Wicked Games

Fucking Hamiltons - Villa Hamilton

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    Era normale che in quella casa ogni tanto sparisse qualcuno? Si trovavano a Villa Hamilton quindi la risposta sarebbe dovuta essere affermativa, eppure Amos sperava ancora di abitare in un posto normale. Per quanto si potesse definire una casa affollata ventiquattro ore su ventiquattro da esprimenti, e non sempre completamente sani di mente. Il ragazzo poteva lamentarsi quanto voleva ma tutti sapevano del suo amore per quel posto, non che potesse schifare troppo il posto dove viveva; almeno non era una cella grande quanto il bagno della servitù (quale servitù?) ed era più pulita della camera di Shia, la quale tra l’ altro sospettava fosse piena di siringhe o giornali sulla barba, non si voleva così male da volerlo scoprire. Quel giorno fin troppo caldo di luglio il moro stava cercando conforto nelle fredde sculture di ghiaccio di Elsa ma ancora una volta questa sembrava sparita, ma che cazzo aveva da fare? C’ era gente che aveva bisogno di lei, che si stava liquefacendo. Che fosse colpa di Stevens, che avesse dato fuoco al sotterraneo e ora il calore si stesse disperdendo nei piani superiori? Non si poteva mai essere troppo cauti con gli esperimenti. ”Quindi alla fine l’ avete drogato davvero?” rilasciò il pollice dallo schermo, immensamente soddisfatto del proprio progresso con la tecnologia, ma quanto si sentiva realizzato? Probabilmente pure Run si sarebbe complimentata con lui per non aver fatto il dislessico per una volta tanto, il suo Brofiglino stava crescendo. No, Amos non dimenticava. Forse era una cosa di famiglia, vista tutta quella merda che Rea continuava a ripetere, Dio, sarebbe potuta passare per un personaggio di Game of Throne. Lo era? Quella cosa l’ avrebbe tormentato per sempre. Comunque, Amos non si era scordato di capodanno e della merda in cui l’ aveva messo Run, aveva dovuto ballare con una bionda cocainomane, che cosa c’ era di peggio? Beh, ballare insieme a Gemes poteva facilmente arrivare agli alti livelli di disagio esistenziale. ”Morgan, dovreste fargli trovare nell’ ufficio un po’ di quei denti che la bionda colleziona” perché si sa, Amos non aveva niente di meglio da fare che dare idee per torturare un pover’ uomo, di certo non era colpa sua se a volte udiva qualche conversazione che Rea intratteneva al telefono, lo stava influenzando troppo. Ma immaginava che non avrebbe dovuto saperlo, ne sarebbe stata troppo felice. «ALOYSIONUS CRAIN» che Alejandro avesse o meno problemi d’ udito, Amos Hamilton non lo sapeva, ma era abbastanza sicuro che non gli avrebbe mai risposto se la sua voce non sarebbe giunta al piano di sopra. Da dove si trovava poteva udire lo scricchiolio del legno provocato da qualcuno che stava scendendo le scale, persona che credeva essere l’ amico. Quanto si sbagliava «senti questa sera avr-» spostò lo sguardo dallo schermo del cellulare solo per un attimo, e quello fu sufficiente per fargli bloccare la crescita «REA MA CHE CAZZO FAI» appoggiata al muro si estendeva Rea Hamilton in tutta la bellezza di lattice, Dio ma dove l’ aveva comprata quella cosa, ma soprattutto, per quale occasione la teneva nell’ armadio? Forse per Halloween si voleva travestire da Rubber Man, quello di American Horror Story. «Amos» non l’ aveva appena sentita miagolare, vero? Scosse la testa, non voleva neanche pensarci. Sorpassò la ragazza piombandosi nel salotto e cercando con gli occhi una coperta, ma poi, chi usava le coperte a luglio? Lanciò un grido frustrato quando, e direi giustamente, non riuscì a trovare niente; non desiderava che nessuno vedesse sua sorella in quei costumi, bondage o non bondage che fosse, remake di cinquanta sfumature o meno, consapevole che comunque l’ avevano fatto molti uomini e donne, non gli interessava cosa facesse dietro le porte di una camera da letto, ma almeno davanti a lui poteva cercare di mantenere un certo livello di decenza. A grandi passi raggiunse le scale dove trovò Rea intenta a squadrare la coperta di luce che teneva tra le mani, e successivamente il materiale che ora, fortunatamente, le copriva il corpo. «Ripeto la domanda, che cazzo stavi facendo di sopra vestita in quel modo?» il ragazzo incrociò le braccia, aspettandosi di sentire una risposta da lei; il fatto che avesse una cosa come sette anni in meno non cambiava meno, rimaneva sempre suo fratello.
    QUEST08 Un solo sogno - ricorrente, meraviglioso, anche se dai più incompreso. Da molti, dai più."
    Cercò di non pensare al fatto che al piano superiore ci fosse Alysioniustralala o che potesse aver incominciato un’ orgia con i fremelli, forse non voleva davvero saperne nulla «ci caschi sempre, Amos. La prossima volta ti vengo a dare la buonanotte così» il corpo di quella che una volta era Rea si trasformò in un Bran tutto sghignazzante, ma non per molto. Quella volta l’ avrebbe strangolato. «Cazzo, Brandon, corri» indietreggiò prima di lanciarsi in avanti nell’ intento di atterrare il ragazzo, peccato che questo fosse già in cima alle scale, poteva persino sentire la sua risata riecheggiare nel corridoio. Lo odiava, non era legale potersi trasformare in fottuti cloni e traumatizzare la gente. I suoi occhi erano rovinati, non avrebbe più potuto guardare il mondo alla stessa maniera. Avrebbe chiesto i danni morali. «Dio, Brodino, ma che hai da urlare?» un giorno il sopracciglio di Stevens si sarebbe staccato dalla fronte, Amos e Stiles la pensavano allo stesso modo, avevano persino fatto una scommessa. L’ Hamilton poggiò le mani sul legno, sollevandosi da terra per fronteggiare il pirocinetico «Bran si diverte a farmi morire, guardati le spalle, potrebbe capitarti di vedere tuo fratello nudo» e con questo sorpassò il moro per andare in cerca di quel bastardo, cazzo, per colpa sua aveva pure un labro spaccato e sanguinante. Non conosceva la direzione presa da Brandon, ma tirò ad indovinare, doveva essere andato a destra. Contro tutte le sue aspettative, continuando ad avanzare, scorse la figura di Rea approcciarlo, e quello significava solo una cosa: ritirata. Fece dietrofront, non potendo sopportare la vista di sua sorella, ogni volta che avrebbe posato lo sguardo su di lei si sarebbe trovato faccia a faccia con l’ immagine che aveva impressa nel cervello, non sarebbe mai stato più in grado di guardarla allo stesso modo. Quindi insomma, ciaone Rea ci si vede un ‘ altra volta. Doveva essere una frase ad effetto, metteteci un tono figo.

    amos ryder hamilton [ sheet ] Had to lose my way to know which road to pave
    [ code by psiche ]


