «forse lo faccio ancora» rifletté ad alta voce, in un sussurro, aspirando con energia un’altra boccata. Il sapore acre della nicotina gli fece storcere il naso, mentre deglutendo soffiava il fumo lontano. «Se avessi una qualche utilità riuscirei anche a combatterli. Ma detto in confidenza, ho un potere bizzarro. Se vuoi contattare un tuo caro dall’altro mondo…bè, questo è il momento. Ti devo un favore.» William battè le palpebre, resosi improvvisamente conto che fino a quel momento non si era neanche domandato di cosa ella fosse capace. Sapeva dei nuovi, ma non si era mai addentrato abbastanza nel territorio special per approfondire quella superficiale conoscenza. Parlare con i morti? Si irrigidì impercettibilmente, rimanendo immobile per il tempo di una manciata di respiri. Quando parlò, lo fece nuovamente con la voce misurata che aveva utilizzato poco prima, malgrado una risata brillasse roca in fondo al tunnel. «medium, mh? Parole pericolose, potere pericoloso…mi stupisco che tu sia sopravvissuta fino a questo momento, ragazza» sorrise per addolcire l’affermazione, ma sapevano entrambi che non stava affatto scherzando. «ti ringrazio per il pensiero, ma preferirei di no: ciò che è morto deve restare morto. Sempre» Corrugò le sopracciglia, sforzandosi per reprimere un brivido a fior di pelle. Non poteva neanche immaginare, la rossa babbana al suo fianco, quanto rischioso fosse un potere come il suo in un mondo come il loro. In molti avrebbero voluto possederlo, e se non ci fossero riusciti con le buone, non si sarebbero fatti remore solamente perch’ella appariva eterea e terribilmente giovane. Non voleva neanche immaginare una conversazione con paparino. Avvolse mentalmente il nastro della conversazione, tornando alla prima affermazione della giovane: se avessi una qualche utilità riuscirei anche a combatterli. Deglutì, schiacciando il mozzicone sulle pietre prima di gettarlo al suolo. Osservò in silenzio i propri piedi. «non conta che potere tu abbia, Aveline. conta chi vuoi essere» fu il primo a stupirsi di quelle parole, quasi non fosse stato lui a pronunciarle. Eppure si accorse, nel momento in cui le labbra formulavano l’affermazione, di crederci. Lui, che aveva perso tutto, stava cominciando a ritrovarsi. E lei, che forse ancora non s’era persa, stava cominciando a dubitare del percorso, piastrellato dalla paura e dal sangue, che le avevano designato quand’era entrata a far parte della loro realtà. Quando si decise ad interrompere quel nuovo silenzio, lo fece con una sfumatura quasi sofferente, malamente celata nella posa strafottente con la quale osservava il castello. «in tanti mi hanno chiesto chi fossi» aveva la bocca arida, secca, ma la voce non era affatto impastata. Gli sembrava di essere in un sogno, tanto irreale ed onirica era la situazione. Sapeva di star rischiando, eppure… era stata quella luce, la fermezza nel tono di lei. William Barrow, diffidente di natura, aveva deciso di inchinarsi alla necessità del destino di porgli una persona alla quale affidare il proprio fardello. Qualcuno che non conosceva, che in lui non avrebbe visto null’altro se non un ragazzo quanti centinaia d’altri impegnato ad interrogarsi su un universo che non faceva nulla per rendersi meno impenetrabile. «non sono sempre stato così, a quanto dicono» scrollò le spalle, come se non avesse alcuna importanza. «io non posso crederci. Non … non è possibile. Eppure le sento, le loro parole. Le percepisco fisicamente, come se bastasse l’intensità dei loro pensieri per ferirmi» si morse il labbro inferiore con così tanta forza da sentire sapore di rame sulla lingua, ma non cedette neanche quando il dolore lo raggiunse in modo acuto, risvegliandolo. «non posso» sottolineò, sollevando lo sguardo per osservarla di sottecchi. Non sapeva cosa cercasse nei suoi occhi, se una conferma o una critica. Non lo sapeva e basta. «però hanno ragione. Forse non su di me, ma hanno ragione» Allora cercò nuovamente di richiamare a sé, come un incantatore intento ad attrarre il serpente nella cesta, la fulgida scintilla che aveva visto brillare nelle iridi verdi. «c’è un altro modo»
    C’è un altro modo, Will. C’è sempre stato.

