Once i was seven(teen) years old

Hogwarts 12 anni fa, tutti invitati <3

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  1. gryffindork
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    17 | gryffindork | quidditch captain | werewolf [2004]
    give me hope in the darkness that I will see the light
    Patrick Howe

    Ne era passato di tempo da quella notte in cui avevano accennato per la prima volta dell’argomento, con del whiskey incendiario nascosto tra i cuscini della sala comune in cui aveva fatto imbucare il Tassorosso. Essere capitano di quidditch aveva dei privilegi, tra cui il fatto che erano poche le persone che gli facevano troppe domande. Quindi se ogni tanto organizzava qualche festino non propriamente legale, riusciva ad evitare punizioni. Sia chiaro, aveva la sua bella sfilza di cicatrici dovute alle torture a memoria delle volte in cui non era riuscito a ‘salvarsi’, ma era difficile imparare dai propri errori, specialmente per una persona della sua testardaggine. In sostanza, una notte dopo una di queste festicciole clandestine, si era ritrovato a parlare con Phobos. Che sia stato l’alcol o la fiducia tra di loro, si erano fatti sfuggire entrambi di volersi unire ai ribelli di cui tanto si parlava e da allora il rapporto tra i due era decisamente migliorato. Mistero della fede come potessero ricordarsi e non avere un buco nero riguardo l’intera serata, forse si era trattato di semplice destino, per una volta. Da allora la ricerca si era fatta più accanita da ambo le parti, per riuscire a trovare uno strascico di informazioni riguardo ad un qualche nucleo della Resistenza. Sembrava quasi un miraggio irraggiungibile, ma la scena ad ogni nuova voce di corridoio era sempre la stessa. Uno dei due correva alla ricerca dell’altro, ovunque si trovasse (solitamente in cucina per Phobos ed al campo di Quidditch per Patrick), per raccontare ed eventualmente controllare insieme se fosse reale o meno. Quello era uno di quei giorni. Per questo il giovane licantropo aveva preso a correre per il castello, diretto verso l’entrata delle cucine. Era sempre stato pieno di speranze, Patrick Howe e più di ogni altra cosa odiava darsi per vinto. Che fosse nella vita o sul campo da Quidditch, dava sempre il cento per centro e non si tirava mai indietro, anche se poteva andarne della sua salute. Alcuni lo avrebbero considerato stupido, testardo ed istintivo e sicuramente avevano ragione. Eppure non era così male, vivere la vita con un malsano ottimismo. Si lanciò quasi contro l’entrata della cucina della scuola, un sorriso a trentadue denti sul volto del Grifondoro. «Phob, non crederai mai a cosa mi ha detto Max!» Si guardò intorno, alla ricerca del Tassorosso, eppure niente. Dove poteva trovarsi, se non in cucina? Dopo l’ultima volta che si era ritrovato dell’aceto addosso nel tentativo di entrare in sala comune, di certo non volevo provare di nuovo quella bellissima esperienza. Arrivò dopo qualche secondo, la realizzazione: era sabato, c’era un’uscita ad Hogsmeade e lui se ne era bello che dimenticato. «Merda.» E così come era arrivato nelle cucine, in un lampo era subito corso via da quel luogo. C’era chi avrebbe quasi potuto sostenere che lo slalom tra i primini era il suo sport preferito, viste le innumerevoli volte in cui finiva per perdersi in giro per il castello e lo vedevano tutti correre per i corridoi, pur di non arrivare in ritardo a qualche appuntamento o lezione. Spoiler alert: arrivava quasi sempre in ritardo. Non sarebbe stato Patrick Howe, altrimenti.
    Non aveva tempo -né voglia, se proprio doveva essere onesto- di tornare al suo dormitorio nella sala comune dei Grifondoro per recuperare dei vestiti decenti ed adatti al clima esterno. Quindi, come solo un testardo sapeva fare, aveva deciso di raggiungere il più velocemente possibile il giardino esterno, punto d’incontro per raggiungere la cittadina magica scozzese, indossando unicamente un maglioncino blu di lana e dei jeans. I capelli corti erano tenuti all’insù, per questo bisogna ringraziare Max, colei che gli aveva fatto scoprire l’esistenza del gel babbano. La sua corsa continuò fino al gruppetto di ragazzi di tutte le età sul punto di andarsene. Per l’ennesima volta, era riuscito a rischiare l’ennesimo ritardo sull’ora di incontro. Forse si era salvato a malapena? «ASPETTATE!.» un urlo, in direzione di professori e studenti presenti. Probabilmente non sarebbe stato affatto apprezzato, sarebbe stato meglio attendere il loro ritorno o la partenza del secondo gruppo, ma non poteva aspettare per dire a Phobos la grande novità. «PatrickHowesettimoannocisonoancheio.» Pronunciato tutto d’un fiato non appena si era fermato per riprendere il respiro. Lo sguardo saettò subito, tra tutti i volti più o meno conosciuti, alla ricerca dell’amico. «Phob!» Esclamò immediatamente, avvicinandosi al Tassorosso e provando a mettergli un braccio attorno alle spalle, finendo quasi per appoggiarsi totalmente sull’altro. Abbassò la voce il più possibile, sussurrando verso l’amico. «Ho novità.» Commento seguito da una pacca sulla spalla, prima di cominciare a dirigersi insieme agli altri verso la cittadine. Freddo, un po’ troppo, era stato uno stupido a credere che sarebbe potuto girare con così poco addosso. «Un salto ai Tre Manici di Scopa è d’obbligo.» Perché altrimenti muore assiderato, ma quello è un dettaglio insignificante. Si guardò in giro, alla ricerca di altri volti conosciuti, ad ognuno dei quali avrebbe fatto un qualsiasi cenno di saluto, o un sorriso.
    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code yb ms. atelophobia


    E dopo la mia azione orribile per aprire, ecco la role inception che promettevo da anni (?) a tutti voi *balle di fieno che rotolano*
    Ambientata nel 2004, credo. Un'uscita ad Hogsmeade per gli studenti *^* Quindi, se avete un pg nato in un anno tra il 1987 al 1993, potete infilarvi liberamente u_u
    Piccola nota: Gli '87 sono al settimo anno, '88 al sesto, '89 al quinto e così via fino al '93 che sono al primo anno.


    Edited by gryffindork - 8/1/2017, 21:15
     
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    «lo sai cos’è questo?» la voce era arrivata carezzevole, troppo carezzevole, alle spalle della Hamilton. Qualcosa le aveva sfiorato le spalle, sfuggevole come una distratta carezza di cuoio, e Rea era rimasta immobile. La schiena dritta, lo sguardo vacuo ed apatico, le labbra serrate. Lo sapeva. Una mano si strinse attorno al suo collo, spingendola contro il muro di pietra della sala delle torture. Non si lasciò sfuggire neanche un gemito, mentre gli occhi scuri guizzavano sul ragazzo, un Tassorosso, dell’ultimo anno, che come aveva avuto il piacere di scoprire era il nuovo apprendista torturatore. Dalla sua esperienza, aveva constatato che i giallo neri, presi in giro dai più fra le mura di Hogwarts, erano quelli più aggressivi, forse perché si sentivano in dovere di dimostrare qualcosa agli altri. Era un’occhiata fredda e laconica quella della piccola Hamilton: se pensava di poterla impressionare con così poco, aveva sbagliato vittima. Era il suo terzo anno in quel posto, ed era da tre anni, ormai, che conviveva con quello stato di sangue: nata babbana. Indegna dei maghi, troppo sporca per i babbani. Se avesse pensato che piangendo sarebbe riuscita ad evitare quello che lo attendeva, l’avrebbe fatto; non le importava che credessero di aver vinto, perché, già a tredici anni, Rea sapeva che sarebbe stata una vittoria breve. L’avrebbe fatta pagare, a tutti quanti. Non sapeva quando, e di certo non come, ma era una certezza. Fosse l’ultima cosa che avrebbe fatto. Continuò a tacere, mordendosi la lingua fino a sanguinare, mentre le dita premevano contro la trachea. Sarebbe rimasto il livido – di nuovo. «ti ho fatto una domanda» un sorriso sorse spontaneo sulle labbra sottili ed ironiche della mora. Il cuore le batteva con forza contro le costole, mentre una parte di lei trovava quasi confortante trovarsi bloccata. Erano passati anni, ma la libertà era ancora qualcosa che le sfuggiva, come un gioco al quale ormai si era assuefatta. Avrebbe voluto rispondere che fra i due era lui quello che vestiva i colori di una casata sforna biscotti, non lei; che lui, purosangue e quasi uomo, sarebbe sempre stato incastrato dalla nomea dolce dei Tassorosso, malgrado ciò che avrebbe potuto fare nella sua vita. Ma perché umiliare qualcuno che, solo respirando, riusciva già ad abbassare la media del quoziente intellettivo nella stanza? Senza contare che, al momento, aveva lui l’arma dalla parte del manico. Non conveniva farlo arrabbiare più di quanto non fosse necessario. «lo so» rispose arrogante, con il sorriso più dolce e lo sguardo più vacuo. Quello che Humphry Flanagan non sapeva, era che alla Hamilton non sfuggiva nulla. Il primo anno l’aveva segnata più profondamente di quanto mai sarebbe stata disposta ad ammettere, gli occhi al soffitto e le lacrime ad asciugarsi sulle guance. Quei polsi troppo liberi, quel labirinto senza via di fuga. Era sola al mondo, Rea Hamilton, un pesce fuori da acque che, in ogni caso, non le appartenevano. Il secondo anno, l’aveva strappata. Della Serpeverde non era rimasto che un involucro, vuoto di qualunque cosa, che giorno dopo giorno aveva cominciato a riempirsi con una fredda, raggelante, rabbia. Non aveva mai provato quella rabbia: aveva sofferto, aveva pianto, aveva pregato un Dio che, secondo i genitori, non meritava. Era stata felice, la bambina dal sorriso sghembo e le mele nascoste sotto l’ampia gonna gialla. Ma quello? Era qualcosa di diverso. Pur essendo freddo, la scaldava dalla punta dei piedi alle guance, che si colorivano lasciando gli occhi lucidi. Il respiro diveniva affannato, priva ancora del controllo su un tale gigantesco fardello di ira senza sbocco. Una scarica di adrenalina che la metteva in allerta, affinando i sensi, rendendola consapevole di ogni lezione, ogni cosa appresa. Come il Tassorosso, Rea Hamilton doveva dimostrare qualcosa – più agli altri, che a sé stessa. Doveva dimostrare di essersi meritata un posto in quella scuola, che la loro era solo invidia. Non solo poteva essere al loro livello, lei era migliore. Dopotutto lei non era umana, giusto? Era una Creatura Perversa. Se non era abbastanza umana, significava che avrebbe dovuto diventare abbastanza mostro. E li aveva osservati: i loro movimenti, agili ed aggraziati, nell’aula di corpo a corpo; la loro passione, tenace ed illibata, nella classe di arti oscure. I loro sorrisi, quando il sangue di lei imbrattava i pavimenti della sala delle torture; le loro risate, quando le stridevano nelle orecchie rimbalzando nelle ossa. Ed aveva immagazzinato, Rea Hamilton.
    Perché Rea Hamilton ricordava, sempre.
    Humphry Flanagan, settimo anno, Tassorosso. Aveva perso la carica di capitano quidditch contro una del quinto anno, mezzosangue; eccelleva in scherma, ma era carente nel corpo a corpo. Arti Oscure accettabili, ma troppo esagitato per essere bravo in Incantesimi, figurarsi Trasfigurazione. Irascibile e distratto. Mentre lui si impegnava nel tormentare le matricole, Rea si esercitava. Tornava nel dormitorio dopo il coprifuoco, il corpo coperto da lividi bluastri ed i muscoli doloranti. Era cominciato tutto l’anno prima, quando qualcuno aveva esagerato. Non l’avevano solo torturata, sarebbe stato magnanimo; non le avevano preso solo la libbra di sangue, ma anche quella di carne. L’avevano umiliata, ed avevano riso facendolo. Spezzata, mentre i singhiozzi taciuti le scuotevano le spalle troppo magre, mentre le denunce rimanevano incastrate fra i denti. Vincolata, Rea, da quel bisogno di lavarsi di ogni cosa, consapevole che il sapone non sarebbe mai bastato. Non aveva detto nulla alle autorità, perché erano cose che succedevano. Perché sarebbe stata, in qualche modo, colpa sua. Si era chiusa ancor di più in sé stessa, strappandosi il sorriso che era riuscita a ricavarsi in quell’angolo di oscurità. Aveva perso ogni innocenza, e nel modo più terribile che fosse umanamente concepibile. Non aveva potuto combattere, perché non aveva avuto armi.
    Non le aveva ancora, ma le avrebbe avute. E loro avrebbero pagato.
    «ho sentito dire che non ti vogliono più in squadra» Esordì con voce cristallina, piatta quanto il delicato sorriso sulle labbra che, solo un poco, lasciava trapelare il dolore. Humphry strinse i denti, ed impercettibilmente aumentò la presa sul collo di Rea, che si ritrovò a deglutire convulsamente. «ti tolleravano solo perché tuo padre è un ministeriale, ed aveva corrotto il preside per farti avere il ruolo. Addirittura i tuoi compagni di squadra ti trovano deplorevole, nonché incapace. Perfino io saprei prendere più palle di te» La stretta si allentò, mentre una risata perfida brillava negli occhi chiari di Humphry, la mano libera a scivolare verso il basso dove lo sguardo della Serpeverde non riusciva, fortunatamente, ad arrivare. «già, me l’hanno accennato» Un brivido cercò di costringerla a serrare le palpebre, ma si obbligò a tenere gli occhi aperti mostrandosi impassibile. Non che avesse molta altra scelta: se avesse potuto tornare a casa, l’avrebbe fatto. Se avesse potuto scegliere una vita diversa, l’avrebbe fatto. Se avesse potuto essere Charlotte, lo sarebbe stata. Ma non aveva una casa, l’avevano privata di ogni decisione, e di certo non era Charlie. Lasciata in pasto ai leoni, per vedere chi sarebbe sopravvissuto.
    Aveva solo tredici anni e mezzo, Rea Hamilton. Ma nel suo sguardo, c’era qualcuno di molto più vecchio. E c’era la consapevolezza, taciuta ma nitida nelle iride cioccolato, che i leoni avrebbero dovuto cominciare a correre. Fece due cose contemporaneamente: lasciò scivolare le mani sugli avambracci del Tasso, e si spostò di lato in modo da avere alle proprie spalle la parete con le armi. Dovette reprimere il disgusto che quel contatto le provocò, celare l’irrigidirsi delle membra. Aveva deciso così, Rea: nessuno l’avrebbe più toccata senza il suo permesso, il che significava che, talvolta, avrebbe dovuto essere lei a prendere l’iniziativa. La violenza aveva più d’un aspetto, così come l’abuso; non era ancora in grado di trasformare la fame di sangue in lussuria, ma ad un diciassettenne non serviva un particolare potere di seduzione. Aveva grandi occhi e pelle d’alabastro, piccole labbra carnose e le prime dolci curve dell’adolescenza, ancora morbide ed appena abbozzate. «ti chiamano Lolita, e solo per non dire puttana. Ti eccita la sala delle torture?» per quanto sembrasse assurdo, erano frasi del genere a farle pungere gli occhi dal pianto. Non le percosse, non i tagli inferti su una carne cedevole. Non le maledizioni, non le angherie. Erano frasi così, che continuavano a ricordarle quanto le avessero tolto ogni cosa, compresa la propria dignità. Impotente. Debole.
    Vittima.
    Per un secondo, colpita fisicamente da quell’affermazione, tentennò. A tredici anni, poco più di bambini, nessuno avrebbe dovuto sentirsi appellare in una maniera tanto rozza, men che meno quando la ragazzina chiamata in causa non aveva avuto possibilità di rifiutare. La rabbia rizzò la testa irsuta, facendole sfuggire un ringhio fra i denti; fasciò la mano destra nella frusta di Flanagan, mentre con la sinistra premette con forza le dita contro la trachea del ragazzo, tirandolo verso di sé ed aumentando così la pressione. Non poteva contare sulla forza, ma aveva dalla sua l’agilità, ed una furia al quale il Tassorosso non avrebbe mai sognato d’avvicinarsi. Così la Serpeverde riuscì ad appropriarsi dell’arma ed a liberarsi abbastanza da sfoderare la bacchetta, con la quale legò il giovane prima ancora che potesse capire le intenzioni di lei. Razionalmente, di intenzioni, non ne aveva. Voleva solo essere lasciata in pace, era chiedere tanto? Erano stati loro a crearla. Avrebbe potuto essere un’ombra fra le ombre, invisibile fra gli invisibili. Loro l’avevano strappata a forza dal muro nel quale aveva cercato di mimetizzarsi, costringendola alle luci della ribalta. Se dapprima aveva dovuto abituarsi al cambio di luminosità, rimanendo inerme sotto le loro mani, non significava che la situazione non avrebbe potuto cambiare. Avrebbero dovuto immaginarlo. «ora sì» rispose alla domanda del Tassorosso, sferzando la frusta nell’aria. Era un’arma piacevole, quando era la propria mano a stringere il manico. Si muoveva nell’aria con una delicatezza ed una forza che la Hamilton avrebbe paragonato solamente al morso, rapido e deciso, d’un serpente. Quando lo colpì la prima volta, dovette retrocedere d’un passo. Non era mai stata dall’altra parte, e non voleva esserci. Non ancora. Un sussulto. Cosa stava facendo? «tu, sangue sporco, come osi…» Vabbè, in pratica la stava pregando di continuare. Cominciate a prendere appunti, castafratti, perché era proprio a quell’esatto momento che Rea avrebbe cercato, con gli anni, ad abituarvi. In quell’istante, però, aveva solo paura. Poteva permetterselo? No. Se si fosse lasciata sopraffare dal terrore, non sarebbe uscita illesa –sempre che ne fosse uscita. Così avanzò d’un altro passo, colpendo con un calcio il volto del Tasso. Il sangue schizzò sul pavimento, rosso quanto quello di Rea, o di qualunque altro sangue sporco. Fu lì, in quel battito di ciglia, che Rea sorrise.
    Fu lì, che nacque il mostro.
    Perché quando si supera la paura, quando il dolore, e la rabbia, diventano un tutt’uno, non rimane che una cosa.
    Vendetta.
    Un secondo, ed un terzo, ed un quarto colpo seguirono il primo. Ogni frustata alimentava quella successiva, mentre le braccia cominciavano a dolere ed un grugnito sfuggiva dalle labbra ad ogni colpo. Rivide Charlotte, rivide gli occhi spaventati di Amos. Rivide la Creatura Perversa che i suoi genitori avevano millantato fosse, e comprese che avevano ragione. Rea non era come loro, non lo era mai stata.
    Rea era migliore.
    Ed il più forte schiacciava sempre il più debole.
    Lo stai uccidendo! Ma perché diamine la sua coscienza aveva la voce di Elijah Dallaire? Neanche le piaceva, l’amico del Lowell. D’altronde non le piaceva particolarmente neanche il Lowell, come non le piaceva il Jackson. Era difficile piacere a Rea Hamilton, ma almeno loro le non piacevano meno degli altri. Avevano il dolce profumo della debolezza, e se riusciva a fiutarlo lei, che era poco più in alto di loro nella piramide alimentare, non osava immaginare gli altri. Chucky guarda, serpeverde e tassorosso! quelli potremmo essere noi fra qualche anno. Un conto era la sua biondocoscienza, ma cominciare a sentire anche la conversazione fra Euge, che si credeva un bullo brillante, ed il suo Fat boy preferito, era eccessivo; perfino la voce carica di smania, come se la prospettiva fosse entusiasmante. Forse aveva superato il limite. Forse stava davvero impazzendo. Al nostro appuntamento non porti la frusta, vero? No che non porto la frusta! Quindi esci con me? Chiedimelo domani. Sarà un sì?
    Il fatto che fosse tutto nella sua testa, non le impedì di rispondere a Nate ad alta voce. «no» Una mente ancora fragile che cercava, malgrado tutto – malgrado lei- rifugio nelle abitudini di quella vita. Nessuno, figurarsi Rea, aveva –né mai avrebbe- compreso perché passassero tanto tempo insieme. Non c’era nulla a legarli, nulla che li accumunasse. Eppure.
    Eppure.
    Reclinò il capo, il petto che s’alzava ed abbassava troppo rapidamente. Languida in quel movimento, come se avesse potuto vantare tutto il tempo del mondo. L’adrenalina le impediva di sentire il dolore, mentre il sangue di Humphry si raffreddava sulle sue dita, sporcandole le calze bianche della divisa. Non c’era nulla se non il respiro di Rea, i gemiti strozzati del ragazzo a terra. Un luogo fatto di rumore bianco, nel quale la Hamilton aveva cominciato a trovarsi a proprio agio; passiva ed attiva, agente ma intoccabile dalle proprie, ed altrui, azioni. Ed un vago, ma persistente, piacere. L’idillio venne spezzato dallo sputo del Tassorosso, che solo per poco non le imbrattò la punta delle scarpe. Alzò il piede, schiacciando la gola del ragazzo contro il pavimento. Una spinta più forte, e sapeva che avrebbe potuto rompergli la trachea. Un’altra sferzata con la frusta, e sapeva che sarebbe stata in grado di scoprirne le carni, lasciando visibili parti anatomiche che non avrebbero mai dovuto vedere la luce. Era una consapevolezza puramente aggettiva, uno studio accademico. Non c’era sentimento, non c’era nulla. Avrebbe potuto farlo, così come no. Era la prima volta che si trovava a dover scegliere, libera da ogni contatto empatico con la realtà. In entrambi i casi, non le sarebbe cambiato niente.
    Fu quello a fermarla.
    Lasciò cadere la frusta con un sonoro schiocco sul pavimento, colpendo con la punta del piede il mento del Tassorosso. Si era premurata di allontanare la bacchetta dal Tasso, ed in quel momento decise di allontanarla ulteriormente, così che chiunque fosse arrivato l’avrebbe trovato in quelle condizioni. E si sarebbe sentito in trappola, perché non avrebbe potuto dire, per amor proprio, di essere stato messo k.o da Rea; non avrebbe potuto denunciarla, perché sarebbe stato degradante ed umiliante. Ecco cosa succedeva a sottovalutare la propria vittima. Un sorriso, tanto sincero quanto oscuro, brillò nel suo sguardo e sulle sue labbra, facendola sembrare la ragazzina che, a conti fatti, avrebbe dovuto essere. «dovremmo rifarlo qualche volta» Si baciò la punta delle dita e gli soffiò un bacio, salutandolo poi con goduriosa enfasi. Un mugolio attirò la sua attenzione su una ragazzina della quale si era completamente dimenticata, i polsi incatenati alla parete e le ginocchia strette al petto. I grandi occhi azzurri si spalancarono quando Rea fece per avvicinarsi, e la Hamilton non riuscì a celare la stizza, rimanendo immobile. L’aveva... spaventata? Aveva fatto tante cose, ma suscitare terrore era qualcosa che la trascendeva. Non pensava che avrebbe mai visto un espressione del genere su qualcuno, qualcun altro: perché, alla fine, non era poi diverso da come l’avevano sempre guardata i suoi genitori. Qualcosa, inevitabilmente, si ruppe. Forse fu proprio quello il giorno che decise, una volta per tutte, il destino della Hamilton. O, forse, era sempre stato così, e quello era esattamente il posto dove avrebbe dovuto trovarsi, quello che finalmente le apparteneva. Indossò quell’aura come un guanto, fasciandosene fino a sentirla straripare, credendo di poter volare. Sempre sorridendo si chinò accanto a lei, allungando una mano per spostarle una ciocca di capelli biondi dalla fronte. Quando la ragazzina si allontanò di scatto, per Rea divenne un gioco: affondò le dita nella chioma chiara di lei, obbligandola ad incontrare il proprio sguardo. Non doveva essere confortante, non era lì per quello. Non lo sarebbe mai stata. «se continui a piangere, ti lascio come spuntino per quando si sveglierà. Vuoi rimanere qui?» la bambina scosse il capo velocemente, obbligandola ad allentare la presa per non farle male. Gli occhi, ancora spaventati, vantavano però una sicurezza che neanche le lacrime, ancora umide sulle guance, riuscivano ad intaccare. «bene» la slegò, senza invitarla a fare un salto in infermeria. Il destino della Grifondoro non solo non la riguardava, ma sinceramente neanche le interessava. Le diede le spalle, avviandosi lungo il corridoio prima che qualcuno potesse notare la sua assenza, che senza Flanagan come testimone sarebbe stata ingiustificata. Una piccola mano la trattenne per un polso, obbligandola a lanciare un’occhiata di sottecchi alla ragazzina. «gr- grazie»
    Con le labbra dischiuse a mostrare i denti, Rea sorrise. «non ringraziarmi»

