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post quest #06 // isaac x maeve

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    isaac lovecraft
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    La stessa, medesima sensazione. Credeva avrebbe smesso, credeva sarebbe riuscito a farla smettere.
    Illuso. Era lo stesso freddo, lo stesso malsano ed opprimente gelo ad irrigidire le ossa, atrofizzare i muscoli, a mozzare il respiro e concentrarlo in odiose nuvole di condensa. Lo stesso buio, lo stesso vuoto.
    Solitudine, solo un’opprimente solitudine, avvertita sotto pelle, acre sul palato. La sentiva, ma non l’aveva mai chiesta. Sull’epidermide, sulla membrana esterna del cuore, su ogni cellula del proprio corpo, questa c’era. Ma, Isaac Lovecraft, mai aveva voluto essere solo, mai aveva chiesto ad un Dio nel quale gli era stato insegnato di non confidare di abbandonarlo, o di fare in modo che altri se ne andassero da lui. Aveva creduto di poter volare, il giovane ribelle, e l’aveva sempre fatto. Di andare lontano, via da tutti e da tutto ciò che gli andava stretto, di poter rischiare di bruciare le proprie ali di cera senza mai veramente calare a picco, raggiungendo nuovi orizzonti felici; di volare lontano, da tutto e tutti, solo per abbracciare un nuovo tutto, e nuovi tutti. Sperò, sperò e sperò, continuamente e con ogni fibra di sé stesso di aver raggiunto il proprio fine, eppure... eppure era ancora lì, e non c’era nessuno.
    Non c’era nessuno in quell’oscurità, non c’era nessuno a poggiare una mano sulla spalla del diciannovenne, nessuno a districare le braccia strette attorno alle ginocchia. Nessuno disposto ad alzare la testa di lui, nessuno pronto ad asciugare lacrime salate che prepotenti non smettevano di fluire. Nessuno lì, intento a convincere l’ex corvonero a recuperare quella maschera di sfrontatezza, di ilarità. Nessuno a confortarlo, a dirgli che andava tutto bene. Lui ci provava, poggiato ad un muro di nero pece, seduto su un altrettanto fosco pavimento con solo tenebre e tenebrosi brividi a permeare l’ambiente, le gambe tratte troppo vicino al petto, a dirsi che sì, andava tutto bene. Lì non faceva male nulla, lì non lo avvertiva il dolore alla spalla per il proiettile, né quello allo stomaco. Ma la bocca di quest’ultimo continuava a chiudersi, a ridursi: e non faceva male, era qualcosa di più, non riusciva a capirlo. Fastidio, forse? Sfuggiva dalla sua logica, inutile era analizzarlo perché mai e poi mai avrebbe compreso cosa fosse, ma non a cosa fosse dovuto. Soffocava, ad ogni singhiozzo trattenuto, la fronte ora poggiata contro gli avambracci e gli occhi chiusi, ma non riusciva a mandarla via.
    Dov’erano tutti? Si era aspettato, aveva sperato, che avrebbe quantomeno rivisto Drake una volta che fosse morto, che egli gli avrebbe porto il suo braccio come sostegno, che l’avrebbe rialzato conducendolo altrove, portandolo in posti più sereni, più felici. Non che avesse mai idealizzato l’aldilà, il Lovecraft, non ci aveva in realtà mai creduto. Sebbene l’ateismo fosse un’eredità di quella scomoda famiglia che aveva lasciato in America troppi anni addietro, a questo si era aggrappato ogni giorno della sua vita: era comodo credere che non vi fosse un Dio da ringraziare per le proprie fortune, o da incolpare per le proprie disgrazie, almeno in tal modo si poteva dire di sapere che era sempre e comunque colpa delle persone, o di sé stessi. Ma non aiutava, in quel limbo, credere che nessuno muovesse le redini di quel macroscopico gioco che era l’esistenza umana; non aiutava l’idea di non avere un appiglio quando si era nel vuoto, sapere che si era da soli. Perché era da solo, Isaac. Alzava di tanto in tanto le palpebre, schiudendo gli occhi su quelle ombre, ma non vi scorgeva nulla. Acuiva l’udito, cercando di captare ogni singolo suono vi fosse nei dintorni, ma non sentì mai lo scricchiolare delle suole sul pavimento, non udì alcuna voce echeggiare tra le pareti. Niente, se non le proprie spalle alzarsi ed abbassarsi all’armonico ritmo di un respiro strozzato, niente se non i singulti mal nascosti. Che poi, quale senso aveva celarli, se Drake non era lì come aveva sperato a prenderlo in giro per quelle ”lacrime da femminuccia” , quale se non c’erano i genitori a sgridarlo per quelle stupide ed insensate debolezze? Quale, se non v’era traccia di Withpotatoes alcuno a risollevare il morale, di compagni di scuola a proporre sbronze di sorta? Che senso aveva trattenersi più, se non c’era nemmeno Sharyn a sdraiarsi lì, a terra, mentre prepotente posava la sua testa sulle gambe di lui? Avrebbe dato tutto, qualsiasi cosa in quel momento per aver almeno uno di loro lì con sé, qualcuno con cui poter condividere quell’insopportabile sofferenza, qualcuno con cui poter condividere quel posto. Il fatto era che non aveva nulla con sé da barattare con un’entità bastarda ed invisibile che non si degnava di apparire, nulla a parte sé stesso che non valesse la pena dar via per ricevere qualcosa in cambio. Per chi lo stava facendo, allora? Per chi stava combattendo, per chi il cuore semplicemente continuava a battere, insensatamente, se non c’era nessuno? Non voleva saperlo, Isaac Lovecraft, non voleva affatto venirne a capo, voleva solo andarsene, solo avere qualcuno. Le iridi scure, ancora una volta, ammirarono il buio di fronte al corpo rannicchiato prima che la vista venisse offuscata dalle palpebre, premute violentemente, mentre una litania senza voce, una preghiera rivolta a nessuno riempiva la mente del ragazzo. «Fatemi uscire. Fatemi uscire. Fatemi uscire» continuava inutilmente a ripetersi, le labbra che si dischiudevano appena ogni volta che quelle due parole venivano ripetute. Non voleva dirlo ad alta voce, aveva paura di dirlo ad alta voce, terrorizzato dall’eventualità che questa rimbalzasse e tornasse vuota, atona, supplichevole alle orecchie dell’unico interlocutore di quel dialogo disperato. Voleva continuare a sbattere la testa contro il braccio, ad arrabbiarsi contro di esso perché non riusciva a trovare una soluzione a quella condizione che gli si era creata attorno, a far sì che quel lamento restasse un bisbiglio sommesso, e nient’altro. Non funzionava, non funzionava manco per il cazzo. Aveva perso la cognizione del tempo, sempre che vi fosse da tenerne conto in quel loco, ma se glielo aveste chiesto avrebbe potuto indifferentemente rispondere che era lì da sempre, ma che ci era anche appena arrivato. Non ricordava molto, per meglio dire non ricordava nulla, solo sangue. Solo pedine che cadevano, burattini ai quali venivano recisi i fili che si accasciavano a terra. E tremava, questo se lo ricordava bene, tutto tremava. La struttura, le persone, le ossa. Niente era stabile, ma lui voleva esserlo.
    Pesante, ogni centimetro del suo essere inequivocabilmente Isaac Lovecraft anche in quell’ignoto dove lo avvertiva pesante, poco volenteroso a collaborare, e da una parte avrebbe desiderato assecondarlo. Incoraggiare quel desiderio di rimanere al sicuro con sé stesso, da solo, ma a lui la solitudine non piaceva. Senza contare che non voleva fermarsi, mai e per nessuna ragione al mondo. Morgan, poteva anche essere morto, ma fintanto che poteva ci avrebbe provato a restare in piedi. Cosa? Non aveva alcun senso? Andatelo a spiegare a lui. Alzò il palmo della mano, le dita doloranti per aver stretto tanto forte l’altro braccio nel miserabile tentativo di restare ancorato alla realtà, spingendolo sopra gli occhi ancora chiusi, asciugandosi in malo modo da quelle lacrime che non era riuscito a contenere. Il respiro, un rantolo ancora provato, prima di costringersi a poggiare le mani a terra, ad alzarsi con le spalle ancora premute contro il muro. «Forza e coraggio, Isaac» si schiarì la voce, prima di distanziarsi dalla parete. Non l’avesse mai fatto. L’errore più grande della sua vita. E lo dice lui, che di errori ne ha fatti parecchi in diciannove anni. Forse, quella fottuta parete, non c’era mai stata. O magari era sparita nell’esatto momento che era seguito al distacco, come qualsiasi cosa. Spariva, per non tornare più. Cercò tentoni di appoggiarvisi nuovamente, ma senza alcun successo, non c’era più e si sentiva, semplicemente, perso. Ma qualche incerto passo lo mosse comunque, non si era rimesso in piedi per restare fermo. Si era detto che si sarebbe fermato solo quando avrebbe intravisto la fine, unicamente per non raggiungerla. Istintivamente portò una mano al ventre, macchiandosela del sangue di qualche ora, giorno, settimana prima che senza alcun preavviso aveva iniziato a defluire dalla ferita per la quale non si era preoccupato per tutto quel lasso di tempo; senza rendersene conto, cadde in ginocchio, premendo sullo stomaco e scivolando a terra, lentamente, ogni secondo un po’ di più. Non si era fermato quando l’aveva vista, la fine? Non aveva fatto dietrofront? «Fatemi uscire» Da dove, poi, voleva uscire? «Vi prego fatemi uscire» Gli occhi, rivolti ad un soffitto scuro, non sapevano più a chi appellarsi: non voleva piangere, era inutile; non voleva sorridere, nemmeno lui avrebbe beneficiato della sua illusoria felicità. Solo, non voleva restare lì. Solo, non voleva restare da solo. «Fatemi uscire» Biascicò, appena il sangue che si espandeva innaturalmente intorno al corpo che giaceva, immobile, a terra. Non era naturale, era decisamente esagerato come quella pozzanghera si fosse allargata nell’arco di qualche secondo, ma aveva capito, in maniera riluttante, che tutto lì fuggiva alla logica del corvonero che fu. Irreale, solo irreale. E non gli piaceva, inutile dirlo. Voleva la realtà, voleva qualcosa di concreto. Fosse la vita, o fosse la morte, quanto avrebbe veramente influito nella mente del giovane? L’importante era evadere da quel limbo, l’importante era andarsene in un modo o nell’altro. L’unica cosa che gli venne a genio fare, fu premere più forte sul foro lasciato dalla fucilata chissà quanto tempo prima. Non avrebbe dovuto far male, vero? Non l’aveva avvertita fino ad allora, non avrebbe avuto senso lo facesse proprio in quel momento.