    Edited by - as fuck - 3/10/2017, 17:33
     
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    rea hamilton


    Era raro che qualcuno suonasse il campanello di villa Hamilton. Chi aveva una chiave, non doveva sprecarsi a premere il pulsante; chi non l’aveva, significava che a) non era ben accetto nella loro casa, e valeva per la maggior parte della popolazione; b) entrava scavalcando, come il fratello gemello di Xavier e Jayson.
    Eppure.
    Il suono cristallino riverberò in modo drammatico fra le mura della casa, poco avvezza ad udirne il rumore. Fu così sorprendente che perfino Rea Hamilton, dalla sua camera, ritenne opportuno affacciarsi nell’atrio, ove però non dimorava anima viva. «amos, hai ordinato cibo da asporto?» domandò al nulla, sentendo anche la propria voce infrangersi dal soffitto al pavimento scemando poi in una risposta muta. Una casa sovraffollata, e poi mai nessuno a svolgere i compiti basilare – tipo aprire la dannata porta. Sospirò, prendendo l’elastico stretto al polso per stringersi i capelli in una coda alta, così da fingere con eleganza di poter tollerare l’asfissiante calore di luglio. Sempre impeccabile, Rea Hamilton, che fuori vi fossero quaranta gradi all’ombra, o quindici sotto zero: non una goccia di sudore sul corpo bronzeo, che fasciato nella canottiera scarlatta e un paio di corti pantaloncini, scendeva cauto al piano terra. Come se lei, fra tutti, non avesse abbastanza pensieri per conto suo da doversi pure preoccupare di ospiti sgraditi. Se si fosse trattato di testimoni di Geova, sarebbe stato opportuno che Stevens fosse in casa, perché da lì a due minuti avrebbe avuto del lavoro da fare. Da brava Hamilton che si rispettasse, prima di avvicinarsi alla porta strinse nella mano destra il sottile pugnale che portava sempre con sé: non si trattava di paranoia, quanto di mera sopravvivenza. In quel periodo, essere Rea Hamilton era più complesso del solito; non doveva pensare solamente a sé stessa, cosa che di per sé la lasciava già alquanto interdetta, ma doveva anche assicurarsi che nessuno scoprisse di Charlie.
    Charlie.
    Il che le ricordava la conversazione che continuava a rimandare, attendendo il momento giusto. Per la mora era semplice, se non naturale, calpestare i sentimenti altrui sotto il proprio affilato tacco, premendo con forza sul selciato così da fare più male. Conosceva alla perfezione dove colpire, consapevole di quali fossero i punti vitali, e quali avrebbero solamente causato sofferenza. Non si faceva remore ad utilizzare tali conoscenze, indipendentemente da chi si trovasse di fronte; non esistevano sensi di colpa, nella vita di Rea. E allora perché continuava ad evitare suo fratello? Qual era il peccato più grande di ogni Hamilton? Non la cattiveria, non il sadismo; non toglieva che alcuni fra loro lo fossero, ma non era ciò che, nel bene e nel male, accumunava tutti i membri della famiglia. Opportunismo? Anche, ma di certo non era in quella qualità che peccavano maggiormente, pur essendone fieri sostenitori.
    Egoismo. Era l’egoismo a scorrere nelle loro vene, indipendentemente dal colore delle iridi, o quello dei capelli. Chi fra loro credeva di non esserlo, non aveva semplicemente ancora trovato sé stesso, una causa motivante che li spingesse a prendersi sul serio – vedi Raine, ma ci stava lavorando. Era l’egoismo che l’aveva aiutata a sopravvivere per venticinque anni, ed era grazie all’egoismo se era ciò che era, nel bene e nel male. Se aveva quella casa, se aveva quegli amici, era solamente frutto di un egoismo ben maturato, calibrato in ogni parola sussurrata nel buio, in ogni minaccia ad armi sguainate. Ma qual era il tallone d’Achille di ogni Hamilton? Tutti avevano una debolezza. Qualche folle credeva che quelle debolezze potessero divenire punti di forza senza subire alcun cambiamento, ma Rea sapeva che non era così semplice. Perché un buco nel terreno divenisse una trappola, non bastava volerlo: bisognava coprirlo, bisognava riempirlo di vetri rotti e metallo acuminato. Le debolezze non divenivano forza. Semplicemente, uccidevano il gatto che, spinto da una morbosa curiosità, si era spinto troppo oltre. Non lasciavano sopravvissuti.
    E la debolezza di Rea Hamilton, era la sua famiglia. Quella che avrebbe dovuto, nell’immaginario comune, farla sentire al sicuro. Quella che, in un mondo ideale, l’avrebbe accettata sempre; e quella, che nel suo mondo, non faceva altro che prenderne le distanze. Debole lei, ed ancor più deboli loro: non erano fatti per il suo mondo, loro. Non erano fatti per lei. Ma l’egoismo, e l’orgoglio, erano bocconi difficili ed amari da mandar giù. Non si sarebbe mai abbassata ad un livello che l’avrebbe legittimata come essere umano, dopo tutta la fatica nel crearsi una reputazione da intoccabile. Una volta che si è tenuti la maschera abbastanza a lungo, è impossibile riuscire a rimuoverla. Rea, dal canto suo, neanche ricordava come si facesse. E non voleva saperlo. Tolta quella, non le rimaneva molto altro. Non era molto altro, se non un fragile e vulnerabile umano. Non era fatta per essere parte di qualcosa come il genere umano, Rea Hamilton; non era fatta per abbassarsi al loro livello, un solo misero scalino sopra l’uistitì pigmeo ed il gorilla. Lei era ciò a cui tutti avrebbero dovuto aspirare: non una nuova razza, semplicemente abbastanza superiore da non essere parte della categoria nella quale venivano etichettati i primi. Non migliore, né peggiore, di loro.
    Semplicemente, di più.
    Guardò dallo spioncino, il braccio con il pugnale lungo il proprio fianco, ma non vide nessuno. Avrebbe potuto lasciar perdere, girare sui propri tacchi e tornare a farsi i fatti propri. Non lo fece: e questo, signori miei, dovrebbe rendere abbastanza bene l’idea su quanto fosse surreale che qualcuno suonasse il loro maledetto campanello. Socchiuse l’uscio, lanciando un’occhiata prima a destra e poi a sinistra. Nessun movimento sospetto, nessun -. Corrugò le sopracciglia, abbassando di molto il proprio sguardo. Sul loro zerbino (che recitava un monotono welcome malgrado qualcuno avesse suggerito di mettere attenti, morde – e non parlo del cane), stava ritto in piedi, con regale orgoglio, un… «bambino?» quella sì che era una novità. Avanzò di un passo all’esterno, chinandosi poi per avere gli occhi alla stessa altezza del fanciullo. C’era qualcosa di vagamente familiare, negli occhi verdi e nei fini tratti del volto, che le impedirono di prenderlo amorevolmente in braccio per portarlo nuovamente fuori dal cancello, chiamando magari la protezione animali perché andassero a riprenderselo. C’era qualcosa di sbagliato, che immancabilmente la turbava.
    Forse perché le ricordava Amos. O forse perché le ricordava Gemes, ma non era così avanti nella vita da porsi simili quesiti. «ti sei perso?» domandò, facendo sparire il pugnale da dove l’aveva preso, senza farsi notare. Vi chiedete dove? La mia risposta è: quando lo scoprirete, significa che per voi sarà troppo tardi. Il bambino si guardò attorno, facendo un secco cenno di no con il capo. Il sopracciglio di Rea scattò verso l’alto, mentre si rialzava in piedi. Non era la persona adatta per gestire quella situazione; doveva trovare qualche anima senza scopo nella vita, come Brandon e Al, ai quali affidare a) la distribuzione di volantini su bambini scomparsi b) contattare le autorità del caso per vedere se qualcuno ne avesse denunciato lo smarrimento. Come un bagaglio, sì. Gli porse la mano, indicando con un cenno l’interno della villa. «entriamo» disse sbrigativa, ma con la nota gentile che usava con Giuliano quando tentava di aizzarlo contro il cane demente di Bran. Mentre lo guidava, stringendo la piccola man o, dentro casa, con un’occhiata minuziosa si assicurò che non avesse legata in vita alcuna bomba. Sapete cosa sarebbe stata utile in quel momento? Non pensava l’avrebbe mai detto, o pensato, ma aveva bisogno di un mimetico di fiducia; sfortunatamente ne conosceva solo una, la quale non solo al momento era dispersa, ma era una Crane. Potere comodo, presenza scomoda. Com’era possibile che una sola, esigua, sparizione, causasse un tale quantitativo di disagi? Perché sì, Rea aveva timore che si trattasse di un altro decerebrato come Brandon Lowell, se non il metamorfo stesso. Se quel bambino fosse stato Brandon, non ci sarebbe stato Nathaniel (o Eugene; erano arrivati strani DVD dal contenuto altamente ambiguo, che Rea ovviamente aveva visto dal primo all’ultimo, dove pareva esserci un feeling speciale fra il castafratto e il Lowell psycho) a reggere, Rea l’avrebbe ucciso. Sul serio, e senza alcun rimpianto. «sai parlare?» domandò, al biondino, cercando i vispi occhietti verdi. Lui annuì, le labbra imbronciate, ma non proferì parola. Le piaceva già. Si strinse nelle spalle, percorrendo il corridoio per arrivare alla cucina. L’avrebbe smollato lì, magari con qualche oggetto da distruggere (ai bambini piaceva distruggere le cose, giusto?) mentre lei cercava qualcuno a cui scaricare il barile.
    Un rumore nel corridoio adiacente (#quale) la indusse a tirare il bambino verso di sé, giusto in tempo perché un sogghignante Bran- cielo. Girò velocemente il ragazzino verso di lei, così che non potesse vedere qualunque cosa indossasse il Lowell, pregando mentalmente Morgan di aiutarla in quell’arduo compito che era essere meravigliosi fra tutta quella plebe. «non parlare con nessuno, non guardare nessuno, e se senti il bisogno di mordere qualcuno, non fare complimenti: fallo» Il sorriso con il quale concluse la frase, fu sincero e quasi affettuoso, accompagnato da una delicata carezza sulle guanciotte paffute. Incomprensibilmente, almeno per Rea, fu che il bambino ricambiò il sorriso, annuendo alle sue parole. «bravo ragazzo» si alzò in piedi, lasciando una mano a sollevare dolcemente i fini capelli biondi. C’era qualcosa di stranamente confortante in quel mini umano. Le ricordava anni diversi, una vita diversa, ed un bambino non poi troppo differente ad osservarla nascosto dietro la gonna della madre.
    Solitamente Rea Hamilton non credeva nei segni del destino, fiera sostenitrice dell’ognuno scrive la propria storia; la comparsa di un bambino, però, così simile a suo fratello, era qualcosa che travalicava le semplice coincidenze. Di lì a poco Charlotte avrebbe potuto trasferirsi in America, Rea non poteva posticipare oltre. Sospirò, un’occhiata vacua rivolta alla cucina deserta. Il suono delle suole che frenavano contro il pavimento, la indusse ad alzare lo sguardo giusto in tempo per vedere Amos Hamilton eseguire un notevole panic moonwalk. A quanto pare non era l’unica a cercare di evitarlo. Che piacere. Ignorando la flebile fitta di disappunto, Rea espirò sonoramente. «amos» lo richiamò all’attenzione, semplice e diretta, come piaceva a lei; un tantino annoiata, se vogliamo scendere nello specifico. Esasperata, forse, il termine più adatto. Gli fece un cenno con il capo, invitandolo a seguirla in cucina. «prima che tu possa dire qualcosa di stupido» chiarì, guardandolo di sottecchi da sopra la spalla. «non ho rapito nessun bambino, e no, non è figlio mio e di Gemes» non sapeva come fosse successo, ma metà della casa (suo fratello incluso) era convinto che lei e l’altro Hamilton intrattenessero rapporti sessuali, e di natura perversa per di più. Non che potesse biasimarli: la maggior parte degli abitanti della villa (aka tutti) erano decisamente meno interessanti rispetto ai due Hamilton, e immaginare atteggiamenti intimi fra loro doveva essere più… stimolante , rispetto alla propria sessualità. Terribilmente inquietante, ma aveva consapevolmente accettato il rischio accogliendo sotto il proprio tetto vagabondi e casi sociali. «dobbiamo parlare» concluse senza guardare Amos, aiutando il bambino (non Amos #ihihi) a sedersi su uno sgabello presso l’isola della cucina. «e dobbiamo trovare una soluzione a questo problema» passò l’indice sul naso del mini umano, alzando poi le sopracciglia verso il fratello. Quello, d’altronde, non faceva parte nelle di competenza di Rea.
    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code by ms. atelophobia
     
