And I built a home for you, for me...

Belladonna & Annie/Lydia

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    Il foglio davanti agli occhi era bianco, esattamente come doveva esserlo qualche ora fa. La luce del giorno pian piano si era levata, accompagnata da uno strano malessere, un blocco, la difficoltà a pensare prima che a scrivere - si trattava di raccogliere le idee, o forse il coraggio, ma il foglio in ogni caso era rimasto bianco a lungo.
    Molte volte aveva dovuto appoggiare la penna nel calamaio per evitare che questa macchiasse il foglio; molte volte aveva alzato lo sguardo seguendo la traiettoria di un pensiero, inutilmente. Fuggivano astratti lontani, e per lei non c'era modo di tornare indietro, di ritrovare ciò che aveva perso. Erano successe così tante, tante cose.
    L'ultima lettera era stata riposta insieme alle altre, chiusa elegantemente con un nastro bordeaux, in un comparto del suo baule: lettera dopo lettera, file di carta rendevano difficile la distinzione che, al contrario, nella testa di Belladonna era molto chiara. A destra quelle di Annie, dalla prima all'ultima, dalle più vecchie -di tre anni fa- alle più recenti, tutte elegantemente poste una davanti all'altra. A sinistra quelle mai mandate ad Alexander, invece; quelle che erano state scritte di getto fra lacrime e rimorsi, rabbia e paura, odio viscerale. Anche quelle poi chiuse ma mai spedite, stavano ordinate in attesa che qualcuno le leggesse.
    Non è che non le avesse inviate per paura. Semplicemente, non avrebbe saputo a chi e dove inviarle: per anni aveva vissuto con lui senza minimamente chiedersi dove fossero, e certamente, l'ultimo suo ricordo non le lasciava presumere che sarebbero state lette da qualcuno. Troppo meraviglioso e terrificante per essere vero.
    Erano molte, ma non più di quelle mandate e ricevute da Annie, a cui, da quando la ragazza era uscita dai laboratori, non aveva mai smesso di scrivere con una certa misurata cadenza. Meno misurata era sicuramente stata la preoccupazione nutrita nei suoi confronti per ogni giorno in cui non ad una sola lettera aveva ricevuto risposta, quando ogni speranza di poter in qualche modo risentirla andava pian piano spegnendosi a sfavore dell'apprensione, sempre di più. Sempre troppa.
    Per poi scoprire, con un dolore quasi lancinante al petto, di essere ritornata una perfetta sconosciuta per lei.
    Una sconosciuta decisamente pericolosa per la quantità di lettere lasciate nella buca delle lettere, tante da riempire per giorni i ripiani delle sue finestre di gufi che battevano contro i vetri inauditi. Lettera dopo lettera, parola dopo parola, chiedendo alla fine di ognuna di esse di tornare da lei.
    Era iniziata in modo strano, senza ombra di dubbio. In modo quasi casuale, quando ancora il destino non sembrava prospettarsi troppo angosciante, e la nuova libertà sapeva regalare qualche gioia ad un'inesperta ragazza che per anni aveva vissuto chiusa in una gabbia dorata. Lo sapevano tutti che prima o poi l'usignolo sarebbe tornato a casa, e dopo anni, lei tornò in una situazione che sì, versava già nello sconforto, ma sapeva ancora d'amore.

    [ 3 anni prima ]
    Emeric l'aveva cercata, e lei era arrivata.
    Abitava in quella casa già da qualche giorno, indossava abiti nuovi, mangiava in famiglia e, soprattutto, aveva ritrovato il suo fratello. Ovattate emozioni aveva provato, ma lo vedeva: suo fratello giorno dopo giorno si spegneva. La corporatura rigida, virile, andava pian piano mutando - e nonostante tutto si vedeva la debolezza dietro i tratti severi e spesso contratti del viso, in una continua preoccupazione.
    Lo ricordava a malapena... ma nelle sue memorie non era mai stato tanto contrariato, affannato, preoccupato.
    «Bella» quel nomignolo affettivo, nel cuore della sera, quando sedeva alla sua scrivania mentre l'uomo, a letto, sudava e si rendeva conto di essere vicino ad una subdola dipartita, «sono qui» voce bassa, un pigolio quasi, apprensiva mentre si torturava le mani facendosi piccola di fronte al fratello più grande, «ho... ho bisogno che tu faccia una cosa per me.» La voce gracchiante con un potente colpo di tosse era stata immediatamente scacciata, un segno troppo evidente di quella debolezza incontrastabile.
    S'era avvicinata allora al capezzale, annuendo con aria sempre più preoccupata, affannosa; oh, eccome, aveva già visto qualcuno morire, ma nulla pareva essere più soffocante dell'agonia di chi è vicino a spegnersi, privato di una cura, così come di un orgoglio. Stava morendo fra le mura di casa, ed era leggibile nei suoi occhi come ciò lo stesse rendendo giorno dopo giorno più nervoso - per un uomo come lui, morte più gloriosa era destinata.
    «Guarda nel cassetto a destra della scrivania» si alzò, ubbidì provando ad aprire il cassetto inutilmente - «c'è...c'è una chiave, lì, nella tasca interna della mia giacca» e infilando delicatamente la mano, quasi con paura di poter rovinare ciò che apparteneva al fratello, tirò fuori un filo nero con un pendente, una chiave piccola, di un dorato arrugginito. Aprì il cassetto con uno schiocco metallico, e nonostante il peso, dentro non vi trovò che una lettera. Una pila di lettere in realtà sotto la prima, che afferrò con aria leggermente confusa prima di chiudere il cassetto e tornare verso il letto, «volevi questa?» «tu devi... devi risponderle: puoi farmi questo favore?» di nuovo la voce graffiante fu anticipata da un potente colpo di tosse che scosse il corpo dell'uomo, che ricadde sul cuscino con un sospiro pesante. La giovane rimase immobile, studiandone il profilo con aria sconfortata, le dita tremanti, lì lì per correre a stringere il fratello - fu il costume ad impedirglielo, il modo in cui l'uomo s'era sempre irrigidito di fronte a quegli scambi affettivi con lei.
    «Devi mentirle, sempre.»

    [ … ]
    “Carissima Annie,
    quest'oggi tuo padre ed io siamo andati a fare una passeggiata lungo il perimetro della villa, fra i giardini di casa.
    La splendida giornata e le indicazioni del medimago ci hanno confortato e spinto ad 'azzardarci', provando in questo modo a riabituarlo all'aria aperta.
    Buone notizie!, l'esperimento è riuscito - tuo padre si è sentito molto bene, l'aria pulita e fresca gli ha ridonato un colore vivo, ha camminato e per un breve tratto ha addirittura abbandonato l'appoggio mio e del bastone, proseguendo per un po' di passi solo con le proprie gambe!
    Questo, a detta del medimago, è un evidente segno di come le cure stiano funzionando - a breve con una buona probabilità tuo padre potrà tornare persino a giocare al golf magico, ha già programmato i prossimi eventi alla villa, è così terribilmente eccitato all'idea!

    Raccontaci di te, invece!
    Come proseguono gli studi? Quell'insegnante di Pozioni ancora ti riempie di compiti?
    E quel ragazzo della precedente lettera? Ti ha finalmente chiesto di accompagnarlo al ballo?
    Noi tutti speriamo vivamente che la tua vita prosegua per il meglio... tuo padre, in particolare, ti riempie di abbracci: ha promesso che appena si sentirà meglio verrà a trovarti. È sempre molto dispiaciuto, purtroppo fra impegni e cure non riesce mai a trovare il tempo per scrivere una lettera degna di tale nome - ma questo già lo sai, o probabilmente non capiresti il motivo delle mie lettere.
    Mi auguro con tutto il cuore di leggerti presto e serena.
    Un bacione,

    tua Belladonna.”


