Here, where the past knock at the door

Jean Grey; Rea Hamilton

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    Quando arrivò di fronte alla graziosa villetta a schiera, nella periferia coloniale di Londra, Jean sapeva già cosa fare. Quello dei furti nelle abitazioni, era divenuto un rituale metodico ed ordinato.
    Dietro di lei, la cassetta delle poste aveva la piccola asta rossa alzata, quando era andata a controllare, al suo interno aveva trovato lettere recanti la data di due giorni fa. Aveva sorriso, la famiglia Houstin – questo era il nome recato sopra alle buste - doveva essere fuori per una piccola vacanza e non aveva lasciato a nessuno le chiavi per ritirare la posta o annaffiare le piante.
    Nei suoi giri di perlustrazione, giorni prima, li aveva visti sistemare le valigie nella monovolume.
    Jean sceglieva sempre quartieri vicino alle scuole, perché difficilmente avrebbero fatto caso ad una ragazza in più fra le tante che percorrevano i lunghi viali per recarsi a studiare o per andare in biblioteca. La mente umana era semplice da ingannare, bastava saper indovinare le sue associazioni e non uscire mai all'infuori di esse: fingersi una studentessa sorridente e curiosa non insospettiva mai nessuno, soprattutto vicini ficcanaso e pettegoli, sempre felici di condividere certe informazioni.
    « Quegli Houstin.... il marito ha perso il lavoro e la famiglia parte per una vacanza in crociera! Ah! » aveva commentato l' anziana signora che abitava alla porta accanto giusto due giorni prima, quando Jean, nella sua miglior interpretazione di una passante ingenua, le aveva chiesto spiegazioni per il continuo via vai. « Non so come facciano, sinceramente. Secondo me hanno più soldi di quelli che fingono di avere » aveva incalzato la donna, prima di salutarla e continuare a spiare sopra alla siepe quello che stavano combinando i vicini.
    Jean controllò che non vi fosse nessuno affacciato alle finestre o lungo la strada, era notte tarda e l'ora di andare a letto era passata da un pezzo, con aria incurante controllò le pietre vicino alle scale del terrazzino.
    Sotto una di esse, in una perfetta imitazione di lattice, c' era attaccata la copia della chiave. Troppo facile: non avrebbe dovuto nemmeno fondere la serratura.
    La porta d'ingresso si aprì con un click e ruotò silenziosamente sui cardini ben oliati.
    L' ambiente era accogliente e spazioso a giudicare da quello che riusciva a vedere con l'ausilio dei lampioni in strada, lo spazio interno della casa era suddiviso su due piani ed un seminterrato. Al piano terreno vi era salotto e cucina separati dal piccolo corridoio dove ora si trovava, a quelli superiori avrebbero dovuto esserci le camere da letto.
    Richiuse la porta e le camere vennero nuovamente immerse nel buio più nero. Sul palmo della mano sinistra accese una piccola fiamma. Il calore era piacevole sulla pelle ed era abbastanza intensa da permetterle di controllare ciò che la circondava.
    Non accese le luci, anche con le serrande delle finestre abbassate, il piccolo rettangolo di vetro oscurato sopra alla porta avrebbe potuto tradirla: i vicini sapevano che la famiglia era andata in vacanza, una lampadina di troppo avrebbe potuto insospettirli.
    La sua prima tappa fu la cucina, il frigo -come si era aspettata- era vuoto, ma gli scomparti erano pieni di cibo a lunga conservazione.
    Svuotò gli scaffali e riempì lo zaino. Per almeno una settimana – o più, se fosse stata attenta - con simili scorte avrebbe potuto stare tranquilla.
    Vedendo tutto quel cibo stipato dentro al suo zaino si ricordò che non aveva cenato. Tirò fuori due fette di pancarré e vi spalmò un po' di burro d'arachide e cioccolata.
    Con un angolo del panino tra i denti, continuò il suo giro di perlustrazione al piano di sopra. Andò con sicurezza nella camera della figlia maggiore: aveva molti vestiti e molti erano rimasti ben ripiegati nell'armadio.
    Ne prese un po', avevano all'incirca la stessa taglia, forse le sarebbero stati un po' larghi ma viste le sue condizioni Jean non amava sprecare nulla.
    Quando finalmente fu sicura di aver preso tutto ciò di cui aveva bisogno – fra cui i risparmi dei due figli, con un po' di fortuna si sarebbero incolpati a vicenda del furto –, purtroppo però non trovò nulla dei risparmi segreti di cui sospettava l' anziana vicina.
    Come ogni volta, si premurò di lavare i vestiti che aveva indosso e quelli sporchi che si era portata dietro.
    Nuda, si diresse in bagno dove finalmente poté concedersi una doccia, al lume delle piccola candela che aveva acceso ai suoi piedi.
    Immersa nel silenzio della casa e sotto l'acqua tiepida scrosciante sopra di lei, si ritrovò sola con i suoi pensieri.
