A lover on the left, a sinner on the right

rea x elijah

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    she wore her darkness like some girls wear a little black dress
    rea hamilton


    I polpastrelli scivolavano distratti sulla moto, raccogliendo le briciole di calore che il mezzo aveva acquisito sotto la permanenza di un sole affatto timido. Con la giacca di pelle, sull’avanzare di quell’estate, Rea cominciava ad avere caldo, malgrado al tatto fosse ancora gelida a causa del viaggio. Si coricò sulla moto, incrociando le braccia sul manubrio per poggiare il mento sugli avambracci, e continuò impassibile ad osservare la casa. Non era l’edificio in sé ad attirare la distratta attenzione della Hamilton, una villetta uguale a dieci altre in quella stessa via; era la sensazione di essere ricaduta nel proprio passato, con una divisa troppo stretta e la frequente occhiata laconica e vagamente esasperata di allora. Se gliel’aveste chiesto otto anni prima, la Hamilton non avrebbe mai immaginato che, un giorno, avrebbe dovuto bussare alla porta di Elijah Dallaire per un favore. Forse a quella di Eugene, probabilmente a quella di Nate, ma Elijah? L’unica cosa che avevano in comune, erano i due sopracitati; la tolleranza fra loro, più dal lato Rea che dal lato Dallaire, era dovuta principalmente al benessere generale del gruppo. Avevano entrambi fatto tanto per i due sbarbatelli che, nessuno sapeva con esattezza come (di certo Rea non lo sapeva), avevano accompagnato i loro anni al castello; ad esempio, non parlarsi. Fino a quel momento, aveva funzionato. Senza Henderson e Jackson a limare gli angoli, però, non credeva che sarebbero sopravvissuti –che Elijah sarebbe sopravvissuto, chiariamo, perché Rea sopravviveva sempre. Ed allora perché, fra tutti gli usci cui avrebbe potuto presentarsi, si trovava fuori dalla dimora dei Dallaire, ad Inverness? Un insieme di sfortunate coincidenze, si supponeva.
    Ma andiamo con ordine, perché questa storia, probabilmente non a lieto fine per nessuno, ha origini lontane.

    «se non me lo dirai con le buone, me lo dirai che con le cattive. E quando dico cattive» aveva estratto il pugnale, lasciato scivolare languidamente sulla gola troppo pallida. Con le gambe stava bloccando l’uomo alla sedia, la lama premuta con tanta forza sulla pelle da aver già lasciato gocciolare un rivolo cremisi sulla camicia azzurra. «intendo molto cattive» aveva sibilato all’orecchio di lui, le labbra a sfiorare gentilmente il lobo. L’uomo aveva deglutito convulsamente, abbastanza da tagliarsi un altro poco senza che Rea dovesse fare alcuno sforzo. «n-non so come si chiami»«descrivilo» un altro sussurro, dolce come miele su un proiettile già in canna. «a-avevano le maschere, e… aveva gli occhi chiari, i capelli… biondi, forse» «non è abbastanza» aveva ringhiato la mora, staccando il pugnale solamente per conficcarlo nel bracciolo della sedia, bloccando le vesti dell’uomo. «mi ha chiesto come stavo» Aveva inarcato un sopracciglio, Rea. «e quindi? » «gli interessava. Gli interessava davvero»

    «ricordo solo il cartellino, ma… era gentile, con me. Con noi»
    «sembrava sempre… confuso?»
    «ha provato a proteggermi, una volta. Ha detto che era troppo»
    «dicevano che avesse fatto fuggire una… una di noi»
    «mi ha parlato. Mi ha detto che sarebbe andato tutto bene»
    «non l’ho più visto, l’hanno portato via»
    «cambiavano. Gli occhi, intendo. A volte erano azzurri, a volte…»
    «blu» «come fai a saperlo?» Rea aveva sorriso. «chiamiamolo intuito»