    [ presente ]
    Quasi tre anni erano passati da una delle loro prime lettere, e in fondo di acqua sotto i ponti ne era passata, di argomenti diversi si era parlato, discusso; aveva imparato a conoscere sua nipote, costretta a fingersi un'altra donna per volere del fratello, per non sconvolgerla troppo. Perché non aveva potuto diversamente.
    Ma adesso, a distanza di tre anni, si chiedeva se tutto ciò avesse ancora senso.
    S'era svegliata quella mattina molto presto col pensiero che quella risposta non sarebbe stata la solita. Aveva preso carta e calamaio, si era seduta e aveva pensato, a lungo, a fondo. La nostalgia era tornata insieme all'affanno, alla preoccupazione, alla paura di poterla perdere ancora - perché per lei Annie era sempre stata come una figlia. Non le era servito vederla, ma sentirla... e l'aveva sentita ormai così tanto, così...tanto, da sapere e rivelare ogni cosa di lei e di sé.
    Non ricordava nulla di lei, ma Belladonna c'era stata.
    Suo padre soffriva, ma Belladonna aveva fatto sì che lei non patisse con lui.
    Lydia aveva ricominciato, e ancora una volta la lettera di Belladonna era arrivata a spronarla.
    E così, Belladonna aveva avuto bisogno di qualcuno che le fosse amico, che non la vedesse come la parente da aiutare... ma che, a suo modo, le ricordasse di sé, di un'infanzia rubata.

    Avevano entrambe bisogno di sapere la verità.

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    2013

    Inspirò con forza, sentendo un gemito grattarle la gola, e con altrettanta potenza soffiò fuori l'aria. Annie Baudelaire aveva bisogno di riempire quell'assenza di rumori, perché definirlo silenzio sarebbe stato pretenzioso, che con pesantezza aleggiava in villa Beaumont Baudelaire, e che di questi ospitava solamente lei; una dimora troppo grande per una ragazza troppo piccola. Senza le gemelle, Cole, e perfino i suoi genitori, perdeva la presunzione di essere casa per mostrarsi ciò che era: una prigione dorata. Annie, gli occhi verdi persi nel giardino sul retro, non era altro che l'ennesima ragazza triste fra persone tristi. Non c'era l'animosità che le illuminava lo sguardo quando era in compagnia, non la sprezzante altezzosità che l'aveva resa la reginetta di Beauxbatons; non c'era il puntiglioso nettare della sfida ad incurvarle le labbra carnose, né l'occhiata titubante che era solita volgere al fratello maggiore. Non c'era l'insicurezza di una fanciulla che si specchiava sul mondo, come quando si avventurava a scoprire una realtà differente con Barrow per il puro spirito di essere fonte di disappunto per Ophelia e Lucian, non la smorfia schiva di chi cercava disperatamente compagnia nei Dallaire. Era solo Annie, Annie Baudelaire; era solo quello sguardo lasciato scivolare languido su un'esistenza vissuta in punta di piedi. Era solo un’altra figlia che s'aggrappava al ricordo dell'unica persona che ricordava l'avesse mai amata. Era sciocco: chiunque conoscesse i Baudelaire Beaumont, nutriva la cieca convinzione che fossero la famiglia perfetta. Avevano il denaro, il potere, un prestigio meritato nel mondo magico; due coniugi che si amavano e si supportavano, due figlie perfette nell'aspetto e nei modi, un primogenito dallo sguardo duro e un'ambizione radicata. E poi, solo alla fine, c'era lei. Durante le cene, o i balli organizzati dalla famiglia, era difficile che rimanesse particolarmente impressa, non quando doveva competere con Morrigan ed Akelei; la chioma color fragola sfigurava, vicino a quelle dorate delle sorellastre, e di certo non poteva vantare il portamento imponente del fratello. Più che modelli da cui prendere esempio, la più piccola della famiglia aveva sempre guardato loro con invidia e timore, seguendoli come un girasole avrebbe volto i propri petali alla luce. Non che senza di loro non avesse ragione d'esistere, ma ciò che aveva fatto -la ribellione verso sua madre, le cattive compagnie, i ragazzi più grandi ed il ruolo da ape regina a scuola- l’aveva fatto per loro, a causa loro. Non erano mai stati la famiglia da prima pagina patinata che Ophelia si impuntava di far credere all'élite francese. Di certo, Annie Baudelaire non era la cocca di casa, come sua madre faceva trapelare fra falsi sorrisi di circostanza e studiate carezze sulle guance di porcellana. Aveva cercato di approfittare del suo status di ultimogenita per estorcere a Cole la promessa che sarebbe andato a trovarla, non osandosi ad avanzare la medesima proposta alle gemelle; la risposta seccata del fratello aveva solamente voluto metterla a tacere, come sempre. Sentiva che la sua sola presenza rovinava qualcosa, nel quadretto perfetto dei Baudelaire Beaumont; sentiva di essere di troppo. L'unico che per lei c'era sempre stato, e che mai s'era dimenticato di farle gli auguri o chiederle come andasse a scuola, era suo padre. La loro corrispondenza avveniva in segreto, taciuta alla troppo severa Ophelia; non ne aveva di certo mai fatto parola con Cole, avendo egli mostrato piuttosto chiaramente che la vita di Annie non lo riguardava. Non avrebbe avuto alcun senso, confidarlo a Morrigan o Akelei.
    Papà era il suo segreto.
    Con le gambe incrociate sulla bianca sedia della sua scrivania, una timida luce perlacea oscurata da una coltre spessa di nubi, Annie stringeva fra le mani una lettera, combattuta fra un vago struggimento melanconico ed un sollievo così pressante da pungerle gli occhi. Deglutì alzando gli occhi al cielo. Nessuno poteva vedere le sue lacrime, ma le avevano insegnato che piangere, in qualsiasi situazione, era sbagliato. Debole. Le sopracciglia, di un tono scarlatto più chiaro e dolce rispetto alla chioma lunga e morbida lasciata quel giorno intrecciata su una spalla, erano corrugate, le labbra sporte in un perenne broncio. Non era stupida, Annie Baudelaire, malgrado in molti (Cole) pensassero il contrario; non era neanche superficiale quanto le piaceva far credere, ed in quella calligrafia elegante, in quelle parole soavemente vergate nella pergamena, leggeva una storia dal gusto agrodolce. Eppure cieca alla verità, perché non voleva vederla. Voleva credere che suo padre stesse guarendo, voleva credere che un giorno avrebbe potuto andare ad abitare con lui, che si sarebbe ripreso abbastanza da insegnarle a giocare a golf, ad andare a cavallo, o qualunque altra cosa gli piacesse fare. Si erano mandati lettere per anni, eppure sentiva ancora di non conoscerlo abbastanza – e non l’avrebbe mai conosciuto, abbastanza. Era sempre stato più interessato a lei, piuttosto che a raccontarle la propria storia. Egocentrica, Annie, a non fare mai domande, facendo invece fluire il proprio fiume in piena di adolescente frustrata e costretta in una vita che sentiva non essere sua. L’avrebbe rammaricato?
    No. Perché Annie Baudelaire non ne avrebbe mai, mai avuto il tempo. Nel tempo sbagliato, nella vita sbagliata.
    Un’altra ragazza sbagliata in un mondo sbagliato, pensieri di carta per una realtà in fiamme.
    Intinse la punta della piuma nel calamaio, rimanendo immobile sulla pergamena bianca finchè una goccia d’inchiostro non cadde al centro del foglio. Ma non ci fece caso, Annie Baudelaire. Non ci faceva mai abbastanza caso.
    “Carissimi papà e Belladonna,
    quando potrò venire a trovarvi? Mi avete dato notizie meravigliose, sono felice che papà stia meglio. Non vedo l’ora di lasciare questa casa, questa vita, per passare del tempo con voi. Vorrei conoscervi meglio, vedere i vostri occhi senza doverli immaginare ogni volta. Mi sento così sola, qua in Francia. È come se al mondo, semplicemente, non importasse. Come se ogni respiro non avesse peso, sapete. Non l’ho mai detto a nessuno, perché suona sciocco, ma a voi posso dirlo.
    Bella, dimmi, davvero papà sta meglio? Non dirgli che te l’ho chiesto, ma so com’è fatto. Per favore, sii sincera. Ne ho abbastanza di menzogne, qui è tutto falso. Anche io sono finta; per adeguarmi, sapete.”