    Ad un certo punto della vita diventa inevitabile chiedersi se la propria esistenza avesse un senso o se si fosse tutti pedine su di una scacchiera, mosse da un fato aspro e crudele. Jean aveva imparato a non porsi certe domande, ma quelle scomode verità tornavano a farle visita contro la sua volontà: e prendeva coscienza che sì, ciò che l' aveva guidata fino a quel momento non era che mero istinto di sopravvivenza: ciò che spinge un animale a scappare da un predatore, ma nulla di più.
    La sua esistenza era poco più che tale, poiché vita non poteva essere chiamata, andava contro qualsiasi definizione.
    Ogni giorno lottava per sopravvivere fino all'indomani e non lo faceva nemmeno più per sé stessa, forse solo per motivi più infantili e totalmente futili: una mera e vana vendetta contro chi era morto; giusto per ricordare loro che lei era ancora lì, a dispetto di ciò che avevano sempre insinuato, e respirava ancora. Ma no, non avrebbe mai avuto l' ardire di definirla vita quella.
    Perfino ora, guardando il proprio riflesso allo specchio, tentava di convincersi: ciò che stava facendo aveva un senso. Doveva averlo.
    Ma, superato il tredicesimo anniversario dal suo battesimo a quella vita dove nulla le apparteneva – nemmeno il nome, santo cielo, aveva rubato persino quello -, doveva ammettere che niente di ciò che la circondava effettivamente lo avesse.
    Non aveva senso che una bambina fosse odiata e denigrata dai suoi stessi genitore, nella sua stessa casa – un luogo che doveva essere sicuro - , che una bambina venisse strappata alla propria vita per degli esperimenti, che a soli dieci anni si ritrovasse a vagare sola e smarrita per le strade di Londra senza un posto o qualcuno da cui tornare. La vita era in un debito perenne con lei.
    Ad iniziare da quelli che erano stati suo padre e sua madre, chi mai avrebbe donato un bambino ad esseri così asettici e crudeli? Portava addosso ancora le loro cicatrici.
    Si spaventò nell'incontrare i propri occhi attraverso il suo riflesso, sembrarono giudicarla ed essere silenziosi moniti per ciò che le era sempre stato ripetuto fin dalla nascita. Non era mai stata benvoluta, nemmeno dalla vita stessa, che era stata così fredda e penosa con lei.
    Le ginocchia cedettero sotto al peso di quei pensieri, costringendola a raggomitolarsi sulle mattonelle del bagno, reggendosi con mani tremanti e insicure al bordo del lavandino.
    Per cosa combatteva? Per chi? Domande a cui non riusciva a trovare una risposta convincente. Per me, solo per me. Per Jean.
    Mentre si ripeteva quelle parole piccole volute di fumo si alzarono dalla sua pelle laddove le gocce che le imperlavano il corpo iniziarono a evaporare. Il fiato le si accorciò, il petto si alzava e abbassava velocemente sotto all'asciugamano, schiacciato da un peso opprimente al cuore ed alla bocca dello stomaco.
    Fiamme vermiglie la lambirono senza offenderla, mentre bruciarono l'asciugano ed iniziarono ad annerire ciò che la circondava: stava accadendo. Di nuovo.
    « Per me, solo per me. Per Jean » ripeté a sé stessa, con più forza e determinazione.
    Lentamente, sotto il potere di quelle parole che divennero sempre più decise man mano che le ripeteva, le fiamme si quietarono, così come il suo animo.
    Senza più forze si lasciò cadere sulle mattonelle fredde del bagno, chiudendo gli occhi e respirando sommessamente. Per sua fortuna, fu un sonno senza sogni.


    Quando li riaprì, scoprì che era quasi l' alba.
    Rimproverandosi per quella distrazione, corse a raccogliere i vestiti dall'asciugatoio, se li rinfilò ed uscì con lo zainetto pieno di beni di prima necessità, premurandosi di non farsi vedere da nessuno.
    Stavolta si sarebbero accorti delle tracce di un piccolo incendio in bagno, ma stavolta era stata abbastanza brava da non incendiare l'intera casa come durante l'ultima incursione casalinga.
    Si diresse con passo svelto verso la zona di Londra dove al momento risiedeva, nel vecchio teatro abbandonato, ma una fastidiosa sensazione si impadronì di lei.
    Alle prime pallide luci del mattino, nel silenzio della strada, le sembrò di udire il suono di scarpe sul cemento sotto alle sue. Erano lievi, impercettibili.
    Si fermò ed il rumore tacque, ma non si voltò.
    Irrequieta, tornò sui suoi passi, stavolta con passo più calmo. Ed eccoli, ancora lì, dietro di lei.
    Aumentò pian piano la sua andatura finché non si ritrovò a correre, il cuore le batteva nel petto come impazzito, mentre un dubbio si faceva largo dentro di lei: era stata così incauta da farsi scoprire?
    No, non poteva essere un poliziotto, l' avrebbe arrestata prima. Era qualcosa di molto peggio.