    I tremiti erano cominciati in sala comune, ed erano continuati sotto la doccia, mentre con acqua troppo calda cercava di lavare le tracce cremisi lasciate dal sangue di Flanagan. La divisa era stata abbandonata ai piedi del letto, i vestiti per la gita posati con cura sulla trapunta smeraldo. E lei era lì, sotto il getto bollente, incapace di fermare i tremori. Eppure non sentiva niente. Si guardò allo specchio, tracciando gentilmente i segni dei lividi sul corpo. Un giorno, sarebbe tutto finito. Un giorno, quei lividi non sarebbero stati che l’ennesimo brutto ricordo. E non sentiva niente. Era un mondo strano, perverso sotto diversi punti di vista. Un mondo che scalfiva, con lentezza e durezza, finchè non otteneva la forma desiderata. La Hamilton era solo un altro vaso d’argilla, plasmata da una storia scritta da altri. Ma non aveva importanza, non poteva averne. Doveva semplicemente smettere di pensare, abbracciare le modifiche del tempo fino a quando non se ne fosse appropriata. Doveva solo accettare di essere un soldato: non c’erano bambini, non c’erano mai stati. Non per loro, non loro.
    Indossò un paio di pantaloni neri, asciugando i boccoli cioccolato che arrivavano ormai fin sotto la vita, di un colore così caldo e lucido da avere vita propria. Una camicia smeraldo ed un maglioncino nero (nda: hamilton is the new black since sempre), un paio di comode ed eleganti scarpe, la sciarpa dei Serpeverde ben legata al collo per nascondere i segni, e non v’era più traccia della ragazzina spaventata, o di quella sporca di sangue ed urla altrui. Era semplicemente Rea Hamilton, sopracciglia cinicamente inarcate ed un sorriso in grado di sciogliere il cuore più duro. Beh, cosa ci volevate fare, era sempre stata bellissima ed adorabile. Un talento naturale. Con un gesto secco, lanciò la chioma dietro la schiena, scendendo nella sala comune. La prospettiva di uscire dal castello, come ogni anno, riusciva quasi ad entusiasmarla. La lista si stava allungando, e con niente di positivo, ma erano poche le cose che riuscivano a donarle un sorriso sincero, un’allegria che per diritto avrebbe dovuto appartenerle. Erano poche le cose a farla sentire ancora giovane.
    Bullizzare Eugene Jackson, era una di quelle.
    Si fermò di fronte a lui, ed incrociando le braccia sul petto lo squadrò dal basso verso l’alto, una smorfia quando i capelli biondi fecero la loro entrata nel suo campo visivo. Non ne bastava uno di biondo, no; ora erano in due. Senza contare Henderson, biondo dentro e di natura. Ah, si era scelta una sfida devastante e faticosa. Fortuna che le piaceva vincere. Sorrise al Serpeverde, sbattendo languidamente le ciglia, quindi prese gli occhiali e li soppesò fra le dita, prima di infilarglieli con non troppa delicatezza. «carini» commentò, piegando il capo. «sono per vedere con più nitidezza il prossimo che cercherà di romperti il naso?» E no, signori e signori, non glieli spezzò, e proprio per il motivo sopracitato: chi era lei per privarlo del piacere di vedere in HD i bulli dell’ultimo anno mentre lo prendevano in giro?
    Ah già, era Rea Hamilton.
    Ma non li ruppe comunque.
    Mentre scendeva le scale, venne fermata dalla ragazzina che aveva incontrato in sala delle torture un’ora prima. «tieni» le lasciò fra le mani una scatola di gelatine tutti i gusti + 1, e fuggì prima di ricevere una qualsivoglia risposta (che, comunque, non sarebbe arrivata). Comprese così che c’era ben più d’un modo per ottenere ciò che desiderava, e che salvando qualcuno poteva trarre più benefici che abbandonandolo a sé stesso. Altruismo? Generosità? State guardando l’Hamilton sbagliata. Quando giunsero al punto d’incontro, Rea smollò il dono appena ricevuto, non le erano mai piaciute le caramelle, fra le mani di Elijah e Nate, che per fortuna di quest’ultimo erano già arrivati a destinazione: sapevano tutti, e per esperienza, cosa sarebbe successo se fossero arrivati in ritardo. «poi non dite che non vi penso mai» esordì melliflua, regalando loro un sorriso che giunse perfino agli occhi, illuminandoli brevemente di una sincerità che, sin da giovane, raramente brillava sul suo volto. Non sapeva se amici fosse la parola giusta per definire il loro legame, ma Rea non aveva un concetto sano di amicizia. Per i suoi standard, lo erano. Ricordava quando aveva conosciuto Nate, un ragazzino tutto ossa e sorrisi sbilenchi; ricordava l’incidente, il modo in cui il suo sguardo si era indurito ed il sorriso s’era fatto più forzato, più carico d’ironia che di sincero divertimento. Ricordava di non aver fatto niente, rimanendo ad osservare; ricordava di aver scelto di non voler cambiare, di non voler aggiustare qualcosa che non era rotto, e di non aver fatto una piega quando Lowell era diventato Henderson, come se fosse sempre stato così. Era pur sempre Nate, anche se a Rea non era mai stato chiaro cosa avesse visto in quel ragazzino. Riusciva a farla sorridere, e non aveva mai voluto niente da lei (appuntamenti esclusi). Ricordava quando le aveva presentato Elijah, come se a lei fossero mai interessate le sue amicizie (o forse sì? Magari c’era più di un motivo se il Dallaire non le piaceva). Le era bastato incontrare gli occhi chiari del Grifondoro, abbassando le palpebre sulle proprie iride scure, per capire che non sarebbero mai andati d’accordo. Trovava… ingiusto quel suo sorriso rivolto a chiunque, i gesti distratti nell’assicurarsi che tutti stessero bene, la risata troppo allegra ed il soffermarsi, con insistenza ed intensità, su ciò che lei –che loro- reputavano lecito e giusto. Non si erano mai ritrovati d’accordo su niente, Elijah Dallaire e Rea Hamilton, eppure era l’unico a capire sempre quando qualcosa non andava. Doveva essere una specie di sesto senso, la mora non l’aveva mai compreso. O forse erano gli altri a fingere di non vedere, nascondendosi dietro affabili battute e sigarette rubate ai ragazzi più grandi. Ricordava quando l’anno prima, dopo il fatto, era tornata come se nulla fosse insieme agli altri, che da poco avevano deciso che erano tutti amici e si volevano tanto bene. Si era seduta lontano da tutti, come suo solito, ed aveva piantato strenuamente lo sguardo a terra; il che, come tutti avrebbero potuto testimoniare, non era diverso da qualsiasi altro loro incontro. Eppure, lui sembrava lo sapesse. «qualcosa non va?» «no» e si era allontanata di scatto, come un animale ferito, quando Elijah aveva cercato di poggiarle una mano sulla spalla. «non farlo» «cosa?» «non siamo amici» aveva ribattuto, evitando accuratamente la domanda. «non pensare il contrario» Ricordava di essersi alzata, e di essersene andata senza salutare. Come sempre. Ricordava quando Eugene Jackson era entrato nella loro vita; se l’erano ritrovato appresso senza neanche rendersene conto, con quegli occhiali troppo spessi ed uno sguardo furbo che puntava molto più in alto di quanto potesse arrivare. Le aveva sempre dato la sensazione che avrebbe potuto conquistare il mondo, se solo ne avesse avuto voglia; di quelli che se fossero stati più volenterosi, avrebbero potuto costruire un fortino con una scatola di fiammiferi. Ma aveva imparato presto, e senza sapere come!, che a lui non importava abbastanza, e preferiva applicare le proprie energie nello shipper club rivale a quello di Nathaniel. Scrollava le spalle, come se quella fosse una spiegazione, e si spingeva quegli insulsi occhiali sulla punta del naso. Ricordava di essersi trovata a difenderlo, proprio lei!, fra le mura verde argento della loro sala comune (ovviamente quando Euge non era nei paraggi, e se gliel’avessero chiesto, Rea avrebbe negato). Si rendeva conto che erano irritanti, fastidiosi, ed una palla al piede. Ma anche lei, all’interno di Hogwarts, aveva bisogno di supporto, giusto? Senza contare che non riusciva più ad immaginare le sue giornate senza di loro, ed era una prospettiva così terrificante da averla spinta, più di una volta, a trattarli peggio di quanto non fosse lecito. In realtà, la vera domanda era come facessero loro a sopportarla. Per quella, però, aveva una risposta: era favolosa. Forse se avessero saputo chi fosse la vera Rea Hamilton, non lo sarebbe stata – perlomeno, non ai loro occhi. Ma era quello il bello della loro amicizia: a loro non importava, e Rea non voleva che a loro importasse. Hogwarts, nel male e nel peggio, era il suo nuovo inizio. Un luogo di cui si sarebbe appropriata, prima o poi, perché le spettava di diritto. Diritto. Una casa dove avrebbe potuto essere… non sé stessa, e neanche libera. Semplicemente, essere.
    Ed a proposito di essere. Se c’era qualcuno con cui condividere l’aria da bulla, e che potesse effettivamente supportarla (perché i castafratti non erano ancora a quel livello), quella persona era Anjelika Queen. Quarto anno, capelli rossi, e due occhi che davvero avreste voluto incontrare sempre o mai nella vita, senza mezze misure. Rea ne era rimasta affascinata, decidendo presto che era lei quello che voleva essere, non gli Spankman. Era quel genere di vita che si meritava. Così le sorrise, assottigliando leggermente le palpebre, sapendo che lei avrebbe capito. Anche Anje, d’altronde, aveva un concetto peculiare di amicizia e divertimento.
    Si potevano dire tante cose, di Rea Hamilton, ma non che non sapesse come divertirsi. Il punto era: quanto era divertente per gli altri? Di solito poco.
    A volte, dannatamente tanto.

    Il tizio che era giunto, sorridente e di corsa, aveva ritenuto opportuno salutare educatamente tutti loro con un cenno del capo, guadagnandosi un’occhiataccia a sopracciglia inarcate da chi ti conosce non guardarmi neanche. Per il resto, quello che accadde nel tragitto restò nel tragitto, perché a noi non importa – figurarsi a Rea. Quando arrivarono finalmente ad Hogsmaede, la mora aveva già adocchiato il suo passatempo della giornata. Non ci voleva un genio per comprendere come funzionasse la scala gerarchica ad Hogwarts, e la Hamilton aveva un’intelligenza, per ovvi motivi, superiore alla media. Se voleva uscire dalla mugglezone, doveva cominciare ad uscire con un ragazzo più grande che le assicurasse, con la propria fama, una reputazione sulla quale ella avrebbe costruito la propria. Machiavellico, ma una ragazza doveva pur fare qualcosa quando, stretta al lenzuolo, attendeva che le ferite smettessero di sanguinare. E poi era così carino, con quegli occhi scuri e la sicurezza di chi ha il mondo ai propri piedi. Unire utile e dilettevole era solo una delle sfaccettature che con il tempo sarebbe stata in grado di ampliare, ma questa è un’altra storia. Indicò Nicklaus Barrow con un cenno del capo ad Anjelika, rivolgendole il sorriso, sapendo ch’ella avrebbe compreso. Frequentava il sesto anno, era un Corvonero, e tutti lo ammiravano. Se pensate che una nata babbana del terzo anno non potesse avere alcuna possibilità, non avete mai conosciuto Rea Hamilton: datele un obiettivo, e lei lo raggiungerà. Sempre. Seguì la folla ai Tre Manici di Scopa, fermandosi solo brevemente all’entrata per stringere l’avambraccio di Eugene e Nate, tirandoli a sé con un apparente sorriso dolce ed una minaccia di dolore negli occhi scuri. Li avvicinò abbastanza da sussurrare al loro orecchio, fingendo che quello fosse un semplice abbraccio fra amici. «se mi mettete in imbarazzo, troverò il modo per farvela pagare. E non vi piacerà» Rise, come se avesse appena detto una battuta esilarante, e scoccò un bacio sulla guancia di Jackson. Perché sapevano tutti, tutti, che l’avvisaglia era rivolta principalmente a lui. Più che altro, le sarebbe spiaciuto più che agli altri fargli male. Con Nate ormai era abitudine, perché privarli entrambi di quei rari momenti d’affetto come solo loro sapevano fare?, e con Elijah avevano raggiunto una tregua amichevole. Lanciò un’occhiata di intesa ad Anjelika, quindi si avviò verso il bancone, dove il Barrow stava ordinando da bere. Maggiorenne, avvenente, e purosangue: cosa poteva desiderare di più un’arrampicatrice sociale come Rea? «ne prendi uno anche a me?» domandò, guardandolo di sottecchi, rivolgendogli il più mielato dei sorrisi mentre il piede disegnava un cerchio per terra. Guardatela, la reincarnazione dell’innocenza, mentre chiedeva alcool in modo abusivo! Si alzò sulle punte per baciargli la guancia, il calore del sorriso ad illuminare uno sguardo già spezzato, ma non irrecuperabile. Non c’era più neanche l’ombra delle torture, subite ed inflitte; non c’era posto per troppe ree, dietro le iridi cioccolato. «ti aspetto al tavolo» concluse, girando su sé stessa senza tralasciare un colpo di chioma, che faceva sempre un certo effetto. Ammiccò ad Anjelika indicandole il tavolo con una riverenza, così che potesse scegliere quello che preferiva dove avrebbero potuto sedersi, e non potè non fare un occhiolino al resto dei Castafratti, inarcando le sopracciglia allusiva. Guardate ed imparate, plebe.
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    Allora, è stato difficile ma ce l'abbiamo fatta.
    Rea è nata a Novembre del 1990, quindi frequenta con i 1991 pur avendo un anno in più; ciononostante, essendo la gita ambientata in Primavera, ha ancora 13 anni.

    Interagisce con: Euge, Nate e Eli, Anje, e Nick


    Edited by rea/l life ruiner - 20/5/2016, 01:11
     
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    «Devo proprio farlo, Jack?» la vocetta somigliava pericolosamente ad un pigolio, e per un istante Euge temette di avvertire un principio di lacrime in sottofondo. Forse, se il bambino seduto di fronte a lui fosse scoppiato in un pianto a dirotto, avrebbe lasciato perdere, ma quella piccola palla di ciccia stretta nell'uniforme dei Tassorosso non era sull'orlo di una crisi isterica. Seguiva Eugene come un'ombra, affascinato dal fatto che il dodicenne frequentasse ragazzi e ragazze di tutte le casate e fosse accettato da quelli più grandi - vedi Cole -, e mai prima di quel momento si era lamentato oltre ad un certo punto. Certo, tentava timidamente di sottrarsi alla sua sorte, ma senza mai davvero insistere puntando i piedi. Insomma, se non era il ragazzino a lottare per la propria dignità, per quale motivo avrebbe dovuto pensarci il Jenkins Jackson? «Ti ho mai dato un motivo per non fidarti di me, Chuck?» «Veramente--» «Era una domanda retorica, bombolo, per Morgan. Adesso ciancio alle bande e bando alle ciance, dacci dentro ragazzone.» si sarebbe sfregato volentieri le mani, se solo non fossero state occupate a tenere sospeso a mezz'aria un vassoio circolare, sul quale stava poggiata trionfante ed esagerata una torta al cioccolato grande quasi quanto il Serpeverde stesso. Convincere gli elfi a prepararla era stato uno scherzo e altrettanto facilmente aveva persuaso Chucky a mangiarsela tutta, anche a costo di vomitare l'anima.
    A dirla tutta, si trattava di un vero e proprio esperimento scientifico: quanta poteva mandarne giù prima di stare male? lo stomaco sarebbe realmente scoppiato come in un film splatter di serie b o il ragazzino avrebbe semplicemente passato in bagno le successive cinque ore? Se ve lo state chiedendo, aveva preso ispirazione da un film babbano che lui e Delilah si erano sorbiti da bambini almeno una quindicina di volte, dove un tal ragazzino di nome Bruce Pappalardo - a real hero - finiva una mega torta ricoperta di glassa al cioccolato senza quasi batter ciglio. Dopo quella scena urgeva una prova pratica sul campo, e quale miglior cavia del primino Tassorosso?

    ****


    So che volete sapere come l'esperimento di quella mattina fosse andato a finire, e se Eugene avesse realmente ottenuto i risultati sperati, quindi ve lo dico. Per un istante, dopo che l'ultima fetta di torta aveva cominciato il suo viaggio attraverso lo stomaco del Tessorosso per raggiungere le sue compagne in attesa di un principio di indigestione, Jack si era sentito invadere da una montata di cocente delusione, nel notare quanto la sua piccola vittima sacrificale sembrasse fresca come una rosa - more or less - nonostante la scorpacciata da guinness dei primati, al punto da arrivare a leccare via da quelle ditina tozze i residui di cioccolato, ma poi Chuck aveva commesso l'errore fatale e la giornata di Euge si era rischiarata. E con errore intendo afferrare con ingordigia una gelatina rimasta non si sa bene da quanto tempo nella tasca della divisa, ingoiandola in un sol boccone. Impossibile dire se si fosse trattato del gusto scelto o del fatto che quell'unica caramella aveva rappresentato la classica goccia che fa traboccare il vaso, e comunque al serpeverde non importava. L'unica cosa a contare veramente era stata la conseguenza di quel gesto sconsiderato: lo stomaco di bombolo aveva lanciato un gorgoglio di pura disperazione, mentre il volto paffuto sbiancava assumendo una colorazione tendente al verdognolo, giusto un attimo prima che la torta glassata e non ancora digerita tornasse prepotentemente in superficie. Che spettacolo divino era stato!
    COME HERE FAT BOY, COOOOME HEEEEEREEE (8) cantare a squarciagola rientraava nel modus operandi di Eugene, al punto che le teste intorno a lui nemmeno si voltarono per controllare a chi appartenesse quella voce lievemente gutturale, ma particolarmente intonata. Dopotutto, aveva passato anni durante le scuole babbane ad esercitarsi con le canzoni delle Spice Girls, mica sticazzi. Sistemò velocemente gli occhiali dalla montatura spessa spingendoli sul naso con il dito medio, mentre un affaticato Charles Bartowski (#wat) detto Chuck gli arrancava dietro nel tentativo di tenere il passo. Probabilmente il tasso soffriva di Sindrome di Stoccolma, altrimenti non si sarebbe spiegata la sua infinita voglia di stare alle calcagna del Jackson - soprattutto dopo lo scherzetto della torta -, senza nemmeno una bacchetta puntata alla gola. Valle a capire, 'ste matricole. Il dodicenne si arrestò improvvisamente, causando cosí un lieve tamponamento da parte del Tassorosso alle sue spalle, il mento sollevato e le braccia aperte a mezz'aria. Chucky, non credi che dovresti per lo meno corteggiarmi un po', prima di poggiarmelo? chiese, ruotando su se stesso con studiata lentezza, mentre le guance paffute del suo segugio si tingevano di rosso cremesi e le labbra iniziavano a tremare per l'imbarazzo. Merlino santissimo, questa gioventù moderna! Nemmeno una battuta con vaga allusione sessuale si poteva fare. Aahh, bombolo, mi dai così poche soddisfazioni.. Ma imparerai, con il tempo. esaló un sospiro di pura rassegnazione, calando contemporaneamente la mano destra sulla spalla del primino, battendo piú volte sulla stessa. Poi, senza nemmeno aggiungere un saluto, né tanto meno una spiegazione, si dileguó trotterellando via. Era bravo Eugene Jackson a sparire dalla circolazione, veloce e silenzioso come un gatto. Aveva fatto inevitabilmente di necessità virtù, trovandosi spesso e volentieri con entrambi i piedi ficcati in qualche guaio, per non dire nella merda fino al collo. A sentire Rea, quegli occhiali dalla montatura spessa non aiutavano il giovane serpeverde ad avere una vita tranquilla tra le mura di Hogwarts, ma anche la Hamilton sapeva - come chiunque altro - che il problema vero di Jack era rappresentato dalla sua incapacità di chiudere la bocca al momento opportuno. Non gli importava di conquistare il mondo, sebbene ne avesse tutte le capacità - euge for president 2kcredici-, ma quando si trattava di attaccar briga e parlare troppo senza attivare il filtro tra cervello e lingua, oh, quelli erano volatili per diabetici. Peccato fosse geneticamente incapace di prendere sul serio se stesso o chiunque altro. Il fatto che fosse riuscito a superare il primo anno senza essere rimandato aveva già di per sé un che di mistico, al limite del miracoloso.
    Si affrettó a raggiungere la propria sala comune, fischiettando tra le labbra un motivetto accattivante, di quelli che proveresti volentieri a suonare con dei bicchieri (ogni riferimento a persone o fatti realmente accaduti è puramente casuale), felice come una pasqua. Era riuscito a far vomitare l'anima a Chuck e adesso lo aspettava un'intera giornata a Hogsmade con i Castafratti, finalmente lontano dalle mura del castello e dalle restrizioni che queste richiedevano. Prima fra tutti, la divisa. Se c'era una cosa che Euge sopportava a malapena, era proprio il doversi vestire come tutti i suoi compagni, nascondendo il suo indubbio gusto con quella specie di tonaca nera da funerale. Apprezzava però il verdeargento della sua casata e fu proprio quell'abbinamento di colori che gli capitò sotto gli occhi quando, arrivato nel dormitorio dei ragazzi, diede una rapida occhiata ai propri abiti malamente ripiegati nell'armadio. Prese la maglia a righe sfilando camicia e cravatta già allentata quasi in un colpo solo, optando per un paio di jeans comodi e altrettanto rovinati. La signora Jackson non li aveva comprati in quello stato - e se avesse potuto contemplare lo stato di quei pantaloni le sarebbero venuti i capelli bianchi -, ma addosso al serpeverde erano durati sani solo un paio di settimane. Non sapeva che avrebbe incontrato Rea, una volta sceso in sala comune, ma fu comunque grato di incrociare lo sguardo color cioccolato della ragazzina con il proprio, così simile all'azzurro terso del cielo. Si notava poco, con quegli occhiali dalle lenti spesse, ma risultava comunque facile per chiunque leggervi attraverso. Non tratteneva nulla, Eugene. Dalla rabbia all'euforia, dalla serietà - rara - alle prese per il culo - molto meno rare -, ogni emozione o sfaccettatura veniva a galla nel momento stesso in cui la provava. Una come la Hamilton sarebbe morta pur di non dover convivere con un handicap di quel genere, ma al serpeverde fregava poco e niente. Che sapessero pure cosa gli passava per la testa. Che lo leggessero come un libro aperto, se questo serviva a rendere più semplici le cose. Di certo non le complicava a lui. «carini. sono per vedere con più nitidezza il prossimo che cercherà di romperti il naso?» Dovete capire che Euge amava Rea Hamilton. In un modo totalmente fuori dall'immaginario comune, e sicuramente differente da quello che affliggeva il cuore del suo bff Nathaniel Henderson. Provava nei confronti della serpeverde una sorta di muta adorazione, mista alla curiosità che solo un'anima tormentata poteva suscitare. Al Jackson piacevano, da matti, quel genere di persone. Dopotutto, faceva parte dei Castafratti. Potevano passare ore in silenzio, loro due, senza nemmeno guardarsi negli occhi, in quel momenti di quiete che precedevano solitamente una tempesta. Irrequietezza per Eugene, rabbia cieca per Rea. Si pungolavano a vicenda, in un loop continuo, finendo poi ad osservare le reciproche ferite senza fiatare.
    Per quello esisteva Elijah. Il grifondoro era madre e padre insieme, si preoccupava per loro e sembrava essere l'unico in grado di tenere insieme i pezzi, come un qualunque bravo genitore dovrebbe saper fare di mestiere, ma si trattava di un compito che i due compagni di casata non sarebbero mai riusciti a svolgere di propria spontanea iniziativa. Non sapevano nemmeno da che parte cominciare, soprattutto Euge. Troppa fucking responsabilità. È che mi piace sfidare la sorte. Lo sai come la penso sul gioco d'azzardo. Ne pensava tutto il bene del mondo, ecco cosa. Sistemò meglio gli occhiali, una volta che la ragazzina li ebbe rimessi al loro posto, avvicinando maggiormente le labbra al suo orecchio come per confidarle un segreto. Per non parlare de fatto che senza non ci vedo, sai com'è. Raddrizzando la schiena, diede una scrollata di spalle, sfiorando giusto per un istante con lo sguardo la sciarpa avvolta attorno al collo di Rea. Il clima non era certo tropicale, a primavera appena iniziata, ma solo un idiota avrebbe potuto scambiare quell'indumento per una effettiva difesa contro il freddo. E Eugene non era un idiota. Avventato, certamente. Buffone la maggior parte delle volte e immaturo persino per la sua tenera età, ma mai stupido. Poteva immaginare cosa si nascondesse sotto quella stoffa, quale macchia fosse affiorata in superficie a sporcare la pelle diafana della serpeverde. Laddove Rea si sforzava di celare, Jackson metteva in bella mostra: un occhio pesto, il naso rotto, un taglio all'altezza dello zigomo. Ne prendeva tante, per quella sua incapacità a tenere le labbra sigillate quando si richiedeva silenzio e testa bassa, ma altrettante gli erano state risparmiate: grazie a Rea, Eli, Cole, forse persino Niklaus. Per qualche motivo gli studenti più grandi lo avevano preso come una mascotte e sempre per ragioni ai più sconosciute, tendevano a proteggerlo quando finiva nei casini, che lui volesse oppure no. Credete fosse all'oscuro delle volte in cui la Hamilton gli aveva parato il culo? Era a conoscenza di ciascun salvataggio in corner, sebbene per ovvie ragioni non avesse mai nemmeno accennato a ringraziarla. In primis lei avrebbe negato. Non poteva fargliene una colpa, considerato che lui avrebbe agito nello stesso identico modo. In secondo luogo, Euge preferiva ricambiare il favore piuttosto che sprecare uno o più grazie ar cazzo random.
    Poteva apparire innocuo, con gli occhiali dalla montatura spessa, il torace magrolino e quel nuovo colore di capelli da piccolo lord, ma il ragazzino era un vero #ghettoboy, cresciuto tra la plebe mentre ad un passo da casa sua i figli di papà banchettavano nei giardini delle loro ville, e niente lo mandava in bestia come certi insulti captati quasi per caso nei corridoi di Hogwarts come in quelli della scuola babbana che lui e Delilah avevano frequentato insieme prima del suo undicesimo compleanno di età. Euge e sua sorella erano dei piccoli bastardi, letteralmente parlando, e il serpeverde conosceva questa condizione meglio delle sue tasche, ma mai aveva accettato la parola puttana rivolta contro chi lo aveva messo al mondo. Nemmeno dopo essere stato dato via, come un prodotto mal funzionante. Sarebbe saltato al collo di chiunque l'avesse pronunciata riferendosi a Delilah e la stessa identica reazione si era scatenata solo poco tempo addietro nel sentire lo stesso termine offensivo associato al nome di Rea. E' che gli saliva il nazismo, tutto qui. Poteva passare da If you wanna be my loveeer, you gotta get with my frieeends a se lo ripeti un'altra volta ti apro la testa e ci cago dentro nel giro di mezzo secondo, rendendo difficile stabilire quale fosse la sua effettiva pericolosità, ma non certo il motivo per cui il cappello parlante aveva deciso di piazzarlo proprio tra le fila dei verdeargento. Seguì Rea fuori dalla sala comune, controllando con un rapido frusciare di tasche che nelle stesse vi fossero abbastanza galeoni per ammazzarsi di schifezze fuori programma, ben sapendo che per gli extra si sarebbe appoggiato senza problemi agli altri membri dei Castafratti, o a qualche ragazzo del sesto e settimo anno con cui aveva legato maggiormente.
    A dodici anni compiuti solo da qualche mese, Eugene stentava a provare vera e propria attrazione verso le esponenti del sesso opposto, ma l'animo da marpione regnava nel suo dna quasi quanto l'amore per i soldi ereditato dal padre biologico - e non possederne rendeva quell'amore fatale - e non si sarebbe risparmiato un sorrisetto ammiccante in direzione della ragazzina con gli occhi azzurri avvicinatasi a Rea per donarle un pacchetto di caramelle, del quale non avrebbe chiesto spiegazioni per evitare che la montatura nuova dicesse addio per l'ennesima volta, se solo le sue stanche iridi cerulee non si fossero posate su due splendide figure. Probabilmente lo sapete già, voi lettori del futuro, ma ve lo dico comunque: Jack era una shipper professionista, e quando ci si metteva lui shippava. Forte. Non si limitava ad osservare le vittime designate da lontano, lasciandosi sfuggire di tanto in tanto un sospiro sognante carico di frustrazione ovviamente sessuale, no. Il serpeverde irrompeva nella vita della sua OTP con la violenza di un uragano, fregandosene altamente della possibilità di mettere quei poveri cristi in imbarazzo, puntando al bene superiore. Caso voleva che la sua ship per eccellenza, alla quale aveva dedicato anche un fan club di cui era segretamente presidente onorario, fosse rappresentata proprio dai suoi due migliori amici, coloro per i quali si sarebbe buttato anche nelle fiamme. Non nell'acqua, però, perchè soffriva della paura compulsiva di affogare (?). Ora, né Elijah, né tantomeno Nate con la sua tragica cotta per Rea avevano certe tendenze gaie, ma guardarli in piedi uno accanto all'altro, spalla contro spalla illuminati dal tiepido sole della primavera (#wat) creava un ambiente da fangirl troppo fertile per essere lasciato in stato di abbandono. Euge se ne sarebbe preso cura, opprimendoli come solo lui sapeva fare, scrivendo il discorso per il loro matrimonio, puntando a superare una volta per tutte la barriera invisibile della bromance che li separava dall'agognato passo successivo.
    Non gli importava nemmeno del fatto che evidentemente si amavano più di quanto amassero lui: dopotutto, tutti i genitori rappresentano la coppia ideale per i loro pargoletti. And caaaaaan you feel the looooove toniiiight. It is wheeeere we aaaare! Balzò loro alle spalle, con un salto felino, allargando le braccia per agganciarne ciascuna al collo di Nathaniel ed Elijah, cosa più facile con il primo che con il secondo considerata la differenza di altezza, spuntando con il capo tra di loro. Come già detto, il suo metodo di shippaggio non era adatto a deboli di cuore, in quanto faticava a trattenere per sé i feels del momento. Li strinse leggermente con gli avambracci, schioccando un bacio sulla guancia ad ognuno, scrollandosi poi di dosso con un tintinnio di monete, sparse senza alcuna costrizione nelle varie tasche dei jeans. In una di queste, che in realtà era un buco creatosi da uno strappo accidentale, aveva infilato anche la sua bacchetta, coperta in parte dalla maglia a righe. Come andiamo, casta? Amori di Euge, che tenerezza. Non aveva ancora mostrato loro il nuovo colore di capelli, quel biondo paglierino sicuramente il Dallaire aveva sfoggiato all'epoca in cui era ancora un paffuto bimbo con le gambine cicciotte, ma non sembrava affatto preoccupato del loro giudizio. In parte perchè non ricordava assolutamente di aver tinto i capelli - vedi che succede a perdere una scommessa dopo aver fumato con Cole? - e in parte perchè comunque non gli sarebbe fregata una mazza. Se le critiche fossero contate qualcosa per Jack, a quel punto si sarebbe buttato dalla torre dell'orologio ormai da un pezzo. Battè entrambi i pugni contro i loro, nocche ad impattare con due schiocchi secchi, prima di incamminarsi con il resto della comitiva, senza mai perdere di vista i due grifi o Rea. Già, Rea. Faceva parte dei Castafratti, pur senza farne davvero parte #inception, i fili della sua giovane vita inspiegabilmente intrecciati a quelli di tutti loro, senza un senso logico. Ma cosa, nel loro piccolo gruppo autosufficiente, aveva una logica? Due Grifondoro a spasso con un Serpeverde che 'fanculo le casate io cazzeggio con tutti, sangue misto e fiero di esserlo, e la ragazzina che chiunque avrebbe temuto o odiato, ma che loro accoglievano sempre. Nel bene o nel male. Biondo, Smeagol, Pagliaccio e Quella Gnocca. Li vedevano così, dall'esterno. Troppo magico: lo erano davvero.
    «Se mi mettete in imbarazzo, troverò il modo per farvela pagare. E non vi piacerà» L'ingresso de I tre Manici di Scopa stava lì, proprio di fronte a loro, invitante come una burrobirra comprata con soldi altrui, o una sigaretta scroccata all'ultimo secondo, ma un braccino sottile dalla presa ferrea non permetteva ad Euge di fare la sua entrata trionfale. Le parole di Rea gli suonarono nelle orecchie un tantino troppo specifiche, soprattutto tenendo conto del successivo bacio che la mora pensò bene di schioccare sulla guancia del serpeverde, risparmiando Nate nonostante l'avviso fosse rivolto ad entrambi. Mentre ruotava il capo nella direzione della ragazzina, si sforzò di dipingere sul proprio volto pallido l'espressione più sconcertata e offesa della sua vita (*gif di Sara su we chat*), con tanto di mano destra a sfiorare il torace magro. MOI? Mettere in imbarazzo toi?? Bada a come parli, bambina! Che se c'è uno serio qui dentro, sono io! Le sentite le risate in sottofondo come nelle sit com americane? No? Beh io le sento. La guardò allontanarsi da loro e dirigersi verso una chioma di capelli ramati che Euge conosceva certo per la reputazione della proprietaria, ma senza mai averci stretto un qualche tipo di rapporto. Cosa che invece si poteva dire del fusto tenebroso e ben vestito con cui l'Hamilton aveva preso quasi immediatamente a civettare. Niklaus Barrow faceva parte di quella coraggiosa cerchia di studenti più grandi in grado di sopportare l'umorismo e gli sbalzi d'umore di Eugene Jackson, ed era anche uno dei punti di riferimento maschili sui quali il dodicenne poteva contare quando necessitava di consigli. Il fatto che poi non li ascoltasse era solo un dettaglio. Un sorriso sghembo tese le labbra rosate, scoprendo i canini e illuminandogli le iridi cerulee di una luce molto poco rassicurante. Saremo giovani solo una volta, fratelli, quindi vi chiedo... come lo incasiniamo questo posto? Domandare è lecito, rispondere è cortesia. Forza #Elite, tocca a voi (?).