    E invece, mainaisaac, fece un fottuto male cane. Urlò, con quanto fiato aveva in corpo. Urlò, sentendo intorno a sé la sua stessa voce echeggiare nel vuoto.

    Mugugnò, le palpebre strette tra loro e la mano posata sul ventre, vagamente appiccicosa. Quando riaprì gli occhi, non aveva più l’oscurità a schiacciarlo, e non era più a terra. Un materasso, non di certo il suo, a sostenere il suo corpo. Non ebbe però il coraggio di alzare la testa per osservare il piccolo fiore scarlatto trasparire oltre le fini lenzuola: aveva veramente premuto sulla ferita? Ma si può essere così deficienti? Sentì delle voci, tutt’attorno, magari su lettini posti oltre dei tendaggi o magari fuori da quella stanza o dove minchia gli pareva: non vagò lo sguardo nemmeno per sapere se fosse da solo, o in compagnia di altri. Non voleva sapere dove fosse, non voleva sapere se fosse vivo o meno, non voleva sapere nulla di nulla mentre il dolore arrivava attutito al cervello, probabilmente a causa di troppi antidolorifici o chi per essi. Gli bastava restare fermo, immobile, ad osservare il soffitto attraverso un’offuscante velo che copriva le iridi castane. Maeve Winston gli aveva promesso di tirarlo fuori di lì, e lui le aveva creduto, ovviamente. Si era fidato, si fidava tutt’ora, e da una parte sapeva di essere salvo grazie a lei, tuttavia non riusciva a trovare differenze tra il buio di quel sogno, di quell’incubo, e la tenue luce di quella stanza, se non che c’era qualcuno, da qualche parte, a parlare. Ma non lì. Non voleva stare da solo, non ancora, non più.
    i thought i could fly, so why did i drown? it's coming down, down, down
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    Si era ritrovata in ginocchio su un pavimento troppo duro, il ragazzo ancora stretto a sé e le mani premute sulla ferita. Ricordava le voci, i passi rapidi. Mani che cercavano di strapparle Isaac mentre lei, testarda, continuava a scuotere la testa. Sulla lingua sentiva ancora il sapore del sangue, accompagnato da quello stopposo della polvere che ivi si era insinuato ad ogni respiro. Non sapeva neanche come avessero fatto ad arrivare al San Mungo, ma ora che si trovavano entrambi lì, con persone capaci di fare quello che lei non sarebbe mai riuscita a fare, sentiva le proprie forze, la propria sanità, abbandonarla. Non era rimasto altro che una ragazza in lacrime ramate, il viso sporco e gli occhi appannati. Qualcuno le tolse la maschera, ma Maeve Winston non riusciva a respirare. Continuava ad annaspare, fra singhiozzi e parole sussurrate così a bassa voce che nessuno, neanche lei stessa, riusciva a coglierne il senso. «cos’è successo? Ne stanno arrivando altri!» «lascialo ragazza, dobbiamo portarlo in sala operatoria» Loro, dall’alto del loro impeccabile camice verde, non potevano capire. Così, con la lingua ingrovigliata da frasi disarticolate e spezzate, Maeve si limitava ad aprire la bocca per cercare più ossigeno, più aria, più vita. «sei ferita?» Alzò finalmente gli occhi sul Guaritore, l’azzurro sporcato da un mondo che l’innocenza non l’aveva mai tollerata. «non doveva finire così, non doveva finire così, non doveva finire così» ma nessuno prestava attenzione alle parole della ragazza, accasciata al centro della stanza con la divisa a farle da mantello attorno alle gambe, liquido fiume nero impregnato di sangue – suo, altrui: aveva importanza? Altre voci, altri passi, la medesima soffocante stretta al petto. C’era qualcosa di troppo nella gabbia di toracica di Maeve Winston, qualcosa che aveva tutta l’intenzione di prendere il volo. Non era certa si stesse parlando del proprio cuore, avendo ella perso conoscenza di quel muscolo involontario. Stava pompando sangue? Era viva? Era reale? Privata dell’adrenalina che le aveva permesso di raggiungere il quinto piano del San Mungo, le lacrime cominciarono a scivolare sul cesellato volto troppo giovane, le mani ormai vuote a nasconderlo dallo sguardo altrui. Dove avevano portato Isaac? Lei non poteva lasciarlo, aveva promesso. I singhiozzi continuarono a scuoterle le spalle finchè qualcuno non le si avvicinò, fasciandole una coperta attorno alle spalle. Quasi fosse stata una bambina, le avvolse le braccia attorno alla vita e passò l’altro sotto le sue ginocchia, rialzandosi per tenerla in braccio. «sei sotto shock» parole semplici, dette con dolcezza, le quali però richiedevano uno sforzo eccessivo per le sinapsi della Winston. Cominciava a perdere pezzi di tempo, di spazio, di vita. La memoria si faceva di secondo in secondo più frammentaria, mentre lei cercava di aggrapparsi con le unghie e con i denti a ciò che si era lasciata alle spalle. Il suo cervello non riusciva ancora a concepire lo scontro dal quale erano appena usciti, così come, né in quel momento né mai, arrivava a trovarvi una spiegazione. Perché doveva sempre finire così? Perché doveva essere così ingiusto? Non era un soldato, non era fatta per tenere in mano un’arma; nessuno di loro avrebbe dovuto esserlo. E lei, che si era ripromessa di provarci, continuava a fallire. Com’era possibile? Non aveva il tempo di riprendersi da una caduta, che si ritrovava nuovamente con le ginocchia a terra ed il respiro incastrato da qualche parte nella trachea. Dio, aveva solo bisogno di tempo, di un po’ di spazio; di una pausa. Le sarebbe bastato poco, magari un anno, per guarire dalle ferite più gravi. Le sarebbe bastato essere più veloce, riuscire a salvare, se non tutti, almeno qualcuno. Almeno sé stessa, invece di uscirne a pezzi sempre più piccoli, senza alcuna colla in grado di rimetterli insieme. Ad ogni missione, perdeva un po’ di Maeve. Ormai, guardandosi allo specchio, non sapeva più con quale Winston aveva a che fare: a chi appartenevano quegli occhi sbiaditi, quel sorriso rigido e malsano? A chi, quella voce lontana? Chi era la Maeve che si risvegliava nel cuore della notte con il cuscino umido di pianto, i segni dei denti sul pugno per impedirsi di urlare?
    Chi era Maeve Winston?
    Una ribelle.
    Una ribelle che non credeva nella causa, credeva nelle persone. Credeva nel futuro, Maeve Winston. Ma che senso aveva un futuro, se continuava a non salvare le persone che vi avrebbe voluto vedere?
    Strinse le mani attorno al camice di qualcuno, lo sguardo basso ed il labbro tremante. Avrebbe voluto chiedergli come stavano gli altri, chi erano gli altri. Ma, in realtà, non era pronta ad accettare la prospettiva che ci fossero effettivamente delle vittime. Che fine avevano fatto Daphne e Mitch? Kendall? Deimos?
    Aiden. Rebecca era con lui, e ricordava di aver udito Alec andare in suo soccorso, ma… avrebbe dovuto esserci lei. Era suo fratello, capite? Quando Maeve, da bambina, stringeva al petto l’unicorno nero, erano le braccia di Aiden quelle a cingerle le spalle, sue le dita a carezzarle i capelli finchè non si addormentava. Riverso a terra, sotto il terremoto e le luci degli incanti amici e nemici. Vulnerabile, lui che era sempre stato la sua roccia inamovibile. Non era giusto. Dakota? Al pensiero del ragazzino, una stretta allo stomaco la costrinse a portarsi la mano libera davanti alla bocca, gli occhi chiusi che cercavano di ricacciare lacrime e bile. Oddio. La battaglia continuava ad imperversarle dietro le palpebre abbassate, le grida a vibrarle nelle ossa insieme ai singhiozzi. Rivedeva le persone, ribelli e mangiamorte, cadere a terra. Il sangue, rosso per tutti, a macchiare il pavimento del Laboratorio. E per cosa? Perché la risposta doveva sempre essere la morte? Erano amici, erano colleghi. Erano esseri umani?. E si sentiva così giovane, Maeve Winston. E voleva solo piangere, dormire, e risvegliarsi quando tutto fosse finito. Convulsamente avvicinò a sé il medico, non riuscendo ad impedire alla propria voce di uscire lamentosa e tremante. Si odiava per più motivi di quanto sarebbe mai stata disposta ad accettare, ma quel tono infantile fu la goccia che fece traboccare il vaso. Così fragile, Maeve Winston, da vibrare d’una nota di pura e puerile rabbia ingiustificata verso sé stessa. Repentina si asciugò le guance con gesti nervosi, testarda nel mantenere lo sguardo fisso sul pavimento della stanza; Dio solo sapeva quanto le costasse ammetterlo, dando ragione a tutti coloro che, nel corso della sua vita, l’avevano reputata troppo piccola.