    Conosceva tante persone, Rea Hamilton; ed avrebbe potuto lasciar perdere, ignorare le voci di corridoio. D’altronde avrebbe potuto essere chiunque, nessuno le aveva mai rivelato un nome. Una lontana, recondita, parte di Rea sperava che non fosse così: non erano mai andati d’accordo, ma … era pur sempre il migliore amico di Nate. Quello era stato uno dei motivi per i quali dopo Capodanno, malgrado ciò che si era ripromessa, non aveva più cercato Henderson. Se fosse stato messo a conoscenza di quello che sapeva Rea, avrebbe cercato di dissuaderla, avrebbe avvertito Elijah, o ancora non si sarebbe stupita se avesse preferito denunciare lei piuttosto che permetterle di fare il suo lavoro. Era una sensazione, nulla più che un presentimento. Troppe cose non tornavano, troppi fili l’avevano portata in quel posto, in quell’esatto momento. Aveva scoperto solo dopo, Rea, che Elijah era sparito. Aveva scoperto solo dopo, Rea, che aveva perso la memoria.
    Ed aveva scoperto solo dopo, Rea, che poteva vedere ciò che non avrebbe dovuto vedere. Che ironia, non era forse vero? Era sempre riuscito a vedere quello che gli altri non vedevano, e per quello l’aveva odiato. Le piacevano i suoi spazi, i suoi segreti, e le piaceva che le persone si facessero i fatti propri, anche quando sapevano perfettamente cosa fosse accaduto. Le piaceva essere guardata, ma mai vista. Un tempo non era brava a nascondersi dietro sorrisi scheggiati, né era consapevole che il proprio scudo poteva divenire da pietra a specchio, riflettendo le altrui parole, offese, accuse abbastanza da cambiare il corso della partita. Un tempo, Rea Hamilton era stata innocente, ed aveva sentito qualcosa. Dio, era perfino stata felice, talvolta, sempre che felicità volessimo chiamarla. Un tempo, Rea aveva amato. Forse non nel modo appropriato, non in modo sano, ma a suo modo si era affezionata a quei tre ragazzini tutto fumo e niente arrosto. Due e mezzo, perché Elijah era sempre rimasto sul confine. Aveva sempre avuto qualcosa di troppo. Troppo buono, troppo gentile, troppo biondo. Troppo Elijah Dallaire, e Rea aveva cercato di mantenerne le distanze il più possibile. A Charlie sarebbe piaciuto.
    Ma Rea non era Charlie, non lo era mai stata.
    E forse, proprio per quello, l’aveva odiato un po’ di più.
    A venticinque anni, Rea Hamilton si era trovata di fronte ad una scelta. Avrebbe potuto entrare in casa cercando il Dottore, consegnarlo al Ministero; in realtà, avrebbe dovuto denunciarlo, perché nella loro era, un dubbio valeva quanto una condanna.
    Eppure, non l’aveva fatto.
    Avrebbe potuto entrare in casa, cercare il Dottore, obbligarlo a rivelarle i segreti dei Laboratori ed infine ucciderlo, come molti altri suoi colleghi prima di lui. E voi direte: Rea, come fai a sapere che era di lui che stavano parlando? Semplice. Nessuno sarebbe stato così stupido. Nessuno, tranne Elijah Dallaire. Eppure, non era lì per lavoro –forse.
    Era quello, il vero problema. Rea non stava cercando il Dottore, il ribelle. Quando Judas era entrato a far parte della sua vita, la Hamilton aveva appreso diverse cose riguardo il suo potere, chiaroveggenza. Avevano scherzato sulla lotteria, sull’oroscopo; gli aveva domandato se l’avrebbe ucciso, e non stava più scherzando –più o meno. Ma non aveva mai realmente preso sotto gamba quella capacità. Aveva una pericolosità intrinseca, differente rispetto alla propria, ancora astratta, o a quella più concreta come la telecinesi. Il passato, il nodo della questione era quello. Potevano vedere il trascorso. Uno impiegava anni a lasciarselo alle spalle, cercando di sotterrarlo sotto cumuli di terra e cenere, di fuoco e sangue, ed a loro bastava toccare qualcuno per prenderne possesso. Rozzo, non era forse vero? Ma non finiva lì. C’era un motivo se mal tollerava la loro capacità: erano immuni alle sue illusioni. Non tutte, okay, ma abbastanza da farla arrabbiare. Riuscivano a vedere la realtà in ogni loro forma, indipendentemente dal tempo; vivevano ad un piano diverso rispetto agli altri, dove la distorsione visiva non giungeva. Togliendo le illusioni, oramai, a Rea Hamilton non rimaneva molto altro. Non ne erano soggetti, neanche alle più piccole, come il marchio sul polso che ormai celava senza doverci neanche pensare. E lui l’aveva visto. Non aveva detto niente, ma l’aveva visto. Nessuno, nessuno avrebbe dovuto poterlo vedere. Sia mai che Elijah Dallaire non fosse, come sempre, l’eccezione. Memoria o non memoria, era sempre in grado di irritarla senza neanche dover fare qualcosa. Gli bastava respirare, per fare qualcosa di sbagliato agli occhi della Serpeverde. Un tempo aveva pensato che lo facesse apposta, ma ormai aveva compreso che una sua naturale inclinazione. Antipodi, ecco cos’erano. Ma sapevano fare qualcos’altro, i chiaroveggenti. Qualcosa per il quale Rea era disposta a rischiare –e non lo faceva per tante cose, o persone. Ma glielo doveva, capite? Glielo doveva, a quella bambina che seduta sul portico attendeva il suo ritorno; lo doveva al sorriso che le aveva sempre rivolto, quando Rea le lasciava la fetta della torta più grande. Lo doveva a quello sguardo spezzato, a quella mano che cercava di intrecciare le dita alle proprie come quando erano bambine. Lo doveva a Charlotte, ed era l’unico modo per liberarsene una volta per tutte. C’erano troppi Hamilton, era il momento di scremare.
    I chiaroveggenti potevano cancellare i ricordi.
    Ed era quello, il vero problema. Rea non stava cercando il Dottore, il ribelle, e neanche un chiaroveggente. Rea stava cercando Elijah Dallaire. L’aveva odiato perché troppo disponibile, l’aveva odiato perché troppo buono, ed ora lo stava cercando per tutte quelle qualità che aveva sempre disprezzato.
    E forse, proprio per quello, lo odiava un po’ di più.
    Non aveva mai detto a nessuno di avere una gemella. Invero, non aveva mai detto nulla sulla sua famiglia ad Hogwarts, evitando di cercare Shia fra le mura del castello. Dopotutto lui, come tutti gli altri, se n’era andato: che senso avrebbe avuto sperare che potesse essere lì, con lei, a tenerle la mano per mantenere la promessa di quando erano bambini? Era stata strappata presto al mondo nel quale le promesse sono voti infrangibili. Non c’era lealtà, non c’era morale, non c’era famiglia. C’era solo sangue, e dolore, e paura. Si trovava a dover rivelare più di quanto avesse mai fatto in sei anni al castello, più di quanto avrebbe mai immaginato di dover fare – ad Elijah, per di più. La perdita della memoria del Grifondoro, avrebbe dovuto essere un bene. Avrebbe dovuto essere più facile, perché con uno sconosciuto era sempre più semplice confidare i propri demoni: uno sconosciuto, dopotutto, non avrebbe mai dovuto averci a che fare con quegli incubi, quindi non avrebbe avuto alcun motivo per cercare di rinchiuderli dentro l’armadio. La cosa snervante era che Elijah non era uno sconosciuto. Lui poteva anche aver dimenticato, ma lei rimembrava ogni cosa. Sempre.
    Ciò che riusciva a tirarla su di morale, sollevando languidamente gli angoli delle labbra, era che una tavolozza bianca era più semplice da sporcare con colori foschi e dalle tinte brumose. Sperava quasi che la obbligasse ad usare le maniere forti: Nate non l’avrebbe mai perdonata se l’avesse ucciso, okay, però c’erano un’infinità di altri passatempi a cui potersi dedicare senza dover necessariamente (ma se la situazione fosse capitata… non sapeva resistere così bene alle tentazioni) passare all’omicidio. Una ragazza doveva pur divertirsi, in qualche modo.
    Sospirò, spingendo con il piede sul cavalletto della moto così che non cadesse. Dire che aveva parcheggiato, sarebbe stato un parolone: con la sua moto volante, grazie babbo natale, aveva deciso di atterrare sul giardino del vicino, su un prato all’inglese così verde da farla quasi rammaricare del taglio obliquo di terra smossa che aveva provocato frenando non troppo gentilmente. Quasi. Inutile specificare che il suo outfit era poco adatto ad un soleggiato pomeriggio estivo, ma che donna sarebbe stata se avesse rinunciato al nero solamente per un po’ di caldo? Black is the new black, lo sapevano tutti. Scarpe con il tacco nere, pantaloni neri, giacca nera. Sotto aveva una canottiera verde smeraldo, ma considerando che la giacca era chiusa, poteva tranquillamente passare per una becchina.