    I'm in the prime of my youth and I'll be young once!
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    questa cosa finirà per sfuggirmi di mano, lo so.
    interagisce con Chuck (?), Rea, Nate&Elijah, vede Nick da lontano #wat #stalker


    Edited by #eu(genius) - 3/9/2016, 12:22
     
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  4. winston?
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    11 | Hufflepuff? | Quiet storm |
    By eleven smoking herb and drinking burning liquor
    Aiden MylesWinston
    Stare fra i Tassorosso non gli dispiaceva più di tanto. Insomma, tra di loro c'erano un sacco di persone interessanti e anche disponibili nei suoi confronti. Forse anche fin troppo. Non appena lo vedevano per un istante spaesato pensavano si fosse perso e lo prendevano sotto braccio, non lasciandolo fino a che non era arrivato di fronte alla sua aula. Tutte quelle attenzioni lo mettevano parecchio a disagio, facendo aumentare i suoi dubbi: i cappelli possono drogarsi? Perché, nel caso in cui la risposta fosse stata positiva, il biondo non avrebbe avuto alcun dubbio nel dire che quando era stato smistato il caro, buon vecchio pezzo di stoffa era bello che andato per colpa di chissà quale sostanza stupefacente artigianale passatogli dal professore di erbologia. Non lo avrebbe mai ammesso ma sì, gli rodeva terribilmente non essere finito fra i Corvi. Quando lo aveva scritto ai suoi genitori - ovviamente la risposta era arrivata terribilmente in ritardo per via di chissà quale nuova missione -loro non ci erano rimasti male quanto lui, anzi. Eppure il ragazzino poteva leggere fra le parole del padre e della madre scritte in corsivo su quel pezzo di pergamena una nota di disappunto. Il che non gli faceva affatto piacere. Insomma, destinato a sentirsi una pecora nera ovunque andasse, Aiden passava i suoi pomeriggi a leggere nella sua sala comune, accoccolato sulle poltrone, o a scrivere alla sorella con la quale intratteneva lunghe e profonde conversazioni via gufo. Sì, scrivendo a lei si sentiva decisamente meno solo. Non che vivesse costantemente in solitudine: insomma, qualche amico se l'era fatto anche lui. Capitava che, dopo aver studiato il soggetto a lungo, fosse persino il Winston a fare il primo passo...anche se, generalmente, erano gli altri ad avvicinarsi a lui, facendo poi i tripli salti mortali per conquistarsi la sua fiducia e la sua stima. Non era però il tipo solito in grado di attirare l'attenzione: era rimasto molto sorpreso, infatti, quando un gruppo di ragazzini all'apparenza più grandi di lui avevano deciso di prenderlo di mira, lanciandogli costanti frecciatine ogni volta che lo incrociavano per i corridoi e non esitando, anche, di fargli dispetti. Ovviamente al nostro biondo non fregava una beneamata bacchetta, non era tipo da tenere in conto le prese in giro. Li guardava in silenzio, alzando di tanto un sopracciglio con fare annoiato e, stranamente, quella sua reazione invece che mandarli via li faceva divertire ancora di più. In una specie di rituale, ogni volta che loro venivano, facevano e se ne andavano, arrivava sempre, alla fine, un'anima pia emblema della casata nella quale era stato - erroneamente, a suo avviso. ripetiamolo ancora - smistato ma che non vi apparteneva. insomma, si è capito che in quegli anni il cappello non ci stava con la testa(?). Questo tale, avanti di un anno rispetto ad Aiden, si chiamava Elijah. Elijah si dimostrava spesso preoccupato per lo stato di salute psichica del biondo ad angherie terminate e tentava, ogni volta, di tirarlo su di morale. Non si rendeva conto che il Winston non ne aveva alcuna necessità ma, alla fine, anche se le sue attenzioni dal punto di vista del Tasso erano qualcosa "in più", di non necessario, di certo non disdegnava la sua compagnia. Anzi.
    Un sabato mattina, che Aiden si era prefissato di passare a finire l'ultimo libro che si era portato in dormitorio dalla biblioteca, il biondo si rese conto di non aver nessuna voglia di rimanere chiuso nel castello e che avrebbe volentieri passato il giorno di vacanza a fare qualcosa di diverso. Vedere gente, fare cose. E con vedere gente, si intende proprio vedere gente. Guardarla, osservarla. Più difficilmente averci a che fare. Prese dunque da un cassetto accanto al suo letto un permesso firmato dai suoi genitori per recarsi ad Hogsmeade. Li faceva sempre firmare, più raramente li utilizzava, ma già da allora era un ragazzo che pensava ad ogni evenienza e si comportava in modo tale da assicurarsi più di un'alternativa in caso di noia, come quel giorno. Si diresse quindi, una volta lasciata la sala comune, verso il punto di ritrovo, con tutta la calma di questo mondo. Quasi lo fece cadere un ragazzo ben più grande di lui diretto verso le cugine, poco distanti da lì, per poi lanciargli un'occhiataccia che lui di certo non poteva vedere, di fretta com'era.
    C'era fin troppa gente per i suoi gusti, fin troppa. Si chiese per quale assurda motivazione avesse deciso di abbandonare il suo comodissimo letto e l'interessantissimo libro per ritrovarsi davanti a ben più di un membro di quella banda di mascalzoni(?) che lo perseguitavano più tante, troppe persone che non conosceva. E che, tristemente, non gli dicevano niente. Vide Elijah poco distante, ma decise di non avvicinarsi, lanciandogli un semplice sguardo e, nel caso fosse stato ricambiato, anche un cenno di saluto. #vogliadivivereit'sover9000
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    Sì, vabbé, fa' parecchio schifo. Ma amo questa role e mi dovevo infilare *^* Probabilmente ho fatto tanti, troppi casini anche in questo cortissimo post, quindi ditemi tutto che io modifico(?)
    Aiden come suo solito preferisce fare l'asociale perché non è costretto ad intrattenere rapporti umani, quindi potete anche fingere Non esista :3 però non fatelo, dai, che sotto sotto è sensibile. Molto sotto. Sta volutamente evitando i castafratti perché si è deciso che lo prendono in giro(?)solo con Lele, ma vabbé #wat Eeee lancia mezzo sguardo ad Eli. E niente.
     
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    La punizione è terminata, può andare signor Lowell con uno sbuffo Alexander si era congedato raccogliendo la propria borsa e lasciandosi alle spalle l'aula di pozioni, all'interno della quale si era consumata l'ennesima punizione che lo aveva visto protagonista. Aveva imparato l'ubicazione di ogni libro od ingrediente per pozioni situato all'interno dell'aula di lezione in quelle lunghe serate trascorse in compagnia del professore. Era stato nuovamente punito per una litigata con uno studente di Serpeverde, ma ovviamente la punizione era stata data solamente al povero Tassorosso sfigato che non era riuscito a tenere la lingua a freno o meglio le mani. Alexander non era mai stato un ragazzo violento, ma quando l'argomento di discussione era la sua famiglia allora le carte in tavola cambiavano irrimediabilmente. Un altro studente avrebbe raccolto le proprie cose pretendendo di lasciare il luogo infestato senza creare alcuno scalpore ma Alexander era stanco, stanco di essere preso di mira da chiunque, stanco di essere lo zimbello sulla bocca di tutti, stanco di porgere l'altra guancia senza reagire. Stanco. Per molto anni aveva sofferto l'assenza di un padre e quando finalmente la madre si era decisa a rimettersi in carreggiata portando a casa un bravo uomo, Alexander aveva faticato ad accettare la presenza dell'uomo nella sua vita. Un uomo che riusciva a compiacere sua madre, rendendola felice, un uomo che cercava di prendere il suo posto ma che al tempo stesso sembrava volerlo solamente caricare del minor numero possibile di pesi. Ed il giovane Lowell aveva impiegato anni prima di riuscire ad accogliere quell'uomo in casa sua, prima di riuscire a chiamarlo padre. La prima volta che lo aveva chiamato così era stato al matrimonio della madre, un matrimonio che suggellava un'unione tra due famiglie, ma che al tempo stesso confermava la presenza dell'uomo nelle loro vite, così come lo confermava il cognome che aveva assunto. Lowell. Ma si sa che nel Mondo Magico nulla resta nascosto e le voci avevano cominciato a vagare fino a giungere ad orecchie indiscrete e così, senza poter far nulla per fermare il pettegolezzo, Alexander si era ritrovato sulla bocca dei suoi compagni di scuola. L'orfanello che era stato adottato da un nobile mago per pura pietà. Sapeva che non era così e che il sentimento di quell'uomo nei suoi confronti era molto profondo e vero, sapeva che gli voleva davvero bene ma ignorare le critiche e le risate non aveva mai fatto parte del patto. E così era cominciata una discussione verbale. Si erano limitati solamente a quello la prima volta, ma poi la rabbia e la frustrazione avevano preso pian piano il sopravvento portando il giovane Lowell nella spirale delle risse. Non era più riuscito a fermarsi ed ogni qual volta udiva un commento rivolto a lui o a qualcuno a cui teneva, reagiva con fervore, con rabbia. Le parole vagavano senza meta seguite a raffica da spintoni e capelli tirati. Almeno fino a quando un insegnante non giungeva in loro aiuto, dividendo i due bambini evitando così di dover dare una spiegazione a dei genitori molto arrabbiati. Ma questo non significava che la questione terminasse in quel modo. Era stato così tante volte in punizione da aver imparato a memoria le sezioni della biblioteca del castello, l'ordine degli ingredienti raccolti nella dispensa di Pozioni, il turno di ronda del custode del castello e molto altro ancora. Doveva ammettere che le punizioni avevano il loro fascino nonostante lo scopo primario sia per l'appunto quello di punire un determinato comportamento nella speranza che questo non venga più messo in atto, speranza vana oserei aggiungere considerando che nell'arco di pochi giorni il Tassorosso era nuovamente punto a capo. Ma la punizione era forse la parte più semplice della vita Hogwartsiana. I soli problemi sorgevano nei momenti in cui entrare irrimediabilmente in contatto con alcuni Serpeverde dalla lingua lunga e tagliente come una lama ben affilata. Ed Alexander non era da meno quando si trattava di offendere qualcuno, non aveva peli sulla lingua. La rissa era stata quasi inevitabile quel giorno e dopo tre giorni di punizione, finalmente poteva dirsi libero, anche se sapeva di aver deluso sua madre che ovviamente si era premurata di imbarazzarlo a morte spedendogli una strillettera quella stessa mattina. Avrebbe dovuto aprirla ed ascoltare lo sfogo della genitrice al sicuro da occhi ed orecchie indiscrete, ma una volta accettata la lettera era stato impossibile frenare il fiume in piena che era sua madre. Donna dannatamente orgogliosa che cercava sempre un modo per salvare le apparenze anche quando la vita era tutt'altro che rose e fiori come si ostinava a dipingerla. Amava quella donna ma una simile umiliazione pubblica era qualcosa che non poteva sopportare.
    Uno studente fuori dal letto una voce bassa e roca lo fece sobbalzare nell'oscurità del castello. Non aveva percepito passi alle sue spalle. Voltando appena il capo intravide la figura bassa e ricurva del custode. Sto tornando alla sala comune, se mi da il tempo di raggiungerla il motivo per il quale quel vecchio si trovasse ancora ad Hogwarts rimaneva un mistero, ma di sicuro quello non era più un suo problema. Gli era stato concesso di terminare l'anno scolastico nel caso in cui avesse tenuto un comportamento di tutto rispetto. Le punizioni servivano solamente a tenerlo fuori dai guai e fuori dall'occhio del ciclone, ma no avrebbero potuto proteggerlo per sempre. Si era lasciato abbindolare dalla rabbia repressa e come una vecchia amica l'aveva accolta a braccia aperte.
    Gli ultimi mesi erano stati un delirio ma dopo aver rotto il naso ad uno studente era normale che le persone lo tenessero alla larga. Ma Alexander non era un cattivo ragazzo, solo non era nelle condizioni di sopportare la pressione che sentiva. Non gli importava di essere preso di mira, ma da lì a farlo passare per un rifiuto della società ne passa di acqua sotto i ponti. Eppure il ponte su cui camminava tranquillamente Alexander era stato inondato dal fiume di odio e disprezzo ed alla fine aveva deciso di lottare per la sua sopravvivenza.
    Il coprifuoco è iniziato da un pezzo
    Ed io ero in punizione, ora voglio solo andare a dormire detto questo voltò il capo e proseguì per la sua strada ignorando le lamentele del custode. Non aveva mai sopportato quell'uomo senza spina dorsale. Era crudele ma non come poteva esserlo un Serpeverde, in realtà cercava solamente di incutere timore dove non vi era. Aveva impiegato diversi minuti prima di riuscire a raggiungere la Sala Comune di Tassorosso e per tutto il tragitto il passo trascinato del custode gli aveva tenuto compagnia. Lo aveva sentito allontanarsi solamente una volta richiusa la porta d'ingresso della Sala Comune. Si era gettato a letto senza nemmeno mettersi un pigiama, troppo stanco perfino per pensare. Chiuse gli occhi scorgendo sul comodino la sagoma offuscata di una pergamena. Il bambino si addormentò con il sorriso sulle labbra.

    [...]

    Quando la mattina seguente rinvenne il sole era già alto nel cielo e gli uccelli canticchiavano allegramente. Le lenzuola strette attorno al proprio corpo, proteggendolo da un nemico invisibile. Si girò più e più volte senza dare segno di volersi svegliare. SVEGLIAAAAA! Si va ad Hosgmeade!!! spalancò gli occhi a quelle parole, sbiancando. Era il giorno della dita ad Hogsmeade e lui, eccitato come non mai, si era dimenticato che giorno era. A giudicare dall'altezza del sole doveva era essere particolarmente tardi, motivo per il quale si vestì in fretta e furia. Si era appena lasciato alle spalle la sala comune quando notò qualcosa stretto tra le dita della sua compagna. Una pergamena. Perchè aveva una pergamena? Camminò rimuginando su ciò che aveva visto quando, dopo essersi schiaffato una mano in fronte, corse indietro tra le risate generali. Il permesso firmato. Non era rimasto fermo tutti quei mesi senza una motivazione valida. La gita ad Hogsmeade era ciò che attendeva da tutta una vita, ed aveva davvero rischiato di non partecipare. Fortuna che aveva una madre particolarmente persuasiva. Si catapultò nella sua stanza e dopo aver afferrato il permesso si recò nel cortile d'ingresso dove gli insegnanti stavano raccogliendo i permessi per l'uscita. Fece appena in tempo a consegnare il suo prima di seguire i compagni fuori dai confini del castello. Aveva ancora il fiatone ma era valsa la pena di farsi una corsa simile solo per poter vedere Hogsmeade. Ho sentito dire che la burrobirra è davvero buona il chiacchiericcio era andato via via intensificandosi spezzando il silenzio che si era creato. Alexander era emozionato di poter visitare il villaggio magico inglese, sopratutto aveva sentito parlare di molti negozi come Mielandia che non vedeva l'ora di visitare. Aveva portato con sé un bel gruzzolo di denaro, consapevole che al rientro dalla gita avrebbero trascorso la serata a giocare, mangiare e raccontarsi la gita. Forse era quello il momento che attendeva davvero con tanta trepidazione. Ho intenzione di fare una scorpacciata di dolciumi rispose entusiasta al compagno di casata. Si stava gasando troppo per una gita scolastica? Molto probabilmente sì, ma aveva solamente dodici anni e non capitava tutti i giorni di poter acquistare tutti i dolciumi che voleva. Se sua madre avesse scoperto cosa aveva intenzione di fare lo avrebbe rimproverato probabilmente spedendogli un'altra stillettera per mortificarlo a colazione quando studenti e professori sarebbero stati presenti a colazione. L'umiliazione pubblica era la punizione preferita dalla genitrice. Immerso nei suoi pensieri non si era accorto che il gruppo si era fermato -per chi sa quale motivo- cosa che lo aveva fatto scontrare involontariamente con un altro studente. Oh scusami tanto! disse incastrando il labbro inferiore tra i denti. Aiden non ti avevo riconosciuto! Ci voleva proprio una pausa dallo studio non era solito socializzare con chi non conosceva, ma entrare in contatto con altri ragazzini di Hogwarts era comunque più facile piuttosto che interagire con un adulto. Non era particolarmente socievole con gli studenti di altri casate, ma almeno dei tassi poteva fidarsi almeno un po'. Insomma, passava il tempo libero in sala comunque o comunque in compagnia di altri Tassorosso, per quanto riguardava gli studenti di altre casate non era facile aprirsi senza temere una possibile ritorsione. E se doveva conoscere persone nuove per poi trovarsi a mettere in discussione l'intera relazione, beh tanto valeva non aprirsi proprio e stare sulle sue. Non che comunque gli servissero amici, alla fine era le relazioni decise dai genitori a contare, e chi era Alexander per trasgredire alle regole?
    role code made by effe don't steal, ask



    Spero vi siate limitati ad aprire lo spoiler evitando il post :3
    Interagisce con Aiden, do per scontato si conoscano perchè sono entrambi tassi (?)
     