    Avevano sempre avuto ragione.
    Ingoiò la saliva, sentendone un grumo acido scivolar giù dalla gola. Aveva quasi vent’anni, aveva partecipato a diverse battaglie, impugnato le armi contro i propri amici e colleghi; si era diplomata, ed aveva trovato lavoro nella prestigiosa scuola di magia di Hogwarts; era stata, e sempre sarebbe stata, una Corvonero. Era una Ribelle. Ma in quel momento, era solo una cosa. Strinse le palpebre, sentendo le lacrime scivolare comunque lungo le guance. «può per favore cercare mia mamma?»
    E rimase lì, con lo sguardo assente perso nella guerra che, come un’ombra, non lasciava mai del tutto nessuno di loro. Le ginocchia strette al petto, la coperta sulle spalle. Insensibile a sé stessa, insensibile ai passi concitati sul linoleum. Insensibile alle voci dei dottori, che ovattate arrivavano appena a carezzarle la pelle. Insensibile al dolore, malgrado percepisse, appena sotto la superficie, il suo lento espandersi. Aprì la bocca, soffocando un singhiozzo un muto sull’avambraccio. perché perché perché perché perché. «maeve?» alzò lentamente lo sguardo, incrociando i grandi e preoccupati occhi verdi di Wynne Winston. «maeve.» ed allora ricominciò a piangere, stringendo sua madre come avrebbe fatto con mr. Unicorno, soffocando mugolii inarticolati sulla sua spalla. Si aggrappò a lei con tutto ciò che aveva, con tutto ciò che le era rimasto, mentre sbiaditi e distorti «mi dispiace così tanto» continuavano a pungerle la lingua, lacerando la gola ad ogni singhiozzo. Sempre impotente di fronte agli eventi, spettatrice incapace di entrare nel gioco e fermarlo. Avrebbe solamente voluto che tutti vedessero il mondo come lo vedeva lei, che capissero senza bisogno di dover, ogni volta, arrivare al vivere o morire. Non doveva per forza andare così, c’era un altro modo. Doveva esserci. Perché Maeve Winston era stanca di quella vita, delle incertezze e della concreta possibilità che non avrebbe più rivisto i suoi amici. Perché Maeve Winston aveva paura, e voleva solamente che smettessero. Ma non era altro che una ragazza, lei; a nessuno importava cosa potesse o non potesse volere. A nessuno importava che la notte non riuscisse a dormire, che ogni respiro fosse acido nelle vene. A nessuno importava quello sguardo di sottecchi che lanciava spesso alle persone della sua vita, occhiate silenziose nelle quali cercava di imprimersi ogni dettaglio del loro volto. A nessuno importava delle fossette sul mento che venivano ad Aiden quando sorrideva, delle iridi cangianti di Wynne che al sole parevano smeraldo fuso; a nessuno interessava che i capelli di Dakota, al buio, conservassero comunque la sfumatura scarlatta che li contraddistingueva alla luce, donandogli quell’aspetto buffo che, ai suoi occhi, l’aveva sempre reso adorabile. A nessuno interessava come i denti di Mitchell andassero a stringersi ogni volta che doveva prendere una decisione difficile, o come le mani di Daphne, distratte, andassero sempre a ricercare il contatto con il fratello. Erano cose che tutti sapevano, e nessuno conosceva. Piccoli gesti che Maeve conservava, tristemente consapevole del fatto che avrebbe potuto non assistere a quei piccoli miracoli mai più. E dico, vi sembra giusto? Vi sembra sensato vivere costantemente nella paura, il terrore ad attanagliarsi al petto ad ogni rumore più forte? Vi sembra giusto che tutti loro fossero stati addestrati ad uccidere, prima ancora di far domande? Che il loro modo di comunicare si basasse sul dolore e la sofferenza, anziché su ricordi felici?
    E quell’insicurezza, quel non sapere, consumava più della consapevolezza. Maeve era cresciuta sapendo che qualsiasi giorno avrebbe potuto essere il giorno nel quale Aaron e Wynne non avrebbero più fatto ritorno, ma non ci aveva mai creduto. Da bambini si tende a non cadere mai nella realtà, rimanendo con un piede ancora dentro lo specchio: la si sfiorava appena, la verità, ma le mani rimanevano ancora immacolate di certezze. Certo che sarebbero tornati. Ma Maeve, Maeve Winston, non era più una bambina; ed aveva smesso di credere ai lieti fini, perché le tragedie capitavano a tutti. Si era crogiolata per anni sapendo che poteva succedere, ma non a lei.
    Aveva scoperto a sue spese che non era così che funzionava. Che poteva, ed era capitato, anche a lei. Di allungare la mano, ma non arrivare mai ad afferrare la camicia; di premere sulle ferite, e sentire comunque la vita scivolare lontano; di rimanere schiacciata, di rimanere l’unica in piedi, mentre tutti intorno a lei cadevano. Di cadere, e rompersi, e rompere, e perdersi, e perdere, e ferirsi, e ferire, ed uccidere, e morire, e le dispiaceva così tanto.

    «che mira di merda» gli spari, le grida, la polvere. Il sangue. Si svegliò di soprassalto artigliando le lenzuola azzurre del letto dove, dopo ore di pianto ed una pozione calmante, si era addormentata. Con il cuore in gola si guardò freneticamente attorno, sentendo il primo gemito spaventato graffiarle il palato. Inspirò ed espirò velocemente, strizzando il volto sotto il cuscino. Tutte le scene ripassavano davanti ai suoi occhi ancora, ancora, e ancora, senza cambiare mai. Aiden a terra, Dakota smascherato di fronte a Jason.
    Isaac con due fori di proiettile allo stomaco.
    Non sapeva che ore fossero, neanche che giorno o vita fosse, ma non poteva rimanere lì. Doveva cercare Aiden e Rebecca, rintracciare Dakota, assicurarsi che nessuno fosse… Non era in grado neanche di completare la frase. Patetica. Rotolò giù dal letto e si trascinò fino al corridoio dove sapeva avevano portato Isaac, camminando silenziosa in punta di piedi. Non c’era nessun medico nei paraggi, e non sapeva se interpretarlo come un segno positivo, o dannatamente negativo. Aveva paura. Ma se fosse successo qualcosa, qualcuno glielo avrebbe detto.
    Giusto?
    Rimase per un tempo interminabile appena fuori l’uscio, concentrandosi sul semplice meccanismo della respirazione. Quando posò le dita sulla maniglia, la mano tremava, ma decise di non farsi caso. Doveva concentrarci su un problema alla volta, se voleva riserbare quel briciolo di sanità mentale che ancora le era rimasto. Prima Isaac, perché gliel’aveva promesso, e poi… e poi tutti gli altri. Ma stanno bene, altrimenti lo sapresti. Aiden è al sicuro, Dakota è salvo, Kendall è a casa, Daphne e Mitch sono insieme, Deimos e Lilian stanno aiutando gli altri al quartier generale. Max starà facendo il solletico a qualche altra stupida ombra. Aiden è al sicuro, Dakota è salvo, Kendall è a casa, Daphne e Mitch sono insieme, Deimos e Lilian stanno aiutando gli altri al quartier generale. Max starà facendo il solletico a qualche altra stupida ombra. Aiden è al sicuro, Dakota è salvo, Kendall è a casa, Daphne e Mitch sono insieme, Deimos e Lilian stanno aiutando gli altri al quartier generale. Max starà facendo il solletico a qualche altra stupida ombra. Forse se se lo fosse ripetuto un’altra volta, il petto avrebbe smesso di fare così male.
    Come un cerotto, Maeve Regan Winston – e quando si sgridava con il secondo nome, la faccenda era tragica. Come un cerotto.
    Spinse la porta, entrò, e se la richiuse alle spalle, poggiando la fronte sul legno.
    Okay, sei dentro. Ora guarda. Si volse verso il lettino, le mani strette convulsamente fra loro.