    Cose che Annie, Annie Baudelaire, non avrebbe mai rivelato a nessuno. Si nascondeva, come tutti, dietro maschere educatamente annoiate ed arroganti, sorrisi falsi e saluti freddi quanto il primo tocco dell’inverno. Perfino i suoi occhi erano diventate pozze impenetrabili, un nocciola fosco nel quale non era possibile leggere nulla. Non c’era rabbia, non tristezza. Solo vuoto.
    “A scuola va bene, anzi, alla grande. Ovviamente, ma chi aveva dubbi in proposito?, mi hanno candidata come Reginetta del ballo; ho già deciso che vestito indossare, così che possa abbinarsi alla corona ed ai fiori - tanto ogni anno mi rifilano il mazzo di rose bianche, ormai è tradizione. Vi manderò una foto, anche se preferirei foste qui con me. Ophelia voleva obbligarmi ad un, a suo dire, delizioso abito pervinca; ah, se solo ci fossero le gemelle. Qualcuno dovrebbe far capire a quella donna che il pervinca non va di moda da almeno due secoli e mezzo. La professoressa continua con i suoi noiosissimi saggi, ma per quello c’è James. Non che io mi stia approfittando di lui, ma… si offre sempre in modo così gentile, che mi sentirei in colpa a rifiutare. Faccio male? Sì, forse non mi sento in colpa. Un aiuto sinceramente offerto fa sempre piacere, ecco tutto.
    Purtroppo il Ragazzo non sembra avere alcuna intenzione di portarmi al ballo, ma a chi importa?”

    A lei, ovviamente a lei.
    “Ci sono altri nomi in lista, devo solo scegliere”
    ed era in momenti come quello che la giovane Annie non riusciva a celare la vena d’arroganza asettica che caratterizzava entrambi i rami della famiglia. Era cresciuta sapendo di essere migliore degli altri, e non era una qualità della quale poteva ribellarsi con una scrollata di spalle, di pelle. Annie era una Baudelaire, prima di essere qualunque cos’altro –prima di Annie, perfino.
    Infilò le dita nella treccia, un distratto segno di nervosismo che, quando in pubblico, cercava di evitare il più possibile. Ti rovini i capelli, se fai così. Ti stropicci il vestito. Metti un po’ di colore su quelle guance. Mon dieu, Annie, sorridi.
    Ed Annie sorrideva, colorava le guance, rassettava gli abiti. Ed Annie era diventata, senza neanche accorgersene, una bambola di porcellana con un errore di fabbrica. Fingeva così a lungo con la sua famiglia, ed in modo differente con i suoi amici, che non sarebbe riuscita a sopportare altre menzogne; se la distanza aiutava? Probabilmente. Se Emeric e Belladonna fossero stati realmente a portata di mano, forse non sarebbe stata così sincera, incastrata dietro obblighi che aveva smesso di voler capire anni prima. Ma lo erano, distanti. Per quanto facesse male, erano la sua unica possibilità di sentirsi reale. Non il sogno di Ophelia, non l’illusione di una scuola basata sull’apparenza. Solo Annie, Annie Baudelaire.
    “Raccontami qualcosa di te, di voi. Disegnami il mondo, perché il mio è sbagliato.”
    Una porta si chiuse al piano di sotto facendo sussultare Annie e causando, di conseguenza, un’altra sbavatura. «signorina Baudelaire?» La rossa si morse l’interno della guancia.
    “Un abbraccio, spero davvero di potervi vedere presto. Per favore.

    Annie"


    Lasciò la lettera fra gli artigli della civetta color panna. Non era realmente sua, ma a scuola avevano fatto amicizia (si poteva considerare amicizia?) ed era ormai diventata parte della sua vita. Le aveva perfino dato un nome, malgrado presumibilmente ne avesse già uno suo. Le grattò la testa, ricevendo un basso bubolare gratificato. «portala a Emeric Baudelaire»

    • • •


    «Ophelia ti ha comprato una civetta?» Cole, seduto sulla panchina di marmo del giardino di fronte a casa, si accese una sigaretta con stizza. Non aveva neanche provato a celare il disgusto dietro quella semplice frase: d’altronde era un dato di fatto, che la madre cercasse di comprare il loro silenzio, perché di affetto non si trattava, con regali casuali e per di più costosi. Una Annie dodicenne, reduce dal suo primo anno al castello, si strinse nelle spalle, lanciando un’occhiata al fratello appena diciottenne. Aveva sempre cercato ogni modo per rimanergli vicino, quando egli era nelle vicinanze: poteva non essere perfetto, ma era comunque la sua famiglia. «non è mia» Cole aveva ruotato gli occhi nella sua direzione, un filo di fumo a scivolare beffardo dalle narici. «hai rubato una civetta? Complimenti» La più piccola della famiglia gli aveva lanciato un’occhiataccia. «non è di nessuno, l’ho trovata a scuola. A lei piaccio» Ribattè piccata, ricevendo come ricompensa un «buon per te» che d’entusiasta non aveva nulla. Annie l’aveva osservata volare via, compiacendosi dell’eleganza nel dispiegare le ali della creatura. «a volte vorrei essere come lei» «essere un pennuto con una prospettiva di vita inferiore ai trent’anni? quanta ambizione “sorellina”» sarcasmo sprecato, la rossa ci aveva fatto l’abitudine. «libera» aveva semplicemente risposto, gli occhi rivolti al cielo. Il silenzio che ne era seguito, le aveva fatto credere che Cole se ne fosse andato. Ma lui era ancora lì, più per la sigaretta a metà che per la compagnia della sorella. Lo sapeva, ormai. «le hai dato anche un nome, vero?» Non avrebbe dovuto esserne imbarazzata, eppure le guance le si imporporarono. Con la pelle delicata e perlacea che aveva, era impossibile nasconderlo. «forse» rispose allusiva. «fammi indovinare… Principessa Stellata? Ah, forse quello era il pony. E pony2. E pony3. Quanti pony hai ucciso?» Annie sbuffò, stringendo i pugni dietro la schiena. «non li ho uccisi io!» il fratello liquidò il discorso con un cenno della mano. «e ormai sono grande, il nome non l’ho scelto a caso» certo, detto con quel tono, non la faceva apparire particolarmente minuta. «significa meraviglioso, nobile» e guardando la civetta, con le piumate ali panna e oro, era indubbio che entrambi gli aggettivi le appartenessero. «l’hai chiamata Cole?» malgrado l’affermazione non volesse essere divertente, le strappò un sorriso.
    «Lydia. L’ho chiamata Lydia»