    Corse, corse se come da quella fuga dipendesse la sua vita, la sua esistenza. Forse era veramente così.
    Quando finalmente si fermò, imboccato un vicolo buio e squallido, il cuore le rimbombava nelle orecchie e le gambe dolevano. Ma i passi dietro di lei si fermarono con i suoi.
    Con un sorriso sprezzante sulle labbra si rese conto che chi la stava inseguendo non l'avrebbe lasciata in pace.
    Se anche gli fosse scampata oggi, domani sarebbe ricominciata la caccia. Era lì per lei, solo per lei. Per ciò che era oggi e per ciò che era stata. Fu con la stanchezza nel cuore che ammise a sé stessa di non voler più fuggire.
    Alzò gli occhi al cielo, scoppiando in una risata isterica « Cosa vuoi da me? » disse, voltandosi con lentezza.
    Chiuso nella sua mano, fra le dita, un globo di fuoco prese forma pronto ad essere lanciato alla prima minaccia.
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    rea hamilton


    Un tonfo sordo sulla scrivania, accompagnato da un frusciare di fogli, la indusse ad alzare lentamente lo sguardo. Rea Hamilton, le lunghe gambe affusolate poggiate sulla scrivania e la schiena contro il sedile della poltrona girevole, si ritrovò a scambiare un’occhiata eloquente con un nervoso Harrison Palmer, il capo dei Cacciatori. Lui la osservava, tacendo quanto poteva leggere nelle iridi d’ossidiana, e la mora non ritenne opportuno chiedere alcunchè: qualunque cosa avesse avuto da dirle, non le interessava. Ormai lo sapevano entrambi. Lo ignorò, tornando a guardare le proprie unghie, impeccabilmente curate come ogni cosa del proprio aspetto. «hamilton» un sospiro, prima di inumidirsi le labbra. «palmer» rispose con voce roca e graffiante, senza sorridere. «non hai preso i fascicoli della settimana» ma non mi dire. Gli angoli delle labbra si sollevarono appena, lo sguardo ancora fisso sulle proprie mani. Sentì la prima nota di rabbia vibrare nella voce dell’uomo, ed un infantile senso di gioia e soddisfazione le fece brillare malignamente lo sguardo. Irritare Harrison Palmer non era solo facile, era un gioco al quale partecipavano ormai tutti i Cacciatori del piano. Chi riusciva a farlo imprecare in meno di un minuto, guadagnava caffè fresco ogni mattina, portato di volta in volta da un Cacciatore diverso. La maggior parte dei lavori che si ritrovavano a svolgere non erano altro che falsi allarmi, motivo per cui avevano tutti dovuto trovare un altro hobby. Rea raramente vinceva a quel gioco: non era tipo da attacca e uccidi, la Hamilton era più un avvelena, osserva le convulsioni al suolo della vittima, offri un antidoto in cambio di cospicui interessi, e poi uccidi comunque. Non era una Cacciatrice solo per lavoro; bramava quel lungo inseguirsi fra preda e predatore, sapendo che per quanto a lungo potesse protrarsi, alla fine avrebbe vinto lei. Adorava vedere Palmer impallidire a poco a poco, sbattere le palpebre cercando di capire quanto stesse scherzando o quanto fosse seria, inumidirsi bruscamente le labbra sottili. Al contrario, Heidrun Crane era bravissima nel trovare metodi sempre più rapidi per innervosire il buon Palmer, una dote quasi invidiabile: due settimane prima si era presentata al lavoro vestita da Peter Pan, invitando Harrison a volare con lei all’Isola che non c’è; quella seguente, aveva svuotato l’ufficio di lui in lacrime, domandando perché l’avesse tradita –e con suo padre!. Insomma, beveva un sacco di caffè sopra le loro tasche. Non sapeva se considerare i Crane come una spinta all’economia del paese, o come zavorre sulla propria finanzia. Sicuramente la seconda. Quel giorno, i tre Cacciatori più richiesti sulla piazza (okay, non era proprio così: in primis c’era Rea, che sbolognava il lavoro a Gemes, il quale a sua volta lo lasciava a Run; in qualche modo, era come se fossero tutti e tre in cima alla lista) erano arrivati a tempo, fermandosi sulla soglia alla vista di un fischiettante Palmer. Quando fischiettava, era di buon umore; se era di buon umore, aveva sicuramente fatto qualcosa che a loro sarebbe piaciuto molto, molto poco. «è troppo allegro» Rea aveva inarcato un sopracciglio, tentata di tornare sui propri passi e lasciare il prima possibile l’ufficio. A volte era così difficile resistere alla tentazione di ucciderlo. «cosa offri, Hamilton, se riesco a farlo tacere in meno di trenta secondi?» Aveva scoccato un’occhiataccia alla Crane, volgendole il più impercettibile dei sorrisi. «un bacio in fronte ed un grattino dietro le orecchie» con Amos funzionava. Run aveva sospirato, alzando gli occhi al cielo. «a volte una ragazza deve accontentarsi. EHI, PALMER» L’uomo, accovacciato su una scrivania, si era spinto gli occhiali sul naso ed aveva sollevato interrogativamente lo sguardo su di loro. Per tutta risposta, con le braccia intrecciate sul ventre, Heidrun