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    Fategli causa, se l’ unica cosa che desiderava nella vita era stare più lontano da sua sorella possibile. Provare un sincero timore verso la propria famiglia, non era un sentimento nuovo per l’ Hamilton, solo non pensava l’ avrebbe rivissuto all’ interno di quelle mura. Che vita di merda, ne? Se non era sicuro sarebbe arrivato alla sera, gli sarebbe bastato aspettare un paio di settimane per arrivare a domandarsi se sarebbe sopravvissuto metà giornata. Gli bastò scorgere i lunghi capelli mori di Rea, per mettere in atto un improvvisato panic moonwalk, sperando di non far alcun rumore e di riuscire a strisciare nella stanza più vicina. Almeno lì, avrebbe potuto aspettare che l’ uragano Rea passasse, il suo piccolo rifugio personale per sfuggire a quello che sarebbe stato un incontro spiacevole.
    Erano arrivati davvero a quel punto? Se un tempo aveva pensato che ci fosse qualcosa da salvare in lei, la piega gentile del suo sorriso era mutata in uno sguardo distante, deluso da quello che aveva davanti: una donna che non dava retta a nessuno, che avrebbe finito per bruciare se stessa e quello che la circondava. E Amos non sarebbe stato lì. «Amos» ma stiamo scherzando. Il fotocineta alzò lo sguardo con cautela, quasi si aspettasse che gli saltasse addosso per sbranarlo come una bestia selvatica. «Rea» il suo nome scivolò dalla sua bocca quasi come se fosse veleno, sbagliato anche solo a pronunciarlo ad alta voce. Solo in secondo momento, i suoi occhi scivolarono in basso, dove accanto alla sorella spuntava la testolina bionda di – di un bambino? Corrugò le sopracciglia, lo zoom strategico e le formule matematiche ad apparire ai lati della testa per enfatizzare la confusione. Morgan, quello era suo nipote? Ma chi era il folle che aveva messo Rea incinta? Forse non lo sapeva, che mordeva. «Prima che tu possa dire qualcosa di stupido» «infatti lo sto pensando» gli scappò prima che potesse intimarsi di stare zitto, l' ennesima occasione per dimostrare la sua furbizia buttata «non ho rapito nessun bambino, e no, non è figlio mio e di Gemes ah no? Inarcò entrambe le sopracciglia, guardando quel bambino dall' altro in basso per studiarne i tratti: erano differenti da quelli della sorella, di Lynch o Amos, fattezze che non sembravano appartenere a nessuno. «Non vi ci assomiglia, per adesso penso che tu l'abbia rapito» e fategli causa, era una cosa che accadeva quotidianamente con Rea Hamilton. Perché avrebbero dovuto rapire un bambino? Soldi, solitudine, qualche perversa voglia. Non aveva idea di come gli esseri umani potessero sopportarne altri in miniatura, come Rea potesse farlo. «Dobbiamo parlare» il ragazzo poteva sentire il sudore freddo iniziare ad imperlargli la fronte, l' attesa di vedere di cosa volesse parlare ad attanagliargli lo stomaco. Di solito, non erano mai buone notizie. «Del bambino?» bambino di cui non aveva ancora capito la provenienza, tra parentesi. La Hamilton aveva portato a casa animali morti, sangue di uomini il cui corpo era ormai freddo, ma non un infante - a meno che non dovesse rivenderlo alla Yakuza. Ricevette un segno di assenso dalla wizard «e dobbiamo trovare una soluzione a questo problema» perché, sarebbe dovuto essere un loro problema? Era lei la padrona della casa, lui solo una semplice domestica. «Hai controllato che non abbia un medaglione come i cani?» gli Hamilton avevano un’ evidente problema con gli esseri umani normali, figurarsi quando si trattava di bambini. Non sapevano che farci, come parlaci e se fossero trattati come cani – loro lo erano stati, ma non avevano idea che il resto del mondo non fosse come i loro genitori. «Secondo te?» le sopracciglia inarcate della mora, insieme a quello sguardo rassegnato, gli fecero desiderare di potersi scavare una fossa. Quello era il momento dove si rendeva conto di quanto lo considerasse stupido, e di come il suo tempo fosse sprecato a cercare di riunire quella famiglia spezzata che erano gli Hamilton. «Almeno non l’ hai sgozzato» e nonostante il debole sorriso del biondo, la sua non era una battuta. Era strano che Cash fosse seduto su quella sedia, e non fuori dalla porta a vagare in mezzo alla strada; non aveva una stima alta della sorella, forse non l’ avrebbe mai avuta, non si poteva dire che Rea avesse provato a fare qualcosa per rimediarci. «Questo discorso può aspettare, il cane ha bisogno di riposarsi» si avvicinò alla sorella stando attento a passare dall’ altra parte del tavolo, per prendere esitatemene il biondo tra le braccia. Gesù, che senso che gli faceva. «So che te ne vuoi liberare, ma non è questo il momento» e non l’ aveva detto solo per sottrarsi a un’ ipotetica conversazione con lei, figurarsi «lo guardo io finché non sai cosa farne» ne approfittò per scappare al piano di sopra, abbandonando la Hamilton prima che gli potesse rispondere. Ah, se solo avesse saputo che non avrebbero mai trovato i genitori di quel biondo, non se ne sarebbe fatto carico.
    Ma chi vogliamo prendere in giro: erano così meant to be.