    2016


    Inspirò con forza, sentendo un gemito grattarle la gola, e con altrettanta potenza soffiò fuori l'aria. Lydia Hadaway aveva bisogno di riempire quell'assenza di rumori, perché definirlo silenzio sarebbe stato pretenzioso, che con pesantezza aleggiava nella stanza al Paiolo Magico; una camera troppo piccola per pensieri troppo grandi. Avrebbe dovuto cercarsi un appartamento, lo sapeva, e si riprometteva ogni giorno che avrebbe cercato un luogo stabile da poter definire casa. Quello avrebbe dovuto essere un luogo transitorio, ma come poteva ella cercare di mettere radici, quando di radici non sapeva neanche di averle? Era una ragazza temporanea, Lydia Hadaway, e si meritava una casa altrettanto instabile. Alla fine, l’unico posto dove si sentisse veramente accettata, al suo posto, era ad Hogwarts, fra le battute squallide di Nate e le occhiatacce degli studenti. Ma non poteva, né doveva, essere casa. Voleva un posto che fosse solo suo, ma non era abbastanza coraggiosa da lasciare l’ammuffita camera dalle pareti annerite. Aveva smesso di covare la speranza che qualcuno sarebbe andata a riprenderla, ed aveva smesso di cercare il suo posto: aveva accettato il non essere, Lydia, priva di alternative. Ma era lì che s’era risvegliata. La prima cosa che aveva sentito, era stato il freddo del marmo della vasca; la prima cosa che aveva visto, era stato il soffitto non più troppo bianco del Paiolo. Ci si era malsanamente affezionata, a quello squallore. Ciò che meritava.
    Sfiorò con i polpastrelli le lettere ammucchiate sul letto, pergamena chiara vergata con inchiostro scuro. Ormai aveva imparato a riconoscere la calligrafia di quella donna, nonostante di lei non avesse mai saputo quasi nulla. Non aveva neanche reputato troppo assurdo, che da un giorno all’altro qualcuno avesse cominciato a scriverle, fosse per errore o per destino. Chi era lei per giudicare l’inverosimile? Non aveva fatto domande, riservata come al solito; il tono delle lettere scritte di suo pugno, s’era fatto di volta in volta meno freddo e distaccato. Come un fiore con le giuste cure, Lydia si era lentamente aperta alla sua interlocutrice, mostrandole ad ogni pergamena un nuovo petalo perlato. Non sapeva come fosse accaduto, ma era successo. Non l’aveva voluto, ma era successo. E quel nome a piè di pagina, un Belladonna dal sapore antico, era tutto ciò che aveva. Inizialmente non le aveva raccontato nulla, ed ancora aveva taciuto la sua amnesia, ma s’era lasciata sfuggire più dettagli di quanto avesse mai fatto parola con qualcun altro, chiunque altro. Con chi avrebbe dovuto parlarne? Chi avrebbe potuto capire? Avrebbero smessa di guardarla allo stesso modo, e l’ultima cosa che voleva era leggere compassione negli occhi delle poche persone che, con lei, ci avevano provato. Ma a lei, a Belladonna, l’aveva detto.
    Cose semplici, dette con leggerezza malgrado invece le straziassero l’anima.
    “Non sono riuscita a dormire neanche stanotte. Perché gli incubi sembrano così reali?”
    “A volte mi ritrovo in luoghi senza aver memoria di esserci mai andata”
    “Ho queste strane sensazioni, come di storie già lette su pagine bianche”
    “Mi sento sola. È tutto così…”
    “Sono invisibile?”
    “Ho paura, Belladonna”

    Debolezze, ed erano solo quelle che aveva avuto il coraggio d’ammettere. Non le aveva parlato degli attacchi di panico, della continua sensazione che l’aria divenisse liquida e l’affogasse, impendendole di respirare. Non le aveva detto dei graffi sulle braccia, sulle gambe, che si ritrovava coperti da sottili croste ad ogni alba. Non le aveva detto delle allucinazioni, del sangue, tutti quei morti. Non le aveva detto delle urla, quelle che le straziavano la gola e quelle che le rimbalzavano nelle orecchie ogni volta che chiudeva gli occhi. Non le aveva mai detto quanto facesse male, quell’apatico non essere.
    Lydia Hadaway, un’altra non ragazza fra altre non ragazze. Di quelle che non segnano, che non mancano.
    Di quelle che neanche esistono, ma erano tutto ciò che avevano.
    Le gambe allungate sul letto, la testa poggiata contro il muro, ed una lettera a pesare più di quanto avrebbe dovuto sulle sue ginocchia nude. Perché non l’aveva ancora aperta? Solitamente si fiondava su ogni missiva, aggrappandosi a quel briciolo di realtà concreta in un mondo fatto di illusioni. Erano poche le cose, le persone, a farla sentire reale, dimostrandole che non era uno spettro. Letteralmente da contare sulle dita di una mano. Sicuramente, Belladonna era fra quelle. Non sapeva chi fosse, ma poteva un dettaglio del genere avere importanza, quando non sapeva neanche chi fosse ella stessa? Alla fine, era il fantasma di quella donna a scontrarsi con Lydia, facendole notare che non doveva per forza essere concreta per essere viva. Le persone esistevano, anche quando credevano di non farlo. Non erano solo storie, non erano solo passato: erano parole, erano idee. Erano sorrisi, quelli sinceri e quelli di circostanza; era sapere che c’era qualcuno per il quale si faceva la differenza. Questo le aveva insegnato, Belladonna, nelle sue lettere; “E se non fosse abbastanza?” E questo aveva sempre ricevuto in risposta, da Lydia Hadaway.
    E lo sapeva, Lydia, che non era mai abbastanza. Ma era tutto ciò che aveva.

    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia


    Edited by parasomnia - 6/6/2016, 03:16
     
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    [ quattro anni prima ]