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    Edited by selcouth - 15/3/2016, 11:09
     
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    Quante volte si era trovata sul punto di rottura ma aveva sempre tenuto duro, evitando di cadere in mille pezzi? Aveline non poteva contare quelle volte sulle dita di una mano, né su quelle di due mani, non sarebbero bastate. Quante volte era stata buttata su quel maledetto filo contro il proprio volere, con il rischio di cadere da lì e spezzarsi? Aveva sempre provato a trarre il meglio da qualsiasi situazione difficile, era stata brava in questo: Prendersi sulle spalle la responsabilità di una madre schizofrenica le aveva insegnato giorno dopo giorno cosa significasse mettere da parte sè stessa per il bene di qualcun'altro; combattere contro i raggiri mentali di suo padre ed i suoi sorrisi divertiti che però non divertivano lei, non farsi condizionare dalla sua pretesa di farla sentire in colpa per colpe che lei non poteva avere l'aveva portata ad avere più consapevolezza di sè stessa. E poi, quando sua mamma era scomparsa era stata un'ennesima prova che la Jodene aveva superato, ma non come avrebbe voluto. Era stato difficile leggere la delusione negli occhi di sua nonna per quelle scelte sbagliate, per quegli amici sregolati, i locali della Londra agiata messi a disposizione di una bambina alla quale non veniva mai chiesta la carta di identità perchè bastavano i soldi - e ne aveva tanti -, le bustine di coca nascoste dentro la borsa di pelle nera erano state un simbolo del suo cedimento. Non era stata in grado di essere una nipote eccellente, alla morte di sua mamma, aveva sbagliato ed era stata ad un passo dal cadere da quello stesso filo a cui comunque era rimasta ancorata con le dita di una mano. Ne era uscita fortificata, più forte dell'acciaio ed era pronta a tutto.
    Non erano le lacrime sinonimo di debolezza, ma al contrario erano una forza, una valvola di sfogo utile per andare avanti sempre e non mollare mai. Era sempre rimasta in equilibrio e nonostante i continui soffi di vento, non era mai caduta. Questo poco a poco l'aveva resa la persona forte che era adesso, alla soglia dei diciotto anni. Poteva sopportare quasi tutto, la giovane Jodene, perché era abituata alla sofferenza - più mentale che fisica - e forse era proprio per questo motivo che ancora riusciva a vivere dentro le mura di quel castello. Probabilmente nessuno avrebbe scommesso uno zellino sulla sua sopravvivenza, eppure lei era ancora lì, contro ogni pronostico. A volte il male è necessario, e lei lo sapeva bene perchè tutto quel male le era servito. Scostò lo sguardo dagli occhi del ragazzo che le parlava, per un istante per prendere un profondo respiro e constatare che avesse ragione, perchè lei quelle parole che avrebbero potuto essere fraintendibili le aveva capite bene, era arrivata forse al significato più profondo che esse portavano con loro.
    "io… non credo di poterli odiare, perché significherebbe che dovrei odiare anche me stesso. Un tempo potrei anche averci provato...forse lo faccio ancora" Riportò lo sguardo su di lui, domandandosi come potesse paragonarsi a loro...Anche se loro era un termine fin troppo generico e relativo, dato da circostanze non ben chiarite: non tutti i Mangiamorte erano cattivi, Nathaniel non lo era, non con lei almeno. Ma Aveline sapeva riconoscerli bene oltre quelle facce pallide e sorridenti di un sorriso di vittoria, la convinzione di poter governare sulle vite degli altri, la convinzione di essere migliori, si rifletteva nei loro sguardi. Mi sembri molto diverso da ciò che sono loro, sei sicuramente migliore. Sollevò le spalle. Non devi odiarli per forza, credo basti sapere da che parte stare, e penso oggi ti sia venuto naturale scegliere. Poteva fingere che quel mondo non fosse diviso in fazioni, ma sapeva di essere in torto. "Parole pericolose, potere pericoloso…mi stupisco che tu sia sopravvissuta fino a questo momento, ragazza"
    Me ne stupisco anche io ammise, ricordando quella volta in cui Icesprite l'aveva convocata nel suo ufficio per approfondire la questione riguardante il suo potere e lei, chissà come, era riuscita a svignarsela. Sono una ragazza...fortunata. Molti con un potere più forte ed aggressivo del suo erano morti tempo prima, questo la portava a credere di essere fortunata, o chissà cos'altro. Il silenzio sembrò piombare tra di loro per qualche istante, ma non era un silenzio imbarazzante, anzi, sembrava quasi dovuto, era riflessivo. Aveline si era sporta oltre il muretto, lasciando che i piedi vacillassero nel vuoto e nello spostarsi si era avvicinata un po' al ragazzo. Le parole che seguirono la colpirono per il tono diverso con il quale vennero espresse. Sembrava sofferente, confuso, e lei non poteva certo capire cosa si nascondesse nei suoi pensieri e quale caos mentale li governasse. Non conosceva i suoi trascorsi, non sapeva chi fosse William Barrow e cosa avesse affrontato poco tempo prima per portarlo a cadere nella confusione più totale, non poteva essere lei a dirgli chi fosse, chiaramente, ma era sicura di un cosa: non poteva essere come loro. Lentamente poggiò una mano pallida su quella di lui, ed al contrario di come si sarebbe aspettata, quella di William sembrò calda al contatto con la sua - o forse era Aveline ad avere le mani cadaveriche (?) - Sei una brava persona, William. Si sporse verso di lui percependo a distanza l'odore acre del fumo che però non era sgradevole e se non si fosse spostato gli avrebbe baciato una guancia. Un ennesimo segno di ringraziamento o di conforto, non lo sapeva, ma voleva farlo.
