runaway train

winstons' gonna win(ston #wat)

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    darling, didn’t you know?
    souls like yours were meant to fall

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    winston maeve[α]
    bye train | 19.04 | pensieve | sheet
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    Si raggomitolò sul sedile sgualcito, accartocciando le lunghe gambe sotto una coperta blu che aveva visto giorni migliori. Fra le mani, come un’ancora di salvezza che la tenesse agganciata alla realtà, un thermos di caffè scaldava le dita intirizzite; e Maeve, Maeve Winston, sedeva con la testa poggiata al vetro opaco di quello che un tempo era stato un espresso di tutto rispetto, dimenticato ormai da anni in una vecchia stazione in disuso. Socchiudendo le palpebre, e con un briciolo di fantasia, poteva ancora percepire la bellezza decadente di quel luogo: le tendine scarlatte, simili a sipari, che veleggiavano nascondendo l’esterno; i tavolini di metallo che separavano le poltrone per due persone l’una dirimpetto all’altra, colmi di pietanze prelibate; il corridoio dove le hostess scivolavano leggere offrendo bevande o cibi caldi. Il vociare sommesso, le risate soffocate in un calice di champagne, le promesse sussurrate lontano da orecchie indiscrete. Quanti viaggi aveva fatto? Quanti inizi e quante fini aveva sancito? Quante persone, sedute su quello stesso divanetto dove ora dimorava Maeve, avevano ricominciato a respirare? Di quel che era stato, non era rimasta che un immagine sfocata, vissuta più nella pregnanza dei sentimenti di chi aveva lasciato una traccia di sé piuttosto che nell’oggettivistica. La patina del tempo mieteva vittime di continuo. Eppure, quella carrozza non aveva perso di fascino agli occhi dell’insegnante di Incantesimi, che quando poteva, conscia che quasi nessuno fosse a conoscenza di quell’angolo di tranquillità, si recava in quel loco per pensare. Non era il pensare che le attanagliava il ventre poco prima di chiudere gli occhi, non il costante sentore che qualcosa avrebbe nuovamente catapultato la sua vita sul fondo di un abisso. Era il semplice pensare per cui molti non si degnavano neanche più a ritagliare un briciolo del loro tempo, un vagare con la mente sfiorando le idee più intriganti e quelle più semplici, prive della moralità che lasciava il suo calco in ogni altra riflessione. Quando era spaventata, quando si sentiva fragile ed in procinto di rompersi in mille briciole, Maeve Winston tornava in quel treno, lo stesso dove con occhi grandi e curiosi aveva ammirato Daphne e Mitchell crescere. Daphne e Mitchell, gli unici a conoscenza di quel rifugio. Non aveva mai avuto necessità di condividere quel posto con Deimos, Lilian, Aiden o Dakota; di certo non perché fossero meno importanti, semplicemente non ne aveva avuto bisogno: con loro aveva altri posti, altre memorie, altri divani ad accoglierla pronti a cullarla in luoghi più confortevoli. Quel treno, era solo per lei. O meglio, per loro: loro che dovevano sempre fuggire dallo sguardo dei loro genitori, per poter stare insieme. Allontanati senza riserbo, senza una spiegazione che, per la loro età, potesse essere accettabile. Malgrado andassero contro corrente, i Winston aveva sempre trovato il modo per trovarsi e ritrovarsi. Quella stazione poteva essere un posto come tanti altri, ma non lo era mai stato. Attratti subito dall’aurea di mistero, come ogni fanciullo che posi il proprio sguardo su qualcosa d’ammantato di polvere che trasudava storia, erano sgattaiolati all’interno ed avevano saputo, nei sorrisi peccanti del trasgredire una regola, che quello era il loro posto. Maeve sin da bambina era stata quella più restia ad aggirare le autorità, chinando il capo biondo oro al suolo e seguendo, per inerzia, i passi di chi era più grande di lei. Era sempre stata la più piccola, anche se con Daphne la separava solamente un anno: quella che sarebbe poi diventata Grifondoro, infatti, aveva sempre vantato la propria anzianità morale sulla matricola Corvonero, la quale si sentiva sempre un po’ tradita ed un po’ confortata dall’essere la più giovane. Lusingata, di certo, con quei cugini più grandi che sfuggivano all’autorità genitoriale per lei, e che con lei decidevano di passare il loro tempo. Per Maeve, abituata ad avere su di sé solamente lo sguardo attento di Aiden, era stata una novità. Nessuno si era mai curata tanto della Winston, eppure loro, malgrado vantassero pochi anni di differenza, sembravano sempre esserci, sempre guardarla. E lei, dal canto suo, aveva fatto sempre di tutto per farsi vedere, per dimostrare che era loro grata di quegli sguardi, che li meritava. Vivace ma senza mai eccedere da fanciulla, era diventata in breve una giovane donna posata, poco attenta ai riguardi di chi non conosceva ma incredibilmente premurosa per coloro che le stavano a cuore, brillante ed intelligente. Talvolta tinta d’una punta –ma anche di tutto il pennello- di sarcasmo, non sempre di quello buono: per quanto la compagnia degli Winston l’avesse aiutata a non chiudersi a riccio su sé stessa, non si poteva dire che Maeve avesse avuto una gran compagnia quand’era bambina, il che l’aveva portata crescendo a porre innumerevoli difese con l’altrui persone. Inutile sottolineare che quelle difese erano taglienti come ghiaccio spezzato: entrare nelle grazie di Maeve Winston era un lusso che concedeva raramente, ed i prescelti dovevano passare sotto la lente critica e lesionista della Corvonero. Poi ci chiediamo perché non avesse amici. Non era facile da prendere, ne era sempre stata consapevole; il fatto che le persone continuassero a provarci, vi assicuro, era più scioccante per lei che per chiunque altro.
    Aveva da poco affittato un appartamento fuori Londra che condivideva con Dakota, quando Wayne non era ad Hogwarts; lui aveva pensato di invadere i suoi spazi personali, ma doveva essere stato palese, ad un certo punto, che l’invito fosse più per Maeve che per Dakota. Non riusciva più a rimanere da sola, incapace di bearsi di quei momenti di solitudine che un tempo le erano stati tanto cari. Il battito del suo cuore le pareva assordante, ogni sibilo un braccio pronto ad afferrarla. Rimaneva ore a fissare il vuoto, chiedendosi quando finalmente sarebbero sopraggiunte le lacrime. Non lo facevano mai, lasciandole uno spesso languore amaro all’inizio dello stomaco. Ma andava avanti, Maeve; l’aveva sempre fatto. L’aveva fatto all’esecuzione di Alexander, chiamata sul palco per essere torturata da quello che era stato il suo migliore amico. L’aveva fatto quando in Irlanda, quell’amico, quel sorriso sghembo velato d’ironia affilata, era precipitato nell’abisso; l’aveva fatto quando il fumo, sottile, aveva continuato ad uscire dalla canna della pistola, come per immortalare quel momento in volute che troppo lentamente si disperdevano nell’aria; l’aveva fatto con il grido nel petto, sulla lingua, contro i denti. L’aveva fatto anche quando pensava che un dopo non ci sarebbe stato, quando perfino una mano amica sembrava volerla schiaffeggiare. L’aveva fatto quando Ethienne le aveva dichiarato amore, con l’espressione impacciata di sempre, e quando quegli stessi occhi avevano risposto ai suoi con uno sguardo vacuo. L’aveva fatto quando i suoi genitori erano spariti, quando aveva temuto che non avrebbe mai potuto riabbracciarli, chiedere scusa per non essere stata abbastanza forte. Era sempre andata avanti, anche quando Dakota le aveva voltato le spalle per dirigersi alla prova speciale al posto di Jason: lui, lui fra tutti, che le aveva promesso non l’avrebbe mai lasciata da sola. Io non vado da nessuna parte, Maeve. Ed era andata avanti, perché fermarsi non sarebbe servito a nessuno. quand’era stata quella così sbagliata da essere quella giusta, e quando la scelta giusta era stata la più sbagliata. Non era il genere di persona che, fisicamente, rimaneva in uno stato d’impasse; i propri pensieri, erano un altro discorso. In cuor suo, Maeve Winston era rimasta la ragazzina spaventata alla Stamberga Strillante, dove gli occhi di Keanu Larrington le avevano rammentato che c’era qualcosa per cui valeva la pena. Quante volte, in quegli anni, avrebbe voluto bussare alla sua porta per chiedergli come facesse. Come facesse ad andare avanti, lui, a crederci davvero. Come faceva a sapere che ne valeva la pena. Non voleva rassicurazioni, voleva solo… capire. Guardava Dakota, Lilian, Deimos. Guardava sua madre, Maeve Winston, chiedendosi dove prendessero tutta quella forza. La voleva anche lei, perché non l’aveva? Perché, Dio, non riusciva neanche a piangere? Quella non era forza. Quella era codardia: perché la Corvonero sapeva che tutto sarebbe caduto a pezzi, se si fosse permessa di cedere; così come sapeva, con una certezza strisciante sotto pelle, che non sarebbe stata in grado di rimetterlo a posto. Quante volte si poteva aggiustare qualcosa di rotto, prima di rendersi conto che non c’era più niente da salvare? Voleva credere ai sorrisi dei suoi amici, di Aiden, della sua famiglia. Lo voleva così tanto da far male. Eppure non ci riusciva, mai completamente: lei non vedeva la stessa Maeve che vedevano loro. Lei non era quella Maeve, e prima o poi l’avrebbero capito anche loro. Abbastanza egoista, la bionda, da sperare non accadesse tanto presto. Il timore di perdersi, e quello che nessuno si sarebbe preso la briga di andarla a cercare. Ingoiò il magone che le stringeva la gola minacciando si asfissiarla, appannando il vetro contro il quale aveva poggiato la fronte. Era andata a Tralee qualche giorno, incapace di sostenere il silenzio del proprio appartamento senza Dakota. Si era rifugiata negli abbracci di sua madre, nelle battute con Aiden. Maeve voleva davvero essere quella ragazza, spinosa ma accettabile; invece si era resa conto, in ogni smorfia artificiosa, di quanto quella ragazza non esistesse. Affondò il mento nella coperta blu, accorgendosi con stizza che le mani avevano cominciato a tremarle. Dannazione! Il vagone era illuminato spettralmente dal chiarore della luna, che delicata sfiorava ogni cosa con dita impalpabili: i sgualciti divanetti, i granelli di polveri sollevati ad ogni movimento. Quell’angolo troppo curato per essere parte di una stazione in disuso; quell’angolo che negli anni aveva fatto suo, un paio di libri ed un plaid di quando ancora frequentava il castello. «domani mattina» soffiò dalle labbra sottili, rompendo il silenzio assordante dove perfino il battito cardiaco sembrava creare un eco. Ecco, alla fine l’aveva detto. Ciò che le premeva di più, che l’aveva spinta a sgattaiolare fuori casa in silenzio, senza salutare nessuno, per recarsi lì. La mattina dopo, i ribelli sarebbero andati in missione.