    Isaac sembrava ancora più giovane, disteso fra quelle lenzuola. La pelle pareva delicata carta velina, ancora sporca di polvere e sangue raggrumato, mentre le bende, bianche, parevano emettere luce propria. Non sembrava dormisse, Isaac Lovecraft, ed il cuore di Maeve perse un battito. Si portò il palmo a premere sulle labbra, azzardando un altro passo in avanti. Non poteva essere vero. Ma poi un profondo respiro fu seguito da un basso brontolio sofferente, ed improvvisamente il mondo le parve più stabile. Il sollievo le diede il capogiro, mentre alzava gli occhi ringraziando silenziosamente il cielo. Gesù, si trattenne dal dar voce alla risata nervosa che le premeva nel petto, solamente perché sapeva che avrebbe ricominciato a piangere. Con delicatezza spostò vicino al letto una sedia, dove, più leggera di prima, si accasciò con un sibilo. Solo in quel momento si rese conto delle proprie ferite: aveva una fasciatura stretta sul fianco sinistro, ed ogni minimo movimento faceva partire una fitta di intenso bruciore in tutto il corpo. Una cosa per volta, una cosa per volta. Tornò a guardare il viso addormentato dell’ex blu bronzo, notando le prime note di colore sulle guance. «cento punti a Corvonero» bisbigliò spostandogli teneramente i capelli dalla fronte, prima di posare il palmo attorno all’ovale del volto. L’aveva promesso.

    Quella sedia, oltremodo scomoda, negli ultimi giorni era diventata la sua dimora. Testarda come solo una Winston poteva esserlo, aveva incenerito con occhiate eloquenti chiunque aveva provato a farla tornare a casa, dove rimaneva giusto il tempo di una doccia. Loro non comprendevano il peso di una promessa, probabilmente, né come la bionda stesse cercando in tutti i modi di procrastinare l’inevitabile. Voleva concentrarsi su una, mezza, cosa giusta che aveva fatto. Una vittoria personale. Senza contare che si trattava di una questione di principio: sì, okay, non erano parenti. E quindi? Mai capito tutta quell’importanza per un po’ di materiale genetico in comune. Purtroppo per tutti i medimaghi del circondario, Maeve aveva perso subito l’aria derelitta e disperata di quel primo giorno; anzi, se possibile s’era fatta ancor più rompi pluffe, forse proprio per compensare quel momento di debolezza. Preferiva l’odio, alla compassione. «allora, cos’ha detto il guaritore? Danni permanenti? Gli rimarranno le cicatrici? Lesioni ai muscoli? Potrà piegare il braccio? Non ha emorragie interne, vero? Ha controllato? Quella pozione contiene tutte le vitamine necessarie? E le proteine? Avrà sete? Sta respirando con regolarità? Mi sembra di aver sentito un lieve spasimo.
    Quando si sveglierà?»

    «...» sì, l’avrebbero decisamente cacciata dal San Mungo fino a data da destinarsi; probabilmente, fosse stato per loro, l’avrebbero perfino bandita.
    Fortuna che, come tutti gli altri, era una Ribelle. Quel piano era anche un suo diritto. E poi, scusatela se si interessava della salute di un suo ex studente, suo successore alla spilla da caposcuola Corvonero, suo compagno di battaglia e sua responsabilità; aveva appena diciannove anni, certo che era preoccupata per lui. Gli avevano sparato. Se l’avessero visto cadere a terra, se avessero sentito il gorgoglio nella sua voce quando le aveva chiesto di Sharyn, se avessero osservato il sorriso farsi sempre più debole e se l’avessero trascinato anche loro di peso fino a lì, forse avrebbero compreso come si sentiva Maeve Winston. Forse. Ogni giorno andava al bar, nella Londra babbana, ed acquistava una montagna di cose dal nome impronunciabile: non sapendo quando Isaac si sarebbe svegliato, preferiva partire prevenuta. Se non si fosse svegliato, beh, buon pranzo e buona cena, Maeve.
    Quel giorno non fece eccezione. Nuovamente di fronte al bancone di Starbucks, la Winston cominciò ad indicare prodotti a caso dal cartellone, prendendosi poi la sua manciata di minuti per scegliere dalla vetrina le leccornie più deliziose, e fatto tutto impacchettare, tornò nella stanza di Isaac. Abituata com’era a trovarlo addormentato, quando varcando la soglia lo vide sveglio per poco non lasciò cadere tutto a terra. «ehi» gli rivolse un sorriso, sentendosi più impacciata del dovuto. «io… non sapevo cosa ti piacesse, quindi ho preso: un caffè americano un frappuccino un cappuccino un frullato alla fragola uno alla banana un succo all’albicocca una cioccolata un tè verde e» lasciò i primi bicchieri sul comodino, aprendo il sacchetto. «cookies al cioccolato cookies bianchi cinnamon roll non so cosa sia ma sembrava buono una ciambella vuota una ciambella ripiena un muffin bianco e un muffin al cioccolato» li aveva elencati tutto d’un fiato, efficiente e professionale come di consueto; si concesse un sorriso soddisfatto, le mani sui fianchi. Quando l’occhio le cadde sulla benda al ventre, dove una macchia cremisi spiccava come il primo papavero di stagione, impallidì leggermente. Il sorriso abbandonò le labbra, strette ora in una linea dura, lo sguardo a scivolare severo dal petto al viso per cercare gli occhi di Isaac. «Lovecraft. Le ferite hanno bisogno di tempo, non di te che le palpeggi» lo ammonì seccata, notando le dita di lui macchiate di scarlatto.
    Insomma, il buongiorno bipolare dei campioni by Maeve Winston.
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    Edited by #epicWin - 20/5/2017, 00:16
     
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    Respirò piano e profondamente l’aria satura dell’odore di unguenti misti a sangue, gli occhi appena socchiusi a contemplare il pallido soffitto sopra di sé. Sotto il lenzuolo ed il bendaggio, apparentemente lontano da occhi indiscreti, sentiva le strisce di garza macchiarsi di rosso, inumidite appena da nuovo strato di liquido cremisi che andava a sporcare l’epidermide; sentiva il dolore, ch’egli stesso si era inconsciamente procurato, pervadere da quell’epicentro l’intero organismo; sentiva i muscoli contrarsi, feriti, e rilassarsi provocandogli anche, e se possibile, più pena della contrazione. Percepiva tra i dermatoglifi le microscopiche e dense goccioline, quelle poche che erano riuscite a trapelare oltre il tessuto stretto sull’addome; le sentiva reclamarsi l’un l’altra ogni volta che avvicinava le falangi tra loro, appiccicandosi vischiose alla pelle. E più avvertiva tutto ciò, più i suoni si facevano meno ovattati e più concreti, i colori più vividi; più avvertiva tutto ciò, e più, Isaac Lovecraft, riprendeva il contatto con la realtà. Un legame che, invero, non aveva nemmeno idea da quanto non fosse più presente.
    Dire che non ricordasse assolutamente nulla sarebbe una menzogna: già quando ancora era in difficoltà nel distinguere il sogno dall’effettiva realtà, le impertinenti memorie del combattimento riaffioravano fumose davanti le iridi castane; per il diciannovenne, era come se fosse appena accaduto, come se la missione si fosse conclusa da pochi istanti. Non sembrava così lontano nel tempo quando, con una lettera tra le dita e poche parole di commiato, aveva visto Patrick, Lilian, Kendall e gli altri ribelli farsi strada tra le macerie del seminterrato, prendendo un cunicolo richiusosi alle loro spalle; non erano così distanti i rombi delle scosse di terremoto, i macigni a staccarsi dal soffitto sovrastante ed a ferire le masse, gli echi degli incantesimi ed i ronzii delle spade che fendevano l’aria; erano ancora lì, poteva ancora sentirli se chiudeva gli occhi, le urla di chi si sforzava con tutto se stesso per non cedere e di coloro che, invece, nel grido trovavano la grinta per avanzare ancora, colpire ancora.
    Sembrava passata solo un’ora, o un minuto, o forse solo un secondo. Troppo poco, una scarsezza di tempo che andava a ripercuotersi lungo tutto il corpo, da quando un primo boato aveva attirato la sua attenzione, ferendolo alla spalla; così vicino lo scherno rivolto al tiratore, il sorriso sul volto sporco di sangue e polvere a prendersi gioco del mangiamorte.
    Sembrava passata solo un’ora, o un minuto, o forse solo un secondo, da quando poco prima di perdere conoscenza aveva sentito il proiettile perforare lo stomaco, le mani imbrattarsi di vischioso liquido scarlatto, gli occhi a cercare tra la folla il viso di Sharyn trovando invece nelle iridi chiare della Winston un aiuto, nella sua voce tremante una rassicurazione. Per quanto si ostinasse a voler credere che fosse trascorso pochissimo tempo, però, era alquanto sicuro che così non fosse, abbastanza sveglio da capire che per riprendersi dallo sparo ci sarebbero dovute volere ore, se non giorni, se non settimane.
    Dov’era Maeve? Gli aveva promesso che l’avrebbe fatto uscire di lì, l’aveva fatto, ma in quel momento dov’era? Stava bene? Era a casa? Sperava con tutto se stesso di no: aveva un sincero quanto infantile bisogno che lei fosse lì, ad attendere che si riprendesse; nemmeno la conosceva così bene da poter vantare un attaccamento di alcun genere, qualcosa che avrebbe potuto spingere l’insegnante di Incantesimi ad aspettare che si svegliasse. Erano professoressa ed alunno, compagni di casata, entrambi capiscuola, ribelli: ma di Maeve Winston, Isaac Lovecraft non sapeva alcunché, e lei altrettanto sul suo conto. Ma gli aveva chiesto di restare con lei, di stringerle la mano: in quei secondi silenziosi carichi di puro terrore, Isaac avrebbe soltanto voluto chiederle lo stesso. Glielo aveva promesso, giusto?