aveva afferrato i lembi della maglietta e l’aveva sollevata, mostrando le sue grazie ad Harrison Palmer. «gesù cristo, crane! Ma che diamine!» e lo sguardo s’era fatto nuovamente corrucciato, senza più traccia dell’allegria di poco prima. Beh, non particolarmente originale, ma di sicuro funzionale. «com’era la battuta? Ah, sì» Heidrun si era battuta il pugno sul petto, schiarendosi la gola con aria melodrammatica. «non ringraziarmi» l’aveva imitata, in un basso ronzio vibrante. Non comprendeva se quello provato nei suoi riguardi fosse una sorta di malsano attaccamento, si sapeva che Rea Hamilton aveva un debole per i disagiati, oppure un fascinoso dubbio lecito su quale sarebbe stato il modo più rapido per porre fine alla sua esistenza. In entrambi i casi, forme d’amore: i castafratti avrebbero potuto testimoniarlo. Rea aveva sorriso, sapendo che avrebbe dovuto pagare il suo pegno; si era baciata la punta delle dita, e le aveva schiaffate con non troppa delicatezza sulla fronte della collega, guadagnandosi un «how rude» e l’abbozzo di una risata divertita. «maledetti hamilton» e non aveva ribattuto, perché aveva ragione.
    «quali fascicoli?» domandò a Palmer con finta innocenza, sbattendo languidamente le ciglia. Per tutta risposta, egli sbattè nuovamente il malloppo di fogli sul tavolino. «questi fascicoli» Lanciò un’occhiata annoiata alle cartelle, tornando nuovamente alle proprie unghie. «noiosi» ah, quanto avrebbe dato per imbottigliare il sospiro frustrato emesso fra i denti dal suo boss, l’avrebbe ascoltato a ripetizione come la più dolce delle ninna nanne. «hamilton, non giocare con il fuoco» finalmente aveva detto qualcosa di interessante. Rea poggiò i piedi a terra, i gomiti sulla scrivania per avvicinarsi maggiormente all’omuncolo. «l’unico che gioca con il fuoco sei tu, palmer» «ricorda chi è il capo» oh, Rea ricordava sempre chi fosse il capo, e di certo non era Harrison Palmer. Quell’uomo non aveva ancora compreso che lui non era altro che un male necessario: c’era la fila, per sedersi a quella scrivania; il mondo sarebbe andato avanti anche senza di lui, al contrario di quanto Harrison credeva. E la Hamilton, melliflua e schietta, glielo fece notare. «il potere è effimero, harrison palmer. Siamo cacciatori, noi: una preda vale l’altra» un sorriso lento mostrò la schiera di denti bianchi, affondando come uno stiletto nel fianco del Capo dei cacciatori. «è una minaccia?» non era decisamente il più brillante in circolazione, e per questo Rea aveva lasciato che giocasse a fare l’uomo della situazione, fingendo che avesse un briciolo di autorità su di lei. Ma ogni finzione raggiungeva il limite, prima o poi: Harry l’aveva superato. «no, dolcezza, solo una constatazione. quando diventerà una minaccia, sarai il primo a saperlo» così dolce, caramello che scivolava debole sull’epidermide, un brivido a fior di pelle dal mielato sapore di giochi proibiti e perversi. E Harrison Palmer, sapeva che Rea Hamilton non bluffava mai. Dopo anni nell’ambiente, si era creata una certa reputazione; il fatto che fosse stata raccomandata da quello che era diventato vice ministro, lasciava un acre sapore sulle labbra di Harrison, che amicizie del genere non avrebbe potuto vantarle neanche in vent’anni di carriera.
    Quanto amava essere Rea Hamilton in un mondo di Palmer qualsiasi.
    «ce ne sono alcuni nuovi, potrebbero piacerti» quell’uomo le dava davvero i brividi, da quanto era repellente. Con un cenno pigro della mano gli indicò la porta, invitandolo ad uscire. «gli darò un’occhiata» lo vide irrigidirsi, combattuto fra l’orgoglio personale del non darle alcuna soddisfazione, ed il meschino istinto di sopravvivenza. Senza aggiungere altro le diede le spalle, chiudendo la porta dell’ufficio dietro di sé. Era un idiota, ma si poteva star certi che era un idiota che avrebbe seppellito tutti loro. Quando rimase sola, Rea, più per noia che per reale interesse, cominciò a sfogliare le cartelle: nomi su nomi, John Doe, indizi casuali su luoghi nel quale la Hamilton non avrebbe messo piede neanche sotto tortura –non poteva rovinare le sue Jimmy Choo. Li divise ordinatamente in due colonne: gli incarichi più inutili, nella parte destra (Heidrun); quelli potenzialmente utili, a sinistra (Gemes). Insomma, ancora niente per lei. Che difficile la vita, quando si avevano standard troppo elevati. Si versò un dito di whisky, inumidendosi appena le labbra con il liquido ambrato. Una cartellina priva di nome, un quartiere residenziale nella periferia di Londra. Incendi che la polizia babbana non sapeva come giustificare; serrature sciolte come burro al sole, pur senza alcuna traccia di eventuali fiamme ossidriche che avessero potuto svolgere un compito tanto eloquente. Loro lo chiamavano piromane, ma Rea sapeva che il nome era un altro.