    Aveline Jodene [ sheet ]
    i can speak to death people, they find me...whisper things
    [ code by psiche ]



     
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    Scosse il capo, quasi a voler scacciare fisicamente l’idea che Aveline si era fatto di lui. Avrebbe voluto stringere i suoi polsi delicati, e di peso trascinarla nuovamente nella sala delle torture. Quello era William Barrow tanto quanto il ragazzo che, da quella stessa sala, l’aveva portata via. Si trattava sempre di lui, un continuo infrangersi delle onde sugli scogli; il fulcro della questione era che Will non sapeva se all’interno della metafora, fosse il mare o lo scoglio. Non sapeva più cosa, nella sua vita, dipendesse da lui, e cosa dagli altri. Non ricordava, William Barrow. E rimaneva lì, appeso su un incertezza dalla quale aveva innestato una nuova filosofia di vita, incapace di reagire. Ne aveva il potere, però. Non lo sapeva ancora usare, come un bambino che fra le mani si ritrova il pezzo d’un gioco differente da quello sotto al naso, ma poteva imparare. Era quello il bello d’esser giovani, di ricercare una sfumatura più scura perfino nel vento. Era quello il bello di William Barrow, ed era sempre quello a costituire la sua più grande debolezza. Non s’intestardiva mai abbastanza, lasciandosi distrarre dall’insieme anzichp focalizzarsi sui dettagli. Si aggrappava con le unghie e con i denti a quello che credeva reale, eppure continuava ad affidarsi a tutto ciò che di reale aveva ben poco, confidando che non l’avrebbero lasciato cadere. Viveva un illusione, Will, e poco importava che fosse costruita da lui stesso o da qualcun altro. Una finzione non diventava più gestibile se l’artefice cambiava, solamente Barrow avrebbe potuto spezzarla.
    Il fatto, era che non lo voleva. Non abbastanza. Non da solo. A discapito di quanto sembrava credere la Medium, William non era diverso da loro. Era fatto della stessa pasta, bruciata in superficie e poco cotta all’interno; era fatto sbagliato, William Barrow. Uno di quegli sbagli del quale ti accorgevi troppo tardi, perché non lo guardavi mai davvero. Uno sfarfallio colto con la coda dell’occhio, mera increspatura sul fondo del campo visivo. Nessuno l’aveva mai visto davvero per quel che era. neanche lui era mai riuscito nell’intento.
    Ma ci aveva provato, William Barrow. Ci aveva provato a scavare sotto la superficie, a cercare qualcosa che valesse la pena d’esistere. Ci aveva provato, William Barrow, ad esistere.
    Non era bastato. Non bastava mai
    .
    Se qualcuno non avesse conosciuto il Corvonero, avrebbe pensato che fosse imbarazzato. Ma Will non si imbarazzava, giusto? Rimase in silenzio ad osservare la mano di Aveline sulla sua, chiedendosi perché non provasse l’istintivo bisogno di sfuggire al suo tocco. Eppure, una parte di lui avrebbe voluto sgusciare dalla presa delicata di lei, impedirle di sfiorare l’abisso con le dita pallide ed affusolate. Scostare la cortina rossa del palcoscenico per mostrarle ciò che v’era in scena quando gli attori ancora non erano saliti sul palco: il nulla. Non c’era nulla, in William Barrow. Un tempo non era così. Aveva avuto la sua luce, era stato quella luce. Un faro, a dire di molti; una speranza. Era stato la fede, William Barrow, anche quando incapace di dare definizione ad un termine così spinoso. L’aveva avuta, la fede. L’aveva avuta, la speranza. Erano bastate otto lettere per cancellare tutto ciò che era stato, quello che aveva avuto. Otto lettere impresse a fuoco sotto forma di un fottuto triangolo sul petto. E sotto quel marchio, nascosto da inchiostro indelebile, era celato il cuore più puro di Barrow. Se solo fosse stato abbastanza coraggioso da cercarlo. Se fosse stato abbastanza forte.
    Non lo era. Non lo era mai stato
    .
    Una ferita aperta, dove nessun incantesimo di guarigione avrebbe mai potuto arrivare. Una spaccatura, frizione ed attrito. Sei una brava persona, William. Non lo era, ed avrebbe voluto dirglielo. Non lo era, eppure era abbastanza egoista da lasciarglielo credere. Ognuno aveva le sue debolezze, quella di William era desiderare che gli altri ci credessero un po’ di più. Che lo vedessero.