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    akelei ELAIR BEAUMONT
    Akelei sapeva quando chinare il capo, quando lasciare scivolare qualche parola di troppo e quando stringere le inconsapevoli prede in una presa troppo stretta, soffocante come l’ aria che respirava, come l’ umidità che -in quale modo- era riuscita a infilarsi in ogni crepa di quella stanza spoglia. Il ritmico ticchettare delle lancette si intrecciava, si confondeva, al delicato alzarsi e abbassarsi di un petto scarno, coperto da un impalpabile tessuto che lasciava intravedere l’ aspro delinearsi delle costole; le braccia coperte da un sottile stato di alabastro erano percorse da un labirinto di filamenti turchesi, perdendosi dentro di Akelei come i pensieri a cui non riusciva ad aggrapparsi, i quali scivolavano dalla sue dita simili a sabbia. Le stesse braccia che si avvolgevano attorno alla sua figura come quelle di un amante, cercando di proteggerla da ciò che si trovava oltre quelle quattro mura, da un domani non troppo incerto. Percepiva chiaramente piccoli ma affilati spilli che premevano contro il palmo, come se quell’ insignificante dolore potesse distrarla dagli avvenimenti di pochi giorni prima. Stringeva le labbra in una linea sottile, forse per trattenere un urlo frustrato, forse per impedire ai singhiozzi di prendere possesso del suo corpo, non poteva permettere che qualche servo della gleba la sentisse. Dio, quei poveri erano ovunque, sembravano registrare ogni tuo passo falso, ogni piccola insicurezza, per poi mangiarti vivo. Predatori dalle fattezze infantili, dei lupi nei panni di piccole pecore bastarde. Ma la Beaumont non era debole, non apparteneva all’ ultimo scalino della piramide alimentare: l’ avevano cresciuta meglio di così. Non che Lucien avrebbe permesso che la sua primogenita crescesse come una stupida ragazzina senza spina dorsale, il suo lignaggio ne avrebbe risentito, calando a picco giù fino a raggiungere la mera plebe. Perlomeno condividevano quel disgusto per coloro che stavano sotto di loro, persone che si accontentavano di una casa grande quanto il suo bagno e di una vita mediocre, come potevano farsi quello, come potevano sprecare la propria esistenza? Eppure era grazie a loro che si puliva il culo con i soldi, nuotava in piscine colme di petali di rosa ed essenze ricercate. Supponeva che piuttosto che perdere tutto quello fosse meglio che i servi della gleba rimanessero al proprio posto. Sotto la sua suola, così com’ era sempre stato. E Akelei insieme a loro, sotto la suola di Lucien.

    Annuiva, ogni tanto lasciava scivolare dei monosillabi, scrollava le spalle ossute. Non c’ era nulla che indicasse la scarsa attenzione della francese, se non quello sguardo tranquillo, non focalizzato. Akelei Beaumont non aveva mai ascoltato i genitori , perché avrebbe dovuto iniziare in quel momento? Inutili sillabe stridenti contro i suoi timpani, prive di significato, degli echi lontani. «Avete ragione» si morse il labbro per impedirsi di sghignazzare della stupidità dei genitori, cosa che scommetteva non avrebbero apprezzato. Non che gradissero molte cose nella vita. Lucien le lanciò uno sguardo che sottolineava solo i suoi dubbi: sua figlia non aveva ascoltato una parola, era un animale, una ragazzina viziata senza regole né tantomeno controllo, non aveva capito niente e dubitava che l’ avrebbe fatto tanto presto. Come poteva domare quella bestia della bionda? «Sei fuori controllo, non accetterò questo tipo di comportamento in questa casa. Ti devo mettere in riga!» la ragazzina corrugò le sopracciglia, ti devo mettere in riga? Che problemi aveva quell’ uomo? Strinse le labbra in una linea sottile per evitare di commentare acidamente, non le avrebbe mai prestato attenzione. Non lo faceva mai. Ci volle tutta la sua forza di volontà per non chiudere gli occhi e lasciare che le mani di Lucien imprimessero marchi rossi lungo il suo corpo. Ma non la faccia, no, quella doveva restare perfetta; chi avrebbe voluto una donna sfigurata? Diversamente dal solito non successe niente, forse quella era la cosa peggiore: se non sapeva cosa sarebbe successo, come avrebbe fatto a prepararsi? Il non sapere, ecco cosa la spaventava. Strinse le piccole mani in due pugni cercando di farsi forza, ma dov’ era Morrigan quando serviva come capro espiatorio? «Tra due giorni partirai per Hogwarts, forse l’ aria nuova ti farà mettere un po’ di buonsenso in quella testa vuota» chinò il capo annuendo sconfitta, le sue proteste non gli avrebbero fatto cambiare idea, ma ancora, non voleva dire che gliel’ avrebbe data vinta facilmente. Potevano trascinarla su un fottuto aereo e scaricarla nello stato più vicino come spazzatura ma non gli avrebbe dato la soddisfazione di cambiare, lei andava bene così. Credici, Akelei

    Rozza, umida, infestata. Hogwarts non era decisamente all’ altezza della piccola francese, confrontata alla sua amata Beauxbatons niente lo era. Scuoteva la testa, non si capacitava di come delle famiglie potessero mandare volontariamente i figli lì, il livello di competenza degli insegnanti era appena sufficiente e il preside non sembrava in grado di amministrare le scorte di cibo; aveva sentito dire che una volta era riuscito ad uscirsene con un «se non hanno più pane, che mangino brioche», livelli che Marie-Antoinette era riuscita a malapena a sfiorare. Dio, presentarsi nel suo ufficio e stringergli la mano per la sua idiozia sarebbe stato un sogno, nonché un’ ottima occasione per elencargli i numerosi difetti di quella che osavano chiamare scuola di magia, peccato che nessuno avrebbe ascoltato una dodicenne dalle parole troppo taglienti. Un giorno l’ avrebbero fatto, un giorno sarebbe stata molto di più. Akelei non desiderava visitare lo spazio, scalare l’ Everest o riuscire a dare una sbirciata alla selvaggia savana. Oh no, era una bambina fin troppo ambiziosa. Voleva regnare, osservare teste chinarsi davanti a un trono costituito da ossa; non come principessa, non come regina, come re. Akelei Beaumont, a soli dodici anni, aveva le idee molto chiare e un piano ventennale da seguire scrupolosamente. Non si sarebbe accontentata di un mero posto nei pavor, di una cattedra ad Hogwarts o di salvare vite, lei puntava al governo, al cuore di tutto. Chiamatela pazza, chiamatela stupida, lei conosceva le sue doti. Lei sapeva di poter sopravvivere un altro giorno ad Hogwarts e farla franca con suo padre. I Beaumont non si arrendevano, non si sarebbe piegata, non l’ avrebbero messa in riga. Akelei sapeva quando chinare il capo, quando lasciare scivolare qualche parola di troppo e quando stringere le inconsapevoli prede in una presa troppo stretta, soffocante.
    Rabbrividì quando le piante dei piedi sfiorarono il pavimento gelato e ancora una volta si ritrovò a maledire quella scuola da quattro soldi, possibile che non avessero il riscaldamento pure sotto i loro piedi? La povertà non smetteva mai di stupirla, così come il fatto che dovesse condividere la sua stanza con altre ragazze. Un dormitorio, un fottuto dormitorio! Neanche fossero state vacche da infilare in una stalla. Scosse la testa, se ci avrebbe pensato ancora per molto sarebbe finita con lo sbattere la testa sull’ anta dell’ armadio. Scivolò su quella pista di pattinaggio per raccogliere l’ orribile divisa che aveva buttato sul pavimento, almeno non evidenziava eccessivamente la sua figura minuta. Abbassò lo sguardo per evitare di incontrare il proprio riflesso, l’ unica cosa che la spaventava. Seno appena accentuato, costole che facevano capolino e due stecchini al posto della gambe, non c’ era niente che valesse la pena guardare. Tra vent’ anni avrebbe potuto essere la donna più potente della Gran Bretagna, ma che ne sarebbe stato del suo aspetto, sarebbe rimasta così per sempre, sola, non desiderata? Strinse le piccole mani in due pungi, forte, sempre più serrati finché le unghie mostruosamente lunghe si conficcarono nella pelle, distogliendola da tutti i pensieri. Solo i bambini e i servi della gleba piangevano, lei ormai era grande e troppo ricca per poterselo permettere. I muri avevano occhi e orecchie, i muri l’ avrebbero vista e ben presto l’ unica cosa che sarebbe stata associata alla faccia della bionda sarebbero state risate di scherno. Scosse la testa affrettandosi ad infilare la divisa, lasciò scivolare la camicia sopra la sua testa e si assicurò che la gonna fosse abbastanza stretta. Passò alla cravatta, ripercorrendo a memoria il nodo che era solito farsi suo padre, infilandosi un pullover e le scarpe subito dopo. Fuori faceva freddo? Non era mai uscita fuori da Hogwarts, come poteva saperlo. Allungò il braccio verso una gruccia afferrando un pellicciotto, uno di quelli che mamma le aveva fatto comprare solo perché andava di moda così e nonostante fosse fin troppo grande e scomodo preferì buttarselo addosso, aveva ancora un minimo di amor per la sua salute, poi non sarebbe stato saggio rimanere vulnerabile in un ambiente come quello. Dopo quelli che dovevano essere stati quindici minuti lei più un gruppo di poveri inglesi qualunque si ritrovarono nella fantomatica Hogsmeade, una cittadina piuttosto piccola e odorante di quello che doveva essere urina di cavallo. Maleodorante, fredda, rozza ed infestata, dov’ era capitata? Un timido sorriso incominciò a fare capolino sulle labbra della Beaumont, ora che era fuori da quella prigione poteva fumare. Approcciò una figura poco lontano da dove si era fermata, alzò la testa per incontrare gli occhi del servo della gleba –fottuti inglesi, sempre così dannatamente alti- «as-tu une cigarette?» si morse la lingua quando realizzò si aver posto la domanda nella lingua sbagliata, non tutti dovevano essere abbastanza istruiti da capire il francese «cioè, hai una sigaretta?» lasciò che fosse un leggero colpo di tosse a mascherare la sua insicurezza, non sicura di aver posto la domanda correttamente, ma Dio, era straniera, aveva tutti i motivi per essere nervosa.


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    Insulta la vita e chiede una sigaretta a qualcuno, fatevi avanti (??)
     
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    withpotatoes do it better

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    idem withpotatoes « it's a bad day not a bad life »
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    «non capisco» Idem Withpotatoes, voce dell’innocenza e della confusione since sempre, strinse le piccole mani paffute sullo stipite della porta. I grandi occhi azzurri, troppo grandi a dire di molti, curiosavano l’interno della stanza con una lieve patina umida, il labbro inferiore tremolante. Stava lì, a dondolare sui talloni davanti l’uscio della Sala delle Torture, cercando un motivo. Hogwarts, per la quasi dodicenne Idem Withpotatoes, era un sogno che si avverava: era stata avvertita, in tono dolce da Nathan e piccato dalla nonna, che lì non comprendevano quelli come loro, che non era come essere a casa. Babbanofili, li chiamavano. Perfettamente inseriti in un contesto urbano dove non dimorava alcun mago, come le suggeriva sua madre quando Idem volgeva lo sguardo dubbioso su di lei. «cos’è?» domandò in un sussurro flebile, con la melodiosa voce trasognata che l’aveva fatta etichettare come svampita. La scuola non era come se l’era immaginata. C’erano tantissimissime persone, e sembravano tutte così simpatiche!, però succedevano delle cose strane. Cose che Idem, troppo innocente per sporcarsene le pupille, proprio non concepiva. La sua mente rigettava quello che i suoi occhi vedevano, obbligandola a dare una forma diversa alla realtà effettiva. Qualcuno, con il senno di poi, avrebbe potuto affibbiare quel tratto peculiare all’incipit della malattia; fantasia fervida, la definiva sua madre.
    «mi raccomando idem, fai attenzione a quello che fai. Nathan si prenderà cura di te, okay?» e idem, all’epoca, ci credeva. Ormai sappiamo tutti che nessuno dei Withpotatoes si prendeva davvero cura dell’altro: era più un reciproco sostenersi per inerzia, come cento palline incastrate così strettamente in una porta, da non cadere né da un lato né dall’altro. Si tenevano insieme stando insieme, loro. Aveva annuito, con quel sorriso dai denti storti e gli spettinati capelli corvini, quasi saltellando sul posto. Come ogni anno, a settembre la famiglia si era recata a King’s Cross per accompagnare Nathan. La differenza era che quell’anno, finalmente!, ci sarebbe stata anche lei. Le avevano raccontato cose brutte sulla scuola, ma lei non ci aveva mai creduto. Se Nathan la frequentava, non doveva essere così male. «saluta le tue sorelle» come se ci fosse bisogno di dirlo. Idem prese in braccio Darden, che a quattro anni già la odiava (come dimostrò premendo le mani sulla faccia di Idem e spingendo con quanta forza possedeva), sommergendola di baci sulla testina scura. Lasciò la sorellina, come avrebbe fatto senza di lei?, per lanciarsi su April, che di lì a tre anni avrebbe cominciato lo stesso percorso. La strinse a sé a lungo, continuando a blaterare su quanto Hogwarts sarebbe stata bella, su come le avrebbe scritto ogni giorno, e ricordandole che la nonna nascondeva i biscotti nell’armadio più a sinistra. «IDEM STIAMO PER PARTIRE» e voi direte, Nathan urlava perché era già sul treno? No, solo perché era Nathan. Anche il fratello stava ancora salutando la famiglia. «ci vediamo a natale okay?» aveva preso il volto di April fra le mani, lasciandole un bacio umido sulla fronte. Ed ancora attendevano, i due fratelli in partenza per Hogwarts, con le valigie sul primo scalino del treno. «andate!» li ammonì Lena, mentre Nathan e Idem si scambiavano un’occhiata. Alla fine fu il fratello a prendere parola, esponendo i fatti con la semplice ovvietà di ogni Corvonero. «aveva detto che sarebbe arrivato» Idem annuì, allungando le mani per sistemare ancora i capelli di April. Era chiaro che Idem amasse tutti i suoi fratelli, ma April era la sua bambolina - la sua prima sorella minore! Erano cresciute insieme, ed al contempo era sempre stata Idem, di tre anni più grande, ad occuparsi di lei quand’era una batuffola. Non l’aveva mai lasciata da sola, neanche per un istante. Aveva chiesto se poteva portarla in valigia con sé, ma Nathan le aveva fatto notare che, a meno che non l’avessero tagliata a pezzi, non ci sarebbe entrata. «dobbiamo ancora salutarlo!» rincarò la piccola Withpotatoes, che da una parte fremeva per saltare sul treno e partire, e dall’altra non poteva farlo se non aveva salutato tutti. Andava contro i suoi principi! Già dover lasciare Nonna a casa («tanto vi rivedo fra tre mesi, pidocchi») le stringeva il cuore, ma almeno l’aveva salutata. Il sorriso della madre si addolcì, mentre avanzava di un passo per lasciare una carezza sul volto di Idem, una mano a stringere la spalla di Nath. «lo sapete che gemes non verrà» lo sapevano? La futura Tassorosso guardò Nathan, perché era sempre verso di lui che volgeva lo sguardo quando aveva bisogno di conferme. Vide un guizzo di rammarico negli occhi chiari del fratello, subito sostituito da un sorriso a trentadue denti. «certamente impegnato, comprensibile» chissà quanti impegni poteva avere un ragazzino di tredici anni. Ma i Withpotatoes erano fatti così: loro ci volevano credere. Idem annuì con fervore, rispondendo con un sorriso quasi speculare a quello di Nathan. «salutatecelo voi! Ci mancherete tutti tanto tanto tanto tanto…» prese la valigia, sbuffando per il peso, e la trascinò su per gli scalini. «tanto tanto tanto tanto…» proseguì nel corridoio, sentendosi così eccitata da avere giramenti di capo. «…tanto tanto!» concluse, affacciandosi al finestrino dove aveva preso posto, salutando con la mano sua madre e le sue sorelline. Ed ancora non sarebbe bastato a spiegare quanto le sarebbero mancati.
    Una bambina particolare, Idem Withpotatoes. Non aveva avuto timore neanche una volta di quel viaggio, o di quella vita. Sapeva con certezza che sarebbe stata una Tassorosso, così come era certa che avrebbe trovato un sacco di amici. Se cercate ottimismo sul dizionario, trovate una foto di Idem.
    Eppure, non capiva.
    Mosse un timido passo all’interno della stanza, poggiando le mani sul caldo muro di pietra. Caldo? Ritrasse la mano, i polpastrelli sporchi di una sostanza appiccicosa. Ed ancora non capiva, Idem. Corrugò le sopracciglia, chinandosi verso il ragazzo seduto per terra. Aveva la testa poggiata al muro, gli occhi chiusi, ed una gamba piegata in posizione innaturale sotto di sé. Inspirò, le labbra dischiuse, allungando un dito verso la sua guancia. Fredda.
    Quando la trovarono, Idem era ancora accovacciata vicino al cadavere, le mani sporche di sangue ed i grandi occhi azzurri spalancati ma ciechi. Non avrebbe saputo dire quanto tempo era passato: un minuto, un’ora? Dieci anni? Qualcuno la afferrò per le spalle, trascinandola fuori. «WITHPOTATOES COSA FAI» un uomo basso, con i capelli cortissimi su una testa davvero molto rotonda, si inginocchiò di fronte a lei. «sta bene?» «chi?» «lui» indicò con il pollice la sala delle torture alle proprie spalle. Lo sguardo dell’insegnante di Trasfigurazione, nonché responsabile dei Tassorosso, s’incupì. «cosa credi che stia facendo?» che domanda strana. Idem aveva guardato le proprie mani, poi era tornata sul viso dell’uomo. «sta dormendo» era abbastanza grande per capire che no, non stava affatto dormendo; ma Idem, inconsapevole vittima, era malata: la sua mente non funzionava in modo corretto, e di certo non come quella di uno qualunque dei suoi compagni. Era impossibile farci caso: Idem Withpotatoes era la pallina di un pinball infinito, un concentrato di energia allegra in confezione tascabile, una caramella di pura felicità. Aveva un sorriso per tutti, anche per chi la trattava con sdegno o per chi le faceva un torto – anzi, soprattutto per loro. Ma. Ma c’erano momenti in cui Idem non era più solo Idem. Accadeva di rado: di notte, perlopiù. Erano voci, di solito. Quando si presentava una scena violenta, quel particolare meccanismo s’innescava per salvaguardare la parte sana di Idem, lasciando a prendere il sopravvento quella distorta, che non riconosceva la morte. Non riconosceva tante cose, quella. «sì…» il professor Boyle deglutì. «sì, sta dormendo» l’accompagnò abusivamente nel bagno dei prefetti, dove la pulì del sangue che, cremisi, spiccava in modo tetro sulla pelle pallida di Idem. «Ora vai a prepararti, il primo gruppo è già partito! Via via via VIAA» la spinse giù dalle scale, quasi facendola capitombolare nei sotterranei ove si celava la sala comune dei Tassorosso.
    Partire?
    O emme gi.
    «GITAAAAAAAAAAAAAAAAAA» rotolò nella sala comune come un piccolo uragano, abbracciando chiunque le fosse malauguratamente capitato a tiro. La prima gita ad Hogsmeade!!!! Aveva già visto la cittadina magica, certo, ma non con i suoi compagni. UNA GITA!!! Si stropicciò le guance, saltellando a destra e sinistra senza una vera meta. Era troppo esagitata per darsi un contegno, o un obiettivo, quindi si limitò ad appollaiarsi sulla spalla di tutti i suoi amici. Chiaramente, Idem li amava tutti. Poi che il rapporto fosse unidirezionale, era un dettaglio davvero irrilevante. «andremo allo zoo? Andremo al luna park? Che bello! Volete un biscotto?» a caso. Idem non andava da nessuna parte senza biscotti, quindi spesso e volentieri ne offriva a chiunque avesse avuto il coraggio di risponderle – ma anche a chi non le rispondeva, effettivamente. Cosa ci volete fare, era fatta così già all’epoca. «da madama piediburro hanno la cioccolata più buona del mondo!» continuava a pubblicizzare, ruotando su sé stessa. Nessuno voleva andarci perché era troppo rosa, ma andiamo! Innanzitutto, il rosa era un colore di tutto rispetto, altrimenti non avrebbero avuto l’epidermide di quel colore (wat). E poi possibile che non riuscissero a gestire un po’ di cupidi volanti, per una cioccolata calda? Come il mondo potesse essere così allergico all’amore, era per la Withpotatoes un mistero.
    Per inciso, a ventitrè anni era ancora un mistero.

    Quando arrivarono ad Hogsmeade, Idem stava già iperventilando. Dovette stringere con forza i pugni contro i fianchi per impedirsi di molestare chicchessia, le labbra strette fra i denti mentre un sorriso brillava fulgido negli occhi blu. Cioè!!! Ma quanti altri compagni c’erano!!1!!11!!! Gente che, giustamente, non l’aveva mai neanche degnata di un’occhiata. ERA COSÌ EMOZIONATA LI AMAVA VI PREGO DIVENTIAMO AMICI. Le era stato fatto notare che, se voleva approcciarsi senza terrorizzare il proprio interlocutore, doveva placarsi. Non troppo, giusto quanto bastava per non sembrare una psicopatica. Non era certa del significato di psicopatica, ma per cortesia aveva annuito affabile.
    Si strinse nel suo abitino azzurro pastello, sistemando nervosamente il nastro del medesimo colore fra i capelli. Respira Idem, respira Idem, respira Idem. Piaci a tutti, okay? Nascose il volto fra le mani, costringendosi a respirare. Era così difficile concentrarsi, quando nella sua testa c’era solo kxilugwenrfemslken. Letteralmente (wat). Fece per avvicinarsi ad un gruppo di compagni, improvvisamente carica come Nonna quando qualcuno diceva Kinder, quando qualcosa la fece cadere a terra (aka qualcuno la spinse per terra, ma preferiva credere fosse stato un incidente). Ruzzolò sul pavimento like a ballerina, mentre qualcuno le sfilava il nastro dai capelli con una risata. «oh» disse semplicemente, rimanendo seduta sul selciato mentre i ladri proseguivano il loro percorso facendole strani versi animali (?). Gli sorrise, agitando la mano in un entusiasta cenno di saluto. «tranquilli, ne ho un altro a casa! Grazie!» ma grazie cosa?
    Non ci è dato saperlo.
    Era una Idem, dopotutto. Cosa vi aspettavate?