    Neanche lui avrebbe saputo dire cos’era cambiato in quel capannone, ma qualcosa doveva essere successo. Forse perché era stato più vicino alla morte di quanto gli sarebbe piaciuto, perché Rea e Run l’ avevano vista con i propri occhi.
    Sapete, non pensava sarebbe davvero tornato a casa.
    Non senza Rea, o Run, Al, Jay.
    Come poteva pensare di ritornare alla vita che una volta aveva condotto, con il costante ricordo che non sarebbe stato affatto come prima, non senza Aloysius a sfidarlo con una spada di luce o Run a spettinagli affettuosamente i capelli.
    Qualcosa era cambiato, forse era lui stesso. Non era più l’ Amos che scappava da davanti sua sorella, quella che era sempre stata il cattivo della storia. Perché, alla fine, non lo era stata nella sua. Perché, tra quelle braccia era tornato a casa, una che pensava di aver perduto tempo prima.
    Pensava che non la vedesse quando si affacciava alla porta della sua stanza, convinta che l’ Hamilton stesse dormendo. O quando le serviva la colazione e lei si mordeva le labbra per impedire a quel grazie di uscire, come se ce ne fosse stato davvero bisogno: a quel punto Amos non si aspettava nulla, gli bastava non averla persa sotto un cumulo di macerie.
    Forse era proprio quella specie di vicinanza (lui la vedeva come tale) che credeva si fosse andata a creare, che quella sera di maggio lo spinse a cercare la mora. Cose che, normalmente, non avrebbe mai fatto. Il loro rapporto poteva essere leggermente cambiato in direzione di qualcosa di più civile, non basato sulla sola paura, ma non aveva ancora trovato di coraggio di discutere di cose che necessitavano chiarimenti. E poi Run faceva pressure, doveva aggiornarla.
    Bussò alla porta della sua stanza, un santuario che sapeva non avrebbe mai dovuto aprire. Ma cosa stava facendo? Si costrinse a mantenere la mano sulla maniglia, orecchi allungate in attesa di una risposta. «Sono Amos. Dobbiamo parlare» molto greve, come non era mi se non con Rea. Se una volta lo faceva apposta, ultimamente si era ripromesso di smettere, che era sua sorella e non avrebbe dovuto temerla. In fondo erano una famiglia, perché non iniziare a dimostrarlo? Quando gli diede il permesso di entrare, lasciò che un piccolo sorriso curvò le sue labbra - un modo per capirle capire che era felice di vederla, anche se non sembrava. «Quindi com'è andato il lavoro?» strano a dirsi, ma era davvero interessato al suo lavoro, non era certo perché stesse cercando di fare conversazione. Ormai aveva sentito parlare così tanto dei Cacciatori che si era appassionato alle loro vicende #wat. «Fortunatamente non voglio parlare solo di Palmer. Dimmi, Rea, c'è qualcosa che vorresti condividere con tuo fratello?» fece un passo avanti, e poi un altro, se Rea avesse prestato abbastanza attenzione, avrebbe potuto notare l'ombra di un sorriso molesto. I primi segni di essere uno psycho!shipper, ma questo non poteva saperlo. «Tipo, perché mi fai stirare camicie che non sono palesemente di nessuno? Nessuno della villa, almeno» si fermò a pochi passi dalla Hamilton, non voleva farla sentire come in trappola «sono solo curioso, non vorrei farmi gli affari tuoi» si grattò la nuca, un segno di nervosismo che sperava non avrebbe colto. Peccato lei notasse sempre tutto. «Se vuoi possiamo parlare di altro o-» o potrei andarmene, se ti sto dando fastidio. Non sapeva come muoversi. Voleva solo avere un rapporto normale con la sorella, quello era il primo passo. Si zittì prima che potesse imbarazzarsi ulteriormente «niente» ora toccava a Rea, sperava non l'avrebbe cacciato via, non quando Amos aveva finalmente trovato le palle di fare qualcosa di buono.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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    death eater. special: rea hamilton
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    07.05.2017 | the illusionist | 1990's | slyth| life ruiner
    Non era mai stata un amante dell’aria aperta, o dell’insulso perdere tempo (perlomeno, del mostrarsi sfaccendata). Era assai raro vedere Rea Hamilton senza nulla da fare: pareva sempre, anche quando in realtà non era vero, impegnata in qualche losca attività – ed il sorriso lieve che le curvava le labbra qualora incontrava lo sguardo altrui, non faceva che rinforzare l’idea. Era l’incarnazione stessa della donna ambiziosa, ad inseguire obiettivi invisibili agli occhi di chi, inetto, non riusciva a vedere il disegno completo: sempre un passo avanti, la Hamilton, anche quando non faceva nulla più che rimanere ferma. Spesso si perdeva in lunghe passeggiate riflessive, il rumore dei tacchi sul cemento londinese ad echeggiare ad ogni passo. Talvolta preferiva la moto, viaggi privi di meta che la portavano ovunque ed in nessun posto. Non diceva a nessuno dove andasse, o perché lo facesse; se qualcuno osava domandarglielo, replicava inarcando cinicamente un sopracciglio, lasciando che la risposta giungesse chiara al proprio interlocutore senza doverla esplicitare: not your fucking business. Perché, a conti fatti, era la verità: erano anni che non doveva rendere conto a nessuno di quello che faceva, quando lo faceva, o come lo faceva – era tutta una vita.
    E quel giorno, un tiepido pomeriggio qualunque di inizio maggio, non faceva eccezione. Camminava fra le grigie strade della City con il passo deciso di chi, consapevole di essere in ritardo, decideva comunque di non affrettarsi – che se la sudassero, la Hamilton. Non che avesse davvero qualcosa da fare, figurarsi, o che qualcuno la stesse aspettando: era semplicemente così che affrontava il mondo, lei. Come se ci fosse stato sempre qualcosa ad attenderla, e qualcuno per cui essere in ritardo. Pantaloni neri, scarpe nere, canottiera nera - outfit standard, indipendentemente da quanto al sole volesse morire: lo stile non aveva clima, e la Hamilton aveva una certa reputazione da mantenere. Rivolse un penoso pensiero alla gioventù moderna quando un ragazzotto, avrà avuto sedici anni ad essere ottimisti, le passò a fianco con gli occhi fissi sullo smartphone, le sopracciglia scure corrugate. Forse aiutava il fatto che fosse una strega, o forse era semplicemente di una razza superiore, ma tali marchingegni babbani continuavano a turbarla ed irritarla: sì, aveva un cellulare come tutti, ma perlopiù lo teneva in modalità aereo, così che fosse irraggiungibile a chiunque. Quando si sprecava ad usarlo, era solamente per criticare gli altri con cipiglio severo e poco lusinghiero, in modo da notare quanto migliore ella fosse rispetto a loro.
    A ciascuno i propri hobby.
    Aveva fatto sì e no un paio di metri, quando lo stesso ragazzo le passò affianco – nuovamente, ma nella direzione apposta. A trottare al suo fianco, un cucciolo di pastore tedesco continuava ad inciampare nelle sue stesse zampe: come facessero le persone a trovare i cuccioli adorabili, era per Rea un mistero. Li trovava solo stupidi – come i bambini, ed il restante 99% della popolazione mondiale. Nulla di personale. Non li avrebbe certo degnati di una seconda occhiata, se per la terza volta il giovane non avesse cambiato direzione, bloccandosi così improvvisamente di fronte a lei, da interromperla a metà passo. La pazienza di Rea Hamilton, aveva un limite così sottile, che pareva quasi inesistente, quindi fu prevedibile il: «qual è il tuo problema?» che ringhiò a denti stretti al ragazzo, un’occhiata cocente ad inchiodarlo al marciapiede. Ovviamente, per la Hamilton, quella era una domanda retorica – si riferiva chiaramente alle turbe mentali delle quali doveva essere affetto. Lui, invece, parve prenderla sul serio. Sollevò gli occhi scuri su di lei, quindi li fece nuovamente guizzare sullo schermo del telefonino. «scusami, io- gmaps» «cosa?» «l’app delle mappe?» Era una domanda? Inarcò le sopracciglia, le braccia incrociate sul petto. «grazie tante, so cos’è gmaps.» specificò, arcuando un sopracciglio. Se fosse stata la Hamilton di sei mesi prima, gli avrebbe volentieri esplicato che il suo cosa si riferiva al stai davvero parlando con me dei tuoi drammi? Non vedi quanto poco mi interessa? per poi passare al più pragmatico toglierlo di mezzo, con metodi drastici o meno. Ma non la era, Rea. Poteva fingere quanto voleva, ma non la era. Si umettò le labbra e, senza troppi preamboli, strappò il telefono dalle mani del ragazzo, tenendolo appena con la punta della dita. «mi sono perso» Ma non mi dire, non l’avrei mai detto. Doveva averla trovata in una giornata particolarmente buona, perché non osservò neanche quanto quell’osservazione fosse stupida e superflua. «per arrivare in farmacia, devi prendere la seconda strada alla tua destra, e poi svoltare a sinistra» spiegò, più paziente di quanto mai si fosse mostrata in ventisei anni di vita. Lui osservò un punto in lontananza con equazioni e formule per trovare il perimetro di un trapezio a veleggiare di fronte al viso, annuendo poi greve al nulla. «ti vedo un po’ pallido.» non sapeva perché l’avesse detto, e lo rimpianse un secondo dopo che l’ebbe fatto. Però, per il signore, era vero: probabilmente non sarebbe mai arrivato a compiere vent’anni. Anzi, v’era una non trascurabile probabilità che nei giorni a seguire avrebbe visto affisso il suo manifesto funebre. Quanti sconosciuti che s’incontravano per strada rischiavano di morire a breve, rimanendo solamente brevi anonimi fantasmi nella propria vita. Voleva dare un nome, la Hamilton, a quel cagionevole fanciullo, così avrebbe potuto ricordarlo con un sospiro afflitto in un emblematico “Lo sapevo” che avrebbe sussurrato a sé stessa. Poggiò il gomito sulla mano sinistra, chiudendo il pugno della destra sotto al mento. «pura curiosità accademica: tu sei...» «confuso.»
    L’aveva detto sul serio. Lo osservò senza battere ciglio, inspirando lentamente dalle narici. «vattene.» coincisa e diretta, la Hamilton non lasciava mai spazio a compromessi: non si trattava di ordini, sarebbe stato esuberante crederlo, quanto consigli che avrebbero preso una piega non particolarmente positiva, nel caso in cui non fossero stati seguiti. Categorica. Rimase immobile mentre lui la circumnavigava per seguire la strada che gli aveva indicato, il prezioso telefono di nuovo fra le mani, sussurrando ringraziamenti e saluti ai quali non si sprecò a rispondere. Quando fu certa che non sarebbe tornata a cercarlo per ucciderlo con le proprie mani, ricominciò a camminare.
    E lo sentì. Le, sentì. Corrugò le sopracciglia, volgendo un’occhiata da sopra la spalla alla strada dietro di sé. Non ci poteva credere. «ehi, ragazzino…» ma quello era già sparito. Incrociò gli occhi nocciola del cucciolo, la lingua a penzoloni e la coda a saettare felice spolverando il marciapiede di Londra. Perché erano sempre così felici di esistere, i cani? Non si rendevano conto di quanto la vita fosse ingiusta e crudele, di quanto gli umani fossero creature abiette che meritavano solamente dolore e sofferenza, e che dell’amore non s’erano guadagnati neanche un centimetro d’unghia? Si strinse nelle spalle, decidendo che il Morente avrebbe ritrovato la sua bestiola ancora seduta lì ad aspettarlo.
    Non era un problema suo.
    Continuò a camminare, seguita a poca distanza dalle corte zampette del pastore tedesco. «non mi seguire.» gli intimò, puntando l’indice contro di lui. Perché tutte le bestie in cerca d’affetto si intestardivano con lei? Amos, Elijah – non la avevano, una vita? Riprese a camminare, ed ancora il cane la seguì.
    Allora si accucciò, Rea Hamilton, puntando gli occhi scuri in quelli del cucciolo. Lo guardò seria, le labbra strette in una linea sottile. «ti ho det-» la lingua rosa del cane guizzò rapida a lapparle la faccia, quindi il Coso le spinse il muso contro il ginocchio, per poi rotolarsi sul marciapiede mostrando vulnerabile la pancia al cielo.
    Bene, Rea aveva chiarito il suo ruolo predominante. Coso si stava sottomettendo all’alfa del branco, e per quello non potè che apprezzarlo. Non che le facesse tenerezza, o fosse adorabile - figurarsi. Si guardò attorno circospetta, le mani poggiate sulle ginocchia e la guancia a sfregare contro la spalla per liberarsi della saliva animale. «ora mi piaci,» e come ogni cosa che le piacesse: «quindi sei mio.»