    Maeve non voleva andarci.
    Maeve doveva andarci.
    Ci sarà Lil. Ci sarà Dakota. Ci saranno Daphne e Mitchell. Ci sarà Lil. Ci sarà Dakota. Ci saranno Daphne e Mitchell. Un mantra, un continuo rimembrarsi il perché avesse scelto quella strada, quella guerra. Per chi stava combattendo, Maeve Winston? Per loro. Perché anche se lei poteva non valerne la pena, loro sì. Loro sempre. Si sprimaccio gli occhi, inspirando a pieni polmoni. A volte, ormai troppo spesso, doveva obbligarsi a farlo, dimentica di un istinto che avrebbe dovuto essere primordiale. Quanto si odiava, per quella sensazione ammorbante di inutilità. Quanto si odiava, nel sentirsi sempre così delicata, pronta a piegarsi ad una spinta poco zelante. Sei la persona migliore che conosca. Una risata amara le grattò la gola, obbligandola a chiudere con forza le palpebre. Lo odiava perché ci credeva davvero, e odiava sé stessa per non essere all’altezza di quel compito. Uno dei motivi che l’avevano spinta ad annuire, malgrado la fermezza dell’atto minacciasse di sgretolarsi ad ogni movimento, quando il capo delle Spie, James, li aveva informati riguardo il reperto – ed aveva perfino taciuto, mordendosi la lingua, un commento acido riguardo l’ultima volta. Certo che ci sarò. Perché Maeve era stata così brava a proteggere tutti, in passato, che sicuramente avrebbero avuto bisogno di lei: Ethienne, Shane, Dakota, Deimos, Jason, Hope, Sharyn, Karma, Wynne. Così brava. Ma lei, a suo modo, aveva ancora bisogno di loro. Perché se loro in lei ci credevano, anche solo un pochino, lei poteva fare lo sforzo di credere che fosse tutto reale. Anche per poco, se lo sarebbe fatto bastare. Un rumore all’esterno la fece scattare, la bacchetta già pronta alla mano: se era diventata insegnante di Incantesimi, nonostante la giovane età, non era perché fosse un bel faccino. Aveva ricevuto la lettera di Mitchell pochi giorni prima, dove la informava che lui e Daphne sarebbero passati da quelle parti. Non vedeva Daphne da un anno ormai, e le cartoline, per quanto apprezzate, non bastavano a colmare la distanza che le separava. Era sempre stata così diversa da lei, la Winston Grifondoro, e non solo per la casata che le caratterizzava: i primi anni al castello aveva cercato di imitare i modi più spigliati dell’altra bionda, quel sorriso che contagiava tutti come una carezza, ma aveva capito ben presto che non sarebbe mai stata alla sua altezza. Erano diverse, e prima l’avrebbe accettato, meglio sarebbe stato per lei. Di fatti non si era neanche avvicinata, nei quasi vent’anni della sua esistenza, ad assomigliare a Daphne. Era solo Maeve. Mitchell era stato il primo a lanciarle sottintesi, a farle capire che doveva scavare più a fondo, che la vita non era solo bianco o nero. Il primo a credere che Maeve potesse capire la Resistenza, in qualche modo aiutare. Non aveva mai avuto cuore di dirgli quanto avesse sbagliato. Era solo Maeve.
    Poco importava quanto avesse voluto strapparsi la pelle, cambiarla, diventare qualcun altro. Cancellare i marchi, i ricordi, le cicatrici, le promesse. E mentiva a sé stessa, Maeve Winston, quando si convinceva di voler cambiare. E si odiava ancor di più, quando si rendeva conto di amare ciò che era, nel bene e nel male –ma soprattutto nel male. Ci stava provando. Ci stava provando davvero, a plasmarsi in ciò che amava credere di essere. Perché in realtà, Maeve era la prima a crederci un po’ di più, in Maeve Winston. A scommetterci, giocandosi il tutto per tutto. Posso farlo.
    Ed andava avanti, Maeve Winston, perché indietro non le rimaneva nient’altro.
    «winstons?» domandò, sentendo la bocca secca e la voce roca. Se la schiarì con un colpo di tosse, allungando il collo e stringendo con più forza la bacchetta. Gesù Cristo, l’avevano già rapita una volta, non intendeva ripetere l’esperienza. Da quando l’avevano marchiata, viveva nella paura di ogni sospiro, compreso quello del vento fra le fronde degli alberi. La cura, come un medicinale di serie B. Una ragazza aveva i suoi limiti. Si sentì sciocca quando la domanda rimbalzò fra le pareti del vagone. Perché certo, se fosse stato un Plagiatore sarebbe sicuramente stato così gentile da risponderle: no, sono un rapitore. sks maeve ti vedo solo come una Cura. La stazione ferroviaria si trovava poco fuori Tralee, abbastanza vicina perché da piccoli potessero raggiungerla a piedi. Maeve aveva risposto a Mitch quella sera stessa, sperando che la missiva giungesse in tempo, senza neanche sprecarsi a firmare la lettera -di getto, con una calligrafia elegante e leggermente sbilenca, nel momento esatto in cui aveva capito che non sarebbe riuscita a rimanere a casa ad aspettarli. Quel peso, sempre quel peso. E quel vuoto, che non avrebbe dovuto fare così male.
    Solo due parole, ma sapeva che avrebbe capito. ”Ciao treno”.
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    Edited by #epicWin - 6/3/2016, 03:34
     
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    Mitchell Winston
    #ciaotreno | 19.03 | pensieve | sheet
    Due giorni prima...
    Lasciò il biglietto sulla scrivania, scrutando quelle tre lettere trasognato mentre le dita carezzavano il candido piumaggio del barbagianni arrivato nell’ufficio del professore di Trasfigurazione con quella missiva. «Sam, potresti chiudere la porta uscendo?» Caldo e cortese, Mitchell Winston invitò velatamente il proprio assistente a congedarsi dalla stanza non appena ebbe letto il messaggio di William Barrow. Ogni volta l’idea di rimettere piede in patria era accompagnata da un misto di nostalgia e paura, nonostante la maggior parte delle volte che il ragazzo tornava in Irlanda le sue visite erano unicamente finalizzate al proprio piacere. Quella, però, non sembrava affatto essere una delle sopracitate volte. Attese che lo Smith, canticchiando un motivetto fastidiosamente triste con quell’ugola d’oro che si ritrovava –e per la quale lo stesso docente gli aveva suggerito di farsi notare da qualche talent scout-, uscisse dalla stanza, chiudendo come chiesto la doppia porta alle sue spalle. Anch’egli era un membro del ramo resistente statunitense, uno dei pochi che avevano un ruolo di controllo nella scuola di Ilvermory ed uno dei pochissimi dei quali si fidasse il Winston. Lui stesso l’aveva notato, qualche anno prima in uno dei suoi molteplici viaggi: sveglio, caparbio e con un’avversità non poi così celata verso il sistema, gli aveva svelato con prudenza e delicatezza il mondo della Resistenza e l’aveva consigliato a sua sorella nell’ultimo anno, così da allenarlo e renderlo un valido guerrigliero. Non era il primo, ed era certo non sarebbe stato l’ultimo, talento che aveva scelto la giusta causa in quella guerra non più così segreta, tuttavia era l’unico che ormai lo seguiva in ogni dove. Lo apprezzava, alla fine sua sorella era partita per fare yoga e uccidere qualche sacco di iota da qualche parte, forse nel Gran Canyon, ed era meno frequente che il venticinquenne potesse godere della compagnia della propria famiglia, ma non per questo sentiva di dover condividere con lui tutto quello che avveniva nella sua vita. Nonostante se lo portasse dietro ormai come se fosse suo figlio –benché avesse solo cinque anni in meno di lui-, alcune cose non era tenuto a saperle. Quando anche l’eco dei passi del suo assistente fu ormai sbiadito, si rigirò il pezzo di carta più volte tra le dita. Will non aveva firmato, ma sapeva fosse da parte sua, come sapeva perfettamente che quel “sks” scritto nella calligrafia poco lineare e sgraziata non comportava nulla di eccessivamente positivo. L’ex leader della Resistenza non aveva mai lesinato dal farsi sentire, così come anche l’insegnante di Trasfigurazione aveva sempre cercato di ritagliarsi un po’ del suo tempo per dar qualche notizia al suo migliore amico, anche se nell’ultimo periodo qualcosa era successo. Non sapeva cosa, esattamente, se non che il ragazzo non militava più tra le file ribelli, come se non le riconoscesse più come proprie, come se non avesse memoria di esserne stato la guida per tanto tempo. Una guida che Michell per primo aveva seguito sempre, ogni qualvolta ce ne fosse la necessità. Una guida valida, che tuttavia aveva appena perso il lume della ragione, rabbuiando la propria strada. E non sapeva il perché, e la cosa non poteva che turbarlo, lasciandogli l’amaro in bocca, eppure in quella nota non fece altro che leggere l’imminente pericolo. Che fosse tornato sulla retta via, e che perciò gli servisse del supporto oltreoceano? Non gli interessava realmente, era una chiamata alle armi la sua, ed anche se l’ex corvonero non sapeva esattamente per quale motivo dovesse impugnare la propria bacchetta e combattere, ma quel sks non era a caso. Sapeva benissimo che cosa significasse, e che colui che ai tempi di Hogwarts l’aveva portato a seguire un percorso già in parte delineato dal padre anti conformista non avrebbe mai osato scrivere sks a sproposito. Se l’aveva fatto, qualcosa era successo. Impregnò la punta della penna nel piccolo calamaio d’inchiostro sul ripiano di mogano, mentre le dita rigiravano per l’ultima volta la carta, adagiandola sul tavolo in modo da avere la parte bianca a propria disposizione. Il barbagianni non esitò a ricordargli di spicciarsi, mentre la mancina era intenta a scrivere poche lettere in risposta a quelle dell’amico, beccandogli ripetutamente il dorso della mano libera. Arrotolò il foglietto, legandolo alla zampa del volatile e raccomandandogli di portarlo al mittente. Era convinto, colmo di speranza, che il giovane dall’altro capo dell’Atlantico avrebbe capito cosa v’era nascosto in quell’altrettanto breve missiva. Sapeva che William Barrow avrebbe letto, in quel “Ihihih”, tutto quello che c’era da sapere.