    Che lo facessero anche per lui.
    Ancora immobile. Il profumo dolce della babbana lo raggiunse, sovrastando quello pungente del freddo e l’amaro della sigarette. Lo raggiunse come un balsamo, placando dolore laddove William non riusciva a vedere neanche il sangue. Dopo tanto tempo, qualcuno che credeva in lui. In lui, non in ciò che avrebbe dovuto essere, ciò che era stato. In lui, che non aveva nulla più da offrire se non un sorriso sghembo ed una risata graffiante, rauca fra denti sbeccati. Le labbra furono gentili sulla sua guancia. Non chiesero nulla, non pretesero niente in cambio. Così Will rimase immobile, l’ombra di un sorriso dolce amaro ad increspare un espressione troppo seria. Né Aveline né Will avrebbero potuto immaginarlo, ma era bastato quel gesto. Andò a toccare qualcosa di radicato nell’animo di William, anche se reso opaco da una visione sfocata. Qualcosa che non avrebbe mai potuto smettere d’essere, malgrado il macigno a pesargli sullo stomaco, il cerchio alle tempie, il dolore al petto. Aveline vedeva William Barrow, in quelle iridi così trasparenti da far sembrare lo sguardo del Corvonero più simile a quello di un Husky. Sotto la chioma spettinata e le occhiaie violacee, lei aveva visto qualcosa. Una bella persona. Non sapeva se avrebbe mai potuto esserlo, e di certo non credeva di esserlo in quel momento.
    Ma bastò. Alla fine, bastava sempre.
    Intrecciò le dita a quelle di lei, tenendo lo sguardo chino. Fu un gesto naturale, confortante. Una risata gli scosse le spalle, mentre imbarazzato alzava finalmente la testa verso di lei. «mi ricordi mia sorella. tranne per il fatto che lei, la prima volta che mi ha visto, ha creduto fossi uno stupratore seriale» Fece di nuovo spallucce, senza lasciare la presa sulla mano di Aveline. Niamh. Il suo sorriso, i suoi occhi. Qualcosa bussava, in fondo all’animo errante di Barrow, implorandolo di ricordare per cosa aveva combattuto.
    Per chi.
    Strinse la presa, guardando finalmente la ragazza con serietà. «grazie» disse, anche se fu superfluo. Grazie per avermi dato qualcosa che pensavo di aver perso da tempo.
    Grazie per avermi ridato qualcosa che non sapevo di aver smarrito.
    E tu.. dovrai farmelo sul petto, sopra il cuore.
    Fede.

    Lasciò la mano di lei, portando le mani in tasca per raccogliere il materiale per rollarsi un’altra sigaretta. Metodico, tacendo meditabondo, prese cartina, filtrino, e tabacco. Era lì, in bilico. Come una volta, si trovava scegliere per sé stesso e per qualcun altro, conscio che quanto aveva da dire avrebbe potuto suonare assurdo quanto completamente giusto. Leccò la colla, tornando a guardare la medium. «mi hanno dato un appuntamento per domani. Non c’era firma: solo il mio nome, alcune coordinate, ed una domanda» Premette sulla sigaretta in modo da schiacciare la carta, quindi prese un fiammifero. Sfregò la testa rossa contro la superficie rugosa, osservando la fiamma. Fuoco, terra, aria, acqua. Deglutendo, portò il fiammifero alla sigaretta, accendendone la brace. «chi sei, william?» recitò asettico guardando un punto sul fondo del cortile, come un copione imparato a memoria. Poteva quasi sentire una voce più dolce, ed un accento più marcato, sfiorare labile i contorni della sua mente. «vieni con me» disse semplicemente, ruotando gli occhi su di lei. Avrebbe voluto dirle di più, ma anche di meno. Si sentiva un completo idiota, seduto su quel muretto, ad invitare una sconosciuta ad un appuntamento di cui nonsapeva nulla. Un completo coglione. Poteva trattarsi di una trappola, poteva essere un fottuto incontro con qualche parente svitato. Addirittura un skrztto di Mitchell. Ma non è così, vero William? Lo sai che non è così.
    E sapeva anche un’altra cosa, William Barrow, mentre sorrideva leggero ad Aveline, quasi che la risposta di lei non avesse poi una grande importanza. Non voleva andare da solo.
    Perché la verità, era che William aveva paura.
    Ho bisogno di te, ragazza mia. Domani. Scegli me ancora una volta.
    Quel sussurro. Non ne aveva memoria, ma lo percepiva come un brivido nel costato. Non poteva cancellarlo, William Barrow, quel bisbiglio affidato al buio di una notte stellata.
    Domani. Sempre.


    role code made by effe don't steal, ask

     
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