    Ma era una meravigliosa becchina. Senza contare che non sarebbero stati troppo lontani dalla realtà, con quella definizione. La differenza fra il suo lavoro e quello sopracitato, era che quando veniva chiamata in causa Rea, le persone erano ancora vive. Per poco, ma lo erano. Entrambi perlopiù, però, lavoravano con i morti. Importava davvero che fosse lei ad ucciderli? Minuzie, solo minuzie. Bussò alla porta dei Dallaire, colpendo con le nocche il legno spesso della villetta. Stava giusto per bussare una seconda volta, quando la porta si aprì. Gli occhi di Rea dovettero abbassarsi, perché il suo interlocutore –pardon, interlocutrice- non si trovava all’altezza che si sarebbe aspettata. Si ritrovò a guardare due occhi chiari, difficili da dimenticare a causa della loro particolarità, le palpebre pesanti quasi ad oscurarli. Con una maglia di diverse taglie più grande della sua, ed uno spazzolino da denti ancora stretto nella mano sinistra, la ragazzina la guardò interrogativamente. «regina di cuori?» Certo che il mondo era piccolo. Troppo, come in quel caso. «ciao, Pinocchio» Le sorrise melensa, sbattendo lentamente le ciglia. La ragazzina si strinse le braccia al petto, poggiandosi alla porta con una spalla. «a cosa devo questo onore?» ah, quanto sarcasmo in un corpicino così piccolo. Non aveva preso nulla da Elijah, di certo non l’educazione considerando che non l’aveva ancora invitata ad entrare. Poteva biasimarla? Certo che sì. «cerco Elijah» ammise sinceramente, con una voce bassa ed allusiva che ben poco s’adattava alla casta affermazione. «perché lo cerchi?» Il sorriso di Rea si allargò, mostrando i denti bianchi e perfettamente allineati nascosti dietro le labbra sottili. «ah, di certe cose non si dovrebbe parlare con la sorellina minore» ammiccò lasciva, la voce a calare di un ottava, mentre il sopracciglio destro scattava verso l’alto. «ma se preferisci, posso scendere nei dettagli. Te l’hanno raccontata la storia dell’ape e … » Pinocchio scosse il capo, corrugando entrambe le sopracciglia. «elijah è fuori con Nat» «Nate?» Allora Arabells sorrise sinceramente, come se la domanda, legittima, fosse esilarante. «qualcosa del genere» Risposte evasive e sorrisi maliziosi? Ma quella era sua sorella, non di Elijah. Se non avesse avuto già un’Ego che richiedeva la sua completa attenzione, metaforicamente ma soprattutto letteralmente, l’avrebbe guidata alla vita vera. Soprattutto per fare un torto ad Elijah. Ma tanto lui non ricordava. «posso aspettarlo dentro» come se la prospettiva non la entusiasmasse particolarmente, how rude, Pinocchio sospirò e si fece da parte, spalancando la porta per invitarla con un gesto del braccio ad entrare. «fai come se fosse casa tua» Davvero adorabile. Le lanciò un’occhiata orgogliosa, sorridendo lieta, mentre la superava per entrare. Si guardò attorno brevemente, senza davvero concentrarsi su nulla perché, in tutta sincerità, l’arredamento dei Dallaire non era affar suo. Ovviamente, Rea Hamilton non era il genere di persona che si lasciava sfuggire un invito così gentile, né quello da fare troppi complimenti. Le aveva detto di fare come se fosse stata a casa propria? Oh, ragazzina. Aveva ancora così tanto da imparare, riguardo le convenzioni sociali con gli sconosciuti.
    Specialmente con un Hamilton. «grazie pinocchio, da qui procedo da sola» Le baciò la testa scura, guadagnandosi un’occhiataccia quasi minacciosa –aveva così tanto da imparare!- quindi prese le scale e salì al piano di sopra, sicura che le camere da letto, come in ogni casa normale, si trovassero lì. Senza preoccuparsi della violazione della privacy, poggiò la mano sul primo pomello che le capitò a tiro; non ebbe il tempo di socchiudere la porta, che una piccola mano si strinse attorno al suo polso, immobilizzandola. Lentamente, fece scivolare in maniera poco amichevole lo sguardo dal proprio braccio a quello di Pinocchio, che, un punto per lei!, non indietreggiò e non distolse gli occhi dai suoi. Quell’occhiata aveva fatto vacillare ragazzoni molto più grossi e minacciosi di lei. Impavida e stupida. Allora qualcosa da Elijah l’aveva preso. Inarcò le sopracciglia, come se l’intrusa non fosse stata lei, guadagnandosi un sorriso che non arrivò a brillare nello sguardo bicolor di lei. «seconda stanza a sinistra» il guizzo nei suoi occhi le disse che qualcosa non andava, ma non era lì per scoprire altri scheletri nell’armadio –o per litigare con una tredicenne A: sks bro preferisco sacrificare la tua virtù che non quella di mamma. Pinocchio le fece un cenno con il capo, attendendo che fosse Rea la prima ad avviarsi nel corridoio, quindi le indicò la camera di Elijah. «sei quella delle foto?» le domandò, prima che la Hamilton potesse aprire la porta. Foto? Ah, già. A volte si dimenticava di essere stata una castafratta. «se c’èè una ragazza che non sorride nelle foto, sono io» rispose facendo l’occhiolino, prima di accomodarsi all’interno della camera. Quando frequentavano Hogwarts, si era scampata la maggior parte delle foto di gruppo, offrendosi volontaria come fotografa; ovviamente all’ultimo girava l’obiettivo su sé stessa. Come li chiamano, oggi? Selfie. Perché sprecare pellicola con tre reietti, quando lei era palesemente molto più interessante? Storse il naso, sentendo la presenza del Grifondoro malgrado lui non fosse fisicamente lì. Roba da quidditch, cose, foto, album dimenticati ed aperti a caso in giro per la stanza. Erano passati anni dall’ultima volta che l’aveva sentito, ma quello era il profumo di Elijah.
    Che inquietudine.
    Ora che si trovava lì, voleva solamente tornare indietro. Seriamente, e sinceramente, avrebbe voluto essere ovunque tranne che in quella stupida cittadina scozzese. Avrebbe potuto incolpare sé stessa ed i propri sbagli, ma perché farlo quando odiare Elijah era molto più facile? Ah, qual era il motivo per il quale lo odiava, in quel momento?
    Perché ne aveva bisogno, e Rea odiava tutto ciò di cui aveva bisogno. E non era un qualcuno qualsiasi.
    Fra tutte le persone al mondo, Rea Hamilton aveva bisogno di Elijah Dallaire.
    La vita, a volte, era davvero ingiusta.
    Aveva lasciato che passassero i mesi, che scivolasse altro sangue; aveva aspettato di udire altri sussurri, narranti di sorrisi ed occhi gentili, aveva aspettato la confessione riguardo la memoria perduta. Aveva aspettato, finchè aveva potuto, per entrambi. Erano sempre stati i personaggi di una favola dall’ironico senso dell’umorismo, Rea ed Elijah; laddove lui era il Principe Azzurro, fasciato di armatura brillante sulla sella di un cavallo bianco, ella era la Strega Cattiva. Entrambi avevano le loro principesse da salvare, altrimenti che fiaba sarebbe stata?, ed entrambi l’avevano sempre fatto in modo così differente, da trovarsi su schieramenti opposti più di una volta: lei s’era imposta di essere la più malvagia, lasciando che quell’onda di terrore placasse i mari altrui, sempre disposta a passare sopra chiunque, principesse comprese (ovviamente, le principesse in questione erano Eugene e Nathaniel) pur di evitare che le cose si mettessero troppo male. E lui, Elijah, era sempre stato il Paladino, quello che avrebbe sacrificato sé stesso per i suoi amici. Ma c’era una cosa che Elijah Dallaire avrebbe dovuto comprendere, prima o poi.
    Nel loro mondo, non erano gli eroi a vincere. Erano i cattivi.
    Sempre.
    E quel poi era appena arrivato, in sella ad una moto volante, per rimembraglielo.
    Sotto lo sguardo attento di Pinocchio, che creatura amorevole!, Rea si accomodò sul letto, lisciando le lenzuola sotto i polpastrelli con una vaga smorfia di disappunto. Beh, non tutti potevano avere lenzuola di seta, d’altronde. Si coricò, incrociando le gambe di lato sul muro («le scarpe…» «non posso toglierle, ad elijah piace quando le tengo» «buffo, non sei la seconda a dirlo» Non ebbe bisogno di dirlo ad alta voce: Nate. Qualcuno si stava divertendo un po’ troppo, con SmemoBiondo. Such a shame, isn’t it? che amici di merda, fra tutti), e prese dal comodino una rivista. (cosa? Non hai riviste? Ora sì) La sfogliò distrattamente, rendendosi conto con orrore che non era una rivista. Era un… «cruciverba» sussurrò, quasi sdegnata. Davvero? Nessun playboy o roba tipo Oggi? Che biondo da due soldi, Elijah Dallaire. A meno che, certo, non fosse uno di quei simpatici scherzetti da Castafratti per il quale solo gli uomini potevano vedere. Come se Rea Hamilton avesse avuto mai bisogno, nella sua vita, di vedere una vagina patinata.
    Valli a capire, i ragazzini imberbi e sfigati.
    Non sapeva quando, ma a una certa Pinocchio l’aveva abbandonata a sé stessa. O aveva una grande fiducia in Rea, oppure non rientrava nei passatempi di un’adolescente fare da baby sitter agli amici del fratello maggiore. Non l’aveva neanche ammonita dal non toccare niente. Beh, d’altronde Rea era felice anche senza infilare le mani nei cassetti della biancheria di Elijah. Voci di corridoio (Jackson) dicevano di aver visto la Elite in approcci intimi con un paio di manette rosse e piumose; il fatto che un tempo fossero amici, non significava che fosse pronta ad avere conferme. Le illusioni erano gratis e per tutti.
    Sentì la porta d’entrata chiudersi, i passi sulle scale, nel corridoio. Quando li sentì fermarsi sulla soglia, si schiarì la voce. «femminile: chi ha commesso un reato, colpevole. malvagio.» Indicò una colonna nel cruciverba, ruotando solamente gli occhi verso Elijah. «Tre lettere»
    E Rea sorrise, come il Serpente dovette sorridere ad Eva.
    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code by ms. atelophobia