    Non esitò, tantomeno, a spedire nel giorno successivo una missiva a Daphne –“Sis, si va a casa. Non chiedere, forse ti spiegherò, forse no, ma prepara i bagagli. Ci vediamo a New York”- ed uno a Maeve –“I tuoi cugini preferiti stanno venendo a ravvivare la scintilla, facci trovare il tè”-, né ad avvertire il proprio assistente che avrebbe dovuto badare alla baracca nel suo periodo di assenza. Non gli disse altro, non serviva.
    Una volta giunto a New York, il pomeriggio del diciannove marzo, non dovette attendere molto la sorella e, deviati i suoi tentativi di muoversi tramite mezzi babbani, che repelleva non tanto in quanto babbani quanto perché non li capiva e ne era un tantino spaventato, i due Winston dopo una non così breve coda presso il Camino Intercontinentale (?) riuscirono, grazie alla Metropolvere, a raggiungere Londra. Da lì, se solo avessero voluto, sarebbero arrivati al luogo d’incontro con Maeve in quattro e quattr’otto con una semplice Smaterializzazione. Se solo Mitchell non vedesse la sorella troppo denutrita per i suoi gusti, e di certo anche la cugina doveva essere allo stesso modo. Non che volesse passare per loro nonna, quella dolce vecchietta che ogni qualvolta erano riuniti, loro tre ed Aiden, si premurava di rimpinzarli di ogni tipo di prelibatezza e leccornia appena sfornati, ma... Al diavolo. Quando guidò la prima Materializzazione Congiunta, come solo un Giacomo era in grado di fare, le disse che sarebbero andati dritti a destinazione, e invece si fermò in un vicolo buio londinese che ancora ricordava perfettamente. Such a troll. Senza darle troppe spiegazioni, sparì per diversi minuti, lasciandola da sola. Una povera, innocente bionda in una strada poco illuminata di notte: di certo avrebbe o fatto qualche danno, o ucciso qualche stupratore. Per loro fortuna avrebbero lasciato subito il luogo del delitto. Quando tornò, le mani non più vuote, rispose con un alzata di spalle ed un sorriso innocente a quegli adorabili occhi a cuoricino. «Tu mi conosci troppo bene!» «Lo so, lo so»
    Una smaterializzazione e altri “grz” da parte di Daphne dopo, la stazione abbandonata di Tralee apparve davanti ai loro occhi, imponente e deserta. La risposta di Maeve era inequivocabile, il luogo doveva essere necessariamente quello. I piedi sul metallo arrugginito della pedana fecero un rumore più agghiacciante di quanto non potesse ricordare: era passato così tanto tempo, era decaduta ancor più di quanto non si rimembrasse, eppure... eppure aveva comunque il suo fascino. Segreta, proibita, aveva accolto le riunioni di piccoli ribelli ancora ignari e coraggiosi quando ancora questi non sapevano veramente come andasse la vita. C’era solo quella famiglia, con i propri dissidi e dissapori che Mitchell in un primo tempo aveva faticato a comprendere, ma che con il tempo aveva fatto propri, maturando grazie a questi una propria, critica coscienza.
    La voce di sua cugina li raggiunse prima ancora dell’immagine di lei, ma non ci volle loro molto per ritrovarla. Dio, quanto tempo era passato dall’ultima volta ( no pidi, sul serio, quanto? I need informazioni )? Guardandola, seduta e coperta come le vecchie di Tralee appostate fuori dai portoni a scrutare i giovani che passavano coatti per le vie del paese ed a chiedergli di chi fossero i figli, con un thermos in mano e l’aria di chi ne ha vissute troppe per questa vita, non poté trattenere il più grande dei sorrisi. Bando ai ciance, Mitchell posò senza altri indugi le buste del McDonald’s sul tavolino cigolante –oddio ma regge? Boh- traendone fuori dei vari contenitori di cartone. «Mc Nuggets, i tuoi preferiti» annunciò, lanciandone uno alla più giovane dei Winston, mentre un altro veniva messo tra le mani della sorella. «E per te Big Mac. Ho anche un po’ di altre cose, in effetti» constatò, piegando le labbra osservando il contenuto della busta. «Ma ora gradirei un abbraccio dalla mia cugina preferita» ah ma è l’unica, e vabbè.
    Perché poteva essere qualsiasi l’emergenza, qualsiasi il motivo dietro quel messaggio. Potevano andare a morire da un minuto all’altro, c’era abituato ormai: la Resistenza dà, la Resistenza toglie. Ma perché privarsi dell’affetto della famiglia, quando poteva abusarne?
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    Edited by ;Elijah - 12/5/2016, 02:15
     
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  3. Daphne Winston
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    20 Y.O - REBEL TRAINER -
    DAPHNE WINSTON
    TOMBOY - IMPULSIVE - LIGHTNING
    Il vago sentore di bruciato l'aveva raggiunta persino sotto la doccia, in quel piccolo spazio che amava godersi appieno quando ne aveva necessità, e lo avrebbe anche percepito se il profumo di borotalco non avesse coperto qualsiasi altro odore. La musica alta diffusa in tutto il bagno le impediva persino di sentire la voce di Miranda, strillante dalla sua poltrona a dondolo. "Daaaphne! Le uova!” Si sgolava, ma la bionda, dimentica delle sue uova al tegamino, non udiva una parola, lasciava che l'acqua le scivolasse sul corpo accarezzandola, mentre allungava le mani verso la doccetta per stirare ogni muscolo del corpo indolenzito. Solo quando spegnendo la musica ed aprendo l'anta della doccia uno stridulo e spezzato ...aaaaaphne" era arrivato alle sue orecchie, si era ricordata delle uova. Aveva avvolto un asciugamano bianco intorno al corpo e dopo aver recuperato la bacchetta, - da cui mai, davvero mai, si separava - si era diretta a piedi nudi in cucina, gocciolante e fulminea. Ciò che per prima cosa l'aveva raggiunta era il fumo proveniente dalla stanza e le fiamme ancora vive che avevano avvolto il tegame ormai nero. Un colpo di bacchetta per l'incantesimo non verbale estinguente ed il fuoco si era spento. Lo stesso non era avvenuto per la voce di Miranda, e se avesse potuto spegnere anche le sue urla indiavolate senza subirne le conseguenze, lo avrebbe fatto. "Che puzza! Apri la finestra!” L'anziana signora magonò era niente di meno che la sua coinquilina e proprietaria dell'appartamento in cui viveva nel centro di New York. Dai Miranda! Sorridi ogni tanto. Cercò lei stessa di sminuire quella dimenticanza, che comunque era un chiaro sintomo del suo stato mentale momentaneo. Daphne non era mai cosi disattenta, non era da lei commettere un errore così grave. E se fosse stata sola in casa? E se fosse uscita dimenticando il fornello acceso? Certo, se avesse dovuto pensare a tutte le possibili catastrofi in qualsiasi momento avrebbe smesso di vivere, ma era solita pensarci il più delle volte. Tossì, per il fumo, e si sporse verso la finestra posizionata sulla cucina per aprirla e far passare l'aria, perché nella stanza non si respirava più. Si sporse oltre la finestra non preoccupandosi del fatto che oltre la strada potessero intravedere le sue grazie dall'asciugamano mal agghindato. Respirò a fondo l'aria fresca del mattino e si sbracciò per salutare due vicini di casa posti all'altro lato della strada. Quelli, si guardarono a vicenda e poi timidamente alzarono una mano per ricambiare il saluto, non del tutto convinti.
    “Daphne...” La bionda si ritirò dalla finestra, abbassando lo sguardo sul disastro che aveva combinato. Scusa Miranda, me ne ero completamente dimenticata. Ammise con tono dispiaciuto, mentre riprendendo la padella gettava nella spazzatura le uova carbonizzate. Miranda la guardò da sotto le lenti strette dei suoi occhiali da vista. "Ma cosa ti prende? Sei sempre distratta ultimamente, Daphne! Io non posso muovermi se no verrei lì a suonartele!”