    Pirocinetico.
    Finalmente qualcosa di divertente.
    «bravo Palmer, domani ti porto un biscottino» bisbigliò fra sé, infilando la cartella dall’aria del tutto anonima nella propria borsa. Un vago sorriso sulle labbra, una scintilla particolare negli occhi cioccolato. Il gioco stava per cominciare.

    La frusta ricevuta a natale arrotolata attorno al polso, i tacchi alti a risuonare ritmicamente sul selciato di una delle tante villette della zona. Era quel particolare momento della giornata nel quale il cielo non avrebbe potuto essere più blu, una tonalità così profonda e morbida da dare la sensazione concreta di potercisi sporcare i polpastrelli se solo si fosse alzata la mano. Mentre tutti dormivano al sicuro nei propri letti, agitati da sogni e da incubi meravigliosi e tremendi in egual misura, Rea Hamilton cominciava il suo lavoro. Il silenzio era quasi tangibile, ogni respiro un suono troppo azzardato a rompere quel fragile equilibrio. Nessuna emozione troppo forte era permessa, nella quiete dell’alba; l’ora perfetta per tirare un sospiro di sollievo, avrebbe pensato qualche anima troppo ingenua, perché i mostri con il sorgere del sole tornavano a dormire. Un giorno avrebbero imparato a loro spese, che i mostri non dormivano mai. Non vivevano tutti sotto al letto, o nascosti dentro armadi troppo stretti; non erano tutti nella testa, voci insistenti che pregavano un Dio che aveva smesso di guardarli quand’erano caduti. Potevano indossare Louboutin, stretti pantaloni neri, ed una giacca di pelle calda al tatto; potevano avere il sorriso più bello, il tocco più confortante, le parole più dolci sulla punta della lingua.
    Perché i veri mostri, erano quelli che non lo sembravano affatto.
    La vide. Il proprio cuore accelerare di colpo, un animale graffiante pronto a sfoderare artigli di diamante fra polpastrelli morbidi come seta, pregustando il momento in cui sarebbero affondati nella tenera carne del topo. Lunghi capelli biondi, spalle magre ed andatura rapida. Le foto del fascicolo erano perlopiù mosse, nessuna immagine abbastanza nitida da darle una conferma, ma a chi importava? Il dubbio era una condanna, nella sua, nella loro, realtà. Il dubbio era tutto ciò che serviva, per darle la licenza di giudice, giuria e boia. Non cercò di nascondersi, che gusto ci sarebbe stato? Lasciò che lei si accorgesse di quei lenti passi sul cemento, che comprendesse che erano per lei. Un lento sorriso le adombrò gli occhi scuri, quando la ragazza si fermò; seguì il suo esempio, immobilizzandosi a diversi metri di distanza. Quando cominciò a correre, dovette trattenere una risata: li adorava quando scappavano, rendevano tutto maledettamente più eccitante. Eppure avrebbero dovuto saperlo, che non avrebbero potuto scappare per sempre.
    Alla fine lo capivano sempre.
    Con passo rapido, ma senza correre –non poteva rovinare la piega- Rea seguì la ragazzina, facendo scivolare la punta della frusta a sfiorare il pavimento. Non che volesse usarla, ma la precauzione non era mai troppa. Perché, invero, se Rea Hamilton aveva accettato magnanimamente l’incarico, non era per liberare il mondo da un soggetto pericoloso. Se avesse seguito quell’ottica, avrebbe dovuto dar fuoco a Villa Hamilton ed a tutti i suoi abitanti, ella stessa compresa. Senza pericolo, quel mondo non aveva il giusto sapore. No. La affascinavano, i soggetti spezzati. La attraevano come falene ad una fiamma, dove Rea era sia insetto che fuoco. Voleva dar loro una nuova opportunità, ricordargli che una frattura non rendeva l’uomo, o la donna, meno forte: dimostrava soltanto che erano sopravvissuti laddove molti altri erano morti. Bontà d’animo? Decisamente no.