    Edited by m e p h o b i a - 5/1/2017, 03:06
     
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    elijah dallaire


    Alzò per un secondo lo sguardo, giusto per controllare che non si fosse allontanato troppo, prima di stringere un po’ di più le gambe al petto, i talloni ancorati sulla zolla di terra che ormai sembrava aver preso la forma delle suole delle sue scarpe per tutto il tempo che non solo quel giorno, ma anche di molti altri a precederlo, ci aveva trascorso. Contro lo stesso tronco dello stesso parco, se tale poteva chiamarsi quel piccolo piazzale erboso su Culduthel Road, a qualche isolato di distanza da casa sua, ci passava ormai la maggior parte del tempo che non trascorreva tra le mura divenute quasi familiari, ma mai troppo, della villetta dei Dallaire. Lontano da tutto quello che ancora non capiva, che si sforzava di comprendere, in quel luogo si sentiva quasi a suo agio: avvezzo all’aria aperta, agli spazi sconfinati, alla natura ci era diventato per forza di cose, quando la parola “casa” non aveva nemmeno idea di cosa significasse, quando una “famiglia”, o degli “amici”, erano solo un concetto astratto ed irraggiungibile, qualcosa che non gli apparteneva realmente e che temeva, in realtà, mai gli sarebbe appartenuta. Era in posti come quello, dove non doveva pensare a nient’altro se non che Natajah non si allontanasse troppo o mangiasse qualcosa di sicuramente nocivo lasciato sul terreno, che Elijah si ritirava per, semplicemente, riflettere. Non credeva di aver molto su cui farlo, e probabilmente ciò era vero considerando che più che pensare al biondo serviva sapere, eppure ci si perdeva in quei suoi ragionamenti che come nella sua mente iniziavano, nella sua mente finivano. Non riusciva a proiettarli oltre, a ricollegarli a qualcosa, a far quadrare semplicemente il tutto trovando anche la più semplice, la più banale delle spiegazioni. Una piccola, qualcosa che alla fine della giornata tornasse al proprio posto: non stava chiedendo tanto, non credeva di starlo facendo. Almeno, nessuno gli aveva detto il contrario; nessuno gli aveva detto di smettere di provarci, di non inseguire più un passato che non ricordava e che non era più suo, di non impegnarsi. Tutt’altro. Era sempre stato un accorto osservatore dei piccoli gesti, delle minime azioni nonostante non potesse rimembrarlo, ed era quella una caratteristica che non lo lasciò mai, nemmeno quando tutto il resto sembrava l’avesse fatto. Li vedeva, li capiva e soprattutto li apprezzava, arrivando a valorizzarli esponenzialmente. Tutto ciò, per il semplice fatto che sempre di piccole cose aveva vissuto ed inconsciamente delle stesse minuzie voleva continuare a vivere; non erano passati inosservati i tentativi altrui di aggiustarlo, di mettere a posto le pieghe sgualcite del suo essere. Aveva amato, amava, sfogliare le pagine del diario regalatogli da Bells per il suo ventiquattresimo compleanno, sorridendo delle cose più simpatiche trascritte, mordendosi le labbra per quelle invece più serie che involontariamente lasciavano un retrogusto amaro sul palato dopo aver deliziato le papille con un sapore dolce: nostalgia di cose mai fatte, parole mai dette; e si perdeva a pensare, con le gambe incrociate sul letto ed il libricino aperto poggiato su di esse, a quanto gli avrebbe fatto piacere esserci, essere lì quando le finestre tremavano per i tuoni troppo forti, o quando gli stessi lampi per tranquillizzarla li descriveva con colori vivaci ed allegri, belli laddove sembrava non esistere alcuna beltà. Lo stesso pensiero che correva quando apriva la busta recapitatagli da Nate, estraendo lettere, cartoline di viaggi oltreoceano del moro, foto che li ritraevano spesso da soli, spesso in compagnia di altri, ma sempre gli stessi: e anche lì, scorrendo i polpastrelli su superfici a volte ruvide, a volte levigate e plastificate, si diceva che avrebbe voluto esserci. Solo quando riponeva tutto al proprio posto, quando l’aspro era troppo forte sulla lingua e l’oppressione forte in tutto il corpo, solo quando si stendeva chiudendo gli occhi si accorgeva che lui c’era stato. Vivere quelle memorie, allora, assumeva un altro significato, un altro ancora al quale sempre più di rado credeva di poter dare un senso. Non gli bastava più viverle, voleva riviverle, ricordarle chiaramente. Voleva essere in grado di poter dire alla giovane Dallaire “ricordi di quando ti ho fatto salire sulla mia scopa, di quanto ti ho fatto volare in alto nonostante papà non volesse, di aver preso il tuo primo boccino d’oro stretta tra le mie braccia?”; di poter chiamare l’Henderson, o il Lowell che dir si voglia, ed urlare nel trasmettitore del telefono “dobbiamo assolutamente tornare sul promontorio a Plymouth! Ti ricordi? Rea voleva a tutti i costi che voi –tu ed Euge-, vi buttaste dalla scogliera per vedere chi faceva il tuffo più spettacolare ed io vi dissi che invece no, non era una buona idea, che probabilmente sarebbe stato più spettacolare il modo in cui sareste morti spiaccicati contro un masso nell’impresa”. Voleva solo tornare Elijah Dallaire, riscoprire i sapori di quelle risate, l’odore di quelle memorie. Voleva soltanto questo.
    Gli angoli della bocca dell’ex grifondoro si alzarono appena quando osservò il cucciolo di labrador, non più così cucciolo, rotolarsi tra i lunghi e non tanto curati fili d’erba di quel prato, cercare di prendere tra le zampe e goffamente qualcosa che probabilmente poteva vedere solo lui, prima di riportare lo sguardo sull’oggetto che ormai da circa cinque mesi affollava i suoi incubi, e Dio quanto avrebbe voluto che questo avvenisse solo metaforicamente. Era iniziato più lieve, quel ricorrente sogno, impestandogli la mente solo una volta ogni tanto, ma dopo capodanno era sembrato accelerare, comparire sempre più spesso dietro le palpebre calate, fino a palesarsi quasi a giorni alterni. Ed era vivido, quasi palpabile sotto le dita nonostante fosse palesemente inconsistente, surreale. Vivide erano le urla, vivide le suppliche; nitido era quel viso gioviale, incorniciato da corti capelli scuri, che lo scrutava da dietro uno spesso vetro con occhi troppo gonfi, preoccupati, e spesso accompagnato da un volto più maturo, quasi saggio se solo inconsciamente non avesse saputo che oltre a quell’appellativo all’uomo ne avrebbe affibbiati mille altri molto meno intelligenti: vedeva la bocca della ragazza aprirsi, dire qualcosa, dire sempre qualcosa, ma alle sue orecchie non giungeva nulla, o semplicemente non ne aveva alcuna memoria –strano, eh?-; chiara era quella voce, dietro la maschera, come chiari erano i peli sulla cute che dolci scendevano sulle spalle. Rimbombava nella testa, quel suono, come un mantra. Come una maledizione, stilata in una sola parola. Posò le iridi chiare sul badge da dottore, così lo aveva definito il suo migliore amico quando glielo aveva mostrato la sera del trentuno dicembre. Quel tesserino che altro non gli diceva se non il suo nome continuava ad impestare la sua vita in un modo che nemmeno riusciva a capire –uno dei tanti, per intenderci. Ogni volta che lo sfiorava, aveva paura. Irrazionale paura, come irrazionale era la spavalderia e l’impudenza che di solito lo caratterizzavano, ma sempre paura. Timore che toccandolo, ancora, potesse rivedere quella figura avvicinarglisi, additarlo, condannarlo per qualcosa che non sapeva di aver commesso, per colpe che gli sfuggivano. Shia Hamilton, così gli avevano detto che si chiamava l’uomo che aveva percepito dietro quel badge, e l’iniziale tentazione di fermarlo, di chiedergli informazioni in quell’atrio, scemò dal principio del suo concepimento, scivolando sulle spalle, sulle braccia, a terra come sporcizia sotto il getto caldo di una doccia. Hamilton, come la villa nella quale erano stati invitati; Hamilton, come la ragazza che Nate gli aveva detto essergli stata simpatica, quella che non sembrava essere a proprio agio sotto al suo sguardo; Hamilton, come la Rea che aveva rincorso dentro la grande abitazione, augurandole un felice anno venturo solo perché si era sentito maleducato –e beh, lo era stato, ma le convenzioni sociali, quelle gli erano ancora sconosciute all’epoca... non che ora non lo fossero ma sorvoliamo. Non era sicuro di voler disturbare alcun membro di quella famiglia con insensati dubbi, strane visioni o quant’altro. Quasi certamente stava solo impazzendo, e per quante volte se l’era ripetuto negli ultimi dodici mesi probabilmente non era nemmeno quella una diagnosi tanto errata. In verità, non voleva tediare nessuno di tutti loro: per questo, non aveva fatto mai vedere quella tessera alla sorella; per questo, non aveva più tirato in ballo l’argomento con l’Henderson. Erano sue le memorie perse in quel pezzo di carta plastificato, ne era sicuro, e qualcosa gli diceva che loro in quello non c’entravano nulla: già era tanto, secondo lui, se erano riusciti a riaccettarlo tra loro, come un cucciolo smarrito che aveva perso la via. Non che così non fosse, ma era più complicato. Non aveva perso la via, Elijah. Aveva perso sé stesso. Chi avrebbe voluto indietro un involucro vuoto, depravato di tutto quello che l’aveva reso ciò che non era più? Loro. Loro l’avevano fatto, perciò non poteva addossargli altro. Anche perché quando aveva visto l’espressione di Nathaniel in macchina, al solo sentire la descrizione di quell’impressione che gli aveva attanagliato il petto, aveva creduto di aver fatto semplicemente un altro danno. Uno in più, che si andava in tutta tranquillità ad aggiungere alla lista infinita: primo tra tutti, l’essere sparito. Se solo loro, e chi gli stava più vicino, avessero saputo in cosa si era buttato in mezzo, cosa stava rischiando, forse sarebbe stato tutto diverso. O forse non sarebbe cambiato nulla. O, ennesimo “forse”, sarebbe solo stato peggio. Non gli era concesso farne altri, non gli era concesso perdere tutto ciò che aveva guadagnato. Perché lui, e lui soltanto, aveva ottenuto qualcosa, quando quella ragazza dagli occhi così colmi di speranza, di benessere, di amore era entrata nella camera d’ospedale, diversi mesi prima; lui, e nessun altro, aveva trovato qualcosa che lo tenesse fermo in un posto, dopo un anno di solo vagare senza alcuna direzione, sprovvisto di qualsivoglia bussola. O meglio, Elijah una bussola l’aveva, ma non sembrava volergli mai indicare il Nord. Smagnetizzata, sottoposta a campi magnetici troppo forti al punto di farla mal funzionare. Rotta, come rotto era lui.
    E sempre lì, quel mare di pensieri andava a posarsi, aumentando il battito cardiaco. Sempre, a quel punto, reclinava la testa all’indietro, urtando il dorato cuoio capelluto contro la corteccia dello stesso albero, nello stesso parco. Abbassava la targhetta dietro le ginocchia, occultandola ad una vista che comunque rifiutava di fossilizzarsi su quel pezzo di carta, così inutile nella sua precedente ed incommensurabile utilità. Si soffermava sulle foglie ancora ferme al loro posto, lo stelo ancorato al ramo che non s’osava di lasciarle cadere. Le aveva viste in mutevoli atteggiamenti, quelle fronde: le aveva viste denudarsi dei verdi abiti che le adornavano, innevate e coperte da quel soffice e freddo manto, muoversi all’anelito di un soffio di vento o in stasi, com’erano in quel pomeriggio di giugno, ferme sotto il sole estivo che giammai si sarebbe azzardato a nascondersi dietro candide nuvole. Cangiavano, sotto il suo mite osservarle, ma il suo ragionamento rimaneva lo stesso, sempre. Lui ci aveva guadagnato, e tutti gli altri ci avevano perso: avevano perso un fratello, un amico, un compagno, un qualsiasi cosa Elijah Dallaire fosse stato per le altre persone. Si era sentito così egoista nel dire ad Arabells che era davvero lui, così meschino nel confessare a Nathaniel che era tornato. Perché non era davvero lui, e non era davvero tornato. Forse sarebbe stato meglio se non si fosse mai ripresentato, indiscutibilmente meglio se loro non avessero continuato ad aspettarlo. Poteva fuggire, tornare alla vita che per un anno aveva fatto finta di vivere racimolando quanto gli bastava per non morire: era stato terrorizzato dall’idea di chiedere ai due, perché solo con loro due aveva la forza di parlare giorno dopo giorno sebbene notasse sempre un barlume di reticenza da parte di entrambi di scoprirsi troppo, quasi a temere che li avrebbe delusi di nuovo, lasciandoli ancora una volta, come fosse stata la loro vita mentre lui non era presente. Non conosceva tante persone, e diamine non conosceva nemmeno loro, ma se gli avessero detto che era stata una bella vita? Se gli avessero detto, in tutta sincerità, che si erano abituati all’idea di non averlo più tra i piedi, e che il suo ritorno non era stato altro che un susseguirsi di dolore perché non era più come si aspettavano che fosse? Non aveva mai voluto ferirli, mai aveva voluto danneggiare nessuno; ma si rendeva conto che non era d’aiuto, che faceva male.
    Ma per fuggire, era troppo tardi. E non avrebbe mai potuto farlo, perché prima ancora che li conoscesse ci si era affezionato, un riflesso spontaneo, reminescenza di un passato ignoto e oscuro. Si era dapprima ancorato, come una nave alla deriva in un mare in tempesta cerca di trovare nel più profondo degli oceani un appiglio stabile, a quell’immagine fumosa di una ragazza, una bambina, nel buio più totale, ad una nomea che gli era sconosciuta ma che, quando il nulla era padrone della sua anima e mente, era tutto ciò che possedeva. Aveva poi fatto delle foto, e delle memorie cartacee e palpabili, la propria scialuppa di salvataggio, ormeggio sicuro, ritrovando nella maggior parte di esse lo stesso viso, lo stesso sorriso spezzato da mille turbe che non comprendeva; ci si era avvicinato, inconsapevole del malessere che avrebbe procurato. Perché lo sapeva, Elijah Dallaire, che ne aveva procurato. Potevano negarlo, potevano dire che non era così: tutti potevano farlo, ma era stato sempre suo compito, suo dovere, capire quando mentivano, a lui ed a loro stessi. Chiuse gli occhi, sorridendo ad un fogliame che lasciava trasparire solo alcuni raggi di sole. Poteva andarsene, tornare alla sua normalità. In qualsiasi momento, anche allora se solo avesse voluto: avrebbe potuto riportare Natajah a casa, scioglierlo nel giardino posto davanti alla villa e voltare a questa e a tutto il resto, a tutti quanti, le spalle, percorrendo vie sconosciute. Voleva farlo? Assolutamente no. Altrimenti perché avrebbe dovuto riapparire? Avrebbe voluto solo fosse più semplice, molto più semplice.