    Non sapeva, in effetti, se essere contenta della condizione fisica di Miranda, che la costringeva a muoversi in sedia rotelle perché paralizzata dal bacino. Probabilmente qualsiasi risposta si fosse data, anche solo essersi posta quella domanda l'avrebbe fatta sentire una persona profondamente orribile. In ogni caso le dispiaceva davvero per lei. La verità era che spesso pensava a ciò che aveva lasciato in Inghilterra per inseguire qualcosa che forse – - non ne era nemmeno sicura –- avrebbe potuto fare la differenza e quando ci ripensava la stretta al cuore si faceva più serrata. Spesso ripensava che essersene andata ed aver lasciato laggiù i suoi amici, la sua famiglia, non fosse stata una buona idea, ma si ripeteva anche che lì in America aveva fatto qualcosa di buono, non era rimasta certo a girarsi i pollici. Da tempo aveva smesso di essere una ragazzina, una biondina qualunque che avrebbe dato qualsiasi cosa per un po' di divertimento, no. Le cose erano cambiate molto tempo fa, quando aveva iniziato a credere davvero in quella causa, e per quanto si ripetesse che aiutare la Resistenza a distanza fosse una cosa utile non poteva non provare nostalgia per ciò che aveva lasciato, per la sua terra, per le persone che aveva conosciuto e non poteva non mancarle il combattimento in prima linea, ovviamente. Non che avesse chissà quale desiderio di morire, ma combattere la faceva sentire viva, ravvivava la sua personalissima scintilla che credeva altrimenti di poter perdere ogni giorno. Addestrare le nuove reclute che suo fratello le spediva le dava soddisfazione, e non ci andava leggera, la giovane Winston, adulti o meno, femmine o maschi, non faceva alcuna differenza, dovevano imparare a combattere davvero, non solo con le bacchette magiche, ma anche con quelle: agilità, prontezza, forza e pazienza erano solo alcuni dei punti sui quali Daphne batteva e poi, quando pensava fossero pronti erano loro stessi a decidere di recarsi in Inghilterra, il focolaio dei combattimenti e degli scontri, la sede da cui presumibilmente proveniva tutto il male sradicato e portato in ogni parte de mondo. Quel vado di Pandora che era la sua terra, ma del quale al tempo stesso non era in grado di dire addio, mai.
    L'intenzione di tornare in patria era già presente in lei, ancora prima di ricevere il Gufo da suo fratello, breve e conciso come al solito quando si trattava di doverle dare qualche informazione tramite Gufo "Sis, si va a casa. Non chiedere, forse ti spiegherò, forse no, ma prepara i bagagli. Ci vediamo a New York"
    Il "forse ti spiegherò, forse no" le aveva sempre fatto salire l'ihihih malvagio, ma si sarebbe trattenuta ed avrebbe atteso con ansia il suo arrivo. Dirlo a Miranda sarebbe stato più complicato del previsto, e poteva sembrare che questo fosse dovuto all'affetto reciproco che le due avevano iniziato a provare l'una per l'altra, ma la realtà era che la donna avrebbe preferito essere avvisata almeno un mese prima del suo trasferimento, così da avere il tempo di trovare un'altra ragazza da ospitare, qualcuna che l'aiutasse ed al tempo stesso con cui condividere la spesa delle bollette. Eppure, contro ogni prognostico, le sue uniche parole l'avevano stupita. "Stai attenta bella, e torna a trovarmi"
    Si era quasi sentita male a quel saluto, ma si era consolata pensando che fosse solo un arrivederci, gli addii per quanti reali e veri non li contemplava. Odiava gli addii, con tutta sè stessa.
    Attendendo suo fratello nel luogo indicato, con indosso una giacca scura ed un piccolo baule strategicamente stregato con un incantesimo estendibile posto ai suoi piedi, teneva braccia incrociate sul petto ed aveva l'aria di chi proprio non aveva voglia di fare conversazione con anima viva. Era pensierosa, lo era in qualsiasi momento potesse esserlo, e rimanere ad aspettare qualcuno era un ottimo momento per riflettere. "Non si fa aspettare una signora, maledetto." Sapeva che alla parola 'Signora' Mitchell avrebbe riso di gusto. Era tanto tentata di prendere carta e penna e lasciare attaccato a quel palo un biglietto con su scritto "sks non avevo più voglia di aspettare il tuo bel faccino, sono partita da sola, cià"
    Ma non lo fece, perché sapeva che avrebbe avuto bisogno di lui una volta rimesso piede in Gran Bretagna, aveva bisogno di lui sempre, di sapere che sebbene distanti, fossero vicini. L'idea che potesse aver deciso di partire e lasciare l'Inghilterra principalmente per seguire suo fratello l'aveva sfiorata più volte, ma l'aveva sempre platealmente ignorata perché lei non era così, non aveva bisogno di nessuno per vivere. Poggiata a quel palo, non poteva fare a meno di immaginare ciò che avrebbe trovato in Inghilterra, era tutto così cambiato come le aveva spiegato Maeve nelle sue lettere? William aveva lasciato il posto alla Resistenza? Ethienne era scomparso? Elizabeth si era unità al Ministero? Ma come poteva essere successo tutto questo nel giro di un anno? E perché adesso Mitchell voleva tornare a casa, così, all'improvviso? Aveva percepito aria di tempesta, ma fino all'ultimo aveva sperato che quella stessa tempesta si placasse e non si presentasse mai, per timore forse di venire a conoscenza di fatti orribili. Aveva paura che fosse successo qualcosa di brutto ai suoi amici, ne aveva un terrore così folle che le mancava il respiro quando pensava ai loro volti, alla loro voce, al loro sorriso. Dannazione. Nè Mitchell, nè Maeve potevano essere troppo specifici nelle loro lettere e Daph non sapeva se questo fosse positivo o meno, perché le poche informazioni ricevute lasciavano troppo spazio all'immaginazione. Quando suo fratello era arrivato lei aveva sollevato il suo baule, ed ancora prima di salutarlo gli aveva domandato Cosa è successo? ma lui, da bravo Mitchell qual'era, aveva preferito non renderla partecipe, non ancora, non era il momento nè il luogo.
    Si erano diretti al camino principale della metropolvere transoceanica, ed era stato un viaggio da brivido, davvero. Avete presente lo space vertigo? sicuramente non Sara e Lele Immaginate quella bruttissima sensazione di vuoto allo stomaco costante per cinque dannatissimi minuti. Avrebbe preferito una una settimana sul Titanic che quei dannatissimi cinque minuti, la odiava sul serio! Arrivati a Londra dovette trattenersi dal rimettere tutto ciò che non aveva mangiato, e Mitchell era sparito chissà dove per fare chissà cosa lasciandola da sola. Quell'arrivo era stato terribile, tanto che non era riuscita a godersi nemmeno l vista di Londra dopo un anno intero. UN ANNO. Sembrava passata una vita da quando aveva calpestato i marciapiedi di quella città, brutto da dire così e le luci di Londra la sera erano così suggestive, i posti familiari che ricordava non erano cambiati di una virgola e le provocavano una nostalgia prepotente, la sentiva credere dentro il petto ed irradiarsi in ogni centimetro di pelle. Si dovette sedere sulla panchina a ridosso della parete per prendere aria e scacciare definitivamente quella sensazione da brivido. Poi sorrise, perché era a casa, nonostante tutto. Avrebbe rivisto anche i suoi genitori. I capelli sconvolti non le davano un aria particolarmente sana, ma non importava. Quando Mitchell tornò dal suo viaggetto con in mano una busta del McDonald's Daphne dimenticò immediatamente il brutto viaggio appena affrontato, dimenticò ogni cosa e pensò solo al cibo, a nient'altro. O mio Dio, era il fratello migliore del mondo. Tu mi conosci troppo bene. Balzò su dalla panchina, raccogliendo nuovamente il baule. Dai mangiamoli ora. Disse con una luce negli occhi che mista ai capelli sconvolti le dava un aria particolarmente selvaggia, un'aria famelica di chi non toccava cibo da una vita. Il complicato rapporto con il cibo contraddistingueva la giovane Winston: in teoria non avrebbe dovuto mangiare schifezze dato il lavoro che svolgeva, in pratica era un pozzo senza fondo. Ma Mitchell ancora una volta rovinò i suoi sogni di gloria e felicità. "Non possiamo adesso, dobbiamo andare da una parte". Adesso però cominciava a scocciarsi, lei voleva sapere. Voleva mangiare, dannazione. "Ciao treno Daphne, Ciao treno". Scandì bene quelle parole che se inizialmente, nella testa di Daphne, sembravano essere state pronunciate come un insulto, poco a poco le fecero capire il reale scopo di quel viaggio: Maeve, avrebbero visto Maeve. E l'idea l'eccitava ed al tempo stesso la spaventava, perché se Maeve doveva parlargli e voleva farlo di persona, probabilmente la situazione era più grave del previsto. Rimase in silenzio per il resto del viaggio. Agganciandosi a Mitchell per quella smaterializzazione congiunta che lui guidò fino a Tralee. Ricordava benissimo il luogo in cui, anni prima, i cugini si riunivano per i loro incontri abusivi che andavano totalmente contro il volere del padre di Maeve. L'uomo non li aveva mai sopportati, né lei, né suo fratello, e pensare che a Daphne era sempre stato simpatico, quello stronzo di uno zio, tanto che quando aveva occasione di incontrarlo da qualche parte tentava persino di scherzarci per rompere il ghiaccio e ricordargli che anche se la loro madre non vantava chissà quali antiche origini magiche, lei aveva il suo stesso sangue, il suo stesso cognome. Perché non li voleva mai tra i piedi? Che problema aveva? #ehZio? Era tipico di Daphne intestardirsi su qualcosa a tal punto da riuscire ad averla vinta alla fine, ma con suo zio non ci era mai riuscita ed ormai erano passati troppi anni. Arrivando nei pressi della stazione abbandonata e fatiscente riconobbe il treno ormai in rovina, e seguendo Mitchell, con in mano la bacchetta sguainata ed il baule nero nell'altra, arrivò dentro il loro vagone preferito. La voce di Maeve li precedette ed i due fratelli si fecero avanti. Sorrise, appena la vide, lasciando il baule a terra e permettendosi di abbracciarla mentre Mitchell elencava il menù della serata. Era felice, ma aveva paura dannazione. Un anno, era passato un anno, e Maeve le sembrava diversa. Sapeva che dalla presunta morte di Liam Callaway era stato tutto un crescendo di tragedie per lei, e Daphne non le era rimasta vicino. Forse l'unica nota positiva poteva essere la sua assunzione ad Hogwarts. Buonasera professoressa. Detto questo, si spostò per lasciare spazio al fratello e dar loro modo di salutarsi. Sul suo volto, comunque, era evidente l'ansia.