    Caos. Vendetta. E più di loro, anime fragili in cerca d’un appiglio, avessero scelto il suo lato, più gli altri avrebbero dovuto cominciare a preoccuparsi. Li trattavano come reietti, creature di qualità inferiore; riservavano ai soggetti dei Laboratori lo stesso sguardo che Rea aveva visto nei suoi genitori, quand’era bambina. E aveva giurato molti, molti anni prima, che nessuno si sarebbe mai permesso di guardarla in quel modo sopravvivendole. Per questo non si era dichiarata, fingendo di possedere ancora la magia che l’aveva caratterizzata fino a qualche anno prima. Per questo faceva la Cacciatrice: offriva una scelta, Rea Hamilton. Stava solamente a loro prendere la decisione giusta, una libertà che molti altri non avrebbero permesso.
    Perché certo, Rea era un mostro: ma chi non lo era? Chi è senza peccato, scagli la prima pietra.
    Fece capolino al vicolo dove la giovane s’era, ingenuamente, messa in trappola. Avanzò, rimanendo però a distanza di sicurezza, e squadrò con occhi curiosi la bionda. Sembrava ancora più giovane, alle delicate luci dell’alba; delicata, forse, ma non nel modo consueto con il quale si sarebbe potuto definire qualcuno delicato. La risata di lei la fece sorridere, le sopracciglia elegantemente inarcate. « Cosa vuoi da me? » Gli occhi di Rea scivolarono sulle sue mani, dove le prime fiamme cominciavano a scaldarle il palmo. Si cominciava subito a giocare duro, mh? Affascinante. «mi hanno detto che qualcuno si sta comportando in modo molto, molto cattivo» esordì melliflua, spezzando il silenzio dell’alba con voce morbida e calda. «e credo di aver trovato il colpevole» le sorrise, con quella punta di malizia divertita che contraddistingueva ogni sua parola, o gesto. Con quella punta d’ineffabile ironia che aveva reso Rea Hamilton, Rea Fuckin Hamilton. «non sono qui per farti del male» si avvicinò cautamente di un passo, addentrandosi all’interno del vicolo. «non ancora» precisò, brillando di una risata priva di voce. «personalmente, preferirei non arrivare a tanto» menzogna? Non troppo. «dai piani alti hanno trovato molto… rozzo, questo tuo incendiare case, o stanze, o bruciare serrature nel mondo babbano, quindi hanno mandato me: Rea Hamilton, al suo servizio» Chinò brevemente il busto nell’imitazione di un inchino, mantenendo però il contatto visivo.
    Ed ancora sorrideva, Rea, perché a volte amava davvero tanto il suo lavoro.


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    CorneliaJeanGrey
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    Jean durante il suo lungo periodo di vagabondaggio aveva imparato a riconoscere le persone al primo sguardo, una sorta di difesa personale che poteva permetterti di sopravvivere riconoscendo le brave persone da quelle meno raccomandabili. Studiando con circospetto Rea Hamilton non poteva che catalogarla fra le persone pericolose.
    Ad un primo sguardo il suo aspetto avrebbe potuto ingannare i più ingenui, ma nel suo sorriso e nei suoi occhi Cornelia riusciva a vedere una luce febbrile. Stava giocando con lei e sebbene non le avesse rivolto alcuna minaccia diretta, poteva avvertirne il peso aleggiare.
    La sua prima scelta era stata evitare uno scontro diretto, tentare la fuga, ma Rea sembrava non voler essere dello stesso parere.
    Le avrebbe impedito a qualunque costo di scappare, anche a costo della vita, in fondo che cosa era lei per quella donna? Solo un fascicolo pieno di pagine e foto sfocate che presto avrebbe archiviato in un modo o nell'altro.
    Lottare le sembrava stupido e controproducente, Rea sembrava conoscerla meglio di quanto Jean non conoscesse lei. Non aveva la minima idea di quali potessero essere le sue capacita, aveva solo il sospetto che fosse come lei, un esperimento, altrimenti invece che un arma avrebbe sfoderato una bacchetta. Era quindi in netto svantaggio, non conosceva il suo nemico e questo era un netto svantaggio.
    Anche nella più rosea delle ipotesi, se fosse riuscita a metterla fuori combattimento o addirittura ucciderla -ma ne sarebbe stata davvero in grado? Jean non aveva mai ucciso, era stata la piccola ed indifesa Cornelia a farlo, che strana ironia...- altri dopo di lei sarebbero arrivati e stavolta non le avrebbero concesso il lusso di una chiacchierata.
    Già si immaginava i manifesti appesi per l'ufficio del Ministero della Magia: ALTAMENTE PERICOLOSA, UCCIDERE A VISTA. Una pubblicità di cui non voleva essere protagonista.
    Dovette arrendersi all'evidenza: era in trappola.
    Quando questa consapevolezza trovò fondamento nelle sue elucubrazioni fu come se qualcuno avesse scoperchiato un vaso di pandora nella sua testa: mille ipotesi su quale sarebbe stata la sua fine iniziarono ad affollarsi fra i suoi pensieri e sentì il respiro farsi affannoso mentre i polmoni si schiacciavano contro la cassa toracica affamati di aria.