    «avrebbe potuto essere più semplice» «tu... tu non capisci» «io capisco, è quello il problema» «no, non è vero...» «prima lo era, prima era facile» «perché l’hai fatto? Perché hai dovuto farlo?»

    Ancora una volta, l’ennesima, gli occhi celesti ricaddero distratti sul badge, come se fosse stato richiamato da questo. Non ne poteva più, Elijah Dallaire, di dover accondiscendere a tutto quello, al sentirsi appellare quando non c’era nemmeno nessuno a cercarlo, di sentire voci inesistenti, di vedere cose che mai erano esistite, persone mai vissute. Era stanco, e se solo avesse veramente saputo cosa fosse la pazzia, se solo l’avesse compresa, avrebbe capito che tutto quello, lentamente, ce lo stava trascinando. Ed era sempre quando lo sguardo si incupiva, incantato a scrutare il vuoto, un punto indeterminato nello spazio o il suo nome, quando le labbra si serravano in un’espressione che non era propria del chiaroveggente ignaro, che saltellando il labrador tornava nei pressi della sua postazione, quasi avvertisse che qualcosa non andava. A volte si limitava ad accucciarsi al suo fianco, ansimando come solo un cane dopo una corsa alla ricerca delle farfalle perdute sa fare; in altre occasioni gli mordeva la mano, reclamando la sua attenzione perché, non ancora stanco, pretendeva di essere scorrazzato ulteriormente in giro. Quella volta, come poche altre in realtà, aveva deciso di mettersi su due zampe, poggiando quelle anteriori sulle ginocchia del ventiquattrenne. In ogni caso, era l’unico modo per riportarlo alla realtà del mondo, e questo probabilmente Natajah lo sapeva: se come sempre non fosse intervenuto, il Dallaire sarebbe rimasto fermo immobile ad aspettare che il tempo passasse, e che quei dubbi diventassero certezze, che quegli indizi si tramutassero in soluzioni. Utopie, queste, che mai avrebbero visto la luce. «sì, ora andiamo» disse, il sorriso ravvivato sul volto fino ad irradiarsi negli occhi. Bastava così poco, a fargli fingere un sorriso di circostanza, a fargli credere che tutto potesse risolversi nel migliore dei modi. Pochi, piccoli gesti, impercettibili azioni che solo lui riusciva a carpire, solo a carpire. Si alzò, nascondendo nella tasca posteriore dei jeans il tesserino: ”lontano dagli occhi, lontano dal cuore”, dicevano, ma questo Elijah in realtà non lo sapeva. Per lui valeva la regola “lontano dagli occhi, lontano dalla testa”, e se solo le cose avessero rispettato questa semplice legge sarebbe stato tutto molto più bello. Percorse la strada che aveva calpestato all’andata, gli stessi ciottoli sul lastricato marciapiede, preferendosi perdere ad ammirare le crepe su di questo piuttosto che puntare lo sguardo sui passanti. Quando usciva di casa, le persone erano la cosa che più lo conquistava di quelle escursioni: avrebbe scambiato volentieri due parole con ciascuno di loro, pur non avendo idea di chi questi fossero; sorrideva amabile quando era costretto a fermarsi sul ciglio della strada perché bambini curiosi avevano deciso di accarezzare il cucciolo di Nate che, di comune accordo –più o meno, gli sfuggivano le interpretazioni del Lowell di “comune” e “accordo”- teneva ad Inverness; accennava saluti con la mano a tutti quelli che per primi si prodigavano in un simile gesto, rimembrando di quando per le periferie di Londra nessuno aveva l'audacia di farlo. Al ritorno, tuttavia, era diverso. Le stesse facce, gli stessi bambini, gli stessi sventolii di mano, ma sconosciuti. Ah, forse avrebbe dovuto cambiare albero: quello non era salutare.
    «Bells, papà, sono a casa» elargì a gran voce, annunciandosi sull’uscio della porta e chiudendosi questa alle spalle. «papà non c’è- ehi bello, stai giù» la voce della sorella gli arrivò dalla cucina, ove il cane frettoloso si era già diretto a reclamare la sua dose oraria di coccole dalla ragazza di casa. Accaldato, giustamente, dal piccolo soggiorno all’aria aperta, raggiunse le due bestie rivolgendo un sorriso a quella umana. Ella gli sorrise di rimando, seduta al tavolo con diverse pergamene e libri aperti davanti a sé. Eppure, in quel sorriso, ci vedeva quanto non avrebbe voluto: sforzo. Ma magari era solo lui ad immaginarlo, solo lui a temerlo. Magari non era così, e basta. «dov’è?» chiese, prendendo dal refrigeratore una bottiglia d’acqua. «e cosa stai facendo?» «non me l’ha detto, e sto studiando» Sbrigativa, la risposta non gli sembrò tanto veritiera. Se solo Bells avesse saputo che il suo fratellone aveva contribuito a creare la setta della quale ora lei faceva parte, non avrebbe pensato di nascondere celermente tutte le carte. Ma lei lo sapeva? Forse. Lui lo sapeva? No. Non sapeva nulla, quindi pace. «vai su» «mi stai cacciando?» «no, ma c’è qualcuno per te» «chi?» quando la corvonero alzò le spalle, congedandolo con un gesto secco della mano, forse più di uno in realtà, si decise ad andare, Natajah alle calcagna.
    Passò davanti alla porta, quella che aveva paura di aprire, quella a cui aveva paura di avvicinarsi, che trasudava nero e putrido oblio da ogni millimetro di legno, e si concentrò su di essa solo per notare che era socchiusa. Senza guardare dentro, di nuovo, strinse il pomello tra le dita, chiudendola per poi tornare in camera sua. Il meno ci passava, nei pressi di quella stanza, meglio era.
    «femminile: chi ha commesso un reato, colpevole. Malvagio. Tre lettere» La prima cosa che fece, prima ancora di incrociare lo sguardo cioccolato della ragazza, fu cercare di mettere ancora più in profondità quel tesserino, come a volerlo nascondere ora non solo a sé stesso, ma a lei. Qualcosa, ma non sapeva cosa, gli diceva che fosse meglio che lei non lo vedesse, che non sapesse che c’era. «Rea, che...» che cosa ci fai qui? Sorrise gioviale, spontaneo, grattando appena la voce con una rauca risata strozzata in gola. «che piacevole sorpresa- Nat scendi subito da lì» disse, intimando al labrador di scendere dal letto dove già si era lanciato. Aw, gli piaceva. O almeno, non le aveva ringhiato: a volte con Nate lo faceva, o con suo padre. «scusalo, scusami, è un po’... cosa ci fai qui?» domandò, portandosi una mano alla nuca. Dire che non se lo aspettava era a) inutile; b) strano. Di solito, certe cose le percepiva prima, non sapeva come ma lo faceva. «posso... posso offrirti qualcosa?» Probabilmente, non quello che sei venuta a chiedere. Probabilmente, come al solito, non potrò essere d’aiuto come vorrebbero tutti gli altri, ma ci proverò.
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    rea hamilton