    Dov’era Patrick, dov’era Dakota? Dov’erano i ribelli? Erano usciti tutti, dovevano essere usciti tutti, non poteva essere altrimenti - Isaac, non avrebbe potuto pensare fosse stato altrimenti. Si aspettavano tutti una battaglia, ma non erano pronti a quello che il Laboratorio gli aveva invece dato. Che fosse una trappola, l’ex corvonero avrebbe dovuto saperlo; ma era la sua prima missione, non era pronto. La ferita che si era riaperto con le sue stesse mani, però, gli suggeriva che probabilmente non lo sarebbe mai stato.
    Inspirò con il naso, nascondendo gli occhi nell’incavo del gomito, i denti a mordere le labbra con quanta più ferocia fosse in grado di esprimere. Dov’era Sharyn? L’aveva persa di vista, e non avrebbe dovuto. Avrebbe invece dovuto togliersi la maschera, dirle che era lui, di non colpirlo e di non colpire gli altri? Avrebbe dovuto svelarsi ai ministeriali giunti sotto Stonehenge, rischiando la propria vita e quella dei suoi nuovi commilitoni, soltanto per correre tra le braccia della Winston, dirle che gli dispiaceva? Qualcosa, invero, gli diceva che sì, per lei avrebbe dovuto: fanculo la Resistenza, e fanculo la missione; era più importante di tutto quello, era sempre stata più importante di qualsiasi altra cosa. Ma avrebbe messo a rischio la sua vita, quella della bionda, e quella di decine di altri ribelli che, in quella causa, ci credevano molto più di lui; senza contare che, nel poco tempo che era passato dopo aver deciso di schierarsi nelle fila dei ribelli, aveva iniziato ad affezionarsi - ai resistenti, ed alla causa stessa: voleva un mondo migliore, il Lovecraft, e quantomeno loro ce la stavano mettendo tutta. Le aveva mentito così spudoratamente da logorare il fegato, e più passavano i secondi più avrebbe voluto rintracciarla e sputarle in faccia tutta la verità. Ma non poteva farlo: l’avrebbe persa di nuovo, non poteva permetterselo. Inspirò ancora, senza voler che l’aria uscisse dalla bocca. Sapeva come funzionava, in quei casi, quando non sapeva nulla - non sapeva dove fosse, dov’era la sua ragazza, dov’erano tutti, cosa diamine fosse successo -; sentiva già le labbra tremare, le palpebre pizzicare, l’aria acre infastidire le narici più di quanto non avrebbe dovuto fare normalmente. Succedeva di rado che Isaac Lovecraft piangesse, così tanto da poter fingere di non riconoscere le sensazioni che precedevano le lacrime, ma ogni volta era da solo: piangeva fino a quando non aveva più voce per parlare, più gocce da asciugare. Piangeva fin quando non rideva di sé, così tanto da potersi mostrare nuovamente in pubblico. Piangeva quando non aveva idea di cosa fare altrimenti, piangeva per determinati motivi, determinate persone, e solo a due di queste aveva riservato quelle scene. Una non le avrebbe più viste, l’altra desiderava che fosse l’unica a vederle ancora, e ancora, e ancora, e per i più stupidi motivi, quelli più felici.
    Se non voleva farlo su quel lettino, era unicamente per il fatto che ancora desiderava qualcuno entrasse, qualcuno che non poteva essere Drake e che non voleva fosse Sharyn. Avrebbe potuto farlo di lì a poco, avrebbe non potuto farlo mai. Ma poteva succedere.
    Doveva, succedere.
    Continuò a respirare piano, fino a riuscire a regolarizzare il battito che era aumentato senza che se ne potesse rendere conto. Tolse il braccio dal volto, strabuzzando un paio di volte gli occhi prima di tornare a vedere lucidamente davanti a sé, le spalle a premere lievemente verso il cuscino. Prima di essere un buffone sognatore, Isaac era una persona sveglia: non intelligente, per quanto lo riguardava mai avrebbe potuto ambire a titoli tanto elevati, ma almeno capace di rendersi conto di quello che stava accadendo in quel preciso istante, se non poteva farlo di quanto successo precedentemente al suo risveglio. Per quanto desiderasse il contrario, era consapevole che avrebbe potuto rimanere senza alcuna visita per più tempo di quanto non volesse, per un motivo o per l’altro: voleva comprendere dove si trovava, come uscire da quella stanza, raggiungere qualsiasi persona fosse di guardia ed informarlo che, ehi!, stava bene e poteva uscire senza alcun problema. Aveva così tante cose da fare che nemmeno voleva pensarci: almeno Idem, almeno Donnie, sapevano che era lì, che era vivo? Doveva avvertirli, doveva sentirli. Dakota? Ricordava fosse messo male, forse anche peggio di lui: doveva chiedere se si era ripreso, nel frattempo, se fosse tornato a scuola. Stiles? Stava continuando ad inviare soldi a Sticazzi in Burundi o senza lui a ricordarglielo aveva smesso, lasciando loro figlio a morire di fame?
    «mh» mugolò, tirandosi su col busto «magari no». Meh, era bastato un solo movimento a farlo desistere, acuminando una voglia di morire non indifferente. Ma perché cristo doveva fare così male? Era un fottuto mago, c’erano dei fottuti maghi, ed erano così pro in quella vita da avere persino dei fottuti Esperimenti col dono della Guarigione: non potevano, per dire, fargli passare tutto quanto in un nanosecondo? Non era così facile? Evidentemente no, ma questo non lo consolò affatto. Anzi. Si guardò attorno, cercando la propria bacchetta: non c’era. Ovvio, mai una gioia nemmeno a pagarla; in compenso, c’erano tanti bei fiori - tanti, oddio, facciamo finta fossero tanti - inutili. Continuò a scrutare di sottecchi la stanza, controllando che non ci fosse ancora nessuno. L’aveva visto fare, quando era piccolo, da Leo l’angelo custode in Streghe: ora, il Lovecraft non era un Angelo, ma la fiction era così simile alla realtà che valeva la pena provarci. Pose le mani aperte sopra l’addome, a qualche centimetro di distanza. Chiuse gli occhi, concentrandosi.
    Niente. Non guariva. Aprì un occhio, osservando come non fosse cambiato alcunché: doveva dire qualcosa? Forse qualche formula magica inventata, qualcosa di mistico, qualcosa di… «waka… waka…» un tono ancestrale, sommesso perché ancora sotto l’effetto di chissà quali farmaci, mentre le mani si muovevano lente. «eh… eh…» sentiva che non stava cambiando nulla, che non stava guarendo come previsto. «tsaminaaa…….???»
    «ehi» oh maronna du’ carmine.
    «EHI» esclamò, tossendo per lo sforzo, prima di battere un po’ troppo energicamente le mani tra di loro; il sorriso che lanciò a Maeve Winston avrebbe potuto sembrare entusiasta: invece, stava un po’ morendo dentro per lo spavento e per la serie di muscoli che aveva mosso inavvertitamente. «c’era un… una… una zanzara» non era così che si era aspettato quel momento: sì, fantasticava anche su quando la gente avrebbe dovuto ritrovarlo a letto dopo una sparatoria. Semicosciente, un po’ strafatto di antidolorifici, coccolato e viziato, tante belle cose. «ora è… morta» invece era soltanto…
    Ridicolo.
    Isaac Lovecraft, insomma.
    Senza mostrare il corpo del reato alla bionda, fingendo di scrollarsi il cadavere dell’insetto dal palmo strofinò la mano sul lenzuolo, gli occhi chini.
    Mentre gli elencava tutto ciò che aveva reperito, avrebbe solo voluto alzarsi ed abbracciarla, fregandosene del fatto che, magari, era lì unicamente per mantenere fede ad una parola data. Sapeva che probabilmente non le interessava davvero, però era lì, e non aveva parole per dimostrarle quanto ne fosse grato. Non ne era mai stato davvero capace, il diciannovenne. «potrei mangiare e bere tutto, ora come ora» esordì sottovoce, portando le iridi castane a cercare quelle chiare della ragazza. «posso? No, forse no… ma posso Cos’era la degenza. Non ci era abituato, non era mai stato in un lettino d’ospedale. Però, se lei gli aveva portato tutto quel ben di Dio, significava che era legittimato ad ingozzarsi come mai prima d’ora: si fidava del giudizio della bionda. Fece già per allungare una mano verso le leccornie, quando arrivò. Ecco, a quello era marginalmente preparato dalle numerose sgridate nella Sala Comune, o dai rimproveri durante le lezioni di Incantesimi: la Furia. Quella era la parte di Maeve Winston che conosceva meglio, quella che aveva sempre cercato di evitare nei corridoi di Hogwarts: era in grado di farti sentire in colpa per essere un irresponsabile anche mentre facevi qualcosa di… normale. «Lovecraft. Le ferite hanno bisogno di tempo, non di te che le palpeggi» «io?» no, quello nell’altro lettino. Quale altro lettino? Meh. «pffff no ma che dici» in fretta e furia, cercò di accavallare tutte le coperte sopra la chiazza scura sul ventre, tentando invano di nascondere il misfatto. Inutile: ella aveva una vista a raggi X. Sì, era una voce che girava al Castello, ma diamine se pareva fondata. Soprattutto in quel momento. «palpeggiarmi la ferita? ma ti pare?» Sì, pareva ad entrambi.
    L’avrebbe ucciso.
    L’avrebbe ferito ancora di più per essersi ferito da solo.