    Cosa le sarebbe successo? L'avrebbe rinchiusa di nuovo in quei dannati laboratori? Se quella era la sua prossima destinazione avrebbe preferito bruciare all'inferno piuttosto, tormentata dai fantasmi dei suoi cari. Quella era una tortura che aveva imparato a gestire e a conoscere, ma mai avrebbe permesso a qualcuno di portarla di nuovo in una cella buia.
    Spesso aveva ancora incubi di quelle notti passate a graffiare la parete, sbucciandosi la pelle fino alle ossa e portandosi via le unghie, nella disperata ricerca di una via di fuga e la desolante consapevolezza che si faceva largo dentro di lei ad ogni preghiera senza risposta: sarebbe morta lì dentro.
    Era una paura ed un terrore che aveva giurato non avrebbe mai più provato. Eppure, qualcosa le impediva di gettarsi addosso alla mora così da generare in lei una risposta abbastanza aggressiva da lasciarla lì, in quel vicolo, priva di vita e salva dai laboratori.
    Non credeva ci fosse qualcosa che la spaventasse di più degli esperimenti, ma a quanto pare, neppure Jean era così coraggiosa da riuscire ad affrontare a testa alta la Morte.
    Un lampo di raziocinio la riportò alla realtà, forse aveva ancora una possibilità. Forse avrebbe potuto scendere a patti con quella donna, una possibilità infinitesimale, probabilmente inesistente ma per il momento era abbastanza per poterle farle sperare di poter uscire viva da quel vicolo e non finire in una cella poco dopo.
    « È questo il problema? Troppa intraprendenza? Posso contenermi da qui in poi » il suo tono era deciso ma dentro di lei Cornelia tremava, tappandosi le orecchie e temendo il peggio « Hai fatto il tuo lavoro, ora puoi andartene » sibilò senza mai abbassare la guardia e studiando con attenzione ogni movimento della mora. Non si fidava di lei, perché mai avrebbe dovuto?
    Le fiamme continuarono a bruciare fra le sue dita, in attesa solo di un suo comando.
    Ma qualcos'altro la stava tormentando, quanto sapeva di lei Rea Hamilton? Stava cercando Jean, la povera piromane troppo sfrontata, o Cornelia, la bambina scomparsa undici anni fa?
    Per la prima volta dopo un decennio temette di dover disseppellire un fantasma per poterne scampare viva.
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    A face like heaven catching lighting in your nightgown
    rea hamilton


    La Hamilton reclinò il capo, lasciando che i lunghi capelli castani scivolassero sulla spalla ad incorniciarle il volto. Quando lavorava come Pavor, la vita era molto più… semplice, perlomeno per quanto riguardava i rapporti con il genere umano. Non doveva preoccuparsi, Rea, di interloquire con le vittime designate ed additate come traditori: doveva semplicemente agire, e rimuovere l’erbaccia dalla radice. Portava giustizia e ordine laddove regnava il caos, ma non era mai stato suo compito quello di intavolare conversazioni con il presunto ribelle di turno; non doveva cercare di tranquillizzarli, né cercare di sviluppare un contatto empatico con chicchessia.
    Sostanzialmente, non le servivano vivi – e mai s’era premurata di mantenerli tali. Cambiando livello al Ministero e scegliendo di patteggiare per i Cacciatori, aveva dovuto – aveva voluto - cambiare le regole del gioco: al contrario dei membri della Resistenza, gli Esperimenti avrebbero sempre potuto tornarle utili, un giorno. Avrebbero potuto scegliere di unirsi alla sua causa, addestrandosi più duramente per, un giorno, poter finalmente rivendicare l’agognata vendetta contro i Laboratori; poteva estorcere favori, pagamenti che solo loro sarebbero stati in grado di saldare.
    Ed erano come lei, anche se loro non potevano saperlo. Rea Hamilton si prodigava a trovare loro un nuovo scopo, una seconda possibilità, perché era quello che voleva per sé stessa: le avevano portato via tutto, ma aveva bisogno di qualcosa che la spingesse a credere che non per quello la sua vita fosse finita. Non era solo vendetta, quello che la mora ricercava: era un posto nel mondo - per sé, e per loro. I maghi vedevano gli esperimenti come uno scarto ed uno spreco, e la Hamilton aveva tutta l'intenzione di mostrare loro che non era così; un giorno avrebbero realmente capito con cosa avevano a che fare.
    E quel giorno, sarebbe stato troppo tardi.
    Il motivo per il quale ella mai s’era dichiarata, nascondendo di aver perso le capacità di usare una bacchetta, era principalmente quello: dopo anni passati a crearsi la propria, mostruosa, nomea, combattendo contro i pregiudizi dati dal suo sangue sporco, non aveva alcuna intenzione di dar motivo d’appiglio per altre etichette che l’avrebbero denigrata. Perché, buon Dio, Rea Hamilton era brava - molto più brava di tutti loro, con o senza magia. Creare illusioni le aveva facilitato la possibilità di mantenere la facciata, ed ella ne aveva approfittato per distorcere la realtà a suo vantaggio. Non che ingannare gli altri fosse una novità, per la mora.