    Un sorriso compiaciuto curvò le labbra della Hamilton, quando Elijah Dallaire fece la sua entrata (poco) trionfale nella stanza. Che dolce biondino, allora il suo regalo per il diploma (per inciso, un dizionario) non era andato del tutto sprecato! Era sempre una soddisfazione sapere di essere riusciti ad insegnare qualcosa a qualcuno, che fossero le parole ad Elijah, l’uso delle posate a Brandon, o i bicchieri ad Al. Non che avesse dubbio alcuno sulla propria utilità nel mondo, ma averne conferma lasciava sempre un dolce sapore di vittoria sulla lingua. Non fece in tempo ad alzare le sopracciglia, pronta a congratularsi per l’aver appreso un termine così complesso come rea, che qualcosa le piombò addosso.
    Ora.
    Le persone non le piacevano, ma gli animali le piacevano ancora meno – specialmente quelli che sbavavano e perdevano peli. Il fatto che si chiamasse Nat, poi, le rese quella palla di pelo ancora più odiosa per puro principio. Ma perché fra tutte le persone che esistevano a quel mondo, Rea Hamilton aveva fatto amicizia con i Castafratti? Dire che non c’era giorno in cui se lo chiedesse, avrebbe implicato ch’ella pensasse spesso a loro, cosa che ovviamente non faceva. Ogni tanto, però, quel tarlo l’assillava. Forse la sua passione per le sfide l’aveva spinta un po’ troppo oltre i propri limiti. Guardò a distanza ravvicinata il cane, intimandolo con un’occhiata a non leccarla. Se avesse spalmato la lingua sulla faccia di Rea, Rea avrebbe spalmato quella di Nat, staccata dal morbido muso, su quella di Elijah. Evidentemente quel messaggio dovette passare, perché Palla di Pelo decise di sedersi accanto a Rea sbavando sulle lenzuola di Elijah. Beh, problema del biondo. Con cautela (e, quanta dolcezza!, la cautela era tutta per la tutela del cane: fra loro due non avrebbe avuto dubbi su chi avrebbe morso per primo) gli diede due pacche sulla testa, volgendo il più delicato dei sorrisi a Morgan e Darwin. Perché, signori e signore, per quanto poco a Rea Hamilton piacessero gli animali (eccetto Giuliano, lui le andava a genio), lei a loro pareva piacere tantissimo – vedi i Casta. Dopotutto era nella loro natura seguire l’istinto, e questi non poteva che suggerirgli di cercare la grazia del predatore più cattivo nella stanza con inutili sbavusci e superflue, nonché indesiderate, dimostranze d’affetto. Non poteva biasimarli solo perché, al contrario degli uomini, ammettevano la loro inferiorità nella catena alimentare tanto placidamente. «brava, piccola bestiola» ai posteri decidere a chi fosse attribuito l’affettuoso nomignolo: Elijah o il cane?
    Sì, sappiamo tutti che stava parlando con Elijah.
    «scusalo, scusami, è un po’... cosa ci fai qui?» Subito al sodo, neanche un minimo di convenevoli. Quasi rozzo che le avesse posto una domanda del genere: da quando Rea non poteva andare a trovare un suo così caro amico? Vi direi che è colpa della mancata memoria del biondo, ma mentirei: probabilmente, se avesse ricordato, non avrebbe neanche avuto quello stupido sorriso gentile sulle labbra. La Hamilton sospirò, sedendosi civilmente e lasciando cadere al proprio fianco i cruciverba. Era indecisa su quale metodo d’approccio utilizzare, scartando ovviamente a priori l’opzione sincerità: doveva divertirsi a spese dello smemorino, girando intorno al nocciolo della questione, oppure tirare subito fuori l’artiglieria pesante? Che domanda sciocca. Con un cenno della mano, liquidò la questione. «non scusarti per lui» d’altronde non poteva biasimarlo, faceva quell’effetto. Fu con intenzione che sottolineò il lui, perché al contrario Elijah Dallaire aveva molte cose, e Rea ancora non sapeva quante, per le quali chiedere perdono. Il sorriso scivolò dalle labbra quasi non fosse mai esistito, un’occhiata di sottecchi verso il francese. Malgrado avesse già conosciuto qualcuno con problemi di memoria, non aveva mai avuto occasione di avere su di sé uno sguardo familiare ma estraneo, essendo stata Rea stessa l’ancora di Charlotte. Come si era permesso? Poteva non esserle mai andato a genio, ma non aveva alcun diritto di dimenticarsi di lei. Corrugò le sopracciglia ed infilò la mano nel taschino interno della giacca, estraendone infine qualcosa di bianco e sottile che lanciò senza troppi complimenti al padrone di casa. «indossa questi» perché la precauzione non era mai troppa. In caso a qualcuno fosse sfuggito, si trattava di un paio di normalissimi guanti in lattice; non esageriamo, era solo il primo appuntamento. «per favore» proseguì con un sorriso dolce ed un’ironia così tagliente da ferire fisicamente, abbastanza palese da essere comprensibile perfino ad Elijah. Non perché fosse biondo, almeno quella volta, ma perché aveva la tendenza a credere che gli altri fossero come lui. “Rea, quando hai detto che avresti aiutato Nate non pensavo l’avresti quasi affogato!” “Rea, quando hai detto che avevi i compiti non immaginavo avessi schiavizzato le matricole!” “Rea, quando hai detto che gliel’avresti fatta pagare non credevo intendessi letteralmente!” Eccetera eccetera. Picchiettò sul letto, con la sciolta sicurezza di chi si trovava a proprio agio in qualunque posto. Poco importava che quella non fosse casa sua ed ella non vantasse alcun diritto, ed anzi fosse ospite: era un Hamilton, loro non avevano bisogno di permessi. Prendevano quello che serviva, nel modo in cui serviva, e nella quantità richiesta.
    Family business.
    «chiudi la porta, dobbiamo parlare» sintetica e un po’ rude, ma almeno non aveva messo mano alle armi. Quello era un grande indice di fiducia e simpatia, tanto che s’azzardò perfino a rivolgergli un sorriso rassicurante. Poco valeva che fosse la medesima maschera che indossava quando il sangue delle sue vittime, ancora caldo, lambiva la punta delle sue decolletè. Se poteva offrirle qualcosa? Che ne dici di un ottimo motivo per non ucciderti? «vedremo» rispose evasiva inclinando leggermente il capo, continuando a scrutarlo leziosa. Fece poi scivolare lo sguardo sulla stanza, la vagata apatia che di distratto non aveva, né mai aveva avuto, nulla. «sono qui in qualità di amica, per ora» ed allora il sorriso si fece più sincero, divertito da qualcosa che raramente divertiva anche il proprio interlocutore. «sono passati anni da quando noi… beh» schioccò la lingua sul palato, sospirando melodrammaticamente. Quando riportò gli occhi su di lui, le sopracciglia maliziosamente inarcate, v’era nella piega delle labbra un'allusione che aveva tutto tranne qualcosa di fondato. Cosa? Prendersi gioco di qualcuno privo di memoria era peccato?
    Forgive me father I have sinned. «…ci divertivamo insieme» tanto, da morirne. Letteralmente. Sbattè le ciglia civettuola, nascondendo il mellifluo sarcasmo dietro un’occhiata eloquente.
    Scrollò il capo, passandosi una mano fra i folti capelli scuri. «che ne dici se per rompere il ghiaccio ti racconto una storia?» Incrociò le gambe, poggiando il gomito sul ginocchio per poi sorreggersi il mento con la punta delle dita. Senza attendere risposta, essendo stata la domanda chiaramente retorica, Rea cominciò a parlare. Non fraintendiamo, ella sapeva bene che l’importante non era il cosa veniva esposto, ma il come. Per quello ogni sua parola, pur apparendo lineare e spontanea, era soppesata e distorta, quasi ella ne tirasse le estremità per deformarne la durata e l’intensità. Avrebbe potuto apparire come un illusione, quell’incalzante e carezzevole tono di voce, palpabile quanto piume a sfiorare la pelle; ed invece no, era sempre stata una sua caratteristica. Per piegare il mondo, bisognava prima apprenderne come alterarne la concezione che gli altri ne avevano. «sentiti pure in dovere di interrompermi nelle parti che non riesci a capire» lo so, che cuore d’oro. Si schiarì la voce, tamburellando con le dita sul labbro inferiore. «c’era una volta un ragazzo mediocre, non particolarmente bello o intelligente; interessante, magari. Ma sono punti di vista» Si alzò in piedi, misurando la stanza a brevi ma precisi passi. «ma oh, la sua armatura era la più brillante! Paladino dei giusti, spalla su cui piangere, salvatore di anime dannate, principesse in pericolo…» un vago cenno con la mano, così che continuasse da sé la lista delle prodigiose avventure. «sì, lo so: suona già fastidioso, non trovi? A nessuno piace davvero l’eroe delle favole. Ed è qui che arriva la parte interessante, centro nevralgico dell’intera storia. Perché forse l’armatura non era abbastanza, perché forse si sentiva in dovere di fare di più. Così, il nostro principe tradisce tutti gli ideali del suo mondo, travalica tutte le leggi della natura, e comincia a torturare innocenti. Forse per il fantomatico bene superiore, chi può saperlo» lo sguardo di Rea si fece più duro, malgrado l’ombra del sorriso aleggiasse ancora sulle labbra. Più ripensava a quella serie di particolari coincidenze, e più, osservando Elijah, si rendeva conto di quanto fosse assurdo. Ma con un faccino così, dove aveva pensato di andare? Come aveva potuto fare una cosa del genere? Non che fosse un problema suo: il fatto che condividessero delle conoscenze, non li aveva mai resi amici. Coabitare nello stesso spazio vitale non era un obbligo morale a superare il limite della tollerazione. Eppure il fatto che quella storia potesse avere un fondo di verità, dacchè non ne era realmente certa, la innervosiva e la infastidiva più del solito. Alzò un dito, così da intimargli di tacere in caso avesse voluto prendere parola. «non ho finito, per le domande puoi alzare la mano. Dicevo: il nostro eroe inizia a fare esperimenti, d’altronde non tutti meritano di essere umani, giusto? Magari, in fondo, provava anche un perverso piacere nell’infliggere dolore. Probabilmente non lo sapremo mai, perché il suddetto ha trovato molto conveniente perdere la memoria. Buffa coincidenza, non trovi? Mi ricorda qualcuno» Ed allora il sorriso scivolò definitivamente dalle labbra, lasciando solamente un vago bagliore non del tutto amichevole negli occhi cioccolato, resi ancora più foschi dalla familiare, ed ormai confortante, fredda ira. «ma arriviamo alla parte interessante: un giorno il principe vede qualcosa che non dovrebbe vedere, incuriosendo così la vera protagonista di questa storia» aprì la mano, modellando con la punta delle dita il più fine, ed illusorio, degli stiletti. Rea Hamilton era in grado di flettere la realtà a proprio piacimento, dando forma a ciò che altri potevano solo immaginare. Ciò che altri neanche potevano vedere. Lo soppesò da una mano all’altra, osservandolo con soddisfatto compiacimento. «qualcuno avrebbe dovuto mettere il nostro eroe sulla difensiva» abbassò il tono di voce e ruotò il pugnale, sempre senza guardare il francese. «è pericoloso guardare troppo da vicino la strega cattiva» l’angolo destro delle labbra si sollevò sornione, mentr’ella impugnava con più decisione qualcosa che, nel loro mondo, neanche esisteva. Come aveva imparato con Judas, i chiaroveggenti erano immuni alle illusioni visive, ma non al resto del suo potere. Poteva udire, poteva sentire.
    E soprattutto, poteva soffrire.
    «ella decide allora di ricambiare il favore, rendendosi conto che il cavaliere senza macchia ha in realtà un’armatura piuttosto arrugginita - più rame che oro. E così, bussando alla sua porta, sceglie di porgli un solo, semplice, interrogativo: »
    Premette la punta dello stiletto sotto il mento del Grifondoro, delicata da non lacerare la pelle ma abbastanza decisa da non lasciare adito a dubbi. «cosa vedi, Elijah Dallaire? »