    Chi si ostinava a dire che le parole fossero destinate a perdersi nell'etere mentiva... o non aveva alcun caro le cui parole potessero valere qualcosa di più delle semplici frasi fatte di cui la massa era brava a riempirsi la bocca. Belladonna aveva sempre sentito quella strana sensazione per cui riconoscersi al di sopra di quella marmaglia distratta e frettolosa, impegnata in attività futili o spesso dannose per se stessi e gli altri. Non che avesse uno scopo o un qualcosa di superiore: semplicemente era -e lo sentiva- qualcosa di più radicato, sensibile. Non andava cercato nei modi, né nelle parole-- a starle affianco si percepiva quasi quell'aurea di estraniamento e lontananza, quasi vivesse in un mondo tutto suo, distaccata dalle terrene complicazioni.
    Era sensibile, terribilmente.
    Toccare le corde del suo cuore poteva sembrare più difficile di quanto in realtà non sembrasse-- si scioglieva facilmente, e dolorante s'accasciava come una fiera ferita. Sospirò leggendo col cuore stretto in petto le ultime parole di Annie, scritte di pugno, con una delicatezza che assomigliava molto a quella della lettrice. Ormai era divenuta una sorta di rito, approfittando del fatto che Emeric avesse sempre più bisogno di cure e lunghi sonni-- quando arrivava una lettera, Belladonna aveva il permesso -per non chiamarlo diritto- di aprirla e leggere il contenuto prima di chiunque altro, nel caso in cui il fratello fosse ancora costretto ad una visita, o perso in uno dei suoi pesanti sonni.
    Così la ragazza aveva avuto modo di leggere prima le lettere, e commentarle col genitore della piccola interlocutrice: si sentiva terribilmente sporca, ma sapeva in cuor suo che -se Annie avesse conosciuto le sorti del genitore- la ragazza avrebbe modulato a sua volta il tono, così come Emeric. Senza rendersene conto si stava facendo carico del dolore altrui, oltretutto sentendosi in colpa come non mai.
    Emeric aveva una ricaduta nella polmonite.
    «Tuo padre oggi è uscito dalle sue camere dopo una settimana!»
    Per sbaglio trovava una scatola contenente alcuni strani fogli di Ophelia, riguardanti l'eredità, l'affidamento, questioni burocratiche di cui all'epoca non poteva capire molto.
    «Lui e Ophelia hanno passato una bella giornata insieme, seduti in giardino a bere tè, a ridere, riportare alla mente i bei ricordi...»
    Era detentrice di segreti e promesse, nascondeva la verità e in cuor suo non faceva ciò se non per far stare meglio entrambi: di fronte al letto del fratello, sorrideva con delicatezza, aprendo la lettera. «Carissimi papà e Belladonna, quando potrò venire a trovarvi? Mi avete dato notizie meravigliose, sono felice che papà stia meglio-- non è l'amore?» aveva fatto una volta quell'errore, e non lo avrebbe mai più ripetuto «continua a leggere, ti prego» «Mi sento così sola, qua in Francia. È come se al mondo, semplicemente, non importasse. Come se ogni respiro non avesse peso, sapete. Non l’ho mai detto a nessuno, perché suona sciocco, ma a voi posso dirlo...» si fermò, col respiro corto-- e guardò il fratello, i cui occhi -puntati sulle dita della giovane strette alla lettera- parvero tremolare quasi, farsi lucidi.
    Per qualche istante, nessuno dei due disse nulla: cadde nella stanza un silenzio vagamente pesante, carico di una strana angoscia a cui Belladonna non avrebbe saputo dare con certezza un nome; solitudine? Malinconia? Nostalgia?
    Da quel momento, era sempre stata molto più attenta; ciò che leggeva era il risultato di un'accurata revisione delle lettere: se Emeric doveva morire -e doveva, era inutile nasconderlo- allora la sorella non gli avrebbe permesso di chiudere gli occhi immaginando il dolore di una figlia sempre troppo lontana, sempre troppo sola. Belladonna non avrebbe più permesso che quel sorriso caldo e placido, di chi si stava abituando alla morte, sarebbe scivolato nel dolore lasciando come ultimo ricordo l'angoscia di chi non poteva nulla, ed era impotente di fronte al destino.
    «Mia dolcissima Annie,
    ti scrivo questa lettera da sola; mentirei parlando al plurale, e non meriti bugie.
    Tuo padre in questi giorni è molto impegnato nel seguire una cura che il suo medimago privato gli ha prescritto- i risultati saranno visibili, secondo le stime del dottor Sullivan, nel giro di una settimana... ma se devo essere sincera, per me che gli sto sempre affianco, è già visibile il miglioramento. Non preoccuparti, fra una settimana scommetto avrà la forza di scriverti di suo pugno una bellissima lettera... e chissà, magari potrà finalmente venire lui stesso a prenderti.»

    E una settimana dopo, Emeric non riusciva nemmeno più ad alzare il braccio o ad impugnare una penna.
    Era giusto illudere una persona cara? Era giusto riempire quelle lettere di illusioni, speranze su cui le stessa neppure avrebbe scommesso-- con affianco la foto incorniciata della bambina graziosa, incapace di contenere la sua gioia negli abiti forse troppo seriosi? Più la guardava più non riusciva a smettere di chiedersi dove finisse l'amore e iniziasse la morale, la giustizia- temi importanti, facili da dimenticare e ignorare a favore di un egoismo che spesso si cambia per soffocante affetto.
    E mentre scriveva quelle poche parole leccava il bordo della tazza fumante, nascosta dalle tendine pallide della piccola finestra di camera sua-- avrebbe voluto tornare indietro, alle prime lettere, quando non era costretta a mentire a nessuno dei due e poteva ancora definirsi estranea a quell'affetto, a quella corrispondenza sempre più intensa fra i vertici di quello strano triangolo. Sospirò pacatamente, e attese.
    Avrebbe atteso all'infinito se necessario.

    [ un anno prima ]


    «Cara Lydia,
    i giorni passano così in fretta, ormai l'estate è alle spalle-- o, come si suole dire, “winter is coming”.
    Onestamente, tu credi che la relazione fra Sheldon e Amy sia arrivata ad un punto di svolta? Non voglio farmi spoilerare dai social (maledetto twitter!), ma non accedere ai miei diciotto account mi trasmette un senso di disagio che riesco a placare solo con i lunghi sfoghi delle nostre lettere...!
    Mi auguro di cuore che tu abbia passato delle ottime vacanze-- e che tu sia riuscita a portare a termine la maratona-Scrubs! Potrei farti delle domande molto pertinenti, ti conviene aver fatto i compiti *smirk*»
    non era stato facile riprendere in mano la penna.
    Annie ad un certo punto era sparita-- all'improvviso, non aveva più risposto alle lettere che continuavano ad accumularsi nella sua posta, non aveva più dato segni di sé. Per l'intero mondo, Annie Baudelaire era svanita nel nulla... un nome ed un cognome destinati a perdersi nel registro delle persone scomparse-- una piaga del Regno Unito sempre più sanguinante, dolorosa.
    Il lutto, la sparizione-- era tutto avvenuto così in fretta, che a Belladonna non era rimasto più altro, se non di pregare. Aveva abbandonato la casa del fratello al suo lutto, volendo così soddisfare il suo ultimo desiderio... ma era inutile nasconderlo: mancato Emeric Baudelaire, più nulla la legava a quel posto, e Ophelia non aveva aspettato altro se non quella occasione per sbarazzarsi dell'ultimo gene Baudelaire presente nella -ora- sua casa.
    E adesso che viveva lì, nel cuore di Londra, si sentiva nuovamente a casa.
    Ilare come fu proprio quel ritorno allo scambio epistolare a riportarle la sensazione di casa.
    «Detto questo, sono felice di sentirti più serena nelle tue lettere. Ma, pur non volendoti soffocare, vorrei ribadire ancora una volta che, per qualunque evenienza, sai che mi puoi scrivere. E qualunque cosa: non c'è lettera a me più gradita, nel dolore, di quelle in cui mi confessi con sincerità i tuoi affanni...i tuoi dubbi. Non c'è ruolo che svolgo con più gioia del poterti ascoltare- pardon!, leggere e sostenere. Non avere mai timore di raccontarmi qualcosa.» Non era certo stato facile cominciare da capo, conoscere Lydia Hadaway.
    Non era Annie-- eppure in lei vi era il fantasma di quella ragazza.
    Non sapeva chi fosse-- eppure, ecco che dopo qualche settimana di scambio epistolare, le due avevano preso a parlarsi come due care amiche che si conoscevano da sempre... e Belladonna non avrebbe voluto altro che essere un'amica per lei, qualcosa che andasse ben oltre il legame di sangue presente fra loro. Era sua zia, ma i tempi non erano ancora maturi per certe scoperte, e Cole l'aveva avvisata. Doveva stare attenta, se era suo desiderio continuare a giocare ad “una zia per amica”.
    «Anche quando ammetto di voler solo leggere buone notizie da te, non vorrei mai costringerti a soffocare i tuoi sfoghi.
    Preferisco sapere dei tuoi incubi, che angosciarmi nel tetro silenzio dell'ignoranza-- preferisco condividere i tuoi affanni, che vivere in una falsa felicità.»
    Curioso il destino: non era ciò a cui l'aveva condannata, e così il suo stesso padre? Non aveva lei stessa per prima giocato allo sporco gioco delle “menzogne per amore”? Ora poteva capire l'angoscia, il sentimento confuso che leggeva negli occhi del fratello quando le preoccupazioni di Annie svanivano dalle lettere, lasciando solo una smodata gioia.
    E non era una sciocca forma di egoismo, e di invidia. Oh no.
    Era quanto di più vero c'era nell'affetto di un genitore: l'istinto.