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    Edited by Shane Howe - 7/3/2016, 12:10
     
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    Un brivido le percorse la spina dorsale, il palmo sudato a stringere con fermezza la bacchetta. Fortunatamente non si trattava di un’arma da fuoco, perché era abbastanza certa che a causa del nervosismo sarebbe stata capace di sparare a vuoto –o, peggio, a qualcuno che non rappresentava affatto una minaccia. Quello era uno dei motivi per i quali mal tollerava le armi babbane: oltre a non comprenderle, e già quello era un gigantesco punto a loro sfavore, odiava la loro imprevedibilità. Il rumore. Poi, vatti a sapere perché avessero ritenuto opportuno inventare qualcosa che sparava palline di piombo a elevata velocità con l’intento di perforare la carne: ce n’erano di incantesimi strani, dolorosi, ma trovava un proiettile davvero troppo assurdo. C’era gente che ci moriva, per una pistolettata; e poi cosa andavano a scrivere sui giornali, morto per un cilindro di piombo grande quanto l’unghia di un pollice? Che tristezza. Lei voleva morire come i grandi eroi: avvelenamento, spada, o perché no, ghigliottina. Anzi, se proprio avesse dovuto scegliere, avrebbe preferito non morire affatto. sks. Si alzò, facendo scivolare a terra la coperta. Mosse qualche cauto passo all’interno del vagone, assottigliando le palpebre per cogliere qualsivoglia movimento. Avrebbe voluto fare un incantesimo d’illuminazione, ma sarebbe stato come attaccarsi un fuckin cartello al neon con su scritto uccidetemi, sono qua: my body is ready. Paranoica? Chi, lei? Quando un rumore più vicino degli altri la raggiunse, alzò automaticamente la bacchetta; inutile dire che dovette dissimulare il gesto aggressivo con un’improvvisa grattata di schiena, la tensione sciolta come neve al sole, mentre un largo sorriso si dipingeva sulle sue labbra. Mitchell e Daphne Winston non erano cambiati di una virgola dall’ultima volta (davvero, quale ultima volta?) che li aveva visti. Entrambi avevano la classica bellezza tipica della loro linea di sangue, come se non potesse esistere un Winston senza il viso da bravo ragazzo; non era neanche un espressione facciale, non un sorriso né un modo particolare di arricciare il naso. Sembrava proprio implicito, guardandoli, donar loro la propria fiducia. Irlandesi dalla punta dei pallidi piedi, a quella dei lucenti capelli troppo chiari o troppo scuri, di rado con vie di mezzo, tutti con occhi chiari come il più limpido degli specchi d’acqua. Erano anni che non si ritrovavano insieme sotto uno stesso tetto, perfino quando quel tetto era un ammasso di ferraglia arrugginita, ed a Maeve bastò vederli per sentirsi meglio. L’affetto che provava verso di loro sembrava sempre sfociare nella cieca ammirazione; probabilmente sarebbe stato così, se Maeve non fosse stata troppo rigida nel trattenersi: un briciolo di contegno, per Morgan. Aveva trovato strano ricevere la lettera di Mitch proprio in quei giorni, da quando aleggiava sui ribelli l’aria di cambiamento. Malgrado ciò, non si era preoccupata affatto di ricollegare l’evento ai cugini: loro si occupavano dei ribelli statunitensi, perché avrebbero dovuto farsi cruccio anche delle faccende inglesi? Ah, già, perché erano sempre loro quelli con la merda da spalare. MainaLondon. In tutta sincerità, Maeve Winston non era sicura che quella del giorno dopo fosse stata una buona idea. Vedendo la convinzione di Keanu Larrington, la sua fede, non se l’era sentita di sottolineare la cinica ovvietà: non ce l’avrebbero mai fatta, e probabilmente non ne sarebbe neanche valsa la pena. Sapevano che ci sarebbero stati anche i Mangiamorte, ma non erano riusciti ad organizzare la missione prima di quel momento; sapere che in quel luogo sperduto, di cui solo Morgan beato aveva memoria, avrebbe potuto incontrare i cattivi, non la metteva a suo agio. Era stanca di combattere. Era così ingiusto che alle rivoluzioni dovesse sempre seguire una guerra.
    Le buste del fast food sprigionarono un odore di cibo nient’affatto invitante nel ristretto spazio del vagone, facendole disegnare una smorfia di disappunto sul volto dai tratti delicati. La sola idea di mangiare le stringeva lo stomaco, e l’unica cosa che avrebbe voluto fare era rifugiarsi un’altra volta sotto la coperta, stringendo con aria possessiva il thermos contenente la bevanda della vita. Conoscendo Mitchell, però, una prospettiva del genere non era possibile: da qualcuno Maeve doveva aver preso l’intransigente fare da madre modello, malgrado di istinto genitoriale non ne avesse mai avuto. Perfino le bambole morivano fra le sue mani, qualcosa di inspiegabile per l’intera famiglia. Eppure era sicura che somministrargli le pappine fatte con tutto il suo amore nel giardino di fronte a casa, fosse un vero toccasana per il loro fragile organismo plasticoso (Accademia della Crusca, p l a s t i c o s o : fatto di plastica, prego, aggiungete anche questo). Malgrado non fosse persona da abbracci, neanche da strette di mano se vogliamo dirla tutta, sentirsi cinta dalle braccia di Daphne mentre il profumo di lei, così dannatamente familiare, le entrava nelle narici, non potè che farla sentire meglio. Più sicura, l’illusione di un bambino convinto che fra le braccia della madre non gli sarebbe mai accaduto nulla di male. E si odiò, per quell’effimera certezza; si odiò, perché avrebbe voluto potesse bastare. «Mc Nuggets, i tuoi preferiti» Maeve inspirò profondamente, rammaricandosi di quella scelta quando il sentore di cibo sopraffece la dolce fragranza della cugina. Si trattenne a forza dal dire a Mamma Mitchell che avrebbe preferito il gelato: essendo la più piccola, doveva obbligarsi ogni dannata volta a mostrarsi più matura, aka vecchia dentro, per non perdere la sua reputazione di old but wat gold. «non dovevi…» esordì con un sorriso gentile, celando appena la morte inside; la tipica espressione forzata di chi riceveva un regalo poco gradito, ma era troppo cordiale per affermarlo esplicitamente. Perfino Maeve aveva i suoi limiti. E poi, apprezzava che Mitchell l’avesse pensata –anche se avrebbe preferito comunque il gelato, #js. «Buonasera professoressa» si morse il labbro gongolando, lanciando un’occhiata divertita a Daphne. «buonasera winston» rispose, utilizzando un tono serio ed alquanto professionale. In effetti Daph sembrava abbastanza giovane per poter passare per una sua studentessa; il caffè c’era, la bacchetta anche mlmlml, quindi avrebbero potuto tenere una lezione di prova (cosa sto dicendo? Non lo so). Era fiera della cattedra che era riuscita a guadagnarsi, malgrado il maiangioia gravasse su di lei come la stella del più malvagio dei cacciaviti #paulgeeiscoming Sapeva che anche loro erano fieri di lei: dopotutto, perché non avrebbero dovuto esserlo? #toowinston4u #tooblonde #tootoo #likeaballerina #es’èfattanacerta. «Ma ora gradirei un abbraccio dalla mia cugina preferita» Maeve continuò a sorridere, alzando gli occhi su quel gigante di Mitchell. Solamente sua madre, in famiglia, era più bassa di lei; per il resto, Dakota compreso, doveva sempre essere lei quella a piegare la testa all’indietro per guardarli in faccia. Gli gettò le braccia al collo, più per avvicinarsi alle sue orecchie che per un impeto di affetto smodato. «l’hai preso il mcflurry?» bisbigliò incerta, sapendo che lui non avrebbe fatto la spia #wat. Ci teneva a dimostrare a Daphne che malgrado fosse bionda e incapace nelle arti da ninja di cui loro sembravano i Kung fu Panda supremi, era comunque una badass. Ma quando. Era certa che Mitchell le avrebbe voluto bene anche se fosse stata la creatura più inutile sulla faccia della terra, e lo dimostrava il fatto che fosse il migliore amico di William Yolo e allora muori a breve Barrow ihihi winception, ma Daphne rappresentava ogni volta una conquista. Perché? Perché Maeve era turbata psicologicamente, sostanzialmente.