    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia



    Non interagisce con nessuno, sul serio. Ma vi ama #wat

    p.s. scusate, non ce la faccio proprio a non essere creepy #stranifetish #wat
     
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    Le unghie, perfettamente curate grazie alle costose cure di amortentia, non erano mai state più interessanti di quel momento. Voglio dire: Gina aveva sempre saputo di avere delle unghie meravigliose, ma diamine. Quel giorno parevano proprio illuminate di luce proprie, dieci mini graal sulle sue altrettanto magnifiche mani da pianista. Non che avesse mai provato a suonare il piano: tutti sapevano che il talento di Gina Linetti, insegnante di volo e responsabile dei Serpeverde, era il ballo. Le avevano dato quell’importantissima carica, insegnante a capo della casata, giusto quell’anno. Ella, magnanima, aveva accettato umilmente il ruolo. Il verde le aveva sempre donato. Inspirò, puntando gli occhi sul soffitto a volta del suo ufficio. «se solo beyoncè fosse una strega» se la preoccupò l’aver interrotto il monologo della studentessa seduta di fronte a sé? Affatto. Nulla di quanto stava dicendo avrebbe potuto essere più interessante di qualunque cosa detta da lei, figurarsi quando menzionava Beyoncè. Quei ragazzini avrebbero dovuto imparare quali erano le priorità della vita, prima di bussare alla sua porta. La giovane, corti e scialbi capelli castani e sottili occhietti scuri, aggrottò le sopracciglia. «ma-» La Linetti le posò un dito sulle labbra, intimandole di tacere. Congiunse poi le mani, agitandole nell’aria di fronte a sé. «tesoro, non interessa a nessuno, okay? A nessuno» sottolineò, con un sorriso altezzoso sulle labbra. Gli occhi azzurri neanche riuscivano a mettere a fuoco la fanciulla, troppo impegnati a ricercare il proprio riflesso nello specchio posto dirimpetto alla scrivania. «ha cercato di … uccidermi» enfatizzò la serpeverde, quasi incredula. Ah, allora era di quello che le stava parlando. La professoressa Linetti aveva appena avuto un dibattito interiore con sé stessa, e non aveva udito nessuna parola: meglio Gina versione Quidditch, o Gina versione Responsabile? Dubbi leciti. «non lo metto in dubbio, con quei capelli ci avrei provato anche io. Ora potresti gentilmente…» agitò la mano, invitandola a levare il disturbo. La sua sola presenza pareva rendere la stanza più tetra, ed era l’ultima cosa di cui Gina aveva bisogno. Rovinava l’atmosfera. Appena la studentessa se ne fu andata, prese la rivista del Vanity Witchcraft, aggiornandosi sugli ultimi gossip del mondo magico, ed accompagnò una tazza di tè con un bollettino di Polgy Girl, ridendo di scherno di tutti quei falliti: se non avevano Gina Linetti, non avevano nessuno. Nessuno. Un rumore di sottofondo cercò di distrarla dalla sua lettura, ma Gina non ci diede peso: ignorare il genere umano era una delle doti di cui andava maggiormente fiera, dopo la sua favolosa presenza che rendeva il mondo un posto migliore, ed il suo talento nella danza. Sollevò i rotondi occhi azzurri dalla pagina di giornale, trovandosi a pochi centimetri di distanza dal volto dell’insegnante di Strategia, nonché vice preside di Hogwarts. «ew» commentò con stizza, ma senza spostarsi né posare la rivista. «gina» era sempre un piacere udire il proprio nome. «la prossima volta potresti metterti un campanello, come la tigre da compagnia di katy perry? Sai, per cementare l’aura esotica che traspare dalla tua pelle color ebano» esordì, alzando le mani per mimare un arcobaleno. Raymond Holt inclinò il capo prima da una parte e poi dall’altra, come una grossa e scura civetta. «mi sento molto lusingato» rispose inespressivo. Normalmente sarebbe stato impossibile definire l’espressione di Holt, ma alla Linetti non importava: lei vi leggeva solo profonda ammirazione nei propri confronti, com’era giusto e lecito aspettarsi da chiunque. «emoticon che fa l’occhiolino» rispose ammiccando, citando un nuovo trend di Strega Moderna. O meglio, un trend che lei aveva lanciato, e Strega Moderna aveva plagiato. Non che potesse biasimare la redazione: tutti avrebbero dovuto prendere ispirazione da Gina Linetti. «sono qui per parlarti di una questione urgente. Quest’oggi come ben saprai c’è la gita ad Hogsmeade…» L’insegnante di volo alzò le sopracciglia, sporgendosi verso l’uomo. «certo che non lo so, ci siete già voi a saperlo. Il mondo ha bisogno che Gina Linetti si concentri sulle cose davvero importanti, che non un mucchio di ragazzini in overdose da zucchero» sempre con quel sorriso sulle labbra, quasi pietoso nei confronti di una realtà che non la coinvolgeva. Raymond rispose di nuovo con l’occhiata alla Holt, squadrandola con gli scuri occhi neri. «dicevo. La professoressa Bulstrode ha dovuto disdire, il che significa che abbiamo un posto vacante. Mi piacerebbe che venissi tu» ma certo che gli sarebbe piaciuto. A Lady Stregaga sarebbe piaciuto che Gina aprisse il suo concerto, ma di certo non l’aveva fatto. «ho cose importanti di cui occuparmi. questo bel viso non si guarda da solo» spiegò, con la calma che avrebbe usato con un bambino. Holt intrecciò le dita sulla scrivania, la schiena dritta e lo sguardo severo. «forse non sono stato abbastanza chiaro, Linetti: il mio era un ordine» si ritrasse, poggiandosi contro lo schienale della sedia mentre Gina, dall’altra parte, si portava una mano al cuore. «questo… questo è offensivo» Holt si strinse nelle spalle, le labbra sempre imbronciate. «e poi qualcuno dovrà decidere la musica nel juke box. Vuoi lasciare questo compito a…» silenzio d’attesa, mentre Gina si piegava in avanti per udire la risposta. «… peralta?» concluse Holt, facendosi se possibile più impettito. «oh, no» Gina si prese il viso fra le mani, attenta a non spettinarsi la perfetta chioma castano dorata. Sospirò, allungandosi poi sulla poltrona girevole che aveva convinto Raymond a comprare, le dita giunte fra loro sopra lo stomaco. «verrò» Holt si alzò, un severo cenno con il capo prima di girare sui tacchi ed andarsene.
    «e gina linetti salva ancora la giornata » sorniona, osservò l’uomo allontanarsi nel corridoio. «come vivrebbero senza di me? Sono davvero un dono di Morgan» si baciò la punta delle dita, alzandole poi al cielo.

    Con il suo impeccabile abito blu, Raymond Holt, le dita congiunte davanti a sé, guardava sfilare la filza di ragazzini. Non aveva bisogno di un taccuino, lui: le presenze, le teneva a mente. Le labbra imbronciate, le palpebre socchiuse. A coprire gli scarmigliati (perfetti) corti capelli bianchi, uno zuccotto blu con fantasie floreali. Quell’anno aveva perso la scommessa annuale con Peralta, il quale era riuscito ad intrufolarsi nel suo ufficio per rubargli la Piuma di Cavallo Alato al quale era davvero affezionato, e quello era il prezzo da pagare. «HOLT! Pensavo fosse felice di questa gita!» lo raggiunse il suddetto, stringendogli un braccio attorno alle spalle. Impassibile, l’insegnante di Strategia ruotò gli occhi verso di lui. «infatti lo sono» rispose in tono monocorde, ricambiando l’occhiata di Jacob. «sono davvero emozionato di essere riuscito a portare fuori gli studenti» (e chi l’avrebbe mai detto? Non Jacob Peralta, o Sara qualunque altro studente nei dintorni). «hanno bisogno di … aria aperta, i giovani» rispose risoluto, spostando il braccio del collega così che non lo ammorbasse più con il suo peso. «nah, non credo sia quello di cui i giovani hanno bisogno. Forse un po’ d’erba farebbe al caso loro» Aveva portato lo sguardo sulla folla, ma nuovamente ruoto gli impassibili occhi scuri sul collega. «peralta, sta forse suggerendo di drogare i nostri studenti?» il silenzioche ne seguì, fu piuttosto eloquente. Jake rispose sbuffando sonoramente un «coooooooooooooosa?» al quale Raymond non potè che replicare con un’infinitesimale alzata di sopracciglia. «lo trovo esilarante» con il tipico tono monocorde, gli indicò di proseguire il cammino verso la cittadina magica, andando invece a camminare al fianco della Linetti. «vedi, Linetti… di corvonero ce ne sono pochi. Qualcuno prende sul serio il proprio lavoro di studente» era orgoglioso? Irritato? Chi poteva dirlo. La leggenda narrava che le espressioni di Raymond Holt, responsabile della casata blu bronzo, fossero come il temuto gatto di Schrodinger: felice e/o triste, impossibile saperlo finchè non si apriva la scatola – o, nel suo caso, riteneva opportuno sottolinearlo. Non capiva come le sue parole potessero causare quella confusione, quando ad egli pareva ovvio. Ma cosa poteva aspettarsi da un gruppo di plebe che non rideva alla battuta: cosa chiedi ad un babbano? «mago?» «no». («professore, è una battuta?» «certo che lo è. ed è anche un dato di fatto, il che rende doppiamente divertente») Non era colpa sua se i giovani non si rendevano conto di quanto promiscuo fosse diventato quel mondo, con convinti babbani che invece erano figli illeciti di maghi – e da lì, mago no. «no Holt, non ho visto» rispose Gina, nel suo maglioncino fatto a maglia color bosco. «perché non mi interessa, okay? Non. Mi. Interessa.» chiarì, premendo una mano contro l’altra ed agitandole entrambe nell’aria.
    Tzè. «solo perché ci sono troppi serpeverde, i quale invece non stanno svolgendo il loro lavoro. Quello lì, per esempio…» indicò con il tozzo dito un biondino che sapeva appartenente alla casata di Gina, Eugene Jackson. «sta…» di nuovo la pausa, respiro sospeso. «fumando?» concluse, impettendosi. La Linetti si avvicinò al ragazzino, battendo con l’indice sulla sua spalla. «scusa, bambino brutto, stai fumando?» gli prese la sigaretta dalle dita, reggendola appena con la punta dei polpastrelli, quindi si rivolse nuovamente a Raymond. «oh, ma pensa. Sta fumando davvero. Scioccante » «HOT DAMN» esclamò Holt, battendo le mani fra loro. Gina battè lentamente le palpebre, ridando la sigaretta al Serpeverde. Due misurate e scattanti pacche sulla testa, e Raymond era abbastanza vicino da poterne udire la conversazione che ne seguì: «bravo. Se devi morire, puoi per favore farlo durante le vacanze? Grazie» accondiscendente, reclinò il capo volgendo uno dei suoi sorrisi più abbaglianti al Jackson, tornando poi trionfante verso Holt. Maledetta Linetti, an amazing detective witch-slash-genius. Quella donna era piena di risorse, per questo aveva desistito dal licenziarla malgrado le fossero giunte voci riguardo lezioni nel quale ella passava ore a leggere romanzi rosa, anziché insegnare a quelle giovani menti brillanti a volare su una scopa rispettando le normative di legge (?).
    «andiamo a controllare che ai Tre Manici nessuno scapestrato stia infrangendo la rigida regola riguardo… » La Linetti lo osservò, attendendo che completasse la frase. No, scherzavo: si era solo messa ad osservare come il cappello di Holt facesse risaltare i denti incredibilmente bianchi dell’uomo. «l’alcool» La donna annuì, un sorriso a labbra dischiuse sul volto. «ma che cosa entusiasmante, holt. Quasi quasi torno al castello e mi leggo tutti gli articoli sul contrabbando di puffole pigmee in Siberia che la Bulstrode tiene nel suo ufficio. Emoticon che ammicca, punto esclamativo»

    I agree that they are perfectly horrid, but kill them and they should think themselves important
    | 50 shades of grey | code by ms. atelophobia
     
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    13 | ravenclaw | second year
    Stilinski Nick
    sloth | 2004 | pensieve | sheet
    my friends say i should act my age... what's my age again?
    Non appena scopri di essere un mago, sei incredibilmente felice per svariate ragioni. Innanzi tutto: hai dei poteri, cazzo. E’ una figata pazzesca a prescindere. Secondariamente, pensi a come poter usare la magia per essere ancora più pigro e funziona incredibilmente bene. L’Accio diventa il tuo stile di vita, così come il gratta e netta. Poi realizzi che non dovrai andare a scuola e fai i salti di gioia, perché sei un ragazzino e ti esalti con poco. I lati negativi, come sempre, arrivano dopo. “Mezzosangue” è come buona parte degli altri studenti finisce per chiamarti e per un po’ continui a chiederti cosa significhi e che importanza abbia. Magari riesci persino a trovare qualche amico, disponibile a spiegarti che è un insulto. Forse non fai nemmeno in tempo a capirlo, ma ti obbligano dei professori con un viaggio in sala torture senza ragione e finalmente comprendi cosa fossero quelle urla che sentivi quasi ininterrottamente. Ti rendi finalmente conto che era solo questione di tempo prima che ne diventassi un cliente abituale, ma non sei stupido. Sai che essere il clown è il miglior modo per evitare che le persone ti odino e così ci provi. Se funzionava tra i babbani, perché non lì? La discriminazione c’è, ma una volta che vieni conosciuto come lo scemo di turno sei a posto. Se ti prendi per il culo da solo, è difficile che lo facciano gli altri. Quindi continui a camminare per i corridoi, relativamente sicuro, occasionalmente con tanto di vestiti babbani e raccontando storie di videogiochi a chi passi come se fossero tue avventure, o iniziando a sostenere l’inesistenza dei dinosauri ed altre teorie stravaganti. Quella che è iniziata come protezione, finisce per diventare quasi divertente. Eppure nessuno può difenderti dalla parte peggiore: i compiti e le responsabilità. Ugh.

    Era il secondo anno di scuola, oramai, per Nick Stilinski. Dopo la rivelazione shock dell'anno precedente (alias l'essere finito nella casata di 'quelli intelligenti'), continuava a non riuscire ad immaginare cosa potesse attenderlo in una vera e propria cittadina magica. Sì, aveva visto parte di Diagon Alley, ma Hogsmeade -da quel che gli raccontavano- era tutt'altra storia. Eppure il problema era sempre lo stesso: niente elettricità, da nessuna parte. Aveva provato ad accendere il proprio mp3 scassato l'anno prima ed era finito in una stupenda esplosione e punizione. Il fatto che alcuni natobabbani fossero riusciti a far funzionare una playstation, o un'xbox, probabilmente era solo leggenda. Eppure continuava a sperarci, perché? Ragazzi, era uscito Halo 2. Doveva giocarci, altrimenti sarebbe tornato in estate con una bellissima scritta "perdente" sulla fronte per tutti i suoi amici babbani. No, non poteva finire così. Per quella ragione, in tale giorno non specificato perché la precisione fa schifo a tutti i player, aveva deciso di cominciare a rompere le scatole a chiunque per ottenere ciò che voleva. Maghi abbastanza bravi, qualcuno disposto ad aiutarlo, qualsiasi cosa pur di avvicinarsi al suo obbiettivo senza sforzarsi troppo. L'intelligenza che l'ha portato ad entrare in Corvonero sta solo nel cavarsela in situazioni improbabili. Era tempo di applicare definitivamente questa sua abilità. Indossava un cappellino di lana nero, quasi perenne indipendentemente dalla stagione. Una camicia rossa e blu e quadri, con i bottoni abbottonati in modo sbagliato, spostati di uno verso il basso e con gli ultimi due lasciati aperti. Tipico look da Nick Stilinski. Una felpa nera e dei jeans leggermente sgualciti, il tutto unito ad un paio di converse blu. Eppure qualcosa era sbagliato, quel giorno. Era diverso dal solito. C'era un'aria strana e sapete come potreste capirlo? Nick stava correndo. Esercizio fisico ed il peggiore. Era una corsa un po' strana, leggermente a zig zag ed a continuo rischio di affanno, ma ancora più alto di colpire qualcuno visto come si guardava intorno e non di fronte. Ovviamente, la collisione non poteva che avvenire con, tra tutte, la persona che più avrebbe potuto fargliela pagare. 1, 2, 3.... SBAM. «Ah! Merd...coledì OH CAZ-SPITERINA MI SCUSI SIGNOR HOLT!» Insomma, proprio dopo che quello aveva osannato i propri studenti. Prima che riuscisse a prenderlo per il cappuccio della felpa, il braccio, o qualsiasi arto/pezzo di abbigliamento, la decisione del Corvonero fu di darsela a gambe.
    Il tutto, per finire di fronte ad una ragazzina sul pavimento, che per poco non calpestava. Inclinò leggermente il capo verso sinistra, con le mani lungo i fianchi. Entrambe le sopracciglia alzate -ma si poteva notare come si stesse sforzando, senza risultato, di alzarne solo uno.- Un momento di imbarazzante silenzio da parte sua mentre la fissava, aggiungendo uno «Stai bene?» dopo quello che era sicuramente risultato come fin troppo tempo. Nick Stilinski, socially awkward teenager. Nessun sorriso, perché in fondo era l'immagine vivente di un grumpy cat, ma qualcosa l'aveva fatto fermare. Quel qualcosa era il fatto che l'altra stava intralciando il passaggio e non poteva scappare oltre da un'eventuale furia del capocasata. In fondo, sembrava non troppo in vista. Quindi sapete che aveva deciso di fare? Forse aiutare l'altra ad alzarsi, pensereste. Vorrei ricordarvi di chi stiamo parlando. Troppo pigro per sforzarsi ed aiutarla, troppo 'buono' per passare o per romperle le scatole. No, il corvonero si sedette per terra accanto all'altra, eventualmente appoggiando la schiena a qualsiasi struttura nelle vicinanze. «Conosci qualcuno che si intende di elettricità?» Chissà se sapeva anche solo cosa fosse, trattandosi di cultura babbana. «Devo riuscire a giocare a un videogioco. Halo 2, è il secondo di una serie, l'hai mai sentito?» Se la risposta fosse stata un no... Nessuna ragione di preoccuparsi, aveva intenzione di spiegarlo in ogni caso. Stese per bene le gambe, col rischio di far inciampare persone di passaggio, per poi incrociare le braccia. «Beh, è fantascienza, ma è uno sparatutto in prima persona fighissimo! Insomma, Master Chief è stupendo. Tutte le armi sono diverse, c'è persino un multiplayer!» Perché sicuramente tutti i maghi sanno cosa significa e conoscono qualsiasi videogioco, no? O forse stava semplicemente sfruttando la ragazza come se fosse un muro, per sentirsi meno solo nel parlare. «Però nulla di elettrico funziona qui. Però non sono mai stato ad Hogsmeade, lo sai se lì va?» Sia chiaro, anche senza risposta affermativa avrebbe provato, ma con qualcosa di orribile. Tipo un bruttissimo circuito con una patata come energia che manco i progetti delle elementari. «Devo giocarci. Se torno quest'estate senza averlo fatto mi fanno il culo e non va affatto bene.» Scosse la testa, convinto. In fondo era già un po' il "tipo strano" per la sua scomparsa durante buona parte dell'anno, alla prossima avrebbero potuto crederlo un troglodita, o uno di quegli hamish. «E già mi credono strano perché secondo me i cavalli vengano dallo spazio.» In pratica questa è la conferma che lo Stilinski aveva tanti problemi fin da bambino.
    |like wat?| code by ms athelophobia


    In puro stile Nick finisce addosso al capocasata corvonero e scappa prima che sia troppo tardi
    poi non aiuta Idem ad alzarsi visto che è pigro, ma le si siede vicino e comincia a parlare perché è scemo.
    potete giocarlo che con le gambe stese magari fa degli sgambetti a caso, ciao.
     
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    Con il gomito poggiato alla scrivania, il mento sul pugno chiuso, Charles Boyle, insegnante di Trasfigurazione nonché responsabile dei Tassorosso, guardava con un sorriso estasiato la sua talpa. La ragazza, primo anno ma occhio svelto, era la sua informatrice personale riguardo i fatti che avvenivano dentro le mura del castello. Aveva adocchiato una futura talpa, un certo Lowell/Henderson, ma era ancora troppo accecato dall’amore per essere utile alla causa. E si sapeva: Charles Boyle non si metteva mai in mezzo ad una ship, neanche per la sacra causa dello shipper club. O meglio, lo faceva, ma con l’unico scopo di far avvicinare maggiormente i membri della ship da lui prescelta. «RACCONTAMI TUTTO» sbrodolò allegro, scuotendosi sulla sedia smunta del suo ufficio. «ho notato delle occhiate, professor Boyle» Emozionato, si strinse le guance con le mani paffute, le labbra dischiuse in attesa che la giovane Tassorosso continuasse il racconto. Sentiva già l’otp sotto pelle, Boyle. «quello sguardo?» incalzò, alzando le fini sopracciglia scure. Gli occhi a palla, apparentemente privi di ciglia, lacrimavano unicorni e feels. La fanciulla annuì con convinzione, sporgendosi verso il docente. «sì… si guardavano, e poi distoglievano entrambi lo sguardo. Ha presente, no?» Se aveva presente? SE AVEVA PRESENTE? Stava davvero chiedendo a Charles Boyle se aveva presente quale fosse quel tipo d’occhiata? Per poco non cadde dalla sedia, improvvisamente pallido e sudato. Una mano al cuore, il capo scosso con dolce rammarico. «oh, mia dolce e piccola creatura umana. Hai così tanta strada da fare» detto ciò, si ritrasse poggiando la schiena al sedile, le mani congiunte come i veri mentori. «quindi… athena carlyle e keanu larrington, eh?» annuì fra sè, socchiudendo le palpebre con espressione seria. Gonfiò il petto, sciogliendosi in un languido sospiro. «bisogna fare qualcosa in proposito. SONO COSÌ PERFETTI. Poi lui ha davvero un raffinato gusto nella scelta del tè, lo conosco ormai. Ogni settimana gli mando il bollettino sui migliori tè di Hogsmeade» specificò con orgoglio, le sopracciglia sempre inarcate su due occhi scuri innaturalmente grandi. Si stava ancora crogiolando nel languore di quella scoperta, un sorriso ebete sulle labbra sottili, quando due pugni poderosi colpirono la spessa porta in mogano. «sììì?» esordì con voce lieve, fingendo di sistemare i fogli sulla scrivania. Quando la porta si aprì, stava giusto dicendo «…studia di più e arriverai di certo ad una bella E!» A buon shipper, poche parole. Il sorriso si allargò maggiormente quando vide l’uomo, E CHE UOMO!, sulla soglia della porta. «indovina chi ha portato…» Jacob Peralta, l’insegnante di Incantesimi nonché responsabile dei Grifondoro, agitò davanti al naso di Charles due tesserini: su uno v’era inciso Podowski, sull’altro Winters. «I BADGE» concluse con voce roca, lanciandogli il primo dei due. Charles lo prese al volo, ruotando gli occhi sul collega nonché migliore amico. «SEI IL MIGLIORE JAKE!» Alzò la mano per schiacciargli il cinque, mentre questi si poggiava con una spalla al muro volgendogli il suo miglior sguardo intenso del repertorio. «Arecoming Winters, Pavor in pensione anticipata a causa di una missione super segreta a cui ha partecipato anni fa di nome Shangai. Divenuto ribelle dopo aver perso la propria famiglia a causa di un errore nel sistema giudiziario, decide di dedicarsi all’arte dell’adescare giovani menti da portare al proprio allineamento, intrattenendosi nel mentre con i lavori a maglia. Punto debole? Le puffole: la famiglia di Winters, infatti, è stata accusata di traffico clandestino di codesti animali. L’ultimo ricordo che ha di loro, è un treno. Ciao, treno» la voce si era fatta più greve, lo sguardo chino testimone di quella grande sofferenza. Charles, ovviamente, guardava l’amico con cieca devozione: le lacrime agli occhi, la bocca dischiusa. Scosse il capo con ammirazione, rendendosi conto per la millenovantesima volta di quanto fosse fortunato ad averlo nella sua vita. «SEI IL MIGLIORE JAKE!» ripetè, alzando nuovamente la mano per battergli il cinque. Jake rispose, come loro solito, con un sorriso storto e le sopracciglia inarcate. Una coppia buffa, Jake e Boyle: ma la migliore. Erano anni che, insieme, avevano deciso di voler cambiare le cose. Avevano sentito millantare della Resistenza (Jake, aveva sentito), ed avevano compreso (Jake, aveva compreso) che quella era una sfida adatta alla loro (di Jake) indole avventuriera. Charles Boyle avrebbe seguito Jacob Peralta anche all’inferno, se solo avesse potuto stargli accanto: non era solo il suo migliore amico, era la sua musa, il suo idolo. Cieco all’amore, aveva bisogno di un Boyle nella sua vita per poterlo vedere con chiarezza; per quanto avesse cercato più volte di indurlo a partecipare allo shipper club, ed ai corsi di cucina tenuti da un certo Spaco (NDA - plot twist: Spaco, prima di diventare il nostro amato barista ronfone, puzzolente, rozzo e sfaticato, era un amante della cucina. Poi ha scoperto l’alcool), ma non era roba da Jake. PER JAKE SOLO IL MEGLIO. L’amico gli diede una pacca sulla spalla, indicandogli con un cenno il corridoio alle proprie spalle. «andiamo, non voglio perdermi Holt con il suo nuovo cappellino» LA GITA! Come aveva potuto dimenticarsene??? Aveva redatto un bollettino di tutti i pub che avrebbe dovuto visitare, così da constatare se i piatti fossero migliorati o peggiorati. Alzò un dito verso Peralta, tornando alla scrivania. «no, charles» ma Charles si limitò ad alzare il capo, felice come un carlino sazio di sardine, annuendo sornione. «sì, jakey» prese la sputacchiera, alzandola trionfante al cielo. Lì era dove sputava ogni boccone dopo averlo assaggiato, così da non riempirsi il pancino prima di aver concluso il tour. «oh, scusa… WINTERS» ed insieme, si diressero verso il punto di incontro.