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    Rincarò sincero il sorriso, Elijah Dallaire, posando lo sguardo su quell’adorabile siparietto. In un certo senso, era come se quell’espressione felice sul volto, il biondo, non l’avesse mai persa; come se, come ogni volta, non fosse accaduto nulla. Perché, in fin dei conti, niente era successo. Era tutto racchiuso solo ed esclusivamente nella sua testa: solo lui percepiva quei cupi silenzi e quelle urla assordanti, al giovane era riservata l’esclusiva di quelle viste fumose su scene che non comprendeva. A che pro, dunque, mantenere un’espressione contrita e contrariata, sofferente e preoccupata, se nessuno poteva effettivamente capire a cosa tutto quello fosse dovuto? Aveva tentato, in una maniera superficiale e vaga e che non gli apparteneva affatto, di cercare nei particolari occhi eterocromatici di Bells o nelle scherzose parole di Nate un qualche tipo di conforto, senza approfondire troppo la delicata situazione nella quale inevitabilmente verteva ogni suo pensiero: non voleva andare troppo a fondo, certo che sarebbe calato a picco; erano sogni, perlopiù incubi, e come tali li narrava ai due ma senza scendere troppo nei dettagli. Loro non c’entravano, eppure tutto quello sentiva che li riguardava, ne era al corrente in una maniera tanto viscerale da risultare terribilmente sbagliata, contorta. Era come se loro, chiunque, ci fosse già immischiato, e l’unica cosa che voleva era tenerli al sicuro, sempre. Ed era tutto così confuso, troppo confuso, che Elijah non sapeva che altro fare se non sorridere, in ogni caso. Per la sorella, per essere quel fratello di cui leggeva e vedeva memorie che non gli appartenevano più, per provarci più strenuamente, non osava dipingersi sul viso una smorfia che troppo si discostasse da quella contentezza, sempre e da sempre ostentata da quel giovane dai disordinati capelli biondo cenere ritratto in foto; per Nate, per essere quel migliore amico che il Lowell avrebbe davvero voluto portare alle feste eleganti di Capodanno, non un trasognato ragazzo che le feste nemmeno sapeva veramente cosa fossero o come funzionassero, per imitare il più possibile qualcuno sul quale egli aveva senza dubbio, più volte, fatto affidamento, si sforzava –e gli riusciva così naturale, così spontaneo che a volte egli stesso se ne stupiva- di mantenere sempre gli angoli della bocca sollevati, di non crollare mai. Riservava a sé stesso, quando non v’era nessuno intorno che potesse in alcun modo giudicarlo, quando non c’era nessuno che il Dallaire potesse cercare per non stare da solo, quei momenti di stallo, quella stasi in cui nulla pareva muoversi se non il petto che, instancabile, a ritmi alterni si alzava e si abbassava. E stava sorridendo, il ventiquattrenne, al cospetto di Rea, poggiato tranquillamente contro lo stipite della porta. Sembrava quasi normale che la Hamilton fosse su quel letto, intenta a dare gioviali pacche sul capo di Natajah; quasi, se non fosse stato per il fatto che radicato e pesante sulla bocca dello stomaco, ogni qual volta le iridi cerulee si posavano sulla chioma scura di lei, v’era un certo qual senso di disagio. Non si era dato tempo, il trentun dicembre, di soffermarsi su questo; per meglio dire, non ne aveva avuto modo, tante erano le turbe che già impestavano la sua mente. Era diverso da quello che aveva sentito di provare nei confronti delle altre sue conoscenze, eppure lo sentiva così simile. Intenso, colmo di un’inspiegabile rammarico, eppure sempre nuovo. Credeva, sperava, di non doversi più stupire il Dallaire nel provare certe, contrastanti e primordiali, sensazioni: si sbagliava. Lo sguardo, irrazionalmente, scivolò sul cane che sdraiandosi già aveva imposto la propria supremazia sul materasso: scodinzolava, il labrador, il muso rivolto verso la ragazza, e tale vista non poté che allargare, se possibile, il sorriso del proprietario: ho, per caso, già accennato al fatto che ci volesse davvero poco affinché qualsiasi cosa spiacevole perdesse di spessore per Elijah, lasciando spazio alle cose più piccole e gioviali, per quanto effettivamente potessero sembrare prive di alcun significato? «credo tu gli piaccia, sai?» elargì, sornione, piegandosi sulle ginocchia e chiamandolo a sé, più per farlo scendere dal letto ed evitare che importunasse ulteriormente l’ospite che per altro. «non scusarti per lui» Se c’era una qualche allusione, nel tono utilizzato da Rea, il ragazzo non si diede adito di coglierla: dopotutto, non aveva nemmeno bisogno di chiedere, così velatamente, al ragazzo di scusarsi. Sapeva, egli, dal momento esatto in cui come un trovatello era stato riportato ad Inverness da Arabells, di avere fin troppo per cui fare ammenda: essere sparito nel momento del bisogno, aver reciso qualsiasi legame, aver abbandonato tutti, e non ricordarsi nulla di tutto ciò. Era pronto, conscio che da un istante all’altro sarebbe arrivato il momento anche quel giorno di chiedere perdono per qualcosa che non ricordava, ma che quell’imbarazzo che avvertiva non faceva altro che rimarcare. Piegò la testa di lato, quando l’animale lo raggiunse. «il fatto è che è ancora un cucciolo, non sa trattenersi...» iniziò, davvero preso da quella superflua spiegazione, prima di venire interrotto dalla ragazza. Istintivamente, smise di grattare dietro le orecchie di Natajah, volgendo la sua completa attenzione alla Hamilton. «indossa questi, per favore» Se c’era qualcosa in grado di confondere la psiche del francese più di qualsiasi cosa, ciò succedeva quando certi eventi, vicende o avvenimenti di ogni sorta perdevano di significato. Con l’agilità che solo un ex Cercatore di Quidditch, seppure ignaro di quanto avesse eccelso indossando tale veste, poteva vantare, Elijah si drizzò in piedi, afferrando al volo i guanti lanciatigli ed osservandoli a lungo.
    «chiudi la porta, dobbiamo parlare» Che non fosse rassicurante, quell’ordine elargito senza troppi complimenti, se ne accorse persino il cucciolo che, guaendo, sgusciò fuori dalla stanza; tuttavia, il Dallaire non dette troppo peso al tono usato mentre, con gli occhi ora puntati in quelli color cioccolato della Hamilton, socchiudeva l’uscio. O almeno tentò di non farlo, e sarebbe stato più facile se quel malessere non avesse continuato a salire, a crescere. «sono qui in qualità di amica, per ora» Se aveva paura di restare da solo in quella stanza con Rea Hamilton? Avrebbe dovuto, se solo avesse ricordata. Tuttavia non la conosceva abbastanza bene da poterla temere; d’altro canto, però, aveva timore di quella sensazione. «sono passati anni da quando noi… beh… ci divertivamo insieme» Abbassò nuovamente lo sguardo sui guanti, Elijah Dallaire, sorridendo sarcasticamente a sua volta. «davvero?» chiese, seriamente incuriosito dall’affermazione di lei, mentre prendeva ad infilarsi il tessuto di lattice sulle mani. «non mi è sembrato, qualche mese fa» continuò, gioviale, alzando davanti a sé le dita ora foderate: il perché di quella strana richiesta gli era, ovviamente, sconosciuto, né tantomeno riusciva a trovare un’utilità nell’indossare quei guanti. Forse non avrebbe dovuto, forse erano in un certo qual modo un pericolo, ma non ci vedeva nulla di male. Soltanto strano, ecco. Si limitò, una volta completata l’opera, a mostrarsi confuso e divertito, quasi fosse un gioco. «che ne dici se per rompere il ghiaccio ti racconto una storia?» intuendo che poco v’era da rispondere a quella proposta, e non sapendo effettivamente dire se volesse o no ascoltare una storia raccontata da Rea, si strinse nelle spalle innocentemente, incrociando le braccia al petto. Come a volersi proteggere, come a non volerla far avvicinare troppo, tanto da avvertire quel qualcosa che continuava a consumarsi all’interno, intensamente. «sentiti pure in dovere di interrompermi nelle parti che non riesci a capire. C’era una volta un ragazzo mediocre, non particolarmente bello o intelligente; interessante, magari. Ma sono punti di vista. Ma oh, la sua armatura era la più brillante! Paladino dei giusti, spalla su cui piangere, salvatore di anime dannate, principesse in pericolo... sì, lo so: suona già fastidioso, non trovi?» Sorrise, divertito dalla sbrigativa sfilza di epiteti. Sembrava tutto, fuorché fastidioso. «no, non troppo a dire la verità» rispose, ma probabilmente la sua protesta, se tale poteva essere definita, non venne nemmeno udita. «A nessuno piace davvero l’eroe delle favole. Ed è qui che arriva la parte interessante, centro nevralgico dell’intera storia. Perché forse l’armatura non era abbastanza, perché forse si sentiva in dovere di fare di più. Così, il nostro principe tradisce tutti gli ideali del suo mondo, travalica tutte le leggi della natura, e comincia a torturare innocenti. Forse per il fantomatico bene superiore, chi può saperlo» Per la maggior parte del tempo, gli occhi si persero a cercare quelli di Rea, vacui nell’ignoranza, dediti a scendere più in profondità in quella pozza scura, quasi empia. Non lo lasciava traspirare, la ragazza, ma era come se avvertisse un certo malumore in quell’espressione dura. Ferita, quasi; o magari, era solo una sua impressione, mirata a giustificare quel concentrato di insensatezza che avvertiva tutt’attorno. Dove volesse andare a parare, ancora non gli era chiaro. Inarcò le sopracciglia, come se stesse effettivamente ed unicamente assistendo allo svolgimento di una storia che non lo riguardava affatto, quando ella iniziò a narrare la “parte interessante”: curioso di conoscere il seguito, e timoroso al contempo di scoprire la fine del racconto. Scosse la testa, quando gli disse di attendere per le domande: ne aveva troppe, di domande. Molte, inconsciamente, le avrebbe volute rivolgere alla stessa ma non sapeva come. «Dicevo: il nostro eroe inizia a fare esperimenti, d’altronde non tutti meritano di essere umani, giusto? Magari, in fondo, provava anche un perverso piacere nell’infliggere dolore. Probabilmente non lo sapremo mai, perché il suddetto ha trovato molto conveniente perdere la memoria. Buffa coincidenza, non trovi? Mi ricorda qualcuno» Deglutì, abbassando gli occhi: stava forse parlando di lui? No, Elijah non avrebbe mai fatto del male a nessuno. Sapeva di averne, involontariamente, commesso, di aver procurato dolore con la sua sparizione ed ancor di più con il suo ritorno sulle scene, ma quello andava oltre. Infliggere dolore, fisico e volontariamente? Non era da lui, non era lui. Chiuse gli occhi, ripetendo quel movimento convulso con la testa. Negava, il Dallaire, a sé stesso e alla lì presente Hamilton, che quella cosa potesse essere una curiosa coincidenza.
    Tuttavia. «non... non capisco»
    Arretrò di qualche passo, quando la mora riprese a parlare, svincolando le braccia dalla sempre più forte presa davanti allo sterno, portando noncuranti le mani alle tasche posteriori dei jeans, sfiorando dall’esterno il tesserino. Non poteva contestare, tuttavia, il fatto che quella vicenda gli facesse venire i brividi. Non per la trama in sé per sé: era qualcosa di più radicato, reale. «un giorno il principe vede qualcosa che non dovrebbe vedere, incuriosendo così la vera protagonista di questa storia. Qualcuno avrebbe dovuto mettere il nostro eroe sulla difensiva: è pericoloso guardare troppo da vicino la strega cattiva» Per qualche istante, risollevato il capo, il sorriso ormai distante dal volto se non per uno spettro di quello che fino ad allora v’era stato, si perse ad osservare le mani di Rea muoversi, a vuoto, nell’aria. Ma distolse subito: stava iniziando ad essere tutto troppo distante dall’idea che il Dallaire aveva di “coincidenza”, e tutto sembrava invece aleggiare intorno ad una consapevolezza che lui non aveva. Ma stava mentendo, era una storia. Stava giocando, Rea Hamilton, non era possibile tutto quello, vero? «ella decide allora di ricambiare il favore, rendendosi conto che il cavaliere senza macchia ha in realtà un’armatura piuttosto arrugginita - più rame che oro. E così, bussando alla sua porta, sceglie di porgli un solo, semplice, interrogativo: cosa vedi, Elijah Dallaire?» Solo allora, quando fu ella troppo vicina e difficile sarebbe risultato non considerarla, non considerare tutto quello che stava dicendo, posò gli occhi celesti su di lei. Deglutì, sentendo un leggero dolore alla base del mento, ma quando abbassò lo sguardo notò che nulla lo stava procurando. C’era solo la mano di lei, chiusa a pugno attorno a qualcosa di invisibile. Sorrise, strozzando una risata sincera. Cosa vedeva, Elijah Dallaire? Troppo, e di quel troppo a niente poteva dare un senso.
    Solo sogni, solo incubi, solo illusioni.
    «vedo...» iniziò, ampliando il sorriso sul volto. Prese la mano di Rea tra le proprie, accompagnandola verso il basso e lontana dal proprio volto. Delicato, prudente, premuroso. Aveva ragione, poteva sentirlo quel malessere celato nella voce inflessibile di lei, e quell’aggressione se tale poteva definirla ne era solo la conferma. «vedo una ragazza ferita, che mi ha appena raccontato una bella storia» passò la lingua sulle labbra, inumidendole e nascondendosi, in vero, dietro quel gesto semplice. Non le disse quello che aveva visto, né le confessò che gran parte del racconto, per quanto sperasse fosse irreale, sembrava premere troppo sulla propria coscienza. Gli aveva chiesto cosa vedeva, dopotutto. Non altro. «se vogliamo attenerci alla storia, vedo una principessa che si è vestita dei panni della strega cattiva solo perché gli eroi della favola l’hanno distrutta» Perché era così, no?, che ella si era appena dipinta; ma se lui, se lui era l’eroe che aveva appena descritto, si sbagliava alla grande. E per il semplice fatto che non poteva affermare, Elijah, nemmeno di avere una scorza di rame addosso. Nudo, ed un’armatura non credeva nemmeno di averla mai avuto. «ma non vedo l’eroe di cui racconti, qui dentro» sincero, perché davvero non lo vedeva. In realtà, voleva essere più una rassicurazione per sé stesso: se lo era stato, allora era stato anche fautore di molto male, e seppure frammenti di visioni glielo facevano più volte pensare, non voleva che così fosse. «mi... mi dispiace se pensi che ti abbia fatto del male, o se te ne ho davvero fatto» le sorrise, ancora più accondiscendente. «se posso fare qualcosa per rimediare, lo farò. Davvero»
    Ma per rimediare, Elijah, avrebbe dovuto fare troppo.
    Non le aveva mai fatto del male, nemmeno nell’oscurità di quelle celle. Ma aveva fatto di peggio.
    Non era riuscito a fare nulla. Non era riuscito a salvare Rea Hamilton, ed era quello, senza ombra di dubbio, a pesare nel petto, a seccare il palato. Quello, il malessere che cresceva, e che continuava a crescere mentre tra le mani inguantate teneva quella della ragazza.
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    rea hamilton