    Tornò a sedersi, stringendo la coperta al petto, quindi attese che anche loro si fossero accomodati. Dimostrando di essere una persona incredibilmente matura e diligente, la prima cosa che fece fu un incantesimo di levitazione su Mcnuggets: puntando la bacchetta sulle innocenti crocchette di pollo, cominciò a farle levitare con zelo verso la bocca di Mitchell, obbligandolo a esserne schiaffeggiato o mangiarle – eat or slap, make your choice. La mano guidava le crocchette con una precisione degna di un compasso #wat, non a caso era l’insegnante di Incantesimi, quindi senza mai distogliere lo sguardo dal cibo volante, cominciò a parlare. E sì, era anche un espediente per impedire ai cugini di rendersi conto che non aveva alcuna voglia di infilare cibo nel suo stomaco. «cosa ci fate da queste parti?» domandò senza tanti giri di parole. Non che non fosse felice di averli lì, anzi le faceva più che piacere, ma era raro che andassero entrambi e contemporaneamente a farle visita. E lei, di certo, non aveva mai schiodato le chiappe dal Regno Unito. «andandovene, vi siete persi le cose più divertenti» Si accorse dopo una manciata di secondi di star sorridendo, e le ci volle altro tempo per rendersi conto che quel sorriso non era affatto piacevole. La voce parve venire da molto lontano, eco perfino alle sue stesse orecchie. Si riscosse battendo le palpebre, lasciando scivolare un chicken coso di nuovo nel suo contenitore. Non lo disse, ma lo pensò così intensamente che temette potessero sentirlo comunque: mi siete mancati.

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    Superati i saluti doverosi ed al tempo stesso desiderati, Daphne decise che, finalmente, avrebbe potuto concedersi una pausa dopo quel tram tram. Era abituata a condizioni estreme davvero, ma l’America sembrava averla rammollita, in qualche modo. Il Governo in quel diverso continente era vagamente più neutrale, perché il fulcro del crimine si nascondeva proprio in Gran Bretagna. Questo forse aveva contribuito a far in modo che lei si adagiasse un po’, che si abituasse ai ritmi americani, molto diversi da quelli rigidi degli inglesi. Ma aveva anche le sue giuste motivazioni: avevano viaggiato per c i n q u e m i l a kilometri, ed ogni volta si stupiva - per quanto tramite trasporti magici si trattasse solamente di cinque minuti di viaggio - di quanto Londra e New York fossero distanti, non erano esattamente una dietro l'angolo dell'altra. Con eleganza e nonchalance aveva preso posto su una delle poltroncine sgualcite presenti nel treno, tenendo vicino il proprio baule anche se non aveva idea di quanto poco le sarebbe servito. Probabilmente non avrebbe avuto nemmeno il tempo di aprirlo, quel baule, ma non era un problema, perché aveva sempre indosso abiti comodi, in particolar modo nelle situazioni di “emergenza” quale si era dimostrata quella in cui era stata invischiata dal fratello. Persino quella sera era vestita con una tuta aderente ma elastica. Poggiò la propria bacchetta sul tavolo, ed al tempo stesso portò i gomiti su quello stesso tavolino, procedendo con sguardo discreto ad osservare la busta poggiata sopra la superficie rovinata, che sapeva contenesse il suo cibo. Al contrario di sua cugina che sembrava non aver particolare appetito, lei aveva davvero fame, quindi rimanendo ad ascoltare le parole di suo fratello e cugina che si salutavano, portò le mani dentro la busta per estrarre il suo panino. Un primo morso le diede un sollievo non indifferente, tanto che chiuse gli occhi per godersi a pieno il sapore del suo big mac ma era meglio il mc chicken. Nonostante fosse distrutto ed ormai sapesse anche poco di infanzia, quel luogo sapeva essere magico e riusciva a riportarla indietro negli anni quando, per quanto fossero anni difficili, riusciva a vivere più spensieratamente.
    “cosa ci fate da queste parti?” La domanda di Maeve la colse impreparata, pensava che fosse stata lei a chiamarli lì, convocati per qualcosa, ma scoprire che suo fratello aveva macchinato tutto senza informarla nemmeno per sbaglio se possibile…le faceva venire ancora più fame.
    Bella domanda, cosa ci facevano a Londra? Insomma, le visite per cortesia e saluti vari erano sempre piaciute a Daphne, ma in genere, per questo tipo di visite preferiva altri metodi di trasporto. Le sarebbe davvero piaciuto dirsi informata, ma in realtà poteva solo ipotizzare che, certamente, si trattasse di qualcosa di importante.
    In realtà vorrei saperlo anche io. Diede un altro morso famelico al panino. Poi specificò E’ sempre un piacere vederti, Mae, ma… Ma, poteva esserci un ma? Lanciò uno sguardo contrariato a suo fratello. Avrei preferito un aereo, ho i miei tempi, sono pur sempre una donna! Un altro morso al panino e non potè trattenere un potente rutto che tuonava tanto come un “WAAT”
    Portò una mano davanti alle labbra, contando che entrambi fossero abituati ai suoi modi non particolarmente eleganti. Ops, scusate. E pensare che a periodi faceva anche la modella, non che fosse uno standard in cui classificare un tipo di donna particolare, né a dire il vero quel lavoro rispecchiava il suo essere, semplicemente era un lavoro come un altro, lavoro che le consentiva di guadagnare qualcosa per finanziare ciò che le serviva. Perché questa urgenza? Domandò infine, più verso suo fratello che verso la cugina che non sembrava essere tanto più informata di lei. Voleva chiedere, voleva sapere, ma al tempo stesso temeva di sapere.
    “Andandovene vi siete persi le cose più divertenti”
    Doveva sapere.
    Riuscì a leggere una nota vagamente sarcastica nel tono della cugina, non riuscendo a catalogare niente di ciò che sapeva fosse accaduto in un anno nella categoria “divertente”. Più volte avevano discusso su un argomento che ancora non era chiaro ai più: la reclusione di Ethienne Leroy nel Quartier Generale della resistenza. Povero Eth, non era mai andata a trovarlo, a capire meglio cosa fosse accaduto, ad assicurarsi che stesse bene, convinta che lì tra i suoi compagni sarebbe stato bene. Dicevano che fosse impazzito, che avesse perso la memoria anche lui, che non fosse più sicuro per nessuno lasciarlo girare liberamente a scuola e meno che mai nel ruolo di Preside di Hogwarts – comunque, le era giunta voce che adesso Hogwarts fosse guidata da un più che mai losco individuo -
    Cos’altro? Domandò, lasciando per il momento da parte il proprio panino.
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    Quel posto non era mai stato bello, né ai suoi occhi né probabilmente a quelli della sorella, o della cugina. Come poteva esserlo, dopotutto? Fatiscente, quella stazione rasentava i livelli delle più disastrate rovine post belliche che Mitchell, nei suoi numerosi viaggi, aveva avuto l’occasione di visitare. Abbandonata a sé stessa, probabilmente in un altro tempo, in un’altra esistenza, il capolinea ferroviario di Tralee era stato il porto più fiorente di tutta l’Irlanda; perlomeno al Winston, dacché era un adolescente alle prime prese con la sua ribellione personale contro il mondo, era sempre piaciuto immaginarlo così. Ogni pomeriggio che i suoi passi avevano fatto echeggiare quel raccapricciante cigolio metallico lungo tutti i vagoni della locomotiva, ogni sera che le luci soffuse delle poche illuminazioni esterne gettavano un’inquietante ombra sui sedili logori e sui tavoli di ferro, ogni mattina che l’aria era così gelida da far sì che la condensa del respiro appannasse i vetri dei finestrini mai più puliti, gli occhi chiari di uno studentello di Hogwarts tornato a casa per le vacanza vedevano in quel rudere la magnificenza di quel che v’era stato in precedenza. Visionario, l’ex corvonero lo era sempre stato, anche quando la Resistenza non era che un mito, una leggenda metropolitana che i più coraggiosi osavano raccontare per i corridoi del Castello: e forse per quello stesso motivo era proprio lì che aveva deciso di portare Daphne e Maeve in un non così recente passato, quando le bionde erano ancora troppo piccole per capire veramente di cosa egli stesse parlando. Visionario, perché era riuscito, nella ruggine che logorava il telaio del mezzo e nel maleodorante olezzo di muffa ed umidità che permeava l’ambiente, a notare quel che sicuramente era stato prima del loro arrivo in tal loco. Era stato convinto, allora, che loro tre, piccoli cavalieri senza macchia e senza paura, sarebbero stati in grado di rimettere tutta la struttura in sesto, facendola risplendere da cima a fondo come se le decadi non fossero mai passate, come fosse stato sempre al massimo delle proprie funzionalità, pronto a prendere su di sé centinaia e centinaia di anime pronte a cambiare aria, a rinnovarsi ed a rinnovare il mondo con la loro forza di volontà. Non che non lo fosse tutt’ora, diamine erano talmente capaci i tre da poterlo lucidare e rimetterlo in moto in un battito di ciglia, ma il visionario adolescente, con l’ausilio del suo migliore amico, aveva spostato le proprie ambizioni sul migliorare il mondo magico, di riportarlo ad una più antica e presunta beltà, e non era riuscito ad evitare di condurre sulla stessa, tortuosa, strada le due ragazze che erano con lui anche in quel momento. Ed ogni qualvolta che viaggiava –e viaggiava tanto, Mitchell Winston- rimirava nelle vetuste rovine azteche, nelle aride lande desolate egiziane e nelle rocche rudimentali dei paesi europei quello che erano potuti essere. Potremmo quasi dire che più che un visionario, il docente di Ilvermory fosse un sognatore, se solo egli non fosse certo del fatto che loro ce l’avrebbero fatta: non importava quanto tempo avrebbe impiegato loro quella crociata, né tantomeno quanto sangue e sudore i ribelli avrebbero dovuto versare per arrivare al proprio fine. Loro potevano sistemare le cose, aveva aiutato il Barrow a muovere le masse nei tempi che furono con questo ideale. Potevano essere cambiate le carte in tavola, mentre lui era via, ma di certo quel ritorno non era fortuito. Quel botta e risposta, quello “sks” inviato senza remore preannunciava grandi cose, grandi problemi.