    Peralta inspirò profondamente, gonfiando il petto scarno di bruciante, ed antico, orgoglio Grifondoro. Un sorriso vittorioso sulle labbra, i pugni poggiati contro i fianchi: anche quell’anno aveva vinto la sfida contro Holt, ed aveva obbligato il collega ad affermare, durante la cena in Sala Grande, quanto egli fosse an amazing wizard-slash-genius. Non l’aveva mai ammesso, principalmente perché al contrario di Boyle non era a suo agio con le emozioni, ma quel sorriso sciocco sulle labbra non era dovuto solo al tronfio sapor della vittoria: Jake vedeva in Holt una figura paterna, qualcuno da cui prendere esempio. Qualcuno da voler diventare, un giorno. Se aveva scelto la Resistenza, l’aveva fatto anche per lui: gli avrebbe dimostrato che c’era qualcosa che non andava, e Raymond avrebbe capito. Lo faceva sempre. Tirò fuori la chitarra (perché aveva una chitarra? Ma la domanda giusta era: perché no?) e se la mise al collo, ammiccando a Gina e Raymond. Charles, appiccicato come una piccola cozza pallida, lo seguiva ad ogni passo. «JAKE!!!!!!» esclamò quello, eccitato come solo un Boyle poteva esserlo, facendo guizzare i bizzarri occhietti da una parte all’altra della via acciottolata di Hogsmeade. «lo so, lo so. Welcome to the murder!» Ma quello, quasi offeso, prese a scuotere il capo con violenza. «no, JAKEY!!!!» Farneticò, gli indicò tutti gli studenti che, allegri, passavano loro a fianco. Solo allora, vedendo lo sguardo dell’amico lacrimare cuoricini, comprese. «oh… bene bene bene perfetto bene bene perfetto okay» ormai lo conosceva abbastanza da sapere che non sarebbe stato in grado di fermarlo.
    E neanche voleva.
    Come un trottolino impazzito, il professore di Trasfigurazione si avvicinò ad ogni ragazzino presente. Si chinò, osservando due giovani a terra (Nick e Idem), e con fare paterno avvolse le braccia attorno alle loro spalle. Nel mentre, Jake strimpellava note a caso con la chitarra, deliziandoli con acuti casuali che Mika fatti una cultura e datti all’ippica. «i’m over the moon, OVER THE MOON» passò un fazzoletto al collega, così che potesse asciugarsi le lacrime. Quanto lo adorava, quando faceva il molesto. Era sempre pronto a supportarlo, quando c’era aria di this agio (e quando sapeva che un tale comportamento avrebbe irritato Holt: quasi riusciva a percepire il minaccioso Peralta vibrare nell’aria). Charles Boyle gli aveva sempre ricordato uno di quei gattini cinesi che si usava mettere dinnanzi alla porta, quelli che salutavano chiunque volesse entrare (sì, Santiago gli aveva detto che invitavano ad entrare, ma ANDIAMO: quale gatto invitava un essere umano a entrare nella propria dimora? Quel saluto, invece, era un chiaro intento minaccioso. Doveva sempre illuminarli lui, sulla vita. Era davvero fantastico). Stava già per fiondarsi verso una coppia di ragazzini (Akelei e Euge) quando … i suoi occhi videro qualcosa di precluso a Jake, troppo concentrato a cercare il proprio riflesso su una vetrina sussurrandosi « Sei bello da fare schifo.» (-cit tratta da “Muori male”, film diretto da Ossequi Portavoce. cast: Morgan Freeman, Keddy, e Britney Spears. Sì, il suo film preferito.). Non ebbe il tempo di comprendere cosa avesse attirato l’attenzione dell’amico, che questo già si era fiondato all’interno dei Tre Manici. Quando anche Jake entrò, lo trovò appoggiato ad una panca, i gomiti sullo schienale ed il faccino rotondo fra le teste di due studenti (ve lo devo dire, chi?). Aspetta… ma erano suoi studenti!! «GRIFONDORO!» Gridò, tirando un pugno sul tavolo, aspettandosi che loro facessero quello per cui erano stati addestrati: ripetere dopo di lui, alzando i calici al cielo. «posso sentirlo, jake» Charles, dopo aver un po’ heavy breathing al loro orecchio, si era rialzato, tronfio e gioioso come un tacchino il giorno prima del Ringraziamento. Aveva puntato i suoi occhietti anche su un paio di ragazzi in lontananza (Keanu e Athena), e sembrava poter esplodere di felicità da un momento all’altro. «che stanno infrangendo le regole? Già, già » confermò, strimpellando nuovamente sulla chitarra. «no, jake» improvvisamente serio, Charles l’aveva preso per le spalle, obbligandolo a girarsi così da vedere la stanza nel suo insieme. Si avvicinò quindi al suo orecchio, dove lasciò un solo, ma intenso, sussurro pieno di tutto ciò che già esprimeva nel suo semplicemente essere Charles Boyle. «l’amore» Peralta strimpellò, giusto per dare la giusta drammaticità alla situazione. «e ora, podowski…» Ammiccò, rendendo nuovamente greve il proprio tono di voce, mentre mimava una pistola con la punta delle dita. «...BALLA CON ME, WINTERS» completò l’amico, alzando la mano nella sua direzione.
    Perché lo sapevamo, ormai: ma era sempre bello sentirlo dire ad alta voce.
    «SEI IL MIGLIORE, JAKE»

    --- jake, you're the best! ---
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    Eugene 'Jakie' Jackson
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    Come lo incasiniamo questo posto?
    Sapeva di aver fatto la domanda sbagliata, Eugene Jackson, e quella certezza trovò la sua conferma nell'espressione confusa che si andava dipingendo sul volto dei suoi inseparabili compagni di vita. Voleva loro davvero un bene immenso, che andava oltre ogni possibile spiegazione, ma per la barba di Morgan, quei due non erano davvero in grado di progettare piani malefici. Non erano dei bulli, in poche parole. Nate aveva una concezione tutta sua di casino e passava da un estremo ad un altro come Tarzan salterebbe di liana in liana per spostarsi attraverso la giungla, senza mai azzeccare il giusto mix di guai e divertimento. Solo due giorni prima stavano per l'appunto discutendo riguardo allo scherzo da fare al professore di Divinazione, per poi ovviamente far ricadere la colpa su un gruppetto di ignari primini, e le proposte del Grifondoro avevano lasciato il ragazzino così perplesso da chiedersi chi dei due fosse realmente quello fuori di testa, opinione che normalmente buona parte della scuola aveva di lui medesimo. Senti questa Jakie! Potremmo spostargli i libri in modo che non siano più in ordine alfabetico!!! Nate... Anzi no, no, meglio, colpiamolo con una scopa mentre è distratto. (winston bishop, sei tu?) Inutile dire che a quel punto il Jackson lo aveva preso per le spalle, scuotendo la testa in un cenno di rassegnazione, e lo scherzo era stato posticipato a mai più. Quanto a Elijah, DAI. Il Dallaire era una mamma. La loro, per essere precisi. E una mamma non fa casino, semmai si impegna affinchè i suoi piccoli ne facciano meno possibile. Questo, manco a dirlo, non gli impediva di venir trascinato nei peggio guai, travolto dalla totale mancanza di preoccupazione per le conseguenze che era tanto rappresentativa di Eugene, anche solo con l'intento di parargli il culo. Che poi, in fondo, si divertisse anche lui nel compiere certi atti di ribellione nei confronti del sistema (?), non ci piove. Il serpeverde pensava la stessa cosa di Rea: poteva fingere di odiarli, fare quella che si vergognava della loro presenza, rompere occhiali e tenere teste sott'acqua fin quasi all'annegamento, ma tutti sapevano la verità. E, era pronto a scommetterci, la conosceva anche lei. Stava con loro perché voleva bene a tutti e tre, con sfumature differenti, alcune delle quali ancora non avevano una natura precisa, o una loro forma riconoscibile. Ma c'erano.
    Un sorriso dolce, amorevole si affacciò sulle labbra del Jackson, dopo una trentina di secondi di estenuante silenzio: poteva sentire i pensieri ronzare nelle loro testoline, mentre si sforzavano di trovare un'idea geniale (nate) o un modo per tornare a scuola senza doverle prendere (eli), e li amò per quello. Allungò entrambe le braccia, afferrando con le mani una spalla per ciascuno, battendo poi con delicatezza sulle stesse. «Non preoccupatevi, cuccioli. Ora ci pensa il vostro Jack.» Una frase pericolosa, una prospettiva decisamente allarmante, «Ma prima, ho bisogno di fumare. Tenetemi un posto, torno subito» Era giovane, Eugene, anche troppo, ma il vizio del fumo lo aveva colto di sorpresa e contropiede, a metà del primo anno, quando durante le vacanze natalizie, aveva beccato Delilah con una sigaretta tra le labbra, nascosta sul tetto della loro casa per non farsi scoprire dai genitori. Condividevano quel luogo da sempre, quando entrambi sentivano il bisogno di staccare da tutto e da tutti, e nessuno sembrava essersi mai accorto delle loro abilità di arrampicatori sociali. L'idea di denunciare la sorella non gli era passata nemmeno per l'anticamere del cervello, e, al contrario, gliene aveva chiesta una per non sentirsi da meno, così era rimasto fregato.
    Uscì dal locale, lasciando l'elite momentaneamente al suo destino, con una mano già a scavare nel taschino della camicia a quadri mentre si faceva largo tra ragazzini accalcati all'ingresso. L'unica pecca delle gite a Howgwarts, secondo il suo modesto parere, era l'immancabile presenza di qualche professore a controllare quella marea di testoline immature, ma non sempre tutto il male veniva per nuocere. Si da il caso, infatti, che Euge fosse capitato in un'annata di grandi soddisfazioni, tra le quali si annoveravano anche due tra i migliori capi Casata che Hogwarts avesse mai avuto l'onore di ospitare. Ma di loro parleremo in seguito, a breve. Una volta ritrovatosi nello spiazzo appena fuori da I tre Manici di Scopa, il serpeverde estrasse dal già citato taschino un pacchetto stropicciato, contenente cinque sigarette girate a mano, così come gli aveva insegnato Delilah. Se ve lo state chiedendo, e io credo di sì, vi tolgo ogni dubbio: Eugene pendeva dalle labbra della gemella in modo completo, totale e, al tempo stesso, liberatorio. Era lei la mente e il braccio, là dove Jakie ci metteva l'anima.
    Ebbe appena il tempo di mettersene una in bocca, di sigaretta, accendendo la parte finale della cartina con uno dei mille accendini rubati a Cole, prima che le coDe cominciassero ad accadere. Come al solito, tutte una dopo l'altra, senza lasciare il tempo di respirare o di capire, in questo ordine. sua spalla. «scusa, bambino brutto, stai fumando?» Un tiro, gli avevano concesso solo un tiro. Poi, due dita affusolate e agghindate con unghie fresche di manicure, gli sfilarono via la sua fonte di concentrazione, necessaria al fine di architettare i migliori e più diabolici piani di conquista. Conquista di cosa, non è dato saperlo. Anyway, in due anni, ma anche nella vita in generale, a Eugene era capitato di sentirsi urlare qualunque tipo di insulto, fantasioso o meno, e visto che quello della Capo Casa verdeargento rientrava nella categoria dei più blandi, si limitò a risponderle con un sorriso luminoso. Nemmemo il fatto che Gina non ricordasse il suo nome, pur essendo il Jackson un serpeverde, rientrava nella normale quotidianità. «bravo. Se devi morire, puoi per favore farlo durante le vacanze? Grazie.» L'ex moro annuì, quando l'insegnante gli passò nuovamente la sigaretta, già voltata in direzione dell'impassibile Raymond Holt. Quell'uomo sì che lo metteva in soggezione: interpretare la sua espressione era una sfida continua, nonché l'obiettivo principale di Eugene per quell'anno scolastico, ben più importante dello studio e della pratica magica. «Ai suoi ordini, professoressa Linetti.» Si mise persino sull'attenti, battendo tra loro i tacchi delle consumate scarpe da ginnastica, il braccio sinistro rigido lungo il fianco e la mano destra che prontamente riportava la sigaretta alle labbra. Ora, fingiamo che questo incontro mistico sia avvenuto per primo, tanto si sa come vanno le cose sull'oblivion con la timeline, Jeff Davis ci fa un baffo (per non dire altro, siamo ancora in fascia protetta, ci sono dei minori). Osservò i due professori allontanarsi in direzione del locale, sbuffando una nuvoletta di fumo nell'aria tiepida del pomeriggio, le iridi grigio azzurre perse nel vuoto come sempre quando la mente del ragazzo tornava a concentrarsi su qualcosa: lo si capiva dalla sua espressione, dai muscoli rilassati del viso o dal modo in cui si grattava distrattamente il mento, che stava per arrivare qualche guaio.
    Nello specifico, Eugene stava valutando l'opzione migliore tra quelle già elaborate per mettere in imbarazzo Rea Hamilton di fronte a Niklaus. Ce n'erano talmente tante, tutte incredibilmente audaci e creative, che scegliere sembrava impossibile. Fosse stato un dodicenne con un po' di sale in zucca avrebbe puntato a quella con le conseguenze più miti, ma tant'è. «as-tu une cigarette? cioè, hai una sigaretta?» Allucinazione: stato morboso in cui ciò che è pura immaginazione viene percepito come realtà. Cole gli aveva forse messo di straforo uno spinello nel pacchetto di sigarette fatte in casa? Doveva essere così, per forza. In caso contrario Euge non avrebbe saputo trovare altra spiegazione per ciò su cui i suoi stanchi occhi (quattro, per la precisione) si erano posati, dopo aver compiuto un mezzo giro su se stesso per seguire la voce. Ne aveva viste di ragazze carine, il Jackson, più un paio considerabili addirittura affascinanti - per quanto lo si potesse essere a dodici anni, ma qui entra in gioco il fattore Hamilton -, ma la biondina le batteva tutte. Forse perché gli ricordava una versione migliorata di Elijah al femminile #wat, o forse solo per quell'aria smarrita in netto contrasto con lo scintillio di fuck you che le brillava nelle iridi chiarissime, un gatto selvatico travestito da tenero micino. Ce l'aveva, il serpeverde, la tendenza ad innamorarsi di qualunque ragazza gli rivolgesse la parola, e in quel pomeriggio del 2004 nemmeno Akelei Beaumont fece eccezione. Legati per anni da un sentimento di affetto e sopportazione santa, i #jackelei cominciarono la loro avventura con una sigaretta e un po' di sano sguardo da triglia, senza nemmeno lontanamente immaginare dove questi li avrebbero portati. Dhroghe, paccate, limoni duri contro i muri (?), insulti e uccisione di dottori impazziti. OUI! Rispose, con la sigaretta incollata al labbro inferiore, colto di sorpresa dal suo stesso entusiasmo. Mai una volta che fosse in grado di mascherare le emozioni, oh. È l'unica cosa che so dire in francese, ma sto prendendo lezioni. E pensare che non era nemmeno una balla raccontata solo per fare colpo, ma la pura e semplice verità, per quanto ci capisse poco e niente. Il biondo Dallaire era un bravo insegnante, ma quando si ha un allievo come Eugene tanto vale rinunciare in partenza. Prese una sigaretta dal solito pacchetto nel taschino, sperando che la ragazzina non la scambiasse effettivamente per una canna e quindi lui per un maniaco che tenta di stordire le sue vittime, porgendogliela insieme all'accendino. Io sono Eugene. Eugene Jackson, ma puoi chiamarmi Jack. Sei al primo anno? Non ti ho mai vista in giro. E credetemi, lui vedeva tutto e tutti. Conosceva mezza Hogwarts e intratteneva un rapporto di odio puro con l'altra metà, difficile potesse sfuggirgli una tale bellezza rara.
    Per capire quanto avvenne subito dopo, serve che io vi spieghi una cosa di Eugene: era un bullo, e su questo non ci piove, ma aveva delle regole. Ad esempio, il gioco finisce quando l'altro scoppia a piangere. Oppure, niente ragazze. Poche, ma basilari. Inoltre, non da meno, da bravo bullo odiava gli altri suoi simili, come un gallo che sente per istinto di dover essere l'unico a comandare nel pollaio. Se in più questi usurpatori infrangevano una delle regole, era la fine. Ma torniamo a noi: il dodicenne, ormai prossimo ai tredici, se ne stava tranquillo ad osservare le delicate fattezze di un'Akelei ancora priva di tette, già immaginandosi cose, quando alle spalle di lei le iridi cerulee si puntarono su qualcosa. Qualcosa che per il Jackson equivaleva ad un vero e proprio affronto, un guanto di sfida lanciato inconsapevolmente. Poco più in là, vicino all'ingresso de I tre Manici, un gruppetto del terzo o quarto anno aveva appena spinto a terra una ragazzina, rubandole poi il nastro che le legava i capelli scuri. Inaccettabile. Figli di.. Sarebbe andato oltre, se fosse stato in compagnia dei Casta e non della giovane biondina francese, ma anche con la frase spezzata a metà di capiva dove voleva arrivare. Premette le labbra una contro l'altra, stringendo la sigaretta tra i denti in un moto di stizza, la punta dell'indice a spingere gli occhiali dalla montatura nera su per il naso. E pensare che per un istante, quella mattina, aveva temuto di annoiarsi, nel corso della giornata. Un sorriso sghembo apparve ad increspargli la bocca, e tutto il viso si illuminò di luce propria, prendendo colore laddove normalmente appariva pallido al limite del malaticcio. Era l'idea di mettersi nei guai, ad eccitarlo, come solo ad un masochista con la m maiuscola capitava. excusez-moi (sì, aveva imparato anche quello) Akelei.. Akelei, giusto? L'ho detto bene? Diamo per scontato che nel frattempo la bionda si sia presentata, freme reggimi il gioco Vado a sistemare una piccola faccenda. Il che, in gergo Jacksoniano, significava andare a cercar rissa.
    Si allontanò di qualche passo dalla Beaumont, gettando a terra la sigaretta fumata per metà - che finì tristemente schiacciata sotto la suola della sua scarpa - lo sguardo fiero e scintillante puntato poco più in là. Non verso Idem, la quale ancora seduta per terra si era nel frattempo trovata un amichetto che le facesse compagnia, ma in direzione del trio di simpaticissimi serpeverde colpevoli del misfatto sopracitato. Ovviamente, il fatto che appartenessero alla sua stessa casata non cambiava la situazione di una virgola, anzi semmai la peggiorava, per tutta una lunga serie di ragioni. Ehi, Plancton. Quello con in mano il nastro di raso azzurro pallido, stretto tra le dita come il macabro trofeo di un cacciatore, si chiamava Henry Plumpton, un cognome assolutamente impossibile da pronunciare, ma che aveva certo il pregio di fornire la presa per il culo su un piatto d'argento. Sapeva di dover agire in fretta, Eugene, se non voleva vedersi calare addosso i compagni del quindicenne, e così fece: quando questi si voltò per individuare chi fosse colui che cercava botte, la testa del Jackson scattò in avanti, bassa come quella di un toro che carica il torero nell'arena, puntando dritto al fianco scoperto di Plancton, con lo scopo di svuotargli i polmoni dell'aria inspirata e far allo stesso tempo mollare la presa sul nastro. Non poteva stenderlo con quell'unico colpo, di questo ne era ben conscio, ma almeno poteva guadagnare secondi preziosissimi, contando sull'effetto sorpresa. Funzionò, come funzionano tutte le cose non gestite dal Fato, e quando la manona del serpeverde perse l'appiglio sul pezzo di stoffa, Euge fu lesto a raddrizzare la schiena e afferrarlo, per poi inserire direttamente la quarta.
    Perchè, a quel punto, poteva solo correre.
    Cosa che effettivamente fece, seguito a ruota da una raffica di TI FACCIO NERO, QUATTR'OCCHI! e insulti vari, prima ancora dello scalpiccio pesante sul selciato prodotto dai suoi aguzzini, rallentando solo una volta arrivato in prossimità di Idem Whitpotatoes, alla quale lanciò in grembo il nastro azzurro: come per Akelei, il ragazzino non poteva sapere quali magiche e mistiche avventure avrebbe condiviso con la tassorosso, compagna apparentemente impensabile di vita. Vi anticipo solo che c'entra il cabaret e il canto a cappella, tipo Glee. Il resto è storia. Non si fermò a parlare con la primina per ovvie ragioni, e proseguì la sua folle corsa a perdi fiato per quei pochi metri che lo separavano dalla sua unica via di salvezza, ovvero I Tre Manici di Scopa. Lì dentro poteva trovare riparo, nascondersi o, quanto meno, accozzarsi a Niklaus, nella speranza che il ragazzo nel frattempo non se ne fosse già andato. Sapete come si dice, il sole bacia i belli (?) e la fortuna aiuta gli audaci: fiondandosi oltre la porta del locale, con la spinta derivata dal suo corpo in movimento amplificata dallo slancio iniziale #whatisfisica, perse il controllo del proprio corpo, andando a sbattere contro quello di un uomo. E non di un uomo qualunque! Jack non aveva ancora avuto il privilegio di conoscere Spaco, impegnato a tenere corsi di cucina per appassionati aspiranti chef, ma già aveva un mentore al quale ispirarsi, con il quale ovviamente si era già stretto un rapporto. Come? Semplice. Una mattina, mentre camminava da solo per un corridoio deserto della scuola, sentì una voce garrula (treccani scelgo te) come quella di una rondine a primavera strillare un affettuoso SEI IL MIGLIORE, JAKE! e solo voltandosi in direzione della fonte, per ringraziare il suo misterioso ammiratore, ebbe modo di incrociare lo sguardo del professor Peralta, intento anch'egli a ruotare su se stesso per accogliere l'abbraccio - giunto poco dopo - del bff, Charles Boyle. Così, tra un whaaaaaaaaaaaaat e un CO-CAINE, s'era fatta la frittata.
    PROFESSOR PERALTA! Che si dice? esordì con una considerevole carica d'entuasiasmo, il serpeverde, mentre si infilava senza troppi complimenti tra i due insegnanti, facendosi così scudo con i loro corpi di adulti autoritari (ma dove) nel momento in cui i suoi inseguitori piombarono nel locale, costretti a mettere da parte il loro desiderio di vendetta. Almeno per un po'. Professor Boyle, che bella giacca. Allora, chi si shippa oggi? Domanda più che pertinente, considerata la propensione del Capo Casa Tassorosso allo stalkeraggio di coppie e coppiette, un interesse morboso che superava di poco quello dimostrato da Nathaniel. Insomma, un mentore esisteva per tutti, a voler ben vedere.

    I'm in the prime of my youth and I'll be young once!
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    CO-CAINE
    parla con i castafracts, akelei, riporta il nastro a idem, scappa (?), parla con Jake e Charles <3
     
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    Guardingo, le mani congiunte davanti al volto nella posa del perfetto giudice –cosa? Non la conoscete?-, osservava tutto ciò che gli veniva posto dinnanzi, le iridi cerulee attente ad ogni piccolo dettaglio che poteva celarsi nelle forme più disparate. Phobos Skeeter, ai tempi ancora ignaro di quale fosse il cognome paterno, raramente sapeva –o doveva- essere severo, ma quando ciò capitava lo era veramente. Sempre incline ai giochi, alle battute e alle prese per il culo, anche e soprattutto quando il soggetto di tutte queste era egli stesso, vederlo in tal modo faceva uno strano effetto. Così tanto concentrato, vigile, le sopracciglia corrugate in un cipiglio duro ed indagatore, non pareva nemmeno che dietro quel tavolo sedesse il diciassettenne tassorosso. Non accadeva spesso, ma arrivava persino ad incutere un certo senso di timore nei suoi sottoposti, i quali, quella mattina, se ne stavano lì, immobili, in attesa del giudizio. C’era chi, in silenzio, mentre il più grande nella stanza –e probabilmente anche l’unico ad essere oltre al terzo anno, ma questo non lo diciamo in giro- titubava nel muovere un dito, la testa prima volta da un lato e poi dall’altro della superficie in mogano, sudava convulsamente, o che irrequieto si rigirava le mani dietro la schiena in un moto disarmonico e quasi spastico, nell’attesa. «sono...» Finalmente, il moro decise che era giunto il momento di alzare lo sguardo sui ragazzini, tutti rigorosamente figli di Helga: erano pochi quel giorno, solo quattro, ma comunque aveva potuto dare un responso all’operato, sia collettivo che del singolo. Ma la mancanza di Idem Withpotatoes, in quella stanza, si sentiva, pesante come un rinoceronte eccessivamente grasso: era appena arrivata in quella scuola, eppure era già diventata la sua personale punta di diamante; non sapeva dove fosse, ma non si preoccupava per lei. Punto primo, era talmente un cinnamon roll too pure for this world che nessuno le avrebbe fatto alcunché; secondariamente, perché era adorabile, come d’altronde tutti gli altri piccoli tassi davanti a lui: se aveva mancato quell’appuntamento, sicuramente era per fare qualcosa da… Idem. Magari aiutare una chiocciola a salire le scale del castello –tra l’altro, già se la immaginava china sul gradino ad incoraggiare il mollusco nell’impervia e difficile impresa, che avrebbe intrattenuto entrambi per diverso tempo-; ah!, era così orgoglioso di lei. Come d’altronde era orgoglioso di tutti loro, erano così… così. Posò gli occhi su ciascuno di loro, sorridendo caloroso ogni volta che cambiava faccia, consapevole di aver creato un’ansia poco necessaria nella desolata Sala Comune dei Tassorosso: trovava decisamente esilaranti quelle situazioni di stallo, silenzi che permettevano all’immaginazione di spaziare tra i più disparati sipari – quando poi li faceva il professor Holt erano eccezionali, diciamocelo. Non tutti probabilmente la consideravano in tal modo, ma lui cosa ci poteva fare? Era per il libero pensiero, Phobos Skeeter, nel bene e nel male. «... meravigliosi. Questi cupcakes sono meravigliosi e non metto in dubbio che siano buoni come l’aspetto lascia immaginare» esordì, carico d’euforia: sapeva, per l’appunto, essere molto meticoloso nei propri giudizi, ma come poteva essere davvero severo se erano così belli? Poggiò i gomiti sul tavolo, prendendosi il volto tra le mani tutto contento: era un traguardo così grande, per lui, che spiegava benissimo l’entusiasmo che sembrava sgorgare come zampilli d’arcobaleno da ogni poro della sua pelle; magari quei giovani ragazzi non potevano capirlo, non tutti ci riuscivano, ma sembrarono sollevati non appena il mago iniziò ad inclinare il capo prima a destra, poi a sinistra, osservandoli tutti con gli occhi dell’amore. Qualcuno iniziò a scaricare la tensione saltellando sul posto, altri più accaldati si sventolavano con le mani per attenuare il calore, e tale atteggiamento non poté che rendere Phobos ancora più gongolante: era così fantastico quando qualcuno lo appoggiava in quelle cose. Di certo, chiedere ad un Keanu o ad un Patrick di preparare diversi dolci da portare nella Foresta Proibita per sfamare le creature che ivi abitavano non sarebbe stato altrettanto fruttifero. I piccoli tassi, invece, facevano al caso suo, nonché sembravano adorare quell’iniziativa. Ovviamente, poi: chi non avrebbe davvero adorato dare da mangiare ad un Acromantula, o ad un Ippogrifo? Per non parlare degli unicorni! Oh, gli unicorni! Era così magnifico da mandarlo in estasi al solo rimuginarci qualche secondo. «Phobos...» la voce del giovane Jimmy Dubicki, un pallido primino dai folti capelli rossi, lo riscosse dai suoi pensieri vaghi, riportandolo alla realtà. «daremo da mangiare anche alla Ford Anglia?» Già intento ad uscire dalla stanza, considerando che si stava facendo tardi e doveva andare alla Gita ad Hogsmeade, la quale sarebbe stata probabilmente l’ultima del suo settennale soggiorno ad Hogwarts, il ragazzo si alzò, avvicinandosi al giovane rosso. Amorevolmente, come solo un padre avrebbe saputo fare, posò la mano sulla sua testa, battendola ripetutamente con grazia. Lo sapeva, non avrebbe dovuto raccontare quella storia la notte di Halloween dell’anno precedente, seduti attorno ad un finto fuoco acceso davanti al già presente focolare del camino – perché two fuochi is megl che one. «Jimmy, Jimmy, Jimmy... quella Ford è solo una leggenda. Lo era già quando io ero al mio primo anno qui, e non ho ancora mai visto quella macchina tra gli alberi della Foresta. Temo che non la troveremo mai» Segretamente, ancora ci sperava. Insomma, una fucking macchina volante sperduta nel fitto del bosco? HOT DAMN. Ogni tanto chiedeva all’Howl, temendo che il Larrington al contrario sarebbe stato particolarmente restio ad avventurarsi in quella fantastica ricerca, di accompagnarlo. Spoiler alert: non riuscì mai a trovarla, tuttavia ancora adesso che è professore di Corpo a Corpo ogni tanto si addentra nelle radure più oscure per trovarla, spesso usando la sua poco accondiscendente assistente come luce personale (ciao Jade), celandogli il vero scopo delle perlustrazioni ed illudendola che fosse per qualche lezione. «senza contare che credo una macchina difficilmente riuscirebbe a mangiare un cupcake» «può dirlo con assoluta certezza?»
    … good point. Lento, arretrò in direzione della porta della Sala Comune che dava al Corridoio della scuola, senza smettere di fissare i ragazzi. Era shockato. «no, io... non posso. Sai cosa? La prossima settimana appuntamento speciale: inventatevi qualcosa per la Ford. La troveremo, la cattureremo, la tireremo a lucido e la nutriremo. Sì Mary, potrai farle le treccine e le coccole» disse, anticipando la domanda che già pendeva dalle labbra della piccola biondina del secondo anno, facendole dipingere un felice sorriso sul volto lentigginoso. Con un portentoso (wat) colpo d’anca aprì la porta, sempre intento ad osservare la sua combriccola di mini-pasticceri. «siete bellissimi, siete bravissimi, fatene altri che sono adorabili vi prego. Li amo davvero, DAVVERO. Però c’è la gita io ora vado ciao. Adorabili, adorabili, adorabili» e continuò, Phobos non-ancora-Campbell-ma-suona-meglio-di-Skeeter, fin quando l’uscio non si fu chiusa precludendogli lo sguardo su saltellanti ed urlanti adolescenti probabilmente in overdose di zucchero. Ah, che dura la vita di un tassorosso.