    L’avrebbe sgridato.
    «eeeee quiiiindi…» si morse le labbra, la fame ormai - non è vero - passata. «che si dice?» Primo tentativo di riportare la situazione in una fase di stallo effettuato. Passo.
    Fosse stato solo quello, sarebbe sembrato tutto normale.
    Invece faceva male, invece era stanco e, sotto sotto, avrebbe solo voluto tornare a dormire dopo aver scoperto che qualcuno, lì con lui, c’era. Invece, voleva realmente sapere cosa si diceva: come stava lei, come stavano gli altri, come stava Sharyn. Com’era finita quella battaglia di cui non aveva visto l’esito, e com’era la situazione in quel momento.
    Ma, soprattutto. «che giorno è?»
    Sembrava essere passata solo un’ora, o un minuto, o forse solo un secondo.
    Sembrava essere passato troppo poco tempo, da quando gli aveva detto che sarebbe andato tutto bene.
    Andava tutto bene?
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    Mai, Maeve Winston, s’era sentita così… sottile. Sentiva che sarebbe bastato uno sbuffo d’aria più forte per crepare una superficie di per sé fragile, debole quanto la più delicata delle carte veline. Aveva sempre voluto vantare di essere una ragazza forte, uno scoglio fra le onde in tempesta, ma non era così - e, probabilmente, non lo era mai stato. I suoi vent’anni le gravavano sulle spalle apparentemente moltiplicati, schiacciandola al suolo fino a privare i polmoni di quel poco d’aria che erano riusciti a ghermire; come si poteva essere, chiedeva a sé stessa, così vecchi ed al contempo così giovani? Non sapeva neanche Maeve se in quel momento volesse un abbraccio confortante, o se quella stretta sarebbe bastata per sbriciolarla, ossa di cristallo in un corpo di carta. Guardava Isaac, le lenzuola bianche che non portavano traccia dei segni delle ferite, e non poteva fare a meno di sentire una stretta alla bocca dello stomaco. Era pallido quanto il letto nel quale era sdraiato, i capelli corvini a contrastare con il candore della trapunta – e sapeva che non era piccolo quanto sembrava, che non era esile quanto appariva in quel letto d’ospedale, ma non poteva fare a meno di sentirsi adulta, in confronto a lui. L’adulta responsabile che aveva promesso l’avrebbe portato fuori da quel sotterraneo, affidabile nelle parole bisbigliate dietro la maschera. Non riusciva, osservandolo a palpebre socchiuse, a convincersi ch’egli avesse solamente un anno in meno, rispetto a lei: un bambino, ecco cosa vedeva. Razionalmente si rendeva conto di quanto fosse stupido ed incoerente – avevano perfino frequentato Hogwarts insieme!- ma la ragione aveva poco a che fare, con il caldo languore che le bruciava la base della trachea. Immaginava quanto potesse essere mortificante, per il Lovecraft, risvegliarsi e trovare lei al proprio capezzale - lei, che per lui non era mai stata niente. Come poteva giustificare, agli occhi di un quasi coetaneo, il bisogno di saperlo al sicuro? Di sapere che stava bene? Non era una collega ribelle troppo zelante, meticolosa nel volersi accertare che non avesse subito danni gravi - no: Maeve voleva… era stupido, vero? Voleva che sapesse che aveva mantenuto la promessa, lei; che era rimasta al suo fianco, e non avrebbe più permesso gli accadesse qualcosa di simile. Voleva riconquistarsi la fiducia che aveva perso, Maeve per prima, nel momento in cui le pallottole si erano conficcate nella carne di Isaac.
    Non voleva rimasse da solo.
    Non voleva rimanere da sola.
    «io?» E poi Isaac Lovecraft diceva cose del genere, ed era scontato il motivo per il quale Maeve Regan Winston, rispetto a lui, si sentisse molto più matura. Sbattè lentamente le ciglia ed inarcò allusiva un sopracciglio, tacendo l’ovvia risposta alla domanda retorica. «palpeggiarmi la ferita? ma ti pare?» Si inumidì le labbra, la bionda, alzando con poca pazienza le iridi cerulee al soffitto. «isaac.» il tono basso e perentorio che non esigeva altro che obbedienza, in quel fremito a fior di labbra. Scosse il capo facendo ondeggiare la chioma color del grano, la lingua a umettare un palato arido e secco. Avrebbe voluto rimproverarlo, se necessario legargli le mani alle sbarre del letto – e l’avrebbe fatto, Maeve: ma non in quel momento, quando a premere per uscire erano ben altre parole. Deglutì e chinò lo sguardo, mortificata da sé stessa – e dalla situazione, e da quella vita che non le lasciava spiraglio per prendere un respiro. Era tanto, chiedere un poco di pace? Solo poca, giusto il tempo di andare a dormire, almeno una volta, senza il pressante bisogno di piangere - senza motivo, e con la scusante che di motivi per farlo, ce n’erano troppi.
    «mi dispiace» un sussurro così flebile ch’ella stessa, a malapena, era riuscito ad udirlo. Non sapeva neanche per cosa, le dispiacesse: mi dispiace che tu sia quasi morto? Mi dispiace che questo mondo, anziché cambiare, continua a ridurci in cenere? Mi dispiace che vicino al tuo letto non possano esserci i tuoi amici, o la tua ragazza?
    Mi dispiace di essere tutto ciò che, al momento, la vita può offrirti?
    Mi dispiace di non essere stata abbastanza?
    Si schiarì la voce, le mani a stringere i bicchieri di carta. «volevo portarti dei palloncini,» disse invece, distratta, strappando l’attenzione a quel frammento di realtà che s’era lasciata sgusciare dalle labbra dischiuse. «poi ho pensato che avresti passato la giornata a respirarne l’elio per parlare in modo stupido – e non è decisamente quello di cui hai bisogno» ed ancora lo sguardo si soffermò sulla ferita del Lovecraft, ormai coperta dal lenzuolo. Come se potesse bastare nasconderla, per far sparire l’alone scarlatto intravisto dalle fasciature. «che si dice? Che giorno è?» Maeve armeggiò con la colazione, quindi avvicinò una sedia al materasso del Corvonero. «non puoi mangiare tutto, ma puoi iniziare a piluccare qualcosa» cambiò ancora argomento, aprendo i sacchetti ed avvicinando i bicchieri dove fosse più facile raggiungerli, in modo da impedire che facesse sforzi non necessari. Lisciò le pieghe dei pantaloni, malgrado nulla, in Maeve Winston, ricordasse anche solo di aver mai avuto una piega.
    Sempre perfetta, Maeve. Bugiarda. «sono passati due giorni, i guaritori sono stati molto bravi» l’abbozzo di un sorriso nervoso, gli occhi a saettare sul ragazzo. Non era necessario sapesse del terrorismo psicologico a cui Maeve li aveva sottoposti. «michael ha preso la polisucco ed è andato ad hogwarts al tuo posto - si è finto malato, almeno non deve interagire con nessuno» dove con nessuno, intendeva chiaramente Sharyn Winston. Sarebbe stato alquanto greve se, mentre Isaac era in riabilitazione, lei si fosse limonata la brutta copia di lui. «stanno tutti…» bene? Nessuno di loro, stava bene. Cominciò a spezzettare una ciambella, le dita sottili a muoversi bruscamente sul dolcetto. «sono vivi» doveva dirglielo, dei ribelli a cui era tornata la memoria? Aveva importanza?
    Si morse il labbro inferiore, un’occhiata di sottecchi ad Isaac. Era sempre stata trasparente, Maeve – non era nella sua indole, mentire.
    E dire che era la cosa che le veniva meglio. «mi dispiace, isaac» ripetè, questa volta ad alta voce. Suonò una supplica disperata alle sue stesse orecchie, e non potè fare a meno di stringere le mani a pugno, ora in grembo, pur di non nasconderne il lieve tremore. «non … non è giusto» e non era giusto niente, e non era giusta lei. «avrei dovuto fare di più. mi dispiace» ed eccola, infida e subdola, la verità: Maeve si vergognava, e temeva che lui potesse odiarla. Ne avrebbe avuto tutte le ragioni. «se preferisci…» deglutì, le sopracciglia corrugate e gli occhi ad evitare il viso di Isaac. «posso andare via» ed allora tornò a guardarlo, un sorriso friabile a curvare le labbra sottili. «però, qualcosa, mangialo comunque» ed in un battito di ciglia, era di nuovo l’insegnante autoritaria che non aveva alcuna questione personale. «e non è un consiglio.» e che di personale, in realtà, aveva sempre avuto tutto.