    «Potresti almeno fingerti contenta» elargì, alzando un sopracciglio in risposta al sorriso gentile di Maeve. Mamma Mitchell ci teneva affinché le sue ragazze mangiassero sani cibi spazzatura, e lei lo ripagava con un “non dovevi” di cortesia. Ma dico io. Lasciò che la bionda gli si fiondasse al collo, stringendola a sé sinceramente contento che stesse bene, o che almeno fosse viva: con i tempi che correvano, non si poteva essere più certi di nulla. Però, mainagioia insito nell’animo Winston, ella lo fece più per opportunismo che per altro. Bitch. Poggiò la testa sulla spalla di lei, scossa da una risatina sommessa alla richiesta di lei. «Per chi mi hai preso? Certo» le sussurrò all’orecchio, mantenendo quella segretezza. Ma era una bugia, perché no, niente McFlurry. Fortunatamente, Mitchell era un fucking professore di Trasfigurazione non a caso, e cosa dicono i professori della materia alla Legge di Gamp? Ciao treno Gamp, ciao treno. Non appena si fu seduto con nonchalance, estrasse la bacchetta ben attento a non farsi vedere da nessuno e, sapendo bene dove fossero i McFlurry, ne evocò uno nella busta da lui stesso portata quella sera. Si dipinse un mezzo sorriso soddisfatto, smorzato subito dalla domanda della più giovane dei tre. Se lei non sapeva, e lui non sapeva, e se Daphne era Daphne, perché erano tutti lì? «Sei sempre un fiore, sorellina» rispose, al signorile rutto della bionda al suo fianco, sospirando appena percettibilmente. «Will non ti ha detto nulla?» Sembrava così ovvio che egli, se aveva chiamato a raccolta il suo migliore amico, fosse tornato a rivestire quel ruolo che tanto aveva supportato negli anni passati: evidentemente non era così. Estenuato, poi, dal farsi schiaffeggiare dalla crocchetta ed arrendendosi a questa, la ingurgitò, senza guardare con un cipiglio ammonitore la bionda e, a sua volta, prendendo un McNuggets con un Wingardium Leviosa: poteva non essere preciso quanto lei, ma il pollo in faccia non era comunque piacevole. «Mangia, sei denutrita» Ed era vero, per lui era sottopeso, così come anche Daphne, ma lei sembrava provvedere da sé, dandogli molte gioie. Inutile dirle che c’era altro cibo, lo doveva sapere da sola. «Mi ha chiamato lui, comunque. Pensavo tu sapessi dirmi qualcosa in più: immagino ci siano grandi cose in ballo, comunque» ammise, senza smettere di prendere a crocchette in faccia la ragazza. «E aggiornami: so solo che un po’ di gente ai piani alti ha dato di matto» Forse, partire, non era stata una così geniale idea. Ma avevano comunque la scintilla della speranza dalla loro, potevano rimediare.
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    Edited by ;Elijah - 12/5/2016, 02:15
     
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    Ah, i Winston. Indubbiamente gente brillante, eppure, oltre alla ormai troppo prevedibile aura da mainagioia perpetuo, cominciava ad insediarsi in loro anche una certa dose di wat. Una percentuale considerevole in realtà, e la cosa, perlomeno ad una Corvonero come Maeve, non andava particolarmente a genio: poteva rinunciare alle gioie, ma la comprensione era basilare nel delicato rapporto fra la bionda ed il resto del mondo. La confusione non se le si addiceva. Quello il motivo per il quale, perfino in un momento di profonda frustrazione come quello che stavano vivendo, Maeve Winston fingeva di essere conscia della situazione, nascondendo dietro ad un espressione impenetrabile la montagna sempre più grande di non sto capendo una ceppa. I ribelli avevano una missione, malgrado lo scopo fosse per l’insegnante di Incantesimi ancora oscuro; faticava ormai a rimanere al passo con i tempi, soprattutto considerando quanto labile stesse diventando la memoria dei suoi colleghi. E uno okay, due okay, ma dai, tre persone? Il quartier generale era forse un ospizio per malati di Alzheimer? Si era trattenuta dal farlo notare a Larrington, credendo che non avrebbe apprezzato la battuta. D’altronde erano in pochi a trovare divertente il suo english humour. Poi, aveva ricevuto una lettera da Mitchell nel quale il cugino la avvisava che lui e Daphne sarebbero passati a trovarla, senza nulla, per ovvi motivi, di più specifico. L’irlandese era sicura al cento per mille di non essere una stupida, e non era di certo un segreto che si reputasse, anche se in maniera tacita, più intelligente della maggior parte delle altre persone. Però anche lei aveva i suoi limiti, e con così scarse informazioni non era in grado di ricostruire la storia. La domanda di lei era stata posta in maniera innocente, certa che i Winston quasi americani avessero una risposta. Invece, il suo interrogativo pareva aver messo in difficoltà i due, come se fosse stata Maeve a dover rispondere al posto loro. Beh, non era così. «In realtà vorrei saperlo anche io» Gli occhi azzurri di Maeve ruotarono in automatico sul sopracitato, che pareva dubbioso quanto la sorella. Meno male che dovevano essere i Corvonero della situazione, figurarsi se fossero stati Tassorosso (skste Tassi). «Will non ti ha detto nulla?» Maeve attese in silenzio, incrociando le braccia sul tavolo. Solo dopo qualche secondo di imbarazzante silenzio, rotto dal ruggito della Grifondoro (era quello che si intendeva con hear me roar? Poi ci chiedevamo perché avesse problemi con rosso oro) al quale aveva risposto con un’occhiataccia, si rese conto di essere lei l’oggetto di tale domanda. Non riuscì a trattenere una risata, credendo che Mitchell la stesse prendendo in giro. E invece. Il ghigno le morì in gola, scivolando dalle labbra fino a che non furono due semplici linee sul viso pallido. Inarcò le sopracciglia con untale scetticismo, che sarebbe riuscita a far sentire stupido perfino Merlino in persona. «will? Intendi william barrow?» Domandò, pur sapendo che era di lui che stava parlando. Aveva bisogno però di udirne la conferma, giusto per constatare quante testate avesse preso Mitch in America. A parte il fatto che William Yolo come sono fico ihihih Barrow, non le era mai piaciuto, neanche ai tempi di Hogwarts. Ogni qual volta trovava Mitch in compagnia del denigrato soggetto, era ben contenta di girargli al largo; la situazione era drasticamente peggiorata durante la missione in Irlanda, quando Maeve era stata obbligata a scegliere fra una causa e l’amore per una persona cara. Chiamatela pure mostro, ma aveva scelto la causa.
    Aveva sbagliato, e la canna fumante di Barrow continuava a rimembrarglielo. Da quel momento il suo disappunto era diventato cocente odio: di lui non si fidava, e quando Keanu l’aveva sostituito come Leader della Resistenza, Maeve si era convinta di essere dalla parte die buoni. In Keanu Larrington, il proprietario della Testa di Porco, la Winston aveva fede; se c’era qualcuno che avrebbe potuto salvarli, quello era lui. Comunque, e Mitch doveva saperlo meglio di lei, William aveva perso la testa un anno prima assieme a Ethienne e Elizabeth Fleed. Non aveva ancora ben chiara la dinamica, ma in tutta sincerità non le era neanche ma interessata particolarmente. Da quell’incidente l’aveva incrociato solamente a scuola, assistente di strategia!, e di certo non aveva cercato di attaccare bottone. Non ci avrebbe provato prima che perdesse la ragione, dopo non era neanche concepibile. Scosse la testa, incredula, prima di incrociare le braccia sul petto. «io non parlo con william barrow» specificò con sdegno, assottigliando le palpebre. Avrebbe potuto sembrare infantile, se solo dalla voce non fosse trasparita una nota d’odio antico, vecchio quanto lo sguardo ceruleo di Maeve. Non aveva neanche vent’anni, ed un espressione del genere non avrebbe neanche dovuto essere nel suo repertorio. In un mondo come il loro, nessuno poteva permettersi di rimanere giovane a lungo. Un tempo anche Maeve aveva avuto un’innocenza, un ingenua genuinità.