    Rimase ferma dov’era, senza accennare alcun movimento; era difficile, ed alquanto sciocco, reputarla inoffensiva, ma perlomeno poteva mostrarsi coerente a quanto detto, e presentarsi alla giovane dai capelli argentati nella sua posa non belligerante. La osservò a palpebre socchiuse, le sopracciglia inarcate ed un debole sorriso a curvare gli angoli delle labbra. Non fece una piega neanche quando le mani della pirocineta presero fuoco, letteralmente, lambendole la pelle ma senza scalfirla. Un trucchetto da due soldi considerando che Rea viveva con Xavier, ed era perfettamente consapevole di ciò che quel potere poteva comportare. « È questo il problema? Troppa intraprendenza? Posso contenermi da qui in poi » Perché, perché doveva rendere tutto più difficile? Lo sapevano entrambe che non poteva semplicemente lasciarla tornare al mondo babbano come se niente fosse, ed il solo averglielo proposto comportava una grave perdita di tempo sia per la Hamilton che per la Special. Quasi le dispiaceva l’idea di dover essere lei ad aprirle gli occhi, strappandola a quella vita di stenti che portava avanti da un paio di mesi a quella parte, per trascinarla nel mondo al quale realmente ella apparteneva.
    Quasi.
    Scosse tristemente il capo, lasciando che un sospiro leggero aleggiasse nell’aria immobile fra loro. La ragazza non poteva saperlo, ma era stata dannatamente fortunata ad avere una Hamilton interessata al suo caso, ed era tutto a suo favore l’applicarsi per non perdere tale attenzione: altri suoi colleghi, non sarebbero stati così gentili o comprensivi. Avrebbe semplicemente potuto colpirla alle spalle, senza farsi notare, e trascinarla priva di coscienza al Ministero - ma non l’aveva fatto, dando alla bionda una possibilità per rendersi conto di ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Checché ne pensasse il mondo, Rea Hamilton credeva nella possibilità di scegliere; non sempre, d’altronde, rispettava le scelte degli altri, se non si trovava d’accordo.
    Ma quella era un’altra storia.
    « Hai fatto il tuo lavoro, ora puoi andartene »
    Sempre più rude. Inclinò il capo dall’altra parte, persistendo nel suo tacere in favore di un silenzio carico di tensione che, privo d’appigli, doveva necessariamente scemare. Quando fu (abbastanza) certa che la sua risposta non avrebbe causato una reazione violenta da parte della Special, riempì il vicolo di parole morbide e suadenti, sul quale fondo era possibile cogliere un primo velo di obbligata minaccia. «non è necessario» le indicò le mani, sbattendo lentamente le ciglia, ed aprì i propri palmi mostrandosi innocua – per quanto innocua Rea Hamilton potesse apparire. «e non posso lasciarti tornare alla tua… quotidianità - cosa della quale, per altro,» indicò i suoi abiti, soffermandosi su quanto larghi cadessero sul corpo troppo magro. A seguire le vicende narrate nel fascicolo, si era fatta un’idea del tipo d’esistenza che la pirocineta aveva trascorso fino a quel momento. «dovresti essermi grata» sorrise ancora, dolce e affilata come una lama ricoperta di seta. «non vuoi davvero metterti nella posizione di costringermi a usare le maniere forti» lo disse in tono quasi distratto, privo di alcuna inflessione. Non si trattava di una minaccia, e così non avrebbe dovuto suonare: era semplicemente, e pragmaticamente, un dato di fatto. Chiunque conoscesse la Hamilton, anche solo per sentito dire, sapeva che non era saggio giocare con quel fuoco; chi la sottovalutava, non sopravviveva per raccontarlo. «quindi ti chiedo, gentilmente, di non comportarti in maniera infantile: il mio lavoro non è ammonirti riguardo le cattive abitudini» specificò, inarcando un sopracciglio. Allungò una mano per guardarsi le unghie, sempre attenta a qualunque movimento della sua avversaria: neanche per la propria manicure, Rea, avrebbe realmente abbassato la guardia. «il mio lavoro è portarti al Ministero» ed allora lasciò che il sorriso svanisse, lasciando nelle labbra solo un ricordo di ciò ch’era stato. Le lanciò un’occhiata in tralice, le iridi così scure da confondersi con la pupilla. «preferibilmente, viva» Si strinse nelle spalle, dandole tempo perché comprendesse il sottinteso di quell’affermazione: perché a nessuno, dentro quelle mura, importava realmente ch’ella ci arrivasse viva o morta.
    Nessuno, eccetto Rea Hamilton.
    Per ora.

    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code by ms. atelophobia



    TI SUPPLICO PERDONAMI PER L'IMMENSO RITARDO, SCUSA SCUSA SCUSAAAA ç_______ç
     
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3 replies since 27/2/2016, 09:33   208 views
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