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    La peculiarità di Isaac Lovecraft, era la sua innata capacità di apparire estremamente superficiale agli occhi di chiunque potesse incontrare sul proprio percorso – ed un po’, in effetti, lo era. Qualsiasi cosa accadesse, egli la prendeva alla leggera, un sorriso storto a farsi beffe della gravità della situazione: mai derisorio della persona afflitta dal problema, per quanto egoisticamente non avesse mai davvero cercato di essere l’intermediario tra la vittima e l’ostacolo, incapace di aggiustare qualsivoglia precaria condizione – tantomeno le proprie -, quanto più del problema stesso. Non era così esistenziale, tendeva sempre a ripetere e a ricordare a se stesso dinnanzi ad ogni vicenda scomoda, già con un piede in avanti pronto ad aggirarla, non era qualcosa di cui farsi un cruccio così pesante. Una maschera, quella dell’ex corvonero, abilmente sistemata sul viso spigoloso alla quale aveva dovuto fare il callo, senza la quale non poteva realmente definirsi Isaac Lovecraft: era stato costretto, spinto dagli eventi stessi, a costruirsela da solo quando ancora era poco più che un bambino, legando uno scadente umorismo a fiotti di spavalderia, tanta faciloneria a piccato sarcasmo, con l’unico intento di nascondere agli altri e a se stesso una fragilità che non aveva mai voluto, e che non aveva alcun motivo di esistere. Anche quando, estremamente di rado, la maschera calava ed il cappello da giullare cadeva a terra, facendo tintinnare i campanelli posti sulle punte per un periodo che poteva sembrare interminabile, aveva solo bisogno di poco tempo prima di rivestirsi dei propri panni, quelli che l’avevano caratterizzato per tutti quegli anni, per tornare alla normalità – alla propria, normalità. Quella ove tutto era leggero, ed i fatti quotidiani non avevano una gravità così potente da minacciare di schiacciarti al suolo da un momento all’altro; quella normalità dove si era liberi di essere chi si era realmente, e che andava costruendosi attorno come un personale piccolo regno: un mondo ideale, il suo, dove non erano ammessi gli umori rasoterra, ma soltanto sorrisi e positività – una vera e propria utopia, ma fintanto che con il proprio atteggiamento era in grado di renderla possibile andava bene. L’egoistica verità, era che il diciannovenne non aveva mai davvero sopportato gli animi cupi, o le persone tristi: gli facevano calare il mood, e non sapeva nemmeno minimamente come approcciarsi a questi. La sua capacità era quella di mantenere alto l’umore, non di sollevarlo quando questo aveva preso una vanga ed iniziato a scavare nelle profondità del globo. Forse, era stato troppo ben abituato dal clima di casa Withpotatoes, sempre esuberante e felice.
    A volte (spesso) si odiava per questo suo temperamento, divenuta ormai più etichetta che non altro: lo faceva sentire inadatto, quando il terrore di non essere abbastanza per qualcuno, o qualcosa, era la paura che più crepava la maschera di cera. Altre, invece, non poteva che ringraziare di essere così estremamente se stesso.
    Come in quel momento, semiseduto sul lettino ospedaliero. Aveva passato così tanto tempo a pensare di esserci quasi morto, nel sotterraneo di quel laboratorio, da non essersi reso conto abbastanza in fretta da essere invece un sopravvissuto- era vivo, cazzo! Ed aveva due bellissimi fori di fucile da poter mostrare più in là nel tempo, quando non sarebbero rimasti nient’altro che segni in rilievo sulla pelle diafana, raccontando ai suoi posteri di quella fantastica volta in cui aveva combattuto valorosamente contro un manico di spietati Mangiamorte armato solo del machete della nonna – omettendo, non so, cadute di faccia per colpa di una sedia volante. Aveva un’intera vita davanti, il Lovecraft, ed amante com’era di tutti gli svaghi e le bellezze che questa aveva da offrirgli non poteva che esserne felice, iniziando già a nascondere sotto il pallido lenzuolo tutte le preoccupazioni che l’avevano afflitto fino a quel momento.
    Sharyn stava sicuramente bene.
    I suoi amici, era certo che se erano malridotti se la sarebbero cavata.
    Se qualcuno fosse effettivamente morto, glielo avrebbero comunicato subito al risveglio – non era così stupido da non saper interpretare il dolore segnato sul viso, per quanto fosse sua predilezione ignorarlo e parlare d’altro.
    Che sicuramente era tutto peggio di come volesse sospettarlo, lo sapeva perfettamente – voleva solo procrastinare, Isaac.
    «mi dispiace… volevo portarti dei palloncini, poi ho pensato che avresti passato la giornata a respirarne l’elio per parlare in modo stupido – e non è decisamente quello di cui hai bisogno» scosse la testa, gli occhi socchiusi e un sospiro affranto a scivolare dalle labbra. «mi conosci davvero poco, se pensi che non sia quello di cui ho bisogno» sorrise infine, rivolgendo le iridi castano al profilo della bionda, per poi posarlo sulla spesa fatta dalla ragazza. «però, per quanto non possa mangiare tutto, preferisco il cibo all’elio adesso» si sporse, afferrando quello che gli aveva detto essere caffè americano ed alzandolo in cenno di brindisi, in onore dei vecchi tempi – quando morire era un’ipotesi presa sottogamba e in maniera scherzosa, e non seria possibilità di uscire da un conflitto. «grazie…» si morse le labbra, lo sguardo chino sul bicchiere di scura bevanda. «senti, posso chiamarti Maeve?» apparentemente una domanda molto stupida, quasi scontata, ma non per il Lovecraft. Il fatto che fosse sempre stato il primo ad infrangere le regole per puro divertimento, e che del personale scolastico aveva sempre cercato di burlarsi, non significava che non li rispettasse – non era solo timore reverenziale il suo: anche, ma non solo. Con la Winston, quando ancora erano entrambi studenti, non aveva mai effettivamente parlato, se non per motivi formali (aka, rimproveri); quando era diventata professoressa, quel titolo per Isaac era diventato il suo nome: se doveva chiederle qualcosa, o sparlare di lei, era la professoressa Winston.
    Mai Maeve.
    Ma allora, per il ribelle non era già più soltanto Maeve: era qualcosa in più, quella figura di riferimento che avrebbe già dovuto essere in passato e che in quel momento assumeva un valore totalmente diverso.
    Sorseggiò il caffè più lentamente di quanto non avrebbe desiderato fare, ond’evitare qualsiasi effetto collaterale – era un ragazzo sveglio e intelligente, ma come già detto le sue conoscenze in ambito medico erano piuttosto carenti -, annuendo alle parole della Winston. Solo due giorni: se in un primo momento gli era parso non essere passata nemmeno un’ora da che aveva perso i sensi, in seguito aveva temuto fossero passate addirittura settimane. Un po’ ci aveva sperato, in realtà – così, per aggiungere fatti interessanti ai racconti per i suoi figli e nipoti. «chi è Michael?» domandò, senza nascondere un filo di gelosia nella voce: per carità, apprezzava il gesto e tutto, ma se avesse incontrato Sharyn??? Già sarebbe stato difficile spiegarle perché era scomparso da casa di Idem la sera prima della missione, figuriamoci con eventi complicanti. «ah!, quante volte mi sono finto malato per saltare le lezioni» ammise, pentendosene il secondo appena successivo, quando voltò lo sguardo, misto di terrore e scuse inespresse, verso la ragazza. «non l’ho mai fatto per incantesimi, giuro» cercò di aggiustare il tiro, probabilmente fallendo.
    «stanno tutti… sono vivi» si morse l’interno della guancia, sentendo il peso del repentino cambio d’argomento colpirlo come un pugno ben assestato. «sai come…» Per un attimo, si nascose dietro il bicchiere di caffè, senza effettivamente berlo: non voleva sembrare egoista, soprattutto considerando l’altruismo della ragazza nel suo semplice essere lì presente, ma lo era. «Sharyn sta bene, vero? Nessun danno?» razionalmente, sapeva che era così: glielo avrebbe detto, qualcuno glielo avrebbe detto. Ma aveva bisogno di sentirselo dire, aveva bisogno di sapere che quando, poco prima di svenire, gli aveva promesso che sarebbe stata bene non aveva mentito.
    Poi, accadde qualcosa per la quale il Lovecraft non era assolutamente preparato. «mi dispiace, isaac. non… non è giusto, avrei dovuto fare di più. mi dispiace» Come già detto, il Corvonero era perfetto se si trattava di mantenere alto il morale della gente: organizzava feste abusive, recuperava alcol, si metteva in ridicolo nelle maniere più improbabili per evitare che qualcuno si rattristisse. Consolare la gente, non era ciò che gli riusciva meglio. «cosa dici» intervenne, lo sguardo corrucciato mentre faticosamente si metteva seduto più composto, la schiena contro i cuscini addossati alle spalle del letto e la ferita sul ventre a premere. «se preferisci… posso andare via» «non ci pensare neanche» rispose immediato, ignorando i consigli di lei sul mangiare: non aveva bisogno di sentirli, perché si sarebbe nutrito mentre lei era lì a fargli compagnia. Non era contemplabile il fatto che lei se ne andasse – egoistico, aveva bisogno di lei. Poco poteva importare quanto a fondo si conoscessero. Ormai era lì, ed era parte della sua vita che lei lo volesse o meno: avrebbe dovuto informarla, prima o poi, che non era legittimata ad uscirne. Già in troppi l’avevano fatto senza che lui potesse dire nulla. «hai fatto tantissimo, più di quanto non avresti dovuto» si bloccò, tenendo il bicchiere in una mano ed allungando l’altra verso quella della ragazza, mentre un sorriso incerto mostrava la dentatura. «più di quanto non avrei fatto io» a posteri avrebbe fatto lo stesso, ma non era sicuro se tra quelle macerie sarebbe stato capace di fare le stesse promesse di Maeve e mantenerle. Probabilmente sì, ma non è questa la storia che si sta raccontando. «mi hai salvato Mae, ora ti tocca restare» sottintesa la supplica a farlo, la voce a chiedere se voleva, restare. «e mangiarti tutte quelle cose con me perché non so quali mi piacciano e quali no» concluse sorridente, voltandosi verso le leccornie.