    [ presente ]


    A distanza di anni, la situazione non poteva dirsi cambiata-- ma che ne sapeva, lei, del tempo che passava? Che ne sapeva, Belladonna, del ciclo degli anni, del ritorno eterno degli eventi? Per lei il tempo non esisteva, non era un fattore biologico: il tempo era una costante a lei estraneo, e chissà, magari quella tazza era la stessa di quattro anni prima... magari quella situazione non era altro che un ricordo, o un deja vu.
    E l'attendeva lì, esattamente come quattro anni prima.
    Tante cose doveva dire a quella ragazza-- così tante; ma forse, prima di tutto, avrebbe dovuto porgerle con umiltà le proprie scuse. Se ripensava alle lettere, alle così tante lettere scritte di getto, disperata perché il peso di due strazianti dolori la stava spezzando, le venivano le lacrime agli occhi... era sensibile, era sempre stata sensibile e impulsiva-- a ripensarci aveva peccato anche di sciocchezza, ma cosa poteva farci?
    Aveva già fatto troppo.
    Si girò di scatto quando udì il campanello della porta; non era pronta, lo si poteva notare dal modo in cui ancora preferisse nascondere lo sguardo dietro gli occhiali, o come continuava a mordersi piuttosto agitata il labbro inferiore. Fortunatamente i suoi timori non furono ancora rivelati-- un uomo entrò nella caffetteria e si avvicinò al bancone, esitante, fissando gli altri clienti seduti ai tavoli prima di venir accolto dal sorriso gentile della proprietaria e accompagnato ad un tavolo libero. Da lì a Belladonna non importò più nulla dello sconosciuto, e con fare distratto, distaccato, guardò nuovamente oltre al vetro della finestra, studiando le decorazioni cucite sulle tendine-- no, per lei il tempo era solo quell'unità di misura che tanto condizionava gli altri, ma che in lei lasciava solo un vuoto senso di smarrimento.
    Avrebbe voluto chiudere gli occhi, Belladonna, nascondere la vista e perdersi nel caos della propria mente: in fondo, non c'era nulla di male- no? Non era sbagliata la codardia; era semplicemente la strada più facile, che di conseguenza veniva scelta da fin troppi... non bisognava giudicare una scelta da chi la compiva; e nella sua situazione, una fuga, ora come ora, poteva benissimo essere tollerata. Vero?
    Roteò le pupille.
    dio cosa mi sta prendendo” avrebbe voluto essere diversa, la Baudelaire; di cuore, avrebbe desiderato essere un'altra, una donna più matura, più capace di prendere in mano il proprio destino e guidarlo verso la retta via... ma sbagliava- sbagliava sempre, e purtroppo a pagarne il prezzo più alto erano sempre le persone che si ripeteva d'amare. Sciocco amore, potevi per una volta non renderle lo sguardo così cieco di fronte al dolore della nipote? Non era poi così difficile per lei figurarsela entrare, raccogliere i capelli mentre si liberava del soprabito e la cercava, sondando le persone alla ricerca di quella donna della foto che silenziosamente guardava lo scorrere del tempo a cui lei era estranea, o forse così si ingannava.
    Ma ecco che, ad ogni tintinnio, quasi faceva un balzo sulla sedia- rischiando di rovesciare il caldo contenuto della tazza. Eppure, in quella lontana lettera, era stata lei a prometterglielo. Eppure, era stata Belladonna a mettersi in gioco per prima, rivelando parzialmente le sue carte; per lei ci sarebbe stata sempre, e un giorno -citando le parole ancora bene impresse sulla carta- «sarò vicina a te, abbastanza da soffiarti il fumo dalla tazza.»
    Quale occasione migliore di una caffetteria appena aperta nel centro di Londra?

    role code made by effe don't steal, ask



    Vorrei essere una persona migliore e rispondere prima. Ew.