    ”Un po’ dopo…”
    Che Patrick non fosse in orario, Phobos ci avrebbe scommesso la sua collezione di cose -per inciso, il “cose” sta a significare davvero quello: roba sparsa trovata a caso, che sembrava bella, soldi di dubbia antichità e provenienza, bottigliette vuote di bevande o pozioni con l’etichetta figa, peluche di vario genere; tutto insomma, forse non dovrebbe essere definita collezione considerata l’ampiezza del raggio di azione dell’argomento (wat), ma al diciassettenne non interessava-. Tuttavia sperava che almeno quel giorno sarebbe arrivato con meno ritardo del previsto: era la loro ultima gita! Non capiva quanto era importante? NON CAPIVA? «phob!» Il braccio attorno alle spalle arrivò come un fulmine a ciel sereno, e se non avesse riconosciuto subito il proprietario probabilmente gli avrebbe tirato una testata per puro spirito di sopravvivenza: ma insomma! «ho novità» (!!!!!!!) Erano mesi ormai che cercavano qualche notizia, qualche spiraglio di luce in quel mondo d’ombre, e una cosa del genere riusciva a mandarlo eccessivamente su di giri: viveva per trovare qualcosa riguardo la Resistenza. Voleva un mondo migliore, Phobos, pieno di gente felici e soli sorridenti come quello dei Teletubbies, ed era più che convinto che quello ribelle si sarebbe rivelato all’altezza delle sue aspettative. Purtroppo, le novità che di solito proponeva lui li portavano a dei vicoli ciechi –letteralmente, s’intende: una volta aveva trascinato l’amico ad un incontro con un tipo misterioso che parlava di Utopia e, sicuro fosse un resistente, l’aveva seguito. Peccato fosse uno spacciatore e che l’Utopia fosse droga. Dettagli irrilevanti.
    A titolo informativo, l’avevano comprata.
    Comunque.
    Quando il licantropo (ma Phobos sapeva che era un licantropo? Boh) gli propose di parlarne ai Tre Manici, egli semplicemente annuì, indiscreto: di certo lì c’erano troppe orecchie attente ad udire discorsi del genere, e la questione era delicata. Sì che era un coglione, ma non era così stupido da gettarsi nella tana dei lupi a capofitto.
    Giunti ad Hogsmeade, il Tassorosso propose all’Howe un giro di perlustrazione, giusto per vedere se c’era qualcuno della loro banda (quale) desiderosa di unirsi alla resistenza (wat), prima ancora di dirigersi al locale. Era meglio essere prudenti con quelle cose (ma cosa).
    Poi varie cose happened, e la linea temporale è come al solito quella che è, quindi «ideeeeeeeeeeem!» L’aveva vista da lontana, seduta a terra: forse aveva seguito la chiocciola fino a lì ed ora le faceva compagnia. Aaaaaw. «tutto bene? Come stai? Hai mangiato? Ti sei persa la dimostrazione di cupcake settimanale! Ma è il tuo fidanzato lui?» chiese, ormai chino sulle ginocchia di fronte alla Withpotatoes ed a Nick Stilinski. Erano… adorabili. «come siete carini» e lo erano, davvero. Davvero davvero. «scusate, devo fare cose importanti ora, ci vediamo dopo!» A loro interessava? Forse sì, forse no, lui li shippava e voleva lasciargli un po’ di lecita intimità, ragion per cui prese per le spalle Patrick e lo trascinò verso i Tre Manici di Scopa. «professori!» salutò, una volta entrato, riconoscendo Charles e Jake: uno era il proprio casata, l’altro quello di Patrick, ed inutile dirlo li amava entrambi, così tanto che nella sua mente erano appunto Charles e Jake, non professor Boyle e professor Peralta. Ah, se solo avesse saputo che sarebbero stati proprio loro, più in là, a portare i due baldi diciassettenni al lato ribelle della forza… Ma questa è un’altra storia. «come va? Tutto bene? Ciao» Un felice sventolio di mano dopo, rivolto a chiunque si trovasse nel suo raggio d’azione, decise finalmente di sedersi ad un tavolo con Patrick. «allora, Pat. Cosa devi dirmi? Stai pensando a quello che penso io?» Non gli disse, dopo aver ordinato due burrobirre, che stava ancora pensando alla Ford Anglia che mangiava dolci fatti da undicenni: quella era un’altra storia ancora.
    Certo, se il Grifondoro l’avesse indovinata sarebbe stato lieto di parlarne (wat escaleted quickly).
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    Edited by hiraeth. - 7/9/2016, 13:24
     
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    withpotatoes do it better

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    idem withpotatoes « it's a bad day not a bad life »
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    Non prendiamoci in giro, Idem Withpotatoes era abituata ai comportamenti…stravaganti dei suoi compagni di scuola. Neanche per un istante s’era mai soffermata a pensare che nei loro gesti potesse esserci una malizia perfida, o che dal suo dolore potessero realmente provare piacere. Per la Tassorosso, si trattava semplicemente di sviste - la volta in cui le avevano (rubato) preso in prestito i libri, quando aveva trovato il proprio letto colmo di inchiostro, quando (le avevano spezzato) si erano rotte tutte le sue piume, quando l’avevano (fatta inciampare) abbracciata con entusiasmo sulla cima delle scale. Ogni qual volta le capitava qualcosa di strano, la prima sulla quale faceva ricadere la colpa era sé stessa. Se l’avevano spinta, non era stato intenzionale: era stata lei, distratta come al solito, a trovarsi sulla loro strada; se le avevano pasticciato i quaderni, era perché giustamente a lezione si annoiavano, e lei non aveva portato pergamene in più sui quali farli disegnare. Troppo innocente per rendersi conto della situazione, troppo morbida per porre fra sé e gli altri una barriera che la tutelasse dalle cattiverie altrui. E, a dire il vero, non ne aveva realmente bisogno: si poteva dire quel che si voleva di Idem, ma non era davvero possibile ripetere su di lei uno sgarro per più di una volta. Aveva un modo particolare di entrare nelle vite altrui, per i quali nessuno –neanche i diretti interessati- se ne rendevano conto; il momento prima progettavano di nasconderle tutte le scarpe, e quello dopo, sbuffando, l’aiutavano a recuperare i lacci che qualcuno le aveva sfilato da ogni felpa. Per quel motivo, con la mano ancora a ciondolare nell’aria, seguitò a salutare i suoi aguzzini, un sorriso colmo di giovane innocenza a curvare le labbra sul viso rotondo e pallido. Lasciando poi cadere le braccia in grembo, si morse l’interno della guancia mentre i curiosi occhi blu tallonavano la lontana figura di un ragazzino che si era messo a rincorrere i suoi amici. Fu per quello che inizialmente non si accorse del Corvonero dinnanzi a lei, verso il quale alzò poi lentamente lo sguardo. Doveva spostarsi? Stava dando fastidio? Poteva rotolare da un’altra parte eh, non voleva rimanere sul suo percorso – né voleva che si affaticasse circumnavigandola. Ricambiò l’occhiata in silenzio, scrutando rapidamente a destra e sinistra alla ricerca di un supporto morale e psicofisico che la aiutassero a comprendere – cosa? la vita. Nel momento in cui lui aprì bocca, lo fece anche lei – e così il suo «Stai bene?» andò a sovrapporsi al «scusa, non volevo cadere sulla tua strada» di Idem, le sopracciglia corvine poi corrugate. Non avrebbe dovuto stare bene? «io? Oh, certo! Un po’ freschino, ma qua in basso non tira troppa aria» wat osservò annuendo fra sé, come se fosse stato il suo obiettivo sin dall’inizio quello di finire a gambe all’aria sul selciato di High Street. Quello che accadde in seguito, per la piccola mente semplice e limitata di Idem Withpotatoes, ha un che di mistico: il ragazzino si mise a parlare di argomenti che lei conosceva quanto la suddivisione tassonomica proposta da Woese, un flusso incessante di termini mistici ch’ella seguì con l’attenzione che riservava ad ogni questione – profonda, ma inutile in quanto non comprendeva una ceppa. Di tanto in tanto, giusto per non farlo sentire solo, si ritrovò ad annuire, mordendosi la lingua ad ogni domanda che le sorgeva spontanea nel sentire lo sproloquio del Corvo. Ne parlava con un tale entusiasmo, che non se la sentiva di interromperlo per chiedergli cosa fosse un videofuoco, o uno sparafrutto. A casa Nathan parlava spesso di cose simili, ma Idem aveva imparato presto che al fratello non interessava realmente che lei lo stesse a sentire o meno, voleva solo parlarne – e per porgere un orecchio, lei c’era sempre. Bloccò il flusso del ragazzino solamente quando sentì finalmente un termine familiare cosa? In realtà la pronuncia diversa ed è impossibile abbia capito quello perché semplicemente si scrivono simili? Neanche sara sa di cosa sta parlando nick? Acab. Battè le mani fra loro elettrizzata, un sorriso sincero a mostrare il terribile apparecchio che sua madre l’aveva costretta a mettere (non si fidava della magia, purtroppo per Idem). «anche nonna seti guarda sempre master chief!» finalmente soddisfatta di aver trovato un terreno comune – anche se non comprendeva perché stesse parlando di armi, forse intendeva i mestoli? I mattarelli? Visto dal punto di vista della pasta, effettivamente, si trattava di armi in piena regola. Quel ragionamento la portò a pensare a piccoli e tristi spaghetti che supplicavano nonna Seti di risparmiarli, e lei che incessante li spezzava per infilarli nella pentola. Bastò quello per far scemare l’espressione allegra, un broncio pronunciato e gli occhi ora adombrati da una patina di tristezza. In un battito di ciglia, Idem Withpotatoes era già in lutto per gli spaghetti.
    Prevedibile.
    «Però nulla di elettrico funziona qui. Però non sono mai stato ad Hogsmeade, lo sai se lì va?» Battè le ciglia inumidendosi le labbra, gli occhi socchiusi e la testa reclinata di lato. «mio fratello dice che se ci credi davvero, puoi far andare qualunque cosa. Certo, l’ha detto anche prima di far esplodere l’attira unicorni fra le mani di mamma, ma è stato un incidente» si affrettò a specificare, agitando le dita nell’aria come se bastasse quel gesto per cancellare l’accaduto. Si sentiva ancora in colpa per quell’infortunio, considerando che era stata lei a chiedere a Nathan di costruirgliene uno così da mostrare ad April quanto fossero carini e adorabili gli unicorni – e per sfoggiarlo con orgoglio agli incontri degli Arcobaleni Anonimi wat con Phobos. «E già mi credono strano perché secondo me i cavalli vengano dallo spazio.» Idem sbuffò incrociando le gambe al suolo, appiattendo poi il vestito in modo da non mostrare le proprie grazie al mondo quali. Scosse il capo con enfasi, alzando le spalle per poi farle ricadere pesantemente e con sincero disappunto. «che assurdità, tutti sanno che i cavalli vengono dallo spazio» commentò alzando il dito verso il cielo, le labbra strette fra loro ed un espressione risoluta sul viso acqua e sapone. Un piccolo tornado umano le sollevò i capelli corvini, e non ebbe il tempo di capire strano che il nastro, prima trafugato dai simpatici briganti di sta ceppa Hogsmeade, scivolò morbido in grembo disegnando arabeschi nell’aria come una ginnasta artistica (?).«oooh» lo strinse fra le dita attorcigliandolo ai polpastrelli, adocchiando poi di sottecchi un biondino che rapido si infilava all’interno dei Tre Manici di Scopa. «GRAZIE NON LO DIMENTICHERÒ MAI NON DOVEVI MI DISPIACE TU ABBIA DOVUTO CORRERE ORA SIAMO MIGLIORI AMICI CIAO» gli gridò dietro, agitando il nastro vittoriosa. (#headcanon: ogni anno a Natale regala un nastro di colore diverso a Eugene per non dimenticare il giorno in cui ha cominciato ad amarlo #wat). Sorrise estasiata al ragazzo dei cavalli accentuando le fossette sulle guance, allungando infine felice una mano verso di lui. «io sono idem, comunque» cosa gli diceva sempre di fare sua mamma? Mostrati educata, sii gentile e sempre rispettosa degli altri. Il che significava, forse, che non doveva dare per scontato nulla; nella sua testa lei e Nick erano già amici, ma probabilmente era più corretto prima domandare, e poi supporre. Chinò il capo osservando le proprie dita, prima di rialzare gli occhi blu sul suo compagno di pavimento. «vuoi diventare mio amico?» domandò sbattendo le ciglia, sentendo la propria spavalda ingenuità venir sostituita da un sottile strato di lampante imbarazzo. Le avevano che il primo anno ad Hogwarts era il più importante, e che bisognava creare i propri legami sin da subito se non si voleva rimanere soli. Era brava in tante cose, ma rimanere sola non faceva esattamente parte delle sue capacità, abituata com’era ad una famiglia numerosa e rumorosa. «ideeeeeeeeeeem! tutto bene? Come stai? Hai mangiato? Ti sei persa la dimostrazione di cupcake settimanale! Ma è il tuo fidanzato lui?» la giovane Withpotatoes sentì le guance avvampare mentre Phobos, concasato esiste come parola? dell’ultimo anno si avvicinava a loro. Era così adorabile, che la Tassorosso non riusciva a credere che potesse essere vero. Era ciò che aveva sempre millantato l’umanità fosse, in carne ed ossa! Voleva solamente abbracciarlo tutto il giorno e tutti i giorni come la sua coperta preferita. «c-cosa? Io cosa? No cioè lui è un mio amico» si affrettò a specificare, raddrizzando la schiena e sistemando nervosamente la gonna. «LO SO MI DISPIACE TANTO PER I CUPCAKES, me ne hai tenuto qualcuno da parte? Sono la mia parte preferita delle mie cose preferite» spinse il labbro inferiore all’infuori alzando timidamente gli occhi su di lui. Per Idem Withpotatoes, undicenne e appena approdata in un mondo del tutto nuovo, Phobos Skeeter me ne sono ricordata ora, da qualche parte mi sa che ho scritto Campbell SCUSA era ciò che per le altre ragazzine era Justin Bieber: un idolo, nonché futuro marito e padre dei suoi unicorni. «e ho mangiato e sto bene e guarda il mio nuovo amico biondo» indicò i Tre Manici. «ha ripreso il nastro!» commentò con allegria, sprimacciandosi le guance ad occhi chiusi. Ci voleva davvero vergognosamente poco per farsi voler bene da Idem.
    Tipo respirare, per intenderci – a volte, neanche quello.
    «come siete carini. scusate, devo fare cose importanti ora, ci vediamo dopo!» Osservò Phobos mentre andava a fare cose da Phobos con uno sguardo languido ed un sorriso ebete, prima di riportare la propria attenzione su Nick. «non lo trovi perfettiiissimo?» in tono sognante, sospirò con devozione. Fu una macchia gialla quella che infine la convinse ad alzarsi, un gridolino felice a fior di labbra. «GUARDA» esclamò puntando l’indice verso l’animale, un ribelle senza guinzaglio che sfuggiva fra le gambe della plebe. «HOLT HA PORTATO CHEDDAR!» senza remore, si fiondò verso il Corgi del responsabile dei Corvonero e lo strinse affettuosamente a sé, un salamino con quattro corte zampette ed uno sguardo vagamente killer.
    Le ricordava Gemes (♥) e solo per quello già lo amava. «CHEDDAAAAAAAAAAAR guarda cos’ho, so che ti piace tanto!» spupazzando il musetto del cane, frugò nella borsetta alla ricerca del Tesoro.
    Il Tesoro altro non era che una bustina di zucchero a velo credici la cui consistenza l’aveva sempre lasciata vagamente dubbiosa sulle sue origini. L’aveva trovata nella propria sala comune, ma quando aveva domandato in giro se fosse di qualcuno nessuno le aveva risposto, così aveva deciso di tenerla per sé finchè il proprietario non si fosse palesato. Data l’enorme quantità di zucchero, ne aveva portato un po’ nelle cucine agli Elfi Domestici, sperando così di essere loro d’aiuto – e buono che era stato, quell’anno, il panettone! «ne va matto» sottolineò guardando Nick, mentre si inumidiva l’indice e lo pucciava nel sacchetto. Ne raccolse un po’ sulla punta del polpastrello, quindi lo porse con cieca fiducia verso Cheddar, il quale fu lesto a ripulirglielo con la sua morbida lingua rosa. «ma chi è il cane più bello del mondo? CHEDDAAAAAAAAAAAAAR» commentò stringendolo con entrambe le mani ed alzandolo poi al cielo come Rafiki con Simba. «guarda nick, mi sta sorridendo» indicò i denti digrignati dell’animale, palesemente un sorriso (chi ha visto Spaco, rimembri) per la Withpotatoes. Quando la testolina cominciò a ciondolare, fu ben più che felice di unirsi al ritmo, seguendo con il proprio collo il beat di Cheddar. «aw, è così felice che sta anche ballando! Ti va di accompagnarmi per riportarlo da Holt?» Domandò allegra a Nick, riponendo nella borsa lo zucchero.
    Lo zucchero.
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    Parla con Nick, con Euge, con Phobos e
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    Dovrà drogare un animale

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    scusatemi tantissimo, non so scrivere


    #castafratto | #gryffindork
    Nathaniel Lowell Henderson
    13 y.o. -- II year -- shipper
    Guardava allo specchio, gli occhi assottigliati nello sforzo, cercando ogni differenza rispetto il normale, ogni piccola e solo apparentemente insiglificante nota fuori posto. Si scrutava come un investigatore paranoico guarderebbe una scena del crimine, quello che trova nella piega del letto un po' disfatta una prova lampante per incastrare l'assassino. Nathaniel, nei minuscoli cambiamenti che vedeva in sè, ci vedeva la definitiva svolta della sua vita.
    Gli aveva sempre stretto la divisa così tanto sui fianchi? Era normale che avesse le caviglie così gonfie? Di sicuro i suoi capezzoli non erano mai stati così sensibili, vero? E perché aveva così tanta voglia di torta di carote? Lui odiava la torta alle carote.
    Il cerotto sulla guancia, lì dal giorno prima (lunga storia: azzuffate, alcol, same old story all over again), lo faceva in qualche modo sembrare più piccolo e smagrito, un cucciolo d'uomo indifeso e abbandonato alle crudeltà del mondo (o almeno, questo era sempre il sentimento che gli trasmettevano i cerotti e sì, si faceva troppi film sono d'accordo) ma, ne era sicuro, a parte quello c'era qualcosa in lui di diverso. Non per forza sbagliato, ma indubbiamente strano e fuori dal normale. C'era qualcosa in più.
    «Nate, sei bellissimo come sempre. Smettila di rimirarti e preparati»
    Il ragazzino passò lo sguardo al riflesso del migliore amico, accanto al proprio nello specchio della sala comune. A differenza sua, il biondo era intento a sistemarsi il maglioncino con una concentrazione tutta particolare, e si voltò giusto in quel momento per mettere a posto il colletto della camicia di Nate, senza una parola, come se fosse un gesto normalissimo da parte sua; in effetti, lo era. Non entrerò nel dettaglio, ma era praticamente routine che Elijah vestisse Nate (mlmlml), e si occupasse di controllare che non andasse in giro nudo o vestito in qualche modo assurdo per il clima esterno. Il limite della sua ispezione terminava quando l'amico si impuntava, come quel giorno, per mettersi vestiti assolutamente fuori luogo, come un completo elegante con cappotto semplicemente per andare a fare un giro a Hogsmeade. Sì, Nate in grado di lasciarsi addosso il pigiama per andare a lezione, ma non per questo non pensava che certe situazioni richiedessero tutto il suo lato ricco e purosangue. In più, gli piaceva come calzava l'abbigliamento ottocentesco vittoriano; gli ricordava suo padre.
    «Eli», inizio con serietà e naturalezza Nathaniel.
    Il biondo non l'aveva praticamente guardato quella mattina, quindi non doveva essersi accorto di nulla. Non doveva aver visto i segnali... ma come poteva Nate tenere una notizia tanto grande segreta al suo migliore amico? Prima o poi l'avrebbe capito da solo, in ogni caso.
    «Mh?»
    «Elijah» altra piccola pausa, per attirare al meglio l'attenzione «Credo di essere incinta.»
    Per un po' a Nate sembrò che il silenzio della sala comune vuota si fosse moltiplicato, abbastanza che se gli fosse caduto a terra un fazzoletto, il rumore si sarebbe sentito rimbombando. Le dita di Elijah si arrestarono solo un attimo, forse per elaborare l'enorme cazzata, prima di riprendere a sistemare la camicia di Nathaniel.
    «Nate» la sua voce era calma, come un addestratore con la sua stupida scimmietta. Forse cercava la confutazione a quella teoria che meno avrebbe ferito l'amico. «Per essere incinta -... incinto?- beh, devi essere stato con qualcuno»
    La testa di Nate si voltò d'improvviso verso di lui. «Ooh, è così», borbottò punto sul vivo. Avrebbe voluto dire che non è che solo perché Rea non gliela dava, allora non era mai andato con nessuno, ma Eli avrebbe capito la bugia, perché Eli sapeva sempre tutto. Di sicuro, sapeva che il suo migliore amico era ancora vergine (per scelta sua eh, non perchè non gli fosse mai capitata l'occasione! #seh). Aspettò solo un secondo, prima di prendere fiato. Elijah si staccó veloce provando a mettere le mani avanti e cercando il contatto visivo (calma scimmietta, calma), ma era troppo tardi. Nathaniel il più delle volte non aveva un'"anticamera del cervello": lui quello che pensava, lo diceva immediatamente, senza stare a pensare davvero ai fatti; troppo grifo per fare cose stupide come riflettere prima di aprir bocca. «Sai cos'è successo all'ultima persona rimasta incinta quando tutti dicevano che era impossibile? Ha fondato una religione. Una religione, Elijah! Maria resta incinta senza spiegazione e la pregano la domenica mattina, lo faccio io e subito a giudicarmi. Dovresti supportarmi in questo momento difficile della mia vita, visto che sarò una giovane mamma single.»
    «Nate...-»
    «No no, va bene così. Non vedo l'ora che facciano un film sulla mia triste storia da mamma single e di come sia stato abbandonato da tutti»
    Volse con uno scatto la testa dall'altra parte, senza più guardare Elijah in faccia.
    «Nathaniel non è che non ti credo, solo... è.... difficile»
    Il fu Lowell girò nuovamente la testa verso di lui. No, non gli era facile fare l'offeso con Elijah. «Guardami, Elijah. Non noti niente?»
    «Beh-» Chiaramente, non notava alcunchè troppo fuori dal normale.
    «Ho avuto anche la nausea mattutina!»
    Eli aggrottò le sopracciglia, scuotendo la testa. «Quello si chiama post sbronza... ed era ieri sera! Come può essere considerabile mattutina
    «Oooh ora sei anche un esperto di gravidanze? Cosa sei, un gravidanzologo
    Il ragazzino sbuffò incrociando le braccia, lo sguardo nei suoi occhi talmente offeso da far sospirare rassegnato l'amico dopo qualche secondo (molti) di silenzio. Nathaniel sbraitava e sbraitava, ma sapeva che era sempre un silenzio affilato l'arma migliore, quando voleva vincere.
    «D'accordo», concesse Eli, «Però non sarai una mamma single»
    «Ma-»
    «Non sarai una mamma single», ripetè il biondino con più decisione «perchè avrai me».