    Avete mai provato la nauseante e surreale sensazione di specchiarvi, e non vedere sulla superficie il vostro stesso riflesso? Di provare a muovere le mani, disegnando grandi archi nell’aria, solo per vedere quanto fosse un miraggio l’immagine riportata dallo specchio, e quanto invece realtà? Come se fosse stato effettivamente possibile che la copia di sé stessi si muovesse in disarmonia; eppure era quella la realtà percepita, leggermente sfasata rispetto ai propri movimenti. Chi aveva un gemello, non aveva bisogno di uno specchio per provare quella stretta al petto, quasi fosse sempre stata una sorpresa vedere un volto identico al proprio ma non del tutto. Quand’erano bambine, Rea e Charlotte potevano passare delle ore a guardarsi l’un l’altra, studiando i movimenti dell’altra così da essere in grado di replicarli prima ancora che la sorella pensasse di farlo. Un sincrono perfetto, tanto che ad un occhio esterno poteva apparire come telepatia. Non c’era mai stato nulla di magico, fra le gemelle. Semplicemente, erano specchi di loro stesse. Si muovevano allo stesso modo, ridevano allo stesso modo, ma ciascuna delle due lasciava un impressione diversa sulla realtà. Sfasate, ma di quel disaccordo elegante di due pennellate identiche compiute in sensi differenti.
    Pensava che quel ricordo fosse sbiadito, Rea. Pensava di averlo perso, giorno dopo giorno chiusa nella propria stanza, con solo spesse corde a farle compagnia. Pensava si fosse sciolto come la cera delle candele che le lasciavano sul comodino, spento come lo stoppino che l’abbandonava nell’oscurità. Ma quando aveva rivisto Charlie? Oh, era come se non fosse passato un secondo, ed al contempo si fossero conosciute in una vita precedente. Vuota, in quegli occhi cioccolato che avevano sempre brillato di luce propria. Mancava qualcosa, in Charlotte Hamilton. Era difficile da spiegare. Immaginate di sentire il profumo, lo stesso identico profumo, della torta che mangiavate ogni domenica quand’eravate bambini; immaginate, ora, che questa torta abbia la stessa forma, colore, consistenza. E quando la mordete, improvvisamente rimembri del dolce sapore sul palato, non ha il gusto giusto. Non sapreste spiegare in cosa stia la differenza, ma voi sapete che non è la stessa torta. Un po’ vi fa male, non è vero? Consapevoli che non riuscirete mai a trovare quella torta, che ormai fa parte del passato. Che non importa, non importa mai quanto ci proviate. Irrecuperabile. E Charlotte… con quel sorriso tentennante, le mani a ricercare il supporto l’uno dell’altra, non era giusta. Quello sguardo sempre distante, confuso, in cerca di una bussola per orientarsi.
    Irrecuperabile.
    Con lo stesso distacco, Rea guardava Elijah Dallaire. Era da egoisti, dimenticare così una vita. Era una malattia, e di quelle contagiose: si appiccicava testardamente in ogni sguardo, rendendo melassa ogni sorriso. Non provava un briciolo di empatia per loro, anche se, in teoria, avrebbe dovuto. Poteva immaginare che ritrovarsi improvvisamente nella vita tessuta da qualcun altro, poteva non essere confortante quanto una cena già cotta e riscaldata. In linea generale, forse, Rea sarebbe stata d’accordo nel mostrarsi più umana, vicina ad una situazione difficile. Purtroppo per Elijah, e di conseguenza Charlie, era un discorso che non li riguardava. Non potevano semplicemente dimenticare. Ed in due modi così differenti! Charlotte conosceva il proprio passato, così come ricordava Rea, ma era incapace di ricordare il presente. Si scordava della pioggia stupendosi di ogni goccia, Charlie Hamilton. Irrecuperabile, malata. Disturbata. Una vita rovinata, fatta di pezzi casuali di un puzzle senza immagine. E per cosa? Perché si era intestardita, accanendosi su una storia che non la riguardava; perché l’aveva cercata, quando Morgan solo sa quanto sbagliata, sotto ogni punto di vista, fosse una scelta del genere. Ma Elijah? Le premeva, se possibile, ancor più sulla coscienza. E dire che sì, ne avevano di memorie condivise, ma neanche così gratificanti da giustificare un tale accanimento. Una questione di principio, si suppone. A loro modo, gli occhi di Elijah erano surreali quanto quelli di Charlie: sbagliati, vuoti. Qualità che apprezzava negli sconosciuti, dove poteva decidere lei quale panorama dipingere sulla tela, ma loro? Con che coraggio avevano osato obbligare anche gli altri al loro infausto destino? Obbligare lei. Cercava di trovare l’oggettivo lato positivo, ma l’unica cosa che riusciva a stringere fra i polpastrelli, come sempre, era fredda e familiare rabbia. Consapevole, ormai, di come celarla, dargli nuova forma. O, come in quel caso, un obiettivo.
    Ma aveva mentito, Rea. Non era lì in qualità di amica. Non era lì perché ricordasse, non era seduta su quel letto perché, improvvisamente, avvenisse il miracolo. Era seccata dal fatto che il Dallaire non si ricordasse di lei, giustamente, ma non preoccupata. Per quello, dopotutto, c’era già Nate. Non osava immaginare come un tale misfatto si fosse ritorto contro l’elite. Eugene lo sapeva? Poteva quasi immaginarlo, con il cuscino stretto al petto ed una sigaretta fra i denti, a maledire Spaco per il destino avverso della sua OTP, ed al contempo gioire perché consapevole che avrebbero superato anche quello.
    Insomma, uno dei principali motivi per i quali Rea Hamilton aveva smesso di frequentare i Castafratti. Li aveva un po’ amati, ma sforavano l’imbarazzo sociale e personale più volte di quanto fosse umanamente possibile. Li aveva invidiati, desiderando di vedere il mondo come loro: chi, a quindici anni, non avrebbe anelato l’ottimismo sfacciato di Eugene Jackson? Chi non avrebbe ammirato il rapporto fra Nate ed Elijah, con quel continuo (ed irritante) ricercarsi?
    E Rea sapeva perché li aveva invidiati, così come sapeva perfettamente perché fosse rimasta con loro. In tutta la loro anormalità, erano ciò che più si avvicinava a casa,o a come Rea ricordava avrebbe dovuto essere. Assurdi, ma la cosa meno bizzarra della sua vita.
    Altro non era che lo stesso motivo per i quali li aveva odiati, e per il quale il prima possibile se li era lasciata alle spalle. Gestire amicizie del genere, in una realtà come quella della Hamilton, non era concepibile. Dopo sette anni in cui credeva ormai di non sapere più neanche il loro nome, eccoli lì. Passate vite, morti, sangue, storie mai raccontate. Eppure, sempre lì. La cosa più strana, era l’improbabilità di quell’accoppiata nello specifico: Rea e Nate? Ovviamente, era stato il suo primo amico. Nate ed Elijah, vedi sopra. Rea ed Eugene erano stati compagni di casata, e la Hamilton aveva fatto il temibile sforzo di portare il serpeverde nel tanto agognato mondo degli adulti (wat). Eugene e Nate, beh, lo sappiamo tutti. Elijah ed Eugene? Il Jackson era la groupie di Eli, in senso plateale (credeva? In realtà non aveva mai chiesto in proposito) ed Elijah era… beh, il solito Elijah.
    Ma davvero, davvero: Rea Hamilton ed Elijah Dallaire? Sarebbe stato assurdo vederli parlare in maniera civile ai tempi di Hogwarts, più che altro perché Rea non era interessata a trattenere conversazioni con lui, ma così? Chiedergli un favore, perfino dopo quello che poteva aver scoperto? Era davvero un fenomeno inspiegabile. Roba da rendere fiero Nathaniel, che per tutti gli anni ad Hogwarts aveva provato a farli andare perlomeno d’accordo. Non era certa che quel piccolo siparietto fosse un progresso, ma c’era indubbiamente qualcosa di diverso. Meglio o peggio rispetto al mero tollerarsi, era tutto da vedere.
    Spinse maggiormente con il pugnale illusorio, miseramente compiaciuta dal vedere la confusione nello sguardo di Elijah. Lui, lui non capiva? Lei, dal canto suo, avrebbe preferito non capire. Poteva non esserle mai piaciuto, il Dallaire, ma a suo modo l’aveva sempre… stimato, forse. Nel modo contorto e sbagliato con il quale Rea Hamilton faceva qualunque cosa, ma rimanere impassibili di fronte al francese, avrebbe richiesto un animo molto più duro del suo. Il fatto poi che non approvasse non significava nulla: erano diversi, due mondi opposti. Un tempo, come ora. O almeno, così aveva creduto. Forse l’aveva idealizzato un po’ troppo, forse non l’aveva mai capito. Immaginarlo con indosso un camice da Dottore, come qualcuno che avesse potuto torturarla, non voleva rientrare nelle sue capacità. Rea Hamilton nel corso degli anni, aveva millantato la teoria del non fidarti di nessuno, del aspettati il peggio. Del non affezionarsi, perché aveva visto come andava a finire. E si era convinta, con quella falsa certezza che rendeva più semplice approcciarsi al mondo, di esserne una fiera paladina. Il fatto che non volesse accettarlo, però, non significava che non si fidasse. Non aveva mai immaginato che fra tutte le persone della sua vita, a tradirla potesse essere uno dei Casta. Ed era stata terribilmente ingenua, in una maniera così irrazionale che tuttora non riusciva a comprendere. Non capiva, Rea, il perché di quel calore nel palmo, un prurito, un bisogno di spingere quel pugnale più a fondo, di completare l’opera. Tradita, Rea, lo era sempre stata.
    Ma non poteva credere di essere stata così stupida da fidarsi, nuovamente, delle persone sbagliate. Non poteva semplicemente accettarlo. Preferiva di gran lunga rimanere nella propria e solitaria oscurità, con quel muro fatto d’odio e indifferenza ad isolarla dal resto del mondo, tranciando ogni legame: Lienne, Amos, Charlotte, Shia. Preferiva volere uccidere Elijah Dallaire per puro sadismo, piuttosto che lasciar spazio alle altre possibilità; sempre meglio un illusione ben articolata di una scabra e sincera realtà.
    «vedo...» non sapeva neanche perché ci avesse provato, a raccontare quella storia ad Elijah. Avrebbe semplicemente potuto esporre un ricatto al buio – perché chiedere sarebbe stato troppo intimo, Rea era per gli scambi semi onesti. Lui non avrebbe capito, e lei non voleva davvero che capisse. In parte, voleva ancora fingere di trovarsi di fronte il ragazzino biondo dai capelli troppo lunghi e la mano sempre pronta ad aiutare chicchessia. Almeno sarebbe stata certa di conoscere il proprio nemico. Almeno, avrebbe saputo chi odiare. Ma quell’Elijah? Rea non lo conosceva. E come biasimarla? Neanche Elijah si conosceva. L’occhiata che gli lanciò fu più eloquente di un’aperta minaccia, mentre lui allontanava la mano di lei. «vedo una ragazza ferita, che mi ha appena raccontato una bella storia» non vedeva il pugnale. Prevedibile. Dio, Elijah, cos’hai fatto? Alle sue parole strinse le labbra in un sorriso, soffocando così una risata di scherno. Come l’aveva definita? Ferita? «se vogliamo attenerci alla storia, vedo una principessa che si è vestita dei panni della strega cattiva solo perché gli eroi della favola l’hanno distrutta» Elijah, Elijah, Elijah… se solo avesse ricordato, non avrebbe mai rivolto parole del genere a Rea Hamilton. Anche non ricordando, effettivamente, suonava alquanto azzardato: non ci voleva una laurea, per capire che raramente la Hamilton aveva buone intenzioni. Ma di nuovo non rispose, attenendo che finisse di esporre il proprio punto di vista, mentre il sorriso lentamente si allargava. Non raggiunse mai gli occhi di Rea, scuri e distanti. Era un sorriso freddo, di un’ironia così tagliente da pungere la pelle. «ma non vedo l’eroe di cui racconti, qui dentro» non vedeva. Il problema, ancora, era quello. Chiuse gli occhi, sospirando profondamente. Scuotendo il capo, Rea alzò la mano libera per spostargli alcune ciocche bionde della fronte, sfiorando appena con il polpastrelli la morbida pelle del viso. «oh, eli…» sussurrò appena, con vago rammarico. Un tono di voce piatto, assente quanto il tocco distratto della mano. Pensavo fossero Euge e Nate quelli con problemi di vista; ma non lo disse, perché privo di ricordi non avrebbe apprezzato la battuta. «rendi così difficile» si avvicinò di un altro passo, tanto che ormai sarebbe bastato un respiro più profondo perché si toccassero. «resistere alla tentazione di ucciderti» inarcò entrambe le sopracciglia, attorcigliando una ciocca di biondi capelli sull’indice. «non sai nulla di me» chiarì senza distogliere lo sguardo da quegli occhi troppo chiari, concisa e diretta, lasciando infine trapelare quel filo rovente di rabbia che l’accompagnava da anni. Un calore lento, percepito prima di vedere la fiamma, ma non meno bruciante. Non bisognava mai ricordare ad un aguzzino il perché avesse deciso di diventarlo; avevano l’omicidio facile, quelli come Rea Hamilton.
    E di certo, l’ultimo modo in cui voleva sentirsi definire, era ferita, o distrutta. Etichette del genere, non le si addicevano più da una vita. «se posso fare qualcosa per rimediare, lo farò. Davvero» Così… Elijah. Si allontanò di un passo, tornando ad una distanza ragionevole, mentre un sorriso meno minatorio faceva capolino sulle proprie labbra. «qualcosa in effetti ci sarebbe. sai perché ti ho dato i guanti?» domandò, alzando la mano ancora stretta fra quelle di lui. «sei un chiaroveggente, elijah dallaire, e non voglio che tu finisca per vedere qualcosa per la quale dovrei realmente ucciderti» ma detto in quel tono quasi scherzoso, con quella maliziosa luce nello sguardo, che era difficile comprendere se stesse o meno scherzando. Le girò con il palmo verso l’alto, percorrendone distrattamente la lunghezza con la punta delle dita. «non sono certa di come funzioni il potere, dovresti chiedere a nate» informò, nuovamente professionale. Non sapeva se valesse solo con le mani, o se bastasse un qualsiasi lembo di pelle. Onde evitare spiacevoli inconvenienti, baciò appena le dita di lui e gli stampò la sua stessa mano sulla fronte, forse un poco più forte di quanto sarebbe stato ritenuto opportuno. Ed allora sorrise: forse non sincera, ma di sicuro divertita. «ma a noi interessa un’altra sfumatura della chiaroveggenza» lasciò andare le sue mani, tornando a misurare la stanza a grandi passi. Rimase perfino in silenzio, mentre attendeva che Elijah metabolizzasse la notizia – o facesse qualunque cosa necessaria ai biondi per capire; non so, magari un ballo propiziatorio? «ti ho mai detto di avere una sorella?» si volse di nuovo verso di lui, una risata muta negli occhi scuri. «domanda retorica, rispondo io per te: no, non l’ho mai fatto» e sospese, fra Rea ed Elijah, parole troppo complesse a cui dare una forma. Perché non si sarebbe trattata di una menzogna ai fini di manipolare uno sconosciuto: e figuriamoci se Rea Hamilton avrebbe mai ammesso ad alta voce di aver sincero bisogno di Elijah Dallaire.
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    Edited by rea/l life ruiner - 24/8/2016, 04:55
     
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