    Edited by my hair smells like chocolate - 8/3/2018, 11:57
     
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    02.03.2018
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    Malgrado sapesse che non fosse possibile, Lydia Hadaway poteva giurare di sentire ancora l’odore di bruciato. Non sapeva da quanto fosse lì, immobile ai confini di una realtà dal quale ormai s’era preclusa, in piedi sul ciglio del marciapiede: forse un minuto, forse un’ora. Forse tutta una vita fatta di battiti mancati e respiri incastrati in gola. La borsa a tracolla le stava tagliando una spalla, troppo pesante per un corpo esile e provato quanto il suo, ma non le importava: stava ferma, la francese, perché muoversi avrebbe significato tornare concreta - e lei, di scendere a patti con quel che stava accadendo, non ne aveva alcuna intenzione. Inspirò dalle narici, deglutì bile grattandosi la gola. L’ancora gelido vento d’inizio marzo le fece scivolare alcune ciocche ramate sulle guance, solleticandole debolmente la pelle arrossata. «sta aspettando qualcuno?» Lydia non si scompose, né sposto la propria, labile, attenzione, sul passante di turno. Dall’interrogativo dedusse che doveva trovarsi lì da più tempo di quanto non si fosse razionalmente resa conto, ma non le importò: era raro che le importasse qualcosa, da tre mesi a quella parte. Era sempre uscita dal proprio confortante bozzolo solamente perché anche quella che avrebbe dovuto considerare casa, aveva preso la malsana abitudine di soffocarla: non poteva essere casa, se mancavano Shot e Murphy. Non poteva essere casa, se Archibald non entrava senza bussare per portare la colazione. Non poteva essere casa, se Jay dopo il turno al Captain Oats non passava a salutare.
    Non era più casa, quel rettangolo di New Hovel nel quale lei, Sin e Elijah Jr s’erano aggrovigliati, lasciando che il silenzio masticasse le parole che non avevano coraggio di pronunciare. Senza Murphy a imporre la propria voce su quell’abisso, senza Shot a montare e smontare le proprie armi, lei e l’Hansen erano incapaci di rompere il silenzio, preferendo rimanere in quell’angustio spazio del tacito conforto di chi aveva perso tutto, ma ancora attendeva il rumore delle suole a pulirsi sullo zerbino fuori dalla porta principale. Si ritrovava a piangere senza motivo, Lydia; si ritrovava con le guance bagnate senza aver memoria di aver mai cominciato. Si ritrovava, la coperta stretta al petto a comprimere il cuore nello sterno, a domandare con un filo di voce a Sinclair se potesse abbracciarla, lei che il contatto l’aveva sempre temuto con diffidenza. Lui continuava a ripeterle, ed a ripetersi, che non fossero morti – che l’avrebbe saputo. Diceva di avere un legame con Aloyius e Shia, assicurandole che non potessero aver fatto nulla di troppo stupido.
    E Lydia era così disperata, così disperata, da aver bisogno di crederci ogni volta tanto quanto l’idrocineta. Non che la situazione cambiasse: ovunque tutti loro fossero, non erano comunque con loro.
    Non erano con lei.
    Ci aveva messo anni, per decidere a farsi una vita. Mesi, e mesi, ed altri mesi prima di prendere la cosciente decisione di cercarsi casa – ed un coinquilino. Non aveva mai vissuto con nessuno, prima di conoscere Shot. Che inganno, che illusione l’averle fatto credere che fossero amici, per poi andarsene senza neanche salutare – che senso aveva relazionarsi a qualcuno, se quel qualcuno da un giorno all’altro cessava d’esistere? E Murphy, che lentamente si era spinta nella sua blanda, piatta vita creandosi un angolo morbido, dove il sole non faticava mai ad arrivare. Ricordava ancora quando lei e Shot si erano presentati a New Hovel chiedendo asilo politico, a come il viso di lei si fosse illuminato all’idea di avere una compagna di stanza: sarà s e m p r e come un pigiama party!!, ossia, come aveva imparato presto, una scusa come un’altra per trascinarsi i pacchetti di patatine in camera da mangiare sotto le coperte.
    La cattiveria più infima, quello scherzo del destino crudele e malvagio che in un giorno qualunque di una vita qualunque, le aveva portato Archibald Leroy all’uscio di casa. Archibald Leroy Baudelaire. Lydia si era arresa molto, molto prima all’idea che non avrebbe mai avuto una famiglia – che non avrebbe mai saputo cosa si provasse. Aveva Belladonna, ed aveva fatto della zia una religione, ma… lei, una famiglia, l’aveva: quella che avrebbe dovuto essere anche sua, ma nella quale Lydia non era mai riuscita ad inserirsi – le gemelle Beaumont, Cole. Si era detta che, ehi!, le poteva andare bene: che si accontentava di poco, non aveva bisogno che Belladonna escludesse tutto quel che conosceva ed aveva per lei, la quale altro non era che l’ombra di ciò che era stata.
    Arci aveva rappresentato quel che credeva di aver perso, di non aver mai avuto: speranza. Entrambi privi di radici, ambedue esclusi dal lignaggio senza alcuna spiegazione – e sì, lui s’era creato un ritaglio per sé fra le bionde francesi, ma… aveva appena iniziato, capite la differenza? Avrebbero potuto iniziare insieme. L’ex Serpeverde era la tacita promessa che un lieto fine se lo meritava anche lei – una possibilità di essere felice.
    E gliel’avevano portato via, strappandole la debole luce ch’era sicura, che era certa, di aver trovato. Lydia era figlia di un’esistenza perfida che si divertiva a mostrarle quel che avrebbe potuto essere, quel che avrebbe potuto avere, solo per far più male quando infine glielo toglievano. Aspettava sempre che entrasse a far parte dell’organismo, a fondersi con tessuti ed organi – e poi lo staccavano senza curarsi dei danni recati al resto del sistema.
    L’effetto collaterale di un esperimento mal riuscito, la Hadaway. La fu Baudelaire.
    Avrebbe dovuto farci il callo, a perdere Jayson Matthews. Avrebbe dovuto limitarsi ad un’alzata di spalle, un sospiro a mezze labbra – che lui era sempre stato la sua costante, l’unico sul quale non avesse dubbi: tornava sempre, Jay. Magari ci metteva mesi, magari anni e tutta una vita, ma aveva sempre trovato il modo di ripiombare nella sua vita, e metterci ogni volta radici come se non fosse mai andato via. Aveva un modo tutto suo per riempire i vuoti, incastrandosi alla perfezione in ciò che aveva portato con sé l’ultima volta che se n’era andato. Avrebbe dovuto solo aspettare, Lydia, senza sentire l’ansito sibilante ad ogni respiro.
    Ma come poteva. Come poteva, quando ogni volta era sempre più vicina al credere fosse l’ultima. Quando le lenzuola cominciavano a dimenticare il suo profumo, ed il suo petto a scordarsi cosa si provasse a sentirsi completo.
    Ci doveva essere un limite, da qualche parte. Una linea invalicabile di ciò che un cuore poteva o non poteva permettersi, prima di andare perduto definitivamente – la Hadaway, quella soglia, l’aveva superata da un pezzo. L’aveva superata come Baudelaire, quando qualcosa ancora lo aveva.
    Figurarsi Lydia, che quel qualcosa aveva dovuto raccoglierlo come briciole giorno dopo giorno, prima di avere un pezzo di pane.
    O un pezzo di baguette, ad essere precisi: l’unica cosa che le fosse rimasta di Cole.
    L’unica cosa
    Che le fosse rimasta
    Di Cole.
    A nessuno era sembrato importare. Lo davano morto da mesi, da quand’era sparito da Hogwarts senza più fare ritorno; anche Lydia credeva non le importasse, di quel fratello che di lei non aveva mai voluto saper niente. Ne era stata così convinta, ch’era stata la prima a stupirsi delle lacrime a rigarle il volto, quando il Morsmordre aveva confermato il ritrovamento del corpo di Cole sul tetto di Beauxbatons.
    Non si era resa conto di aver solamente aspettato, Lydia. Che da quando aveva scoperto di essere una Baudelaire, aveva atteso il momento del confronto - quello nel quale, nel male o nel peggio, Cole si sarebbe infine reso conto della sua esistenza: Lydia Hadaway, il fratello maggiore, l’aveva dato per scontato. Ed Annie, quell’Annie sopita che tornava negli incubi e nei sonni agitati, per tutto quel tempo, aveva solo atteso che Cole alzasse gli occhi al cielo e la invitasse silenziosamente ad entrare, come aveva sempre fatto. Come avrebbe dovuto fare sempre.
    Come non avrebbe mai avuto la possibilità di fare.
    «signorina?» si decise a volgere i piatti occhi verdi sull’uomo – un anziano signore sulla sessantina, un bonario sorriso sulle labbra e calde iridi grigie. Sentì il cuore pulsarle nella pianta dei piedi svuotandole il costato tutto in una volta. Stava aspettando qualcuno? «sì» rispose semplicemente, cercando di sorridere - provandoci, perlomeno: che poi non ci riuscisse, non era da biasimarle. Lo sentì plastico, sorriso – ma la plastica piaceva sempre, e l’uomo non esitò a ricambiare l’espressione cortese di Lydia. «ma non credo arriverà» un mesto cenno del capo, le dita a stringersi sulla cinghia della borsa, prima di dare le spalle a quel che era stato il suo primo appartamento con Chariton Deadman, priva di una direzione precisa e mossa solo dal bisogno di andarsene.
    Si fermò, instancabile masochista, sulla soglia della palestra poco lontana da casa. Qualche misurato passo all’interno, il tanto che bastasse a permetterle di sentire il rumore di gomma della palla da basket, e quello dei piedi a scivolare sul pavimento lucido. Quel tanto che bastava a lasciare che i vestiti si impregnassero di quell’odore che, più nolente che volente, era diventato confortante nei mesi precedenti - perché era diventato casa. Uscì senza prestare attenzione alla donna seduta dietro la scrivania della reception. Ed ignorò, le scarpe basse silenziose sul cemento, la pasticcera dov’era solita fermarsi per prendere a Murphy quel muffin che, santo cielo, s’era sempre domandata come potesse riuscire a finirlo senza implodere. Ed ignorò, il cuore ormai assente, il panificio dall’altra parte della strada: sapeva che non si trattasse del B&B, ma non lo rendeva meno dolorosamente familiare – né le impediva di vedere Arci, sempre Arci, nel volto giovane del ragazzo dietro la cassa.
    Come si poteva, continuava a domandarsi la Hadaway, vivere così - non si poteva, non era accettabile. Aveva deciso con sé stessa, e per sé stessa, che il tempo non avrebbe più avuto importanza. Che avrebbe lasciato fosse il lavoro a scandire le sue giornate, ma senza darle un limite temporale su quale giorno o quale mese fosse: perché che sarebbero tornati, Lydia, lo sapeva.
    Non voleva sapere quanto ci avrebbero messo. D’altronde, non avrebbe cambiato nulla: li avrebbe aspettati sempre, anche se non fosse stato necessario.
    Prevedibile quale fosse l’ultima tappa di quel giro turistico, ma per la Hadaway trovarsi sul pianerottolo di quell’edificio, non ebbe nulla di previsto: il cuore immobile, il respiro congelato sui denti, le dita a tremare impercettibilmente mentre suonava il campanello. E sapeva – Dio, se sapeva – quanto fosse stupido, e fuori luogo, e non avesse alcun senso, ma… non poteva impedirsi di tornarci, Lydia. Poco importava che le facesse più male che bene; poco importava che il solo trovarsi lì riaprisse, anche per loro, la ferita di ciò che avevano perso: ne aveva bisogno, capite? Così si costrinse ad ignorare la fitta allo stomaco, quando Andrew Stilinski fece capolino dall’uscio dell’appartamento che, ormai, condivideva solo con Isaac e Stich. Non perché credesse fosse Jayson, potevano anche essere esteriormente uguali, ma Lydia non avrebbe mai avuto la sensazione di essere con il fu Hamilton, ma perché era… familiare, il tono di voce che s’insinuava sempre nei momenti meno opportuni per ricordarle che quando si prendeva qualcuno, si prendeva il pacco completo: Stiles, Xavier, le gemelle, Stich, erano entrati a far parte della sua vita nel momento in cui, quella vita, aveva iniziato a dividerla con Jay.
    Non avrebbero smesso di farlo solamente perché Jay non c’era - che per loro, ci sarebbe stato sempre. Rispose alle occhiaie stanche dello psicomago con un sorriso tirato, al suo cenno di entrare chinando educatamente il capo. Non avevano bisogno di molte parole, ormai. «isaac?» domandò, abbandonando la borsa sulla sedia più vicina all’entrata.
    Quello era l’ultimo posto nel quale, tre mesi prima, aveva visto Jay – e che l’impronta di Jay, la portava in ogni cosa. «lavora» Stiles chiuse lo sportello, una bustina di tè già stretta pigramente fra le dita. «stich?» le rispose da sopra la spalla, un sorriso stanco a spingere gli angoli delle labbra verso l’alto. «è venerdì» ribattè semplicemente, un vago cenno verso l’orologio. «la lezione di danza» si rispose Lydia, guadagnandosi un pollice sollevato da parte di Stilinski. Sentì il rumore del microonde, la tazza con l’acqua a scaldarsi all’interno del forno. Il silenzio fu ciò che più la colpì: era abituata al fracasso di quella palazzina, che quando non erano i fremelli a far tremare l'edificio, erano i Lovepotatoes dall’appartamento di fronte, non a quel…vuoto. Se lo portavano tutti addosso, quell’assenza di rumori. Ce l’avevano sulla pelle, nella piega dolente della bocca – e l’esterno ne risentiva, suonando così ovattato da tappare le orecchie. «ho interrotto qualcosa?» il fornetto trillò facendola sobbalzare. Stiles le lasciò la tazza fra le mani, abbandonandosi poi a peso morto sul divano. Lo osservò aprire la bocca, richiuderla. Poteva quasi leggere, il quel non detto ad ondeggiare fra loro, le risposte che usualmente le avrebbe fornito – ciniche, sarcastiche, al limite della sopportazione ma in quella maniera adorabile che costringeva sempre a sorridere. Ma non diede loro voce, limitandosi ad un sospiro che ad un orecchio attento, che all’orecchio di Lydia, suonò come un singhiozzo a metà. Le indicò un pacco di fazzoletti sul tavolino di fronte al divano. «extreme-» «-makeover, home edition» allora la situazione doveva essere davvero tragica, perché sapeva che era il programma scelto per i momenti di tristezza dal fremello: c’era chi guardava New Girl per sentirsi meglio, chi preferiva abbattersi maggiormente con film strappalacrime, e chi decideva che di lacrime da versare non ce ne fossero mai abbastanza – Stiles, ed extreme makeover home edition. «qualcosa non va?» domanda sciocca, quella della Hadaway, mentre stringendo la tazza fra le mani si infilava sul divano vicino all’ex Tassorosso. Lui, sorridendo sghembo, le diede l’unica risposta che quell’interrogativo meritava: «qualcosa lo fa?»