    Erano passati pochi giorni da quando Nein era entrato a far parte della sua vita, ed i sogni di gloria di Rea riguardo ad un futuro cane da guardia dal cuore malvagio e freddo come l’inverno, erano andati sfumando come un sogno ad occhi aperti: si vendeva come la peggior prostituta di quartiere, quel cucciolo. Aveva una scorta d’amore infinita. Rea lo tollerava solamente perché la sua preferita, restava sempre lei.
    Apprezzava chiunque avesse le giuste priorità.
    «morto.» sillabò lentamente, così che Nein potesse cogliere il suono della parola – se voleva vivere con lei, in ogni caso, avrebbe dovuto cominciare ad abituarcisi. Alzò un dito e rapida lo fece scattare verso il pavimento, osservando il cucciolo che ivi era seduto. «fai il morto.» Nein, continuando a scodinzolare come se quello fosse un gioco, si limitò a piegare il testolino osservandola felice. «forse dovresti iniziare da qualcosa di più» «nessuno ha chiesto la tua opinione.» «semplice?» La Hamilton ruotò i seccati occhi scuri su Elijah Dallaire, sprizzando disappunto ed indignazione da ogni poro. «non sei il più adatto a discutere se morto sia un ordine difficile o meno.» un mezzo sorriso sardonico le curvò le labbra, le sopracciglia allusivamente arcuate. Avrebbe mai smesso di rinfacciarglielo? Certo che no. Covava ancora il sogno proibito di ficcare nella testa vuota del Grifondoro il basilare concetto che morire non fosse normale, e che fosse preferibile evitarlo: di conseguenza, coglieva ogni occasione per ricordarglielo. «ma perché “morto”?» Rea si strinse nelle spalle, rotolando supina per intrecciare le dita sullo stomaco. Con la testa reclinata fuori dal materasso, osservò il cane e Nein (ihih) seduti per terra. Ad osservarli da vicino, avevano più cose in comune di quanto un animale ed una persona dovessero avere, a partire dal fervente sguardo adorante, per arrivare al fatto che fosse diretto a lei. Riusciva sempre a metterla a disagio, quel tipo d’occhiata – perché non aveva mai fatto nulla per meritarsela, Rea. «perché, al contrario di qui la zampa, bello! può effettivamente rivelarsi utile.» ovviamente, non appena la Hamilton lo disse, Nein pensò bene di alzare una zampetta e picchiettargliela sulla fronte, scodinzolando felicemente di quel suo obiettivo raggiunto. La Hamilton chiuse gli occhi. «vi odio.» perché non era certo stata lei, ad insegnarglielo. Nathaniel Henderson era penoso con gli esseri umani, ma santo cielo, con i cani era un mostro: se avesse detto a Nein di andare sulla luna, probabilmente lui l’avrebbe fatto. Ne sarebbe stata gelosa se solo non avesse avuto la certezza, uggiolante fuori dalla porta ogni notte, che lui amasse comunque più lei.
    Mi rendo conto di quanto possa essere fraintendibile, quindi lo specifico: parlavo di Nein.
    Però, a dire il vero, se si sostituisce Elijah all’intera sentenza, sarebbe comunque quasi valido – interpretazione sui tipi d’affetto, ma insomma.
    «aw» Che poi, parliamoci chiaro. Perché Elijah era lì? Risposta scioccante: non lo sapeva. L’aveva invitato lei? Era passato a portarle la colazione? Non se n’era mai andato?!?! Impossibile. Doveva esserci una motivazione, uno scopo: che senso aveva, altrimenti? «da quant’è che sei qui?» domandò, poggiando la testa sul materasso, un espressione corrucciata e dubbiosa in volto. Non che avesse realmente perso il senso del tempo, Rea Hamilton: si rese conto, in un confuso e triste battito di ciglia, che era così avvezza ormai all’averlo intorno, da non farci più caso. Ma non era normale, capite? Non era normale per Rea, non era normale nella vita di Rea. Neanche la propria famiglia faceva eccezione: era una compagnia a scadenza, la Hamilton. Si ricaricava solo a fine mese. «un po’?» Lo stava chiedendo a lei? Perché una risposta, Rea, la aveva: «troppo.» ribattè, volgendo il capo verso Elijah. Non comprendeva quanto quello di quel turbamento fosse dovuto ad una mera questione di principio, e quanto al sincero non tollerarne più la sua presenza nella stessa stanza – casa, vita. Non voleva neanche porsela quella domanda, Rea Hamilton, felice che era nella sua ignoranza. «stasera non devi andare dalla tua ragazza?» Inutile specificare il soggetto, quando chiunque sapeva di chi si trattasse. Di fatti, con una botta di spirito del quale raramente lo credeva capace, Elijah corrugò le sopracciglia e fece spallucce.
    Come chiaroveggente, faceva davvero pena.
    Avrebbe dovuto capirlo il giorno che era morto.
    Sospirò, sbattendo lentamente le ciglia mentre tornava a guardare il soffitto. «era una domanda retorica.» odiava quando doveva specificare ogni cosa, ed il proprio interlocutore non coglieva l’antifona. «ed un modo gentile per invitarti ad andartene.» inarcò un sopracciglio, il naso arricciato in una smorfia di sincero disappunto. Aveva sempre posseduto una diplomazia non da poco, Rea, ma la parola gentile raramente si trovava nella stessa frase dov’ella era il soggetto principale. «vuoi che me ne vada?» Era forse diventato sordo? Non è quello che ho detto. Lo odiava per avere quell’innata capacità di fare le domande giuste al momento sbagliato. Lo odiava perché, come sempre, la metteva nella posizione di dover scegliere per entrambi – e con quella responsabilità fra le mani, sarebbe sempre stato un no per la Hamilton. Inspirò dalle narici, gli occhi chiusi ed un principio di emicrania a pulsarle dietro gli occhi. «ti ho forse dato modo di pensare il contrario?» ribattè invece, densa d’ironia, lasciando che l’angolo destro delle labbra si curvasse in un sorriso malevolo. Sapeva che, se avesse aperto gli occhi, avrebbe incontrato la solita pacata e triste rassegnazione: non si era mai mostrata per qualcuno che non era, Rea Hamilton. Se si aspettava, se si aspettavano, altro da lei, non erano che degli sciocchi. Rimasti impigliati in una tela d’illusioni che non aveva tessuto la Hamilton, ma ch’era comunque fatta della sua forma.
    Un abito su misura ricamato su di lei, ma non per lei.
    Non era un problema suo. «chiudi la porta, quando esci.» un vago cenno distratto con la mano, le dita nuovamente intrecciate sullo stomaco. Non aprì gli occhi quando lo sentì alzarsi, né di certo si sprecò a ricambiare il saluto. Rimase coricata nella stessa identica posizione per quelli che avrebbero potuto essere minuti quanto ore, ore quanto giorni. Per una volta, una volta, si concesse di non pensare assolutamente a nulla. Accantonò ogni problema, ogni rimorso a pungerle la gola, ogni rammarico a stritolarle lo stomaco. In un lontano cassetto della memoria relegò tutte le questioni che la tenevano sveglia la notte, costringendosi semplicemente a respirare.
    Ci mise qualche secondo a rendersi conto che qualcuno aveva bussato alla sua porta. La sua: solamente una persona, dentro quella casa, poteva permettersi di farlo - o si sprecava di farlo, dato che oramai la privacy sembrava un lusso del quale non era più privilegiata. «mh?» Rotolò sul letto per mettersi prona, il mento raccolto fra i palmi. «Sono Amos. Dobbiamo parlare» Dovevano… parlare? Suo fratello voleva parlarle? L’aveva evitata per più di un anno (non che la Hamilton gli avesse dato motivo di credere non ce ne fosse alcun bisogno), e ora voleva… parlare? Fu così inaspettato che subito non rispose, gli occhi spalancati a fissare l’uscio della sua camera. Parlare! Di sicuro non una delle attività in cui Rea eccelleva, anzi - con suo fratello, poi. Non aveva mai saputo come approcciarsi, con lui. Qualunque cosa Rea avesse mai detto, fatto, o provato, era stata interpretata nel modo sbagliato, da Amos.
    Non sapeva neanche Rea quale fosse quello giusto.
    Si drizzò a sedere sul bordo del letto, la testa reclinata da un lato. «dobbiamo parlare?» replicò con un interrogativo – ed Amos sapeva che di più, dalla sorella, non avrebbe avuto come invito a farsi avanti. Quando entrò, le rivolse il più debole dei sorrisi.
    Che dopo anni, dopo sempre, riusciva ancora a ricordarle la mano paffuta del neonato a stringerle il dito, le promesse sussurrate fra i fini capelli dorati. Non ricambiò il sorriso di Amos, ma non lo squadrò neanche con la consueta arroganza: si limitò ad osservarlo, Rea, senza celare la propria curiosità. Voleva qualcosa da lei? Adottare un altro bambino? Confessarle che era l’amante di Al? Non poteva credere, non poteva credere, che volesse solamente fare conversazione. «Quindi com'è andato il lavoro?» Il … lavoro. Intendeva sopravvivere, o quello al Ministero? Perché fra i due, non avrebbe mai catalogato il secondo come lavoro: era più un passatempo. Abbassò lo sguardo e sorrise al pavimento, quindi lanciò un’occhiata di sottecchi a suo fratello. «ho fatto un salto stamattina per vedere come se la cavavano, ma oggi …ero di riposo.» come ieri, come il giorno prima ancora, e presumibilmente come domani. Si strinse nelle spalle, le sopracciglia arcuate. «non è più lo stesso, senza harrison.» difficile da ammettere, ma pur sempre la verità. Dubitava sinceramente che Amos fosse interessato alle vicende dei Cacciatori, specialmente quando avrebbe potuto tranquillamente importunare Run che, senz’altro, gli avrebbe fatto un resoconto entusiasta e dettagliato su tutto ciò che Rea neanche si sprecava a guardare. Il perché fosse così interessata alla vita sessuale di Chuck, fra l’altro, sarebbe sempre stato un mistero, per la Hamilton.
    Ma preferiva così.
    «Fortunatamente non voglio parlare solo di Palmer. Dimmi, Rea, c'è qualcosa che vorresti condividere con tuo fratello?» Sentiva aria di trappola. Un campanello d’allarme, neanche troppo sottile, le fece drizzare la schiena, le dita a lisciare le pieghe (invisibili) delle lenzuola. Aveva una vaga sensazione di dove potesse voler andare a parare, ma sicuro come l’oro non gli avrebbe dato la soddisfazione di servirglielo su un piatto d’argento. Evitò lo sguardo di Amos focalizzando l’attenzione sulle proprie mani, le labbra strette in una linea annoiata. Dissimulare era o non era l’arte nel quale era maestra indiscussa? «Tipo, perché mi fai stirare camicie che non sono palesemente di nessuno? Nessuno della villa, almeno» L’aveva visto arrivare, ma non era pronta in ogni caso. Quando mai lo sarebbe stata? Inspirò, espirò lentamente.
    Sarebbe arrivato, prima o poi, quel giorno. Si umettò le labbra, alzando gli occhi su suo fratello. «sono solo curioso, non vorrei farmi gli affari tuoi. Se vuoi possiamo parlare di altro o…niente» Il freddo distacco degli occhi della Hamilton andò sciogliendosi come neve al sole, nell’incontrare le iridi chiare di suo fratello. Una parte di lei avrebbe voluto liquidarlo con un cocciuto silenzio finch’egli non avesse colto il sottinteso, così da chiudere l’argomento prima ancora di iniziarlo.
    Ma l’altra. Lo osservò, Rea. Ricordava perfettamente cosa significasse non averlo al proprio fianco ogni giorno. Ricordava quanto avesse dato per scontato la sua presenza, e quanto la sua assenza fosse stata un ripetuto pugno alla bocca dello stomaco. Non voleva perderlo di nuovo. Se l’avesse mandato via, lo sapeva, sarebbero tornati al punto di partenza.
    Niente.
    E per Amos Hamilton, in realtà, sarebbe stato meglio così: non aveva davvero bisogno di sua sorella – poteva ancora, Amos, costruirsi una vita libera dalla sua pessima influenza. Ma lei? Si mordicchiò l’interno della guancia, picchiettando poi il materasso al proprio fianco. «non mordo.» specificò, con un sorriso ironico e triste. Aveva sempre voluto proteggerlo, sapete – e credeva di averlo fatto, finchè non aveva compreso che l’unica cosa dal quale Amos voleva essere protetto, era Rea. Lo terrorizzava.
    Non aveva voluto quello, la cacciatrice. O forse sì? «non ti mentirò, amos.» iniziò seria, umettandosi il labbro inferiore.
    Dillo, Rea. Andiamo, è tuo fratello, sangue del tuo sangue. Prima o poi, Rea, avrebbe dovuto affrontare l’enorme, infinito elefante nella stanza – fra tutti, Amos sarebbe stato l’unico che non l’avrebbe giudicata.
    Dillo.
    «contrabbando camicie da uomo.»
    Beh.
    Insomma. Si schiarì la voce, un fluido movimento della mano a spostare i lunghi capelli castani dietro le spalle. Il nervosismo era una sensazione del tutto nuova, alla Hamilton: come faceva la gente, buon Dio, a conviverci tutti i giorni? «regalo vestiti ai poveri?» ancora meno credibile. Tentò perfino un sorriso, le sopracciglia arcuate a cercare di convincere Amos delle sue filantrope posizioni: andiamo, era o non era adorabile?
    Sì, lo era. Ma comunque, non credibile.
    Allora il sorriso andò scemando sulle labbra, lasciando un espressione seria ed antica a pesarle nella forma della bocca, nelle iridi di caldo fondente. Non era un ambito di sua competenza, quello. Non era avvezza a quel… quelle emozioni, quella palese umanità che così poco le si addiceva.
    Incredibile che, per una volta, fosse lui, l’esperto. «non lo so?» ammise infine, così a bassa voce che a malapena riuscì a sentirsi.
    Debole. Vulnerabile. La voce si indurì, le spalle nuovamente contratte – e gli occhi chiusi, a celare quella lacuna d’incertezze che andava consumandola: «sto perdendo il controllo.» a denti stretti, a sopracciglio inarcato. Sto perdendo la testa - la mia vita, santo cielo. La mia vita.
    Quello che non disse ad alta voce, fu che aveva già perso. E voleva… consigli, da suo fratello? Supporto? Aiuto?
    Impossibile.
    Figurarsi.
    Lei?
    Per cosa, poi.
    Voleva le dicesse che era sbagliato, ed impossibile. Che Rea Hamilton non era, né mai sarebbe stata, quel genere di persona. «perché avevi paura di me?» domandò invece, in tono privo d’inflessione. Se non mostravi interesse per una questione, non avrebbe avuto alcuna importanza la risposta - era così che funzionava, giusto?
    Sbagliato.
    «hai, paura.» specificò.
    Che Rea Hamilton era, e sempre sarebbe stata, quel genere di persona
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    C’era una volta un ragazzo terrorizzato da molte, troppe cose: la sua ombra, lo scricchiolìo del pavimento di notte, la voce severa della madre. Bastava il soffio del vento da sotto la finestra per fargli rizzare i capelli, l’infinitesimale cambiamento in una stanza buia per non fargli chiudere occhio; e si raggomitolava al letto, per terra, testa nascota tra le ginocchia per impedirsi di vedere, percepire quel brivido risalire sulla schiena. Viveva nella paura, perché non possedeva abbastanza spina dorsale per reagire, non alla follia dei suoi genitori, non allo stato in cui si trovava. Ma era solo un bambino spaventato, giusto? Avrebbe avuto tutto il tempo del mondo per imparare che non c’era nessun mostro sotto il letto o un fantasma nell’armadio.
    Avrebbe avuto tutto il tempo che sarebbe servito.
    Finché non ce n’era stato più.
    Un fazzoletto premuto sul volto, la sensazioni di star precipitando dentro se stesso e poi il nulla. E poi il tutto. Più mostri di quanti si erano mai nascosti in camera sua, i Laboratori erano un luogo ben peggiore di quello che la sua mente avrebbe mai potuto elaborare.
    Amos aveva sempre pensato che la paura fosse irrazionale, non una cosa che poteva essere insegnata. Gli erano bastate tre notti (o forse erano state cinque, non esisteva tempo in quel luogo) per capire che si sbagliava, non solo la paura si poteva insegnare, era un qualcosa di così malleabile, così facilmente instillato nelle menti delle persone, da far vacillare tutto ciò a cui aveva creduto fino a quel momento.
    Quel terrore era uno strumento in attesa di essere modellato, e nelle mani dei Dottori sarebbe potuto diventare un’arma. Non sarebbero dovuti essere i mostri sotto al letto a farlo tremare, quanto più ciò che si nascondeva dietro un cappotto e un sorriso tirato.
    C’era una volta un ragazzo terrorizzato da molte, troppe cose: la sua ombra, lo scricchiolìo del pavimento di notte, la voce severa della madre. Pensava che nulla sarebbe cambiato, si era convinto sarebbe rimasto lo stesso invertebrato e sapete cosa? Gli andava bene così, non aveva bisogno di essere coraggioso per essere come tutti gli altri, gli bastava poco per accontentarsi.
    Questo prima di novembre duemilasedici.
    Prima dell’esplosione di un capanno in mezzo al nulla.
    Gli ci era voluto troppo, ma alla fine l’aveva capito. Aveva capito che non c’erano coraggiosi e senza palle, solo chi era abbastanza forte per sopravvivere. Lui non era certo di esserlo – non lo era mai stato – non aveva mai sentito quel bisogno di alzarsi dal letto o di continuare a costruire quella vita che nemmeno aveva scelto, era una mera vittima delle azioni di altri, un coito che non era stato soffocato adeguatamente.
    Ma alla fin fine, non importava cosa la sua delicata persona si sentisse o meno di fare, non gli era stata data una seconda chance solo per sputarci sopra giorno dopo giorno.
    L’Amos Hamilton di qualche anno prima non si sarebbe mai aggirato di notte in un cimitero, per giunta da solo, perché mai avrebbe dovuto? Non era masochista, voleva continuare a vivere in pace. E perché il nuovo e fresko Hamilton si trovava in quel luogo di morte (e perdizione)? Non l’avrebbe mai detto ad alta voce – Cristo, voleva così tanto morire – ma Run gli aveva consigliato un sito dove davano consigli d’amore e beh, l’avevano convinto così tanto da prendere il pacchetto bonus, aka la seduta spiritica al chiaro di luna piena. Non che avesse bisogno di quel genere di pareri, era solo curioso.
    E poi non aveva mai parlato con dei fantasmi, doveva essere così kool.
    Nel suo cuore si era domandato come avrebbe fatto ad evocarli, o perché non si fosse portato un medium dietro. Non si poteva certo dire che brillasse d’intelligenza.
    O forse sapeva esattamente perché aveva bisogno di essere solo, non era sicuro che le parole sarebbero riuscite ad uscire fluidamente, se qualcuno si fosse trovato lì. Non sapeva neanche se era pronto a far prendere forma a quei dubbi, figurarsi esporli ad alta voce.
    Poteva percepire distintamente due odori, quello dell’erba appena tagliata e un altro, seppure solo accennato, di decomposizione. Se Amos avesse dovuto descrivere a qualcuno quel momento, una parola sola avrebbe trovato strada tra le sue labbra: ossimoro. Quasi lo disturbava, il modo in cui quel ciclo si ripeteva continuamente, un fenomeno meraviglioso e macabro al tempo stesso; un corpo che donava vita a qualcosa di nuovo, materia che non cessava di esistere ma si trasformava. Non aveva idea di quanto si fosse inoltrato nel cimitero, non doveva essere molto se poteva ancora vedere il cancello che lo recintava, aveva intenzione di avere vicina una via di fuga in caso qualcuno fosse resuscitato dalla tomba – magari Jesoo due, magari il cadavere di Michael Jackson. Amos poteva non essere più terrorizzato dalla sua stessa ombra, non poteva però negare che quel posto gli stesse mettendo i brividi. Ci sarebbe morto, ne era sicuro.
    Adagiò il culo per terra con la stessa grazia di un lama morto, l’erba e il terreno morbido a salvarlo dal doversi mettere a massaggiare il fondoschiena, tolse lo zaino dalle spalle e iniziò a cercare la tavola ouija che si era portato dietro.
    ”Se muoio ricordati di far lucidare il pavimento”. Quello, l’ultimo messaggio mandato a Run prima di posizionare le candele vicino a sé. Sperava che WikiHow gli avesse fornito la conoscenza necessaria per quell’impresa, in caso contrario sperava di uscirse abbastanza sano per denunciarli.
    Tu bi continued a un giorno.