    Quei tempi erano finiti. «e non dovresti farlo neanche te» aveva abbassato il tono, guardando seriamente Mitchell Winston negli occhi verdi. Sapeva che erano amici, ma… c’era qualcosa di sbagliato, in William Barrow, qualcosa che travalicava il personale. C’era il vuoto di Ethienne, in William Barrow. C’era l’espressione dura di Elizabeth. Non era più Will. Puntò la bacchetta contro la crocchetta di pollo sollevata dal cugino, iniziando una guerra all’ultimo sangue: civil crocchetta war; alla fine riuscì a deviarla verso l’alto, e quella cadde con un tonfo sonoro al centro del tavolo. C’era un motivo, d’altronde, se insegnava Incantesimi. Si strinse nelle spalle, allungando le mani sul tavolo per afferrare un ben più gradito gelato con gli smarties. «il gelato è più sano» Disse lapidaria, come se in quelle parole vi fosse realmente un fondo di verità. «Mi ha chiamato lui, comunque. Pensavo tu sapessi dirmi qualcosa in più: immagino ci siano grandi cose in ballo, comunque. E aggiornami: so solo che un po’ di gente ai piani alti ha dato di matto» Guardò Daphne, perdendosi ad osservarne il profilo perfetto, quindi tornò a guardare Mitchell. Entrambi si aspettavano che lei, in quanto membro della Resistenza in Gran Bretagna, sapesse quel che stava accadendo. La verità era che non lo sapeva nessuno, men che meno Maeve. Sospirò profondamente, infilando il cucchiaio dentro al cartone del gelato. Mescolò, in modo che i confetti al cioccolato non fossero concentrati tutti in un punto, quindi cominciò a mangiare. La lentezza con cui prese a masticare, rese palese quanto le sfuggisse un punto d’inizio. Non aveva la più pallida idea del dove cominciare, considerando che, come già precisato, neanche lei sapeva cosa stesse accadendo. Optò per l’opzione più semplice: se li avesse riportati all’inizio, forse insieme sarebbero riusciti a scriverne la fine. «l’anno scorso i Mangiamorte hanno occupato il Quartier Generale, per questo abbiamo dovuto spostarci. Gran parte dei documenti sono andati smarriti» Iniziò vaga, spostando lo sguardo sul triste panorama fuori dal finestrino. Di nuovo la voce parve provenire da molto lontano, come se lei non fosse davvero lì. In effetti, non le sembrava di essere sul vagone: rivedeva la battaglia, il sangue sul collo di Dakota, la paura sul viso di Niamh, la determinazione su quello di Keanu. «will, elizabeth ed ethienne non c’erano. Da quel momento… è successo qualcosa» quella parte la sapevano già entrambi, poiché aveva già avuto modo di accennargliene. Con Daphne era stata più approfondita riguardo la questione Ethienne, malgrado ancora non le avesse raccontato neanche tutta quella storia. Non c’era più niente da dire, non ne valeva la pena. Non ne era mai valsa. «non hanno più riconosciuto nessuno di noi, si sono allontanati. Erano loro, ma non completamente» si accorse di aver aggrottato le sopracciglia. Guardò prima Daphne e poi Mitchell, mordendosi il labbro superiore. Se non avevano più rivisto i tre ribelli, non potevano comprendere la sensazione data dal loro sguardo febbrile e vacuo. « mancava qualcosa nei loro occhi. manca ancora» sottolineò, giusto per chiarire che non era cambiato nulla. «non so perché will ti abbia scritto, mitch. È il tuo migliore amico, non il mio» piccata, ma sincera. «larrington è diventato il nuovo boss. Ci sono stati un po’ di cambiamenti, ai piani alti; qualche esperimento è diventato responsabile, strategia e addestratore. Non pensavo che potessero perdonarci» Quella frase fu un pensiero personale, espresso ad alta voce quasi per errore. Sapeva che non era colpa di tutta la Resistenza, ma non capiva come potessero rendersene conto anche loro, i quali ne avevano subito i soprusi. Si riscosse, mettendo nuovamente a fuoco prima un cugino e poi l’altro. Tacque sul Labirinto, anche se la Cicatrice parve bruciare esigendo la sua attenzione. «Keanu ci ha chiamati a raccolta, qualche giorno fa. Una nuova missione, partiremo domani mattina. C’è un… Laboratorio in disuso, da qualche parte vicino a Stonehenge. Personalmente dubito che ci sia qualcuno in attesa del nostro soccorso, e sono piuttosto certa che ci si ritorcerà contro. Eppure…» deglutì, improvvisamente arrabbiata. Strinse il cartone tanto da deformarlo, mentre i denti scattavano fra loro. «a quanto pare è legittimo rischiare la vita di molti per la memoria di pochi. Hanno riferito che potrebbe esserci un qualcosa, forse ancora parte del libro trafugato da Italie. Qualcosa che potrebbe aiutare William, Elizabeth, ed Ethienne» Tacque, lasciando che il vagone sprofondasse nel silenzio. Tacque, ma sapevano tutti e tre a quale pensiero non avesse dato voce.
    Secondo Maeve Winston, non ne valeva la pena. La bionda non era disposta a perdere i suoi compagni, i suoi amici, o la sua famiglia per una manciata di persone. Era stato specificato che si accettavano solamente volontari, come ad ogni missione. Quando Dakota, Aiden, Deimos e Lilian avevano alzato la mano, un tacito accordo di solidarietà, Maeve non era riuscita a rimanere inerte. Avrebbe preferito obbligarli a ripensarci, a non rischiare. Non gli dovevano nulla.
    Però, anche quello, non era vero. «Will non dovrebbe esserne a conoscenza» Assottigliò le palpebre, lanciando un’occhiata significativa a Mitchell. Quindi fece nuovamente spallucce, tornando a poggiarsi sul sedile della poltroncina. «Ah, dimenticavo. Abbiamo rinchiuso Ethienne nelle prigioni al nuovo QG» Come ogni qual volta dicesse qualcosa che le causava dolore, o che faticava ad ammettere, il tono suonò apatico se non quasi allegro, come se avesse sottolineato un dettaglio di poca rilevanza. Una lista della spesa, solo che sul menù c’era Leroy.

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  8. Daphne Winston
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    20 Y.O - REBEL TRAINER -
    DAPHNE WINSTON
    TOMBOY - IMPULSIVE - LIGHTNING
    Quel treno lasciato a marcire in una galleria disabitata, con pareti spoglie, umide e cadenti sul rottame che era diventato, avrebbe creato costrizione in tanti, ma non in Daphne. Sapeva adattarsi bene a qualsiasi cosa, luogo o situazione, e quella stazione polverosa non le aveva mai fatto paura. Non era mai stata la signorina tutta fiocchi e caramelle che avrebbe voluto sua madre, che aveva sempre desiderato una figlia femmina da poter agghindare come meglio preferiva. Daphne aveva sempre odiato i vestiti color pastello, ricchi di fiocchetti in ogni dove e detestava essere trattata come una bambolina di porcellana da sua madre. Non era mai riuscita ad accontentarla comunque, nemmeno si sforzava di farlo, in realtà. Quando era piccola, e sua madre avrebbe preferito che rimanesse a casa a giocare con le sue bambole, lei preferiva uscire e vedere i suoi amici insieme a Mitchell, come un'ombra perennemente attaccata al culo del fratello che, chissà per quale oscuro motivo, la sopportava, e Daphne non poteva non ringraziarlo per questo perché nemmeno lei sarebbe riuscita a sopportare se stessa. I suoi vestitini non rimanevano mai lindi fino a fine giornata, tant'è che persino sua madre aveva perso ogni speranza, lasciando che Daphne indossasse ciò che preferiva. L'aveva contraddistinta, sin da bambina, una spiccata consapevolezza di sè e dei propri gusti: ciò che amava, ciò che odiava non erano un mistero, non potevano esserlo perché Daphne era chiara su tutto, era indipendente, era polemica tanto da non poter lasciare l'ultima parola nella bocca di qualcun altro, non in quella di sua madre, almeno. Non era mai stata una "signorina per bene", non una degna rappresentante di una famiglia magica come avrebbe potuto esserlo Mitch...per di più essere cresciuta per undici anni in un gruppo di amici maschi - a parte sua cugina, ovviamente, ma Maeve non sempre bazzicava i suoi territori, le poche volte che aveva la possibilità di averla vicina erano preziose - l'aveva plasmata ed i modi da signorina erano quanto di più lontano da lei. Ma suo fratello e Maeve lo sapevano bene, sua cugina in particolare non apprezzava i suoi modi...sembrava così perfetta tanto da farla sentire a disagio delle volte, perché in confronto a lei riusciva a sentirsi una bambola imperfetta, con lo stimolo di migliorarsi. Alla sua occhiataccia, Daphne aveva sfoggiato la sua espressione migliore da cucciolo bastonato, sporgendo il labbro inferiore con aria abbattuta, sarebbe bastato per scusarsi? Con suo fratello funzionava, ma Maeve era un osso duro. Poi le sorrise, ma durò poco perché il discorso si era fatto più lentamente più serio, interessante, erano entrati nel vivo della questione e l'aspettava un mare di sorprese. Non aveva potuto continuare a tenere in mano quel panino, per quanto buono fosse e per quanta fame avesse, il suo stomaco si era chiuso, aveva necessariamente dovuto concentrarsi sulle parole dei due, e su fare chiarezza su queste. In sostanza in un anno era successo il finimondo, ma perché William avesse contattato Mitchell rimaneva un mistero. Forse ha ricordato qualcosa? Ipotizzò, ma non poteva dirlo con certezza, non vedeva William da un anno, nè lo aveva più sentito. Ed a proposito di ricordare, ciò che seguì dalle labbra di Maeve fu quanto di più allarmante possibile: una missione. Il mattino dopo imminente la Resistenza aveva una missione da compiere e...Daphne non era Corvonero, ma le probabilità che ne rimanessero fuori erano davvero scarse, in primis perchè lei voleva parteciparvi, voleva esserci, dare il suo contributo per quelli che reputava degli amici: Ethienne, Liz, William...era successo qualcosa di brutto un anno prima, ed aveva colpito loro che si erano esposti a qualcosa di non meglio definito per il bene comune. Era ovvio, no? Non poteva essere stato un incidente, erano maghi abili: leader della resistenza, generale dell'esercito, insegnante di strategia, accidenti! - non erano mica dei Daphne qualsiasi (?) - non poteva essere stato un incidente . Ci sarò anche io. Disse infine, poggiando il palmo della mano sul tavolino del treno. Glielo devo, sono stata un pessimo aiuto per un anno intero. No, non aveva sensi di colpa, perché se avevano perso la memoria non era certamente dipeso da lei o dalla sua assenza, ma poteva dare il suo contributo per aiutarli a venirne fuori. Non rinnegava l'anno passato in America perché sebbene distante dal fulcro delle sommosse, era stato utile su tanti punti di vista e le aveva concesso di conoscere tante belle persone. La distanza è snervante...esserci davvero è un'altra cosa. Io voglio esserci.
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