    «sei sicuro di non voler venire?» Lydia Hadawat Hadaway, nel porre il medesimo quesito a Sinclair Hansen per quella che poteva tranquillamente essere la quindicesima volta, sperò davvero che la risposta diventasse sì – o che, in alternativa, l’uomo le desse un buon motivo per non andare. Chiariamoci subito: voleva bene a Belladonna Baudelaire, tutto ciò che le fosse rimasto, ma… non amava uscire, Lydia, specialmente in quel periodo, e non voleva lasciare Sin da solo con Eli Jr. Rimpiangeva di essersi spinta, in un momento fintamente ottimista, a promettere alla zia che l’avrebbe portata a cena fuori – voleva dimostrarle di stare bene, ma il solo pensiero di attuare quel semplice, lineare piano, le stringeva la gola in una morsa soffocante. Il grugnito che provenne dalla poltrona dove Sin aveva ormai preso residenza, fu sufficiente a farla desistere dal domandarglielo un’altra volta. Sospirò allo specchio, l’ultimo tocco di rossetto cremisi a dipingerle le labbra. Impeccabile ed elegante, per quell’uscita Lydia si era messa in tiro - non voleva far credere a zia Bella di essere l’unica parente accattona: vorrei descrivere come fosse vestita così da dare spunti a Ceci, ma Sara non sa come si vestano le persone, quindi lascerò a te l’onere di decidere gli abiti – eddai, Enza Miccia, ti supplico fammi questo favore. Mi limiterò a dire che i capelli aveva scelto di non tenerli raccolti, così che cadessero in morbide onde biondo fragola attorno al viso tondo e morbido. «vuoi che ti porti a qualcosa?» indossava già la giacca, un piede oltre la porta. Sin ribattè con qualcosa che poteva essere mia figlia quanto una triglia - impossibile esserne certi, si sapeva che superata la mezz’età la pesca diventava parte basilare della vita di ogni uomo.
    La sua intenzione iniziale era quella di portare Bella in un luogo chic, giusto per sfoggiare senza remore il nuovo stipendio che il lavoro da storiografo – decisamente meglio retribuito rispetto a quello di assistente di Nate – le permetteva, ma alla fine la vena sentimentale ed emotiva della Hadaway aveva avuto la meglio, ed aveva dato alla donna appuntamento nel locale dove, più di un anno prima credo, si erano conosciute. Si sedette perfino allo stesso tavolino, Lydia, volgendo un cordiale sorriso di circostanza al cameriere che la fece accomodare.
    Ed un po’ sperò, adocchiando pigramente il menù, che Belladonna le desse buca concedendole di poter fare quello che le veniva meglio: tornare a New Hovel, chiudersi in camera, e fingere di non esistere. Almeno per un altro po’.
    Almeno finchè non fosse stato abbastanza.
    Today's the day I found myself alright When I look ahead, pretend it never came.
    I found a way to keep my head above But the hardest part is to say 'No it's not'
     
    .
3 replies since 24/5/2016, 17:48   284 views
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