    Si ripeteva che non doveva sentirsi a disagio, dopotutto quella era sua sorella, non una bestia feroce che avrebbe potuto dirvorarlo in qualunque momento. Peccato che con Rea non ci fosse differenza. Si grattò la nuca, quel semplice gesto ripetuto volte e più volte quando era nervoso, l’unica cosa a distrarlo e impedirgli di farlo impazzire. Voleva provarci a essere qualcosa di più, ad essere più presente nella vita della sorella e non solo una comparsa sullo sfondo, ma come faceva se non riusciva a stare nella stessa stanza con lei? Fu solo quando la mora aprì bocca, che il battito dell’Hamilton incominciò a rallentare progressivamente, forse aveva intravisto un qualcosa di umano in lei. Quello sguardo puntato altrove non era qualcosa che aveva visto spesso, le dita a lisciare le pieghe del lenzuolo (pieghe che sapeva non esserci affatto), stava facendo di tutto pur di prendere tempo. Potevano rimanere così per quando voleva, era un conversazione, non un interrogatorio. «non mordo» il ragazzo arcuò impercettibilmente le sopracciglia, un’aria dubbiosa a posarsi sul volto: ne era sicura? «voglio fidarmi» mimò un I’m watching you con le dita, andandosi poi a sedere accanto a lei. Non troppo, non voleva rischiare di far incrinare il materasso tanto da farlo pendere verso di lei. Non gli piaceva toccare le persone, se poteva evitarlo lo faceva volentieri. «contrabbando camicie da uomo» voleva sapere cosa stesse facendo la sorella nella vita, ebbene, quella era la sua risposta.
    Contrabbandava camicie da uomo.
    Doveva ridere? Aveva capito la sua battuta (in realtà no), ma non era sicuro di cosa fosse giusto fare – perché doveva essere così difficile legare con lei? Sapeva che non era colpa della Hamilton, ciò non lo rendeva però meno deprimente. «regalo vestiti ai poveri? non lo so?» era così tenera, quasi umana. Si lasciò scappare quella che sarebbe potuta essere una risata, ma anche un colpo di tosse, l’idea di Rea che regalava vestiti ai poveri era esilarante. Non che fosse una vista insolita, lo faceva praticamente ogni giorno con Aloysius. «sono troppo brutte persino per loro.» #skseli
    «sto perdendo il controllo.» Amos alzò lo sguardo, tenuto fino a quel momento fisso sul pavimento, puntandolo in quello della mora. Stava perdendo il controllo? Non era lei, quella sempre padrona della situazione?
    Non capiva cosa stesse succedendo.
    Probabilmente il mondo stava per finire.
    «che succede? sono un ottimo ascoltatore.» e non l’aveva chiesto tanto per parlare, gli interessava veramente. Era così raro che Rea fosse onesta, che mostrasse quel poco di umanità che le rimaneva, doveva cogliere l’occasione finché poteva.
    Aveva bisogno di conoscerla per quello che era. Lui voleva la vera Rea Hamilton, non la maschera che presentava al resto del mondo.
    Almeno per lui, per la sua famiglia.
    «perché avevi paura di me? hai, paura.» portò le iridi chiare sulle proprie mani, ora strette tra loro, le sue labbra premute in una linea dritte. Che cosa voleva sentirsi dire, la bruta verità?
    Perché mi hanno insegnato che bisogna avere paura dei mostri come te.
    Perché non mi hanno mai permesso di vederti come un essere umano.
    Perché lo so che non ti interessa di me. Di nessuno.
    Perché ci voglio provare, ma forse non sono abbastanza.
    «non lo so.»
    Dai Amos, lo sai.
    Un momento, il silenzio ad avvolgere le sue parole.
    «perché non so niente di te, non da quando te ne sei andata di casa. Non sei la sorella che conoscevo, ma neanche il mostro che descrivevano i nostri genitori.»
    Un sospiro, la sensazione di mille battiti a rimbombare nel petto.