    ★★★


    Nathaniel avrebbe voluto annunciare subito la lieta novella, scendendo le scale. In mente aveva già l'immagine: lui in cima, le braccia spalancate, la testa un po' sollevata verso il soffitto mentre la luce scendeva su di lui con un coro di angeli (?)... ma Eli lo pregò di aspettare di dirlo a Rea (e, quindi, al mondo).
    «Guarda che non è come quella storia dell'uovo di dinosauro. Anche fra una settimana aspetterò un bambino»
    «Allora puoi dirglielo anche fra una settimana»
    Ovviamente Nate avrebbe acconsentito all'unica richiesta dell'amico e futuro padrino («Ma non posso neanche dirle che-» «No»), purchè potesse spiattellarlo a Eugene appena si sarebbe trovato qualche metro di distanza da Rea. Patti chiari, amicizia lunga.
    Incurante del pericolo che avrebbe corso se Rea Hamilton avesse scoperto della sua gravidanza (ovviamente, sarebbe stata pazza di gelosia), saltellò davanti al portone d'ingresso schioccando le dita, un gran sorrisone dipinto in faccia (era proprio vero che essere madre ti cambia dentro e fuori #wat)
    Quel giorno c'era la gita a Hogsmeade, e Nathaniel non vedeva davvero l'ora di passare la giornata con gli amici a fare scorpacciate di dolci, poter finalmente fumare senza il controllo degli adulti (poteva farlo anche se era incinta, vero?) e... boh, farsi un giro acab. Non che dopo quattro anni a Hogwarts non avesse trovato un modo di uscire di nascosto dalla scuola, certo, ma girare per Hogsmeade alla luce del sole aveva comunque il suo fascino. Almeno, avrebbe potuto studiare le coppiette nel loro ambiente naturale; se c'era una cosa che da sempre affascinava e sempre avrebbe affascinato Nathaniel, erano le ship.
    Dopo la re-union con Euge e Rea ("«Euge mi senti? Dai mi senti?? Questa devi sentirla DAI ASCOLTAMI NON PENSARE SOLO AL RE LEONE CHE POI ME LA METTI IN TESTA»"), si partiva alla volta della cittadina.
    «se mi mettete in imbarazzo, troverò il modo per farvela pagare. E non vi piacerà»
    «MOI? Mettere in imbarazzo toi?? Bada a come parli, bambina! Che se c'è uno serio qui dentro, sono io!»

    Nathaniel non aspettò che Rea, divertita, si girasse e facesse qualsiasi cosa stesse per fare per incrociare le braccia, anzi ostentò lo sguardo più offeso che gli venne, assai più sdegnoso di quello lanciato a Elijah una mezz'oretta prima.
    «Tanto cosa c'è di peggio che vederti con lui Lui. Nick Barrow, o meglio "Nicklaus sono un ricco fighetto e vippino Barrow", lo sfascia famiglie che, di tanto in tanto, allontanava Rea dai suoi veri amici, la sua vera famiglia, per fingere di amarla. Ma Nick non amava Rea. Non quanto Nathaniel.
    Nate finse di sputare a terra (perchè? Boh, faceva figo) guardandolo con disgusto, cercando in quel bamboccio qualcosa che potesse essere minimamente attraente per Rea Hamilton. Aveva due occhi azzurri da paura, quindi? Sembrava già un uomo, dunque? Era dannatamente popolare, perciò? Era ricco da far schifo e purosangue, E ALLORA?? Nathaniel non pensava fossero motivi che avrebbero potuto fare gola a una come R-... no ok, in effetti aveva praticamente tutti i requisiti che lo rendevano il ragazzo perfetto - compreso l'essere un cagnolino servizievole -, ma ciò non toglieva che Nathaniel sapeva che un giorno Rea si sarebbe accorta di volere di più. Di volere lui. Forse qualcuno avrebbe potuto pensare che il bambino che portava in grembo avrebbe complicato le cose, e Nathaniel era fra quelli: ma cosa c'era di meglio di un otp che ha mille difficoltà ma poi trova il lieto fine? Alla fine Rea avrebbe amato il piccolo come suo, ne era certo.
    "Vedremo chi l'avrà vinta, Barrow, quando sarò anche io grande e ricco". Adulto, con un lavoro tipo cacciatore di tesori per portare la pagnotta a casa, un guardaroba da favola letteralmente, un sorriso bieco perfetto e brillante... certi giorni, come quello, Nathaniel Henderson amava lavorare di fantasia e proiettarsi in una vita perfetta con sè e i suoi amici. Gli piacevano quelle giornate: non pensava alla sua famiglia (a Bran soprattutto), era felice, e morire tredicenne non gli sembrava particolarmente allettante.
    A risvegliarlo dal suo sogno di sangue verso Barrow, fu la dolce voce di Jake. «Saremo giovani solo una volta, fratelli, quindi vi chiedo... come lo incasiniamo questo posto?»
    Nathaniel avrebbe voluto proporre qualcosa di divertente, davvero! Come "attacchiamo un secchio d'acqua e delle piume alla porta, che si rovescerà sul primo che la apre" o "buttiamo negli occhi di Barrow del caffè bollente" (same thing), ma tutto quello che gli attraversò la mente fu: "Sto per diventare madre (padre?) di famiglia". Con un cucciolo d'uomo (d'uomo si spera; una volta aveva sentito che certi ragni nidificano sotto pelle) dentro di sè, non poteva prendersele nè da un Barrow incazzuso, nè nella sala delle torture (non sapeva bene come funzionassero le gravidanze, ma era piuttosto sicuro che la pancia andasse protetta e tutelata like a precious cinnamon roll).
    Eugene ancora non lo sapeva, e sarebbe stato quello un ottimo momento per dirglielo, con Rea lontana e impegnata a fare la sexcivetta con Borromeo... ma lo era davvero? Era davvero un buon momento? Poteva essere regalo di Nathale antiposticipato al suo migliore amico che-non-era-Elijah, quell'ultimo giorno di gogliarderia prima che al quartetto si aggiungesse un nuovo elemento...
    «Non preoccupatevi, cuccioli» Nate spostò d'improvviso lo sguardo su Jake, rendendosi conto solo in quel momento che l'aveva puntato negli occhi di Elijah ricercando supporto. Un gesto così ovvio e giornaliero, che Euge doveva averlo preso come semplice panico perchè non gli venivano idee per una bravata «Ora ci pensa il vostro Jack.»
    «Veramente-»
    «Ma prima, ho bisogno di fumare. Tenetemi un posto, torno subito»

    Nate aprì la bocca. Nate richiuse la bocca.
    Annuì veloce, la mano destra già alzata a fare il segno della pistola come saluto mentre Jake spariva dietro la porta.
    Era ormai passato parecchio da quando aveva scoperto di essere incinta, signori, e ancora Nathaniel non lo aveva raccontato a nessuno tranne che a Elijah. Direi che era un ENORME traguardo per un ragazzino eccentrico e drammatico come lui; da quel punto in poi, avrebbe dovuto usare tutte le sue forze per non gridare al mondo di essere in stato interessante (più interessante del solito mlmlml).
    «...Burrobirra easy? Se vuoi correggere, ho una fiaschetta nel panciotto» (panciotto, certo. Che vi credete, che solo perchè era un gangno racchio si permetteva di vestirsi da poraccio?)
    Dopo aver ordinato, l'elite si diresse raggiante ad un tavolo libero vicino alla finestra abbastanza lontano dalla lieta coppietta di piccioncini per non sembrare degli stalking, abbastanza vicino per poter tenere d'occhio le mani del Borromeo, che non si avvicinassero troppo a zone che a lui dovevano essere proibite (almeno, davanti al povero Nathaniel già debole di cuore).
    Stavano giusto discutendo di qualcosa, quando fecero la loro entrata in scena loro. Un esplosione alle spalle, occhiali da sole calati sugli occhi e O - M - G. Era una chitarra quella? Quanto dovevi essere figo per girare con una chitarra a casissimo in pieno giorno? Almeno quanto loro. I perboyle #wat Nathaniel decise in quel momento che avrebbe anche lui imparato a strimpellare una chitarra, solo per potersela portare in giro a farsi la colonna sonora da solo.
    «What a time to be alive» (o meglio, to be a hogwarts student (?)), commentò fra sè e sè Nate, una mano sul cuore e negli occhi l'amore. Non aveva forse per il proprio capocasa la stessa reverenza di Eugene, ma non per questo non vedeva nei Perboyle delle figure da rispettare e perseguitare. «Guardali. Sono così noi» E non come carattere, o come aspetto, ma a livello di affiatamento; inutile dire che Nate vedeva in Peralta, Boyle e Jeffords, nel loro rapporto, loro maschi casta. Too pure too precious. Era piuttosto sicuro che anche i castafratti da adulti sarebbero rimasti così amici, nei secoli secoli amen.
    Si distrasse a guardare il professor Boyle che già aveva puntato qualcuno con il suo shipper radar (chi chi chi chi chi chi), e quando rialzò gli occhi, Peralta troneggiava su di loro.
    Perboyle, Perboyle
    Whatcha gonna do, whatcha gonna do
    When they come for you

    (???????????????????)
    «GRIFONDORO!»
    Nate lo gridò istintivamente al contempo del professore, la burrobirra alzata al cielo per brindare in nome dei grifi prima di tentare di berla al goccio. Fallì miseramente rischiando di soffocare, ma certe tradizioni vanno mantenute.
    «posso sentirlo, jake»
    Nathaniel tossì un paio di volte, passandosi rapido il dorso della mano sulla bocca per asciugarsi. Alzò lo sguardo sul professor Boyle. Capì cosa intendeva, e diede una gomitata a Elijah, perchè anche lui si facesse attento, incurante che già probabilmente lo fosse... ma non si sa mai. Ogni tanto, Nate ancora a volte coglieva il Dallaire impreparato sull'argomento shipping; dovevano essere i capelli biondi.
    Peralta era affascinante, un adulto bambino, divertente, audace e irresponsabile irresistibile: insomma, amarlo e stimarlo era scontato per dei ragazzi come i casta... eppure, anche Boyle, più assurdo e disagiante, aveva qualcosa che faceva gola a Nate, e che lo rendeva spesso e volentieri assai più interessante di Peralta.
    Alcuni lo chiamano sesto senso. Altri, shipping convulsivo.
    «l’amore»
    Era stato appena un sussurro all'orecchio del collega, ma si sa (?????), in certe situazioni di bisogno i sensi si sviluppano e come una madre che diventa improvvisamente abbastanza forte da sollevare un'auto per salvare il figlioletto, così Nathaniel potè udire quel bisbiglio, gonfiandosi il petto non solo di aria mentre inspirava. «Mi piace l'odore di ship la mattina»
    Allora lo aveva notato anche il professor Boyle. Nate se n'era accorto appena erano entrati contemporaneamente nel suo campo visivo qualche giorno prima, e poco importava che allora neanche si stessero parlando: quei due erano meant to be.
    Idem Withpotatoes e Phobos Skeeter.
    In quel momento gli occhietti vispi di Nate avevano colto la ragazzina fuori dalla finestra, a terra, e in arrivo dalla strada sembrava giusto esserci il Tassorosso sul suo cavallo bianco, pronto ad aiutarla (cosa? C'era anche Nick? Ma chi se lo filava quello sfigato quando c'era L'AMORE a cui badare #sks e no ok semplicemente Nate non lo conosceva sennò anche a lui sarebbe un po' partita la ship ma BOH)
    Mentre il professore di trasfigurazioni strimpellava la giusta (?) musica d'atmosfera, Nate seguì lo sguardo di Boyle, cercando l'immagine che anche in lui aveva fatto scattare qualcosa e - «Cosa?»
    Boyle non aveva rivolto lo sguardo neanche lontanamente alla finestra di Idem e Phobos (sì, era diventata la finestra di Idem e Phobos) Ad attirare la sua attenzione erano stati, piuttosto, Athena e Keanu, entrambi che Nate conosceva in quanto mezzi vippini di Quidditch (non che lui se ne intendesse, ma quando il tuo bff gioca vuoi non accompagnarlo agli allenamenti per metterlo in imbarazzo?). Athena era capitano della squadra grifondoro, ma a Nate non faceva impazzire: non puoi essere amico sia dei Casta che dei Rasta #f(r)atticivilwar.
    «Le dirò» disse non troppo convinto «C'è del materiale, ok. Ma loro li ha visti? Li guardi, per favore» Poco gli importava che stesse facendo siparietto con Peralta, Nate fece un segno del capo verso Idem e Phobos lì fuori che BUON DIO proprio in quel momento decisero di RIVOLGERSI LA PAROLA. Nate avrebbe quasi iniziato a iperventilare se l'idea di poter fare del male al bambino non l'avrebbe fermato #wat «Li guardi!»
    Nathaniel sollevò le sopracciglia, passando da guardare loro, a Boyle, Elijah, e poi di nuovo loro. Nei suoi occhi, illuminati di vita propria (?), lampeggiava forte e chiaro "se non è questo un chiaro segno di canon non so cosa sia" non un chiaro segno di canon.
    Perchè shipparli? "E' pedofilia!", avrebbe potuto dire qualcuno, ma non Nate. Lui, sollevando il mento mentre tirava un calcio avrebbe risposto "Questa non è pedofilia! Questo. E'. CLICHE'!". Perchè inutile prendersi in giro, i clichè erano tali perchè bellissimi.
    E poi Idem e Phobos boh, erano carini, stupidi, e Nate conosceva entrambi. Perchè uno strambo come lui che diceva di odiare il genere umano poi conoscesse tutti, non ci è dato saperlo (scherzo ve lo dico comunque: Idem apparteneva già alla sua vita prima che Lowell diventasse Henderson, ed era stata una delle poche cose che non aveva voluto perdere insieme a tutto il resto della sua vita. TORNANDO A NOI)
    Ship happens.
    Fu allora che sopraggiunse l'uragano Jackson, spazzando con sè le stelline magiche e glitterate che si erano poco prima diffuse davanti ai loro occhi. Letteralmente (cosa? Se Nathaniel aveva usato uno spara coriandoli con dei brillantini per far sembrare la visione della Phidem (?) -sì, sui nomi ship doveva ancora lavorarci- a Boyle più magica? Shhh).
    «PROFESSOR PERALTA! Che si dice? Professor Boyle, che bella giacca. Allora, chi si shippa oggi?»
    Nathaniel non aggrottò le sopracciglia studiando l'amico, nè cercò di dare a vedere quello che stava vedendo... eppure era lì.
    Sarà che conosceva Jake da ormai tre anni e passava con lui gran parte della giornata. Sarà che ora che stava per diventare mamma i suoi sensi erano più sviluppati (Eli, è così che ti senti tutti i giorni?)... sta di fatto che lo capiva che c'era qualcosa che non andava. Gente che lo inseguiva, presumibilmente. Si sporse leggermente oltre i prof e li vide quegli energumeni varcare la soglia, cercare Eugene... vederlo.
    Dal luccichio nei loro occhi, non avevano buone intenzioni.
    Aveva poco tempo per aiutare Eugene a passare in secondo piano, ed era un grifo. Fate due più due e forse capirete perchè fece quello che fece, ignorando che ci fossero due professore accanto a loro, e quindi i due serpeverde non avrebero potuto toccare Jake.
    Rovesciò cercando di non farsi notare la burrobirra rimasta a terra, poi si alzò di scatto in piedi.
    «MI SI SONO ROTTE LE ACQUE!»
    Ah, già. Era anche un idiota.
    by eleven smoking herb and drinking burning liquor
    | 50 shades of grey | code by ms. atelophobia



    mi dispiace così tanto

    Lucky strike di febbraio scorso "Il tuo PG crede di essere gravido per un post."
     
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    13 | ravenclaw | second year
    Stilinski Nick
    sloth | 2004 | pensieve | sheet
    my friends say i should act my age... what's my age again?
    Osservò la ragazza ancora per qualche istante, giusto in tempo perché l'altra si scusasse. «Scusa, non volevo cadere sulla tua strada.» Seriamente? Livelli di this agio che persino lo Stilinski faticava a raggiungere. Per quello rimase in silenzio, limitandosi ad alzare le spalle. La osservò dalla stessa altezza, seduto accanto a lei, annuendo lentamente. «Io? Oh, certo! Un po’ freschino, ma qua in basso non tira troppa aria.» Fu quasi esagitato nel rispondere, tendendo per bene le gambe, rischiando di fare sgambetti random a qualcuno. «Hai ragione! Si sta bene qui.» Poi cominciò a sproloquiare oltre i limiti sopportabili da qualsiasi umano, ma l'altra continuava ad annuire, senza rispondere effettivamente, ma era certo che lo stesse ascoltando. Senza alcun dubbio. Poi, a dir la verità, essendo nel mondo magico, non era certo che lei lo comprendesse, ma poterne parlare anche solo senza venir giudicato era già tanto e solo per quello, l'avrebbe già ringraziata. Fu quando la sentì battere le mani che quel fiume di parole si fermò, voltandosi in direzione della Tassorosso con un sorriso a trentadue denti. Aspetta. «Lo guarda?» Ma come poteva guardare un personaggio di un videogioco? A meno che... «Parli della webseries Red vs Blue? Tua nonna lo guarda? Ma è una grande!.» Poi rimase confuso dall'immediata tristezza che si era fatta strada sul volto della Tassorosso ed era giusto sul punto di aprire la bocca, rivolgerle la parola e chiederle spiegazioni, quando arrivarono i due insegnanti più fighi della scuola. Boyle e Peralta erano praticamente un'unica entità, da quanto tempo passavano insieme. I suoi occhi si illuminarono quando decisero proprio di avvicinarsi a loro e non solo, CHARLES BOYLE LI AVEVA APPENA ABBRACCIATI. «I’m over the moon, OVER THE MOON!» Lui era over the moon? No, Nick era over the moon. «Arrivederci signor Boyle, signor Peralta,... They're the best.» Aggiunse alla fine, principalmente rivolto verso Idem. Altro che il suo incomprensibile ed enigmatico capocasata. Insomma, aveva un cane adorabile e sotto sotto era senza dubbio un tenerone, ma Boyle e Peralta erano tutta un'altra storia.
    Subito dopo proseguì il suo sproloquio, finendo addirittura per parlare di elettricità. Quanto gli mancava, ragazzi, non avete la minima idea. «Mio fratello dice che se ci credi davvero, puoi far andare qualunque cosa. Certo, l’ha detto anche prima di far esplodere l’attira unicorni fra le mani di mamma, ma è stato un incidente.» Sarebbe impossibile, ad oggi, descrivere precisamente l'espressione di deliziata sorpresa «Ma poi ha funzionato, vero?» Insomma, sicuramente avrà messo a posto il congegno e avrà funzionato... vero? Non poteva distruggere in quel modo i sogni di un giovane Corvonero. Osservò per un momento il pavimento, perdendosi ad osservare le formiche ed il lavoro che stavano facendo per quella via. Non avrebbe mai potuto essere una formica. Dopo aver risposto incrociò le braccia, voltandosi per un momento in direzione di Idem. «Che assurdità, tutti sanno che i cavalli vengono dallo spazio.» Alzò lo sguardo verso il cielo, seguendo il dito della ragazzina. Estasiato dall'aver finalmente trovato qualcuno che sapeva davvero la verità. «E le giraffe? Hanno un collo troppo lungo per non essere costruite dagli alieni.» Si perse nell'osservare il cielo nuvoloso scozzese, ragionando sulle altre sue strambalate teorie, tra cui l'inesistenza dei dinosauri nel passato. Sì, vi era tutta una teoria scientifica attorno ad essi, scheletri nei musei, ma il ragazzo continuava a non credervi. Venne distratto semplicemente dalla voce dell'altra, voltandosi non appena essa disse il suo nome. Le porse la mano, stringendo la sua. «Stilinski, Nick Stilinski.» Era già tanto non avesse aggiunto "agente" a quella presentazione. Il cervello di Idem, stranamente, sembrava funzionare sulla stessa lunghezza d'onda di Nick, visto che in fondo era stata una delle discussioni più lunghe che aveva avuto in quasi due anni di scuola. Era difficile non vederla già come un'amica, era una specie di passerotto ingenuo in un mondo di corvi malvagi, che rischiava di venir sbranata da un momento all'altro... Ok, forse non era una metafora poi così piacevole. «Ma certo! Poi andiamo da Mielandia insieme?» Visto che erano appena diventati amici, gli sembrava un'attività adatta, no? Poi arrivò un fulmine al ciel sereno dal nome di Phobos Skeeter. «Ideeeeeeeeeeem!» Un volto semisconosciuto, che aveva visto giusto qualche volta in quegli anni. Rimase in silenzio, osservandolo confuso mentre continuava a pronunciare fiumi e fiumi di parole. «Tutto bene? Come stai? Hai mangiato? Ti sei persa la dimostrazione di cupcake settimanale! Ma è il tuo fidanzato lui?» In contemporanea con la più giovane scosse la testa, agitando persino le braccia. «No no, siamo amici. Ci siamo conosciuti ora.» Insomma, le ragazze facevano schifo dalla maggior parte dei punti di vista. «Come siete carini.» Arrosì leggermente, rimanendo in silenzio per il resto della permanenza del tassorosso più grande accanto a loro. Era già tanto che non avesse cominciato a tenersi le gambe e dondolare. Gli fece giusto un cenno quando se ne andò, voltandosi verso Idem. Il suo amico era decisamente strano. Pensato da Nick Stilinski, significava molto. «Non lo trovi perfettiiissimo?» Una smorfia, seguita da un colpo di tosse. Non poteva infrangere un'amicizia in così poco tempo. «Sìì, ceeeerto.» Leggermente sarcastico, il corvonero. Notò la ragazza alzarsi ed aspettò per fare lo stesso, in fondo era quasi comoda quella posizione. «GUARDA» Fu in quel momento che, con uno sforzo enorme, si alzò in piedi per seguire meglio cosa la ragazza intendesse. «HOLT HA PORTATO CHEDDAR!» Strabuzzò gli occhi, quel malvagissimo cane. Lei non sapeva. «Scappa.» Agguati e terrore in sala comune per colpa di quella ciambella a quattro zampe. La vide avvicinarsi, uno sguardo di shock. Doveva salvarla. La seguì, nascondendosi però dietro alla tassorosso. Non si sarebbe mai avvicinato troppo, non ne aveva il coraggio. «CHEDDAAAAAAAAAAAR guarda cos’ho, so che ti piace tanto!» Osservò "il tesoro" venire estratto dalla borsa della ragazza e ne rimase confuso, ma a quale cane poteva piacere lo zucchero a velo? «Ne va matto.» Deglutì, scuotendo la testa. «Attenta, potrebbe attaccarti. È così... così malvagio Stava praticamente tremando, entrambe le mani appoggiate sulle spalle di Idem per cercare di guardare l'animale da dietro l'altra. Osservare spaco Cheddar ed i suoi sguardi omicidi ed il digrignare di denti, non gli faceva affatto bene. «Guarda nick, mi sta sorridendo.» Deglutì. Non avrebbe voluto distruggere tutti i sogni e le speranze della ragazza, ma era indubbio il fatto che lui fosse una bestia di satana. «Quello lo chiami sorriso?» Osservò il cagnolino ondeggiare, seguito dalla stessa Idem, e recuperando quell'orribile botolo da terra per osservarlo nei suoi malvagi occhi. Sembrava più riposato e tranquillo, così adatto allo swing in quel momento. Sembrava potesse, da un momento all'altro, iniziare a fare ombre cinesi di peni su un muro. «Aw, è così felice che sta anche ballando! Ti va di accompagnarmi per riportarlo da Holt?» Sbuffò frustrato, per poi annuire in sua direzione. «Va bene, ma lo tengo io. Non mi fido di lui.»
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16 replies since 5/5/2016, 16:40   976 views
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