    In realtà, sapeva già quali non gli piacevano, ma le avrebbe mangiate comunque: cosa gli avrebbe detto, Idem, se avesse schifato un regalo sotto forma di cibo?
    Probabilmente lo avrebbe abbracciato comunque, nel dubbio, ma questa è un’altra storia.
    i thought i could fly, so why did i drown? it's coming down, down, down
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    Vorrei dire che s’era trattato di un momento di défaillance temporaneo – che Maeve Winston, dubbi del genere, non li aveva mai covati. Ma, oh, sarebbe stata la peggior menzogna di sempre. In vent’anni di vita, Maeve aveva sempre avuto il costante bisogno di sentirsi necessaria, insostituibile. Qualche psicologo avrebbe imputato quell’insicurezza alle mancanze genitoriali quand’era poco più che una bambina, e forse sarebbe stato vero, ma una colpa del genere non avrebbe potuto ricadere solamente sulle spalle di Wynne ed Aaron: era stato quel mondo, quella vita, a renderla il fragile foglio di carta velina ch’era diventata. Deglutiva incertezze ed espirava menzogne, curvando le labbra in quel sorriso brillante che si fingeva sempre consapevole di una vita sulla quale, in realtà, non sapeva più nulla. C’erano giornate nelle quali essere Maeve Winston, Maeve Regan Winston, era più una maledizione, che un privilegio. Idealmente, idealmente, non c’era nulla che le mancasse: suo fratello la adorava, i suoi genitori la amavano, i suoi amici – i pochi che erano sopravvissuti alle intemperie del suo peculiare carattere – le volevano bene. Aveva una carriera perfetta, una piega della chioma bionda sempre impeccabile; aveva gli abiti sempre profumati di biancheria, e la risposta sempre svelta sulla punta della lingua.
    Avrebbe dovuto bastarle. A molti altri sarebbe bastato, sarebbe stato tutto: per Maeve, non era mai abbastanza. Maeve, non era mai abbastanza. Si sentiva il pezzo di troppo su una scacchiera che di lei, dagli occhi azzurri come il cielo in primavera ed i capelli d’oro come fili di grano, non se ne faceva nulla. Si sentiva la spettatrice di una vita che non le apparteneva, rubata a qualcuno che se la sarebbe meritata di più – che con quei privilegi avrebbe effettivamente potuto cambiare le cose.
    Voleva salvare il mondo? Non proprio. Un tempo, sì: quand’era entrata a far parte della ribellione, aveva ingenuamente creduto che lei, Maeve Winston, avrebbe salvato il mondo – il pezzo del quale non sapevano di aver bisogno, ma che in realtà avevano atteso tutta la vita. Un passato fatto di perlacee ed arroganti certezze, dove nella presunzione la Winston era fiorita. Quanto tempo le ci era voluto per scendere dal piedistallo?
    Meno di un anno. Meno di un anno in una realtà che l’aveva lacerata, e ricomposta, e di nuovo spezzata, e di nuovo piegata. Non credeva di essere mai stata una sognatrice, finchè quei sogni non le erano stati tolti.
    E tutto il suo ordine, era diventato caos.
    Si era resa conto di non essere altro che una ragazza identica ad altre cento ragazze, con tutto da perdere e tutto da guadagnare. Che la sua intelligenza, della quale mai aveva dubitato, non sarebbe bastata – perché qualcun altro, prima di lei, aveva già vagliato tutte le soluzioni possibili. Si era ritrovata, Maeve, al centro di una guerra che era cominciata molto prima di lei, prima di tutti loro, e dove l’unica opzione rimasta era combattere: non era fatta per l’attacco, la Winston.
    Evidentemente, neanche per la difesa.
    Non era insostituibile, e di certo non era necessaria. Quale persona sana di mente avrebbe voluto Maeve nella propria vita? Comprendeva la famiglia, costretta dal legame di sangue, ma la restante fetta di popolazione magico, non riusciva a capirla: perché, fra tutti, lei? Non aveva niente da offrire all’infuori di preoccupazioni assillanti e crisi esistenziali. Mancava della capacità di far sentire gli altri più forti, o più coraggiosi, o più felici - allora perché? Finchè poneva quelle domande a sé stessa, andava tutto bene: Maeve viveva nel terrore che anche loro, un giorno, avrebbero potuto farsele. Perché quel giorno, lo sapeva, si sarebbero resi conto che non ne valeva la pena, della loro fiducia.
    Eleanor, Amalie.
    Jade.
    Dakota.
    «cosa dici» Era la risposta più ovvia, e la più sbagliata. Maeve osservò Isaac con gli occhi tristi e seri che quella vita le aveva dipinto addosso, le labbra strette in una linea sottile che quella guerra, non sapeva più come combatterla. Troppo rapido nel rispondere - non aveva riflettuto abbastanza, in quella replica. Non si era soffermato sulla domanda implicita di Maeve. Perché era così che funzionava, giusto?
    Nessuno diceva mai la verità, a costo di masticare ghiaia e sputare sangue.
    Cosa dici. L’avevano privata di tante cose, non voleva che le togliessero anche l’onestà: non era giusto, avrebbe dovuto fare di più, e le dispiaceva. Per una volta, faticosa e sofferta volta, sapeva perfettamente cosa stava dicendo. «non ci pensare neanche» L’aveva fatto, ed avrebbe dovuto farlo anche lui. Era una presenza scomoda, Maeve – cosa c’entrava, nella vita di Isaac Lovecraft? Nulla. Comprendeva che non volesse rimanere solo, ma non credeva di poter essere la risposta a quel bisogno. Poteva davvero avere solamente un anno di differenza con il ragazzo steso su quel lettino?
    Non ci credeva. Qualcosa era andato storto. Un qualche meccanismo s’era inceppato nello sviluppo di Maeve, costringendo il corpo di una ventenne in una mentalità da pensione – non c’era altra spiegazione. Fremeva dal bisogno di dirgli di rimanere coricato, di smetterla di parlare per mangiare. Istintivamente allungò la mano per andare incontro alla sua, stringendola piano nella propria – ed abbassò il capo, colpevole, su quella stretta. «hai fatto tantissimo, più di quanto non avresti dovuto. più di quanto non avrei fatto io» Più di quanto non avrebbe dovuto? Innanzitutto, era stato un suo studente, il che implicava che la mancanza di prontezza in offesa o difesa, dovesse essere attribuita a lei; in secondo luogo, erano stati compagni: lei, per la barba di Merlino, era stata la sua caposcuola, e lui colui che aveva ereditato la sua spilla; in terzo luogo, era un ribelle: erano compagni per scelta, Isaac e Maeve – per un utopico, necessario, obiettivo comune.
    E per dio, era solo un ragazzo.
    Obbligo doveroso.
    «mi hai salvato Mae, ora ti tocca restare»
    Salvato la vita. Sospirò piano, il più debole dei sorrisi a spuntare sulle labbra della Corvonero come il primo raggio di sole a fendere le nubi. Inarcò un sopracciglio, accompagnando la mano di Isaac sul vassoio, dove la lasciò con delicatezza. «rimpiangerai di averlo detto, isaac» Avvicinò la sedia al letto con uno svelto movimento di bacchetta, quindi vi si lasciò cadere con eleganza, la schiena dritta e le caviglie incrociate fra loro. «e lo sai.» aveva resistito troppo. Iniziò a sprimacciare i cuscini sotto la schiena di Isaac, così che potesse rimanere seduto senza sforzare le ferite in via di guarigione. «non. muoverti. Troppo.» il lato positivo di avere Maeve come infermiera, era che certamente non rischiava di farlo ridere: aveva il senso dell’umorismo di un opossum morto, il che era dannatamente utile con i pazienti debilitati da ferite all’addome.
    Avrebbero dovuto assumerla ufficialmente, altroché.
    … magari non a breve, dato che aveva la sensazione di non andar loro particolarmente a genio.
    Incrociò le braccia al petto, la testa reclinata ed i capelli biondi a scivolarle sulla spalla. «quando avrai mangiato, ti darò la possibilità di rimanere vigile per ben mezz’ora, dopodichè sarai costretto a dormire; controllerò che le ferite non siano da disinfettare, porterò acqua fresca ogni ora – non si sa mai – e mi assicurerò che tu non faccia niente di stupido» Il sorriso che le curvò le labbra non fu affatto amichevole: le certezze della Winston andarono ricostruendosi in quella aspra piega della bocca, dove l’amaro del ghigno andò compensandosi nella morbida affettuosità delle iridi ghiaccio. Era una tortura a fin di bene, suvvia – come quando, ai tempi di Hogwarts, costringeva i Corvonero a portarle i riassunti di almeno due romanzi. Ogni mese. Lo faceva per loro. Un giorno, ne era certa, le sarebbero stati grati.
    Magari non l’indomani, ma sapeva essere paziente. «ricorda che è colpa tua,» inarcò un sopracciglio, sbattendo lentamente le ciglia. «se non ti libererai più di me.» che alla fine, a Maeve Winston, ci voleva davvero poco per tornare a brillare. Con le scintille ch’erano le parole altrui, si creava focolari dove rimanere al caldo per giorni – per mesi, per anni.
    Per tutta una vita.
    «io ti avevo avvisato.»
    E l’aveva fatto davvero. Ed era contenta, che lui non l’avesse ascoltata.
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