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    07.12.2017 | h: 08:30
    Umettò le labbra, socchiuse gli occhi. Si concesse un respiro, uno solo, prima di volgere le iridi castane verso suo fratello, le labbra una linea morbida che di divertito non aveva nulla, e che della stanchezza portava orma ed impronta. C’era poco da dire, in situazioni del genere - in Hamilton del genere. I loro genitori potevano non aver avuto ragione all’epoca dei fatti, ma sarebbe una menzogna dire che Rea non fosse diventata quel che loro avevano sempre additato fosse: una creatura abominevole. Cosa poteva rispondere ad Amos? Che quel che aveva sentito, quel che la gente diceva di lei, fosse sbagliato?
    Non lo era. «non sono una brava persona, amos» perché la sincerità, a quel punto, era l’unica cosa concessa. Rea Hamilton non era una brava persona – una brava amica, una brava figlia. Una brava sorella. Le relazioni sociali non erano certamente il campo in cui ella eccelleva, caso mai qualcuno avesse avuto dubbi. Così si morse l’interno della guancia, gli occhi a posarsi distratti sulle proprie mani. «ma…» sto cercando di migliorare? Menzogna. Ci stava provando? Bugia anche quella. La verità era che un ma esisteva, ma non era quello che Amos Hamilton avrebbe voluto sentirsi dire – eppure, era tutto ciò che Rea avesse da dirgli.
    Perché non era una brava persona, ma «non ti farei mai del male,» sopracciglia corrugate, il più lieve dei sorrisi a curvare gli angoli della bocca.
    Il fatto che avesse dovuto specificarlo ad alta voce, la diceva lunga sulla sua reputazione - eppure non c’era niente di più maledettamente vero al mondo: poteva tagliare la gola di un uomo senza battere ciglio, sporcarsi piedi e mani di sangue innocente e dormirne la notte – ma Amos sarebbe sempre stato al sicuro, con lei.
    Da lei. Lui non poteva saperlo, ma Rea gliel’aveva promesso. «sei mio fratello.» battè le ciglia, il capo ancora lievemente chino e la voce, priva d’inflessione, a sgusciare atona dalle labbra dischiuse. Così ovvio, che il solo dirlo la fece sentire una stupida.
    Sei mio fratello.
    E Rea Hamilton, seduta su quel letto, avrebbe voluto che quello potesse bastare – che lei, potesse bastare: perché avrebbe accettato di non piacergli, ma sapere di essere per Amos quel che i genitori erano stati per lei, era parte di quell’incubo che aveva cercato di evitare per anni. Per tutta una vita.
    Dire che lei fra tutti avrebbe dovuto saperlo, che la fuga non fosse contemplata.

    /stacchetto/


    03.12. Aprì un occhio, sibilò a denti stretti. Il pianto acuto di River la strappò dal sonno con la violenza di un cerotto ospedaliero, il fischio acuto e disperato del neonato a pizzicarle le orecchie. Rotolò supina, un braccio posato sopra gli occhi – dieci secondi, venti. Un minuto. Dov’era Al? Quando le grida del bambino divennero intollerabili, spinse nervosamente a terra il lenzuolo per giungere alla culla del mini umano. «eh, lo so» così, perché era sempre cosa buona e giusta dare solidarietà ad un biondo in lacrime – come dargli torto, poi? Non solo era figlio di Aloysius Angus Crane, ma era figlio di Aloysius Angus Crane: anche lei, al suo posto, avrebbe pianto. Era pure carino, River, per essere una pallina dal dubbio color rosa. Quasi, quasi, gli sorrise perfino, mentre lo prendeva in braccio. «andiamo a cercare papà, mh» bisbigliò, infilando una mano dietro la nuca del pargolo per tenerlo poggiato al petto, dondolandolo sul posto per farlo smettere di piangere. Uscì in corridoio, l’odore di borotalco del neonato ad insinuarsi nelle narici. Quando giunse alla porta di Al, neanche si sprecò a bussare – aprì e basta, la Hamilton. «crane e non ebbe bisogno di accendere la luce, per sapere che qualcosa non andasse: il letto era intatto.
    Ma. Davvero, davvero, non era tornato a casa per la notte? Le aveva lasciato suo figlio (suo figlio!) ed era andato a fare il giovane? Strinse i denti ed imprecò a bassa voce, gli occhi chiusi per racimolare un poco di autocontrollo. Non le interessava che fosse mattino: prese il telefono, compose il numero dei Milkobitch, ad attese con la cornetta premuta contro l’orecchio. Quando una voce rispose mugugnando dall’altro lato della linea, non si sprecò neanche a salutare.
    «passami al»
    «al? Che cazzo- » Giovani. «rea?»
    «al, geremia.»
    «non c’è?»
    «allora passami run»
    «mh – non c’è. non è da te?»
    Avrebbe dovuto? «no?»
    «era con gemes?» quella conversazione stava diventando troppo confusa, per un placido mattino qualunque di inizio dicembre. Poggiò la fronte sul muro del corridoio, un sospiro così denso da appiccicarle la lingua al palato. «okay» interruppe la comunicazione, lanciò un’occhiata a River. «non lo voglio fare» ammise ai tondi occhi della creatura, lasciando che la lingua umettasse il labbro inferiore – eppure lo fece comunque, bambino stretto al petto: iniziò a picchiare, rude ma legittima, contro la porta della camera di Gemes. «G E M E S, apri la porta» non voleva essere lei a doverla aprire, ma era pronta correre il rischio.
    Attese. Attese ancora. Attese ancora x 2. «sto entrando» un modo come un altro per dire: sei morto.
    Ma la stanza era vuota.
    Rea e River si scambiarono un’intensa occhiata sconvolta, ambedue in religioso silenzio. Quando compose il secondo numero della giornata, la confusione stava già lasciando il posto ad una prima, terribile, brutta sensazione – un nodo difficile da deglutire, la bocca asciutta. «jackson» «mh» «jackson» «eh» Okay, almeno Eugene era vivo – non così scontato, dato che i suoi amiki erano stati visti insieme l’ultima volta: non sarebbe stata lei a giudicare un raptus killer dell’altro Hamilton, dato il quantitativo di volte in cui s’era trattenuta dall’affogare Elijah o Nate nella piscina di palline gonfiabili. «c’è al?» «guardo» oh, Cristo. Chiuse gli occhi, scosse il capo verso un attento River. «no – non mi pare?» «run e gemes?» «dovrebbero?» La situazione si faceva… come dire?
    Interessante.
    «okay» chiuse la conversazione, il telefono poggiato contro il palmo.
    «jay?» «quasi: stiles» «passami jay» «è uscito presto» «hai visto gemes? run? al?» «perché?» Rea si grattò distrattamente un sopracciglio, il labbro inferiore stretto fra i denti. «così»

    04.12. Si stava davvero esagerando. «elijah» salutò a denti stretti, il telefono premuto contro l’orecchio ed un ignudo River coricato sul letto. Non attese di sentire il buongiornissimo del Dallaire, mentre cercava (con scarsi risultati) di cambiare il pannolino del bambino. «renditi utile, usa il tuo potere» poggiò la guancia sulla superficie dello smartphone, mentre un ridente mini umano si prendeva gioco delle sue assenti capacità materne – perfido. «e dimmi quando ucciderò aladino.»

    05.12. Quand’era troppo era troppo. Rea inspirò secca dalle narici, i piedi infilati negli alti stivali neri a varcare la soglia di New Hovel. Non solo Al era fuggito, presumibilmente in Messico per evitare le responsabilità dell’essere padre, ma i suoi usuali passaggi (Gemes, Shia) avevano ben deciso di non farsi vedere per giorni. Non che suo cugino la stupisse, era solito sparire per settimane intere tornando poi con il solito sorriso sghembo ed un qualche regalo, ma Gemes? Doveva essere la terribile, e temibile, influenza di Run ed Euge – di Gemes si fidava abbastanza da sapere che, se avesse deciso di andarsene, le avrebbe almeno lasciato un maledetto post it. Teneva abbastanza a lui da rifiutarsi di credere che avesse volontariamente seguito Heidrun ovunque la mimetica si fosse cacciata – e pregava il Signore che non si trattasse di un adolescenziale fuga d’amore, perchè non poteva ucciderli, ma poteva ancora farli pentire di essere nati. «sei sicura,» domandò ancora, lanciando un’occhiata ad Idem. «di non riuscire a contattare darden?» Rea l’aveva chiamata il giorno prima per sapere se avesse avuto notizie da Gemes, ma la medium l’aveva indirizzata alla sorella minore: se qualcuno sa dove sia Gemes, è lei. Spoiler? «è possibile che… mi stia ignorando» ammise la Withpotatoes, cercando di mantenere il leggero sorriso sulle labbra. «non risponde neanche a me» Jericho, palpebre socchiuse ed aria annoiata, incrociò le braccia sul petto. «neanche murphy e shot sono tornati a casa» lanciò un’occhiata a Sinclair, proprio nel momento in cui un trafelato Stilinski rotolava all’interno del piccolo quartiere. «DOV’è JAY DEVO PARLARGLI» Lydia inarcò un sopracciglio. «non è con voi?»

    06.12. «cosa significa non si sono presentati al lavoro Jade chiuse gli occhi, prima di ruotare due tiepidi iridi chiare su di lei. «esattamente quello che ho detto» ribattè a denti stretti, consumata dallo stesso nervosismo che da giorni stava masticando la Hamilton.
    Poteva capire Al. Poteva, malamente, dare una giustificazione a Gemes, e sicuramente non era stupita dall’ennesima sparizione di Heidrun o dall’assenza di Shia.
    Ma. «maeve winston. William barrow. Phobetor torchwood. Archibald leroy. Jason maddox. Shane howe» accompagnò ogni nome con distratti schizzi su un foglio di pergamena, la Beech. «mancano anche alcuni studenti»
    Rea Hamilton non era paranoica, ma cominciava a crearsi una serie di circostanze… dubbie, quanto meno fraintendibili. Nel giro di quattro giorni, la lista di coloro che non rispondevano all’appello non faceva che allungarsi, e la lista degli Special da cacciare prendeva nomi d’ora in ora.
    Peccato che fosse l’unica Cacciatrice rimasta – Akelei, Shia, Gemes.
    Assenti ingiustificati.
    Ed il problema, era che non importava a nessuno - non importava mai a nessuno. Ai giornali, dopo i rapimenti dell’anno precedente, era concesso solamente un ritaglio minuscolo riguardo quelle nuove sparizioni: non volevano creare una situazione di panico, dicevano, come l’ultima volta - quasi l’ultima volta non fossero stati giustificati, per quel clima di terrore.
    Al San Mungo, Dakota Wayne, Shane Howe, Amelia Hepburn e Cain Cash, non avevano mai timbrato il cartellino; a New Hovel, Elysian May, Ashley Stewart, Murphy Skywalker e Judas Ortiz, non erano mai rientrati.
    Rea Hamilton non chiuse gli occhi, solo perché non era affatto certa di avere ancora la forza di riaprirli.

    07.12. Sedeva in silenzio al tavolo della cucina, i capelli raccolti disordinatamente in una crocchia e gli occhi troppo stanchi per mettere a fuoco alcunchè. Il gufo con l’edizione speciale del Morsmordre, aveva bussato alla sua finestra mezz’ora prima, becco contro il vetro ad esigere le attenzioni della Hamilton.
    Non l’aveva neanche guardato, Rea. Aveva stretto il quotidiano nel pugno destro, aveva indossato la vestaglia color crema, e si era affacciata oltre la culla di River, ormai in pianta stabile nella sua stessa camera, per assicurarsi che stesse ancora dormendo. Era scesa in cucina, aveva aperto il frigo – e non ricordando cosa stesse cercando, l’aveva richiuso.
    Si era seduta. Aveva chiuso gli occhi, l’aria ad entrare quieta dalle narici. Si era detta che, finchè non avesse letto, nulla sarebbe stato reale: nessuna edizione speciale portava buone notizie, e chiunque nel mondo magico ne era a conoscenza. Ricordava ancora, la Hamilton, la foto di suo fratello in prima pagina: scomparso.
    Non aveva voluto leggere, Rea. Non aveva voluto guardare le foto in movimento sulla testata di quel giorno, malgrado pulsassero dalla pagina come qualcosa di vivo. S’era presa un poco di tempo per sé stessa, sapete – quei minuti necessari a ricordare al proprio corpo che un battito s’avesse ancora, ed era giunto il momento di usarlo.
    Erano le otto venti del mattino, quando Rea Hamilton aveva infine letto l’articolo.
    Erano le otto e venticinque, quando sedeva in silenzio in cucina senza nulla da dire o guardare.
    Erano le otto e trenta, quando un altro Gufo portò altre due missive presso la villa – dal Ministero, una per lei ed una per suo fratello. Quelle, Rea, non le lesse.
    Perché erano le otto e mezza del sette dicembre, ed il Morsmordre le aveva appena annunciato che fossero tutti morti.



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    Da quando era stato rapito un anno prima, Amos aveva sviluppato un senso senso per il pericolo, e fidatevi se percepiva che in quei giorni fosse successo qualcosa di terribile. Era iniziato tutto qualche giorno prima, quando il pianto di River aveva svegliato l’intera Villa Hamilton, Amos aveva lasciato correre, convinto che se ne sarebbe occupato Al come al solito. Erano passati cinque minuti e nessuno era andato a calmare il piccolo, che continuava a straziargli l’udito – e dire che Cash non era così da piccolo, c’era da dire che non era neanche uscito da una vagina malvagia. Altri cinque minuti, prima che qualcuno alzasse il culo dal letto, e sciokkanteh ma non era stato Amos. Per una volta voleva dormire, pensava di aver già abbastanza da fare durante il giorno con l’altro suo figlio.
    Aveva sentito i passi omicidi, facilmente riconoscibili, di Rea sul parquet e immediatamente aveva incominciato a pregare per l’anima di Aloysius, che potesse riposare in pace. Non aveva idea di quello che era successo dopo, si era addormentato minuti dopo. La mattina si era svegliato e non aveva trovato nessuno in salotto, neppure un Jayson impegnato a squadrare male Gemes. E sua sorella? Svanita nel nulla, un mero post-it lasciato sul frigo dove comunicava che sarebbe stata via per la maggior parte del giorno; un anno prima, l’Hamilton non si sarebbe mai spreata a informarlo dei suoi spostamenti, ma dopo i vari rapimenti avevano concordato insieme che quello fosse il miglior modo di tenersi d’occhio. O meglio, tenere d’occhio lui.
    Il giorno dopo aveva mandato un meme a Run, e nessuno gli aveva risposto. R u d e, aveva pensato all’inizio, preoccupandosi quando aveva continuato ad ignorarlo per ore. Aveva detto qualcosa di sbagliato, o era di nuovo triste perché avevano spostato KUWTK al venerdì? Le scrisse di nuovo, domandandole perché lo stesse snobbando.
    Nessuna risposta per due giorni. Okay, stava incominciando a diventare seccante. Decise che avrebbe affrontato la questione alla lezione di danza della mimetic sqwad di quel pomeriggio – dove lui non c’entrava niente, era solo l’invitato speciale della settimana. Così aveva atteso che passasse la mattinata, presentandosi in palestra alle cinque in punto. Aspettò per una buona mezz’ora, molestando ogni cinque minuti Nate J e chiedendogli perché Heidrun e Kieran non si fossero ancora presentate. Neanche lui lo sapeva, quindi non era possibile che la Crane avesse deciso di tagliare la lezione per non vederlo.
    Quel terribile presentimento si fece sempre più forte, ma decise di ignorarlo, chiaramente era solo paranoico. Chiese persino a Rea se avesse notizie dei suoi amici, senza che la sorella sapesse rispondergli: no, non aveva idea di dove fossero, così come il resto dei loro conoscenti. Bene, quello sì che era confortante. Magari avevano organizzato una vacanza alle Hawaii e non li avevano invitati perché non c’era posto per tutti, doveva essere così.
    Quel mattino, Amos stava tornando dal suo jogging mattutino, che aveva preso ad essere un’abitudine da quando aveva letto che facendo sport tre volte a settimana le sue possibilità di avere un infarto giovane sarebbero diminuite. Non ci credeva più di tanto, ma almeno lo aiutava a tenere i pensieri a bada. Entrò in casa con un fiatone degno del suo amiko Sin, convinto che prima o poi gli sarebbe venuto un attacco d’asma, fiondandosi sulla prima bottiglietta d’acqua che trovò in giro – sperava solo di non contrarre la peste o qualche malattia sessualmente trasmissibile. Si arrestò sulla soglia della cucina, sorpreso di trovare la sorella lì, lei che di solito dormiva a quell’ora «ehi» sollevò la mano, ancora leggermente a corto di fiato «stai bene?» notò le occhiaie sotto agli occhi, un po’ più prominenti di quello che erano il giorno prima, e l’aria stanca che si trascinava – sembrava essere invecchiata di cinque anni in pochi giorni. Si avvicinò a lei e si sedette nella sedia affianco alla sua, sporgendosi sul tavolo per incrociarne lo sguardo «qualche novità dal Morsmordre?» non aveva bisogno di specificare a cosa si riferisse, la sorella sapeva che Amos aspettava solo una comunicazione ufficiale a dichiarare i suoi amici scomparsi. «uau, abbiamo persino della posta» non riceveva mai delle lettere, fategli causa se era già emozionato. Peccato che lo sarebbe stato ancora per poco.

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    07.12.2017 | h: 08:30
    Deglutì piano, il capo ancora chinato e lo sguardo posato distrattamente sulla superficie in legno del tavolo. Non diede cenno di aver sentito rientrare suo fratello, né rispose alla sua domanda su come stesse: interrogativo banale, risposta complessa cui non avrebbe mai realmente dato voce – né diede ascolto all’influenza di Elijah, percepita chiaramente dalla donna, che la spingeva a voler sorridere e rassicurare Amos. Perché avrebbe dovuto mentirgli? Era chiaro che non stesse bene; non era morta, il che di quei tempi era già un traguardo, ma non ricordava neanche più cosa significasse, stare bene. «qualche novità dal Morsmordre?» Arrischiò un’occhiata verso l’Hamilton, le ciglia scure a sfiorare le guance mentre ne studiava il profilo. Si domandò, e non per la prima volta, quando fosse diventato così grande - quando i tratti morbidi si fossero fatti più decisi, le curve linee adulte, gli occhi ingenui ora passivamente consapevoli. Amos Ryder Hamilton sarebbe sempre stato un bambino, per lei – non accettava che potesse diventare un uomo, non quando Rea si era persa così tanto, così tutto, della sua vita. Ecco perché non voleva che leggesse il giornale, scoprendo da anonime pagine color pergamena che tutti i loro amici fossero morti.
    Perché questo, diceva l’articolo: non spariti, non ne abbiamo perso le tracce. Morti. Con tanto di rispettabile testimone oculare, per di più – lo stesso uomo che aveva dichiarato guerra al mondo intero, e n’era uscito trionfante. Rea avrebbe mentito, dicendo che non ammirava Dragomir Vasilov; aveva tutte le qualità che aveva sempre rispettato e contemplato, un’ambizione fuori dagli schemi portata all’esasperazione. Aveva l’animo del Capo, di chi la storia la cambiava anche solo svegliandosi la mattina. Erano del tutto personali, i motivi che la spingevano a ripugnarlo – il Capanno; il Funerale.
    Ed ora, quello. «uau, abbiamo persino della posta» Istintivamente, allungò le mani verso le buste prima che potesse arrivarci Amos, tirando le pergamene verso di sé fino a coprirle con le proprie braccia. Vi tamburellò sopra con le dita, inspirando profondamente dalle narici prima di alzare lo sguardo, un’ossidiana ancor più opaco del solito, a cercare le iridi chiare del fratello. «ci sono state due battaglie nelle scuole magiche di salem e beauxbatons» iniziò cauta, scandendo lentamente le parole – più per sé, che per il lumocineta: faticava a crederci, faticava a capire. Il suo cervello pareva non essere in grado di assimilare le informazioni, preferendo lasciarle galleggiare in superficie dove non potevano ledere nessuno. Dove non potevano ferire lei, l’inamovibile ed impassibile Rea Hamilton. «traditori che volevano insorgere» inarcò scettica un sopracciglio, calibrando al millimetro ogni movimento. Fece guizzare la lingua fra i denti umettando il labbro inferiore, percependo con chiarezza disarmante il cuore scontrarsi duro sulle costole. Sapeva, sapeva di dover chiamare Eugene e Sin. Lo sapeva, ma non ne aveva …Dio, anche solo pensarlo la disgustava. Non ne aveva il coraggio. Preferiva convincersi che quelle scritte sul Morsmordre fossero sciocchezze, pur non avendo fatti a proprio favore, piuttosto che chiamare il Jackson e l’Hansen e sentire che fossero ambedue morti, trascinati a fondo dall’infame quartetto Cramilton. «c’erano degli inglesi» storse le labbra cercando di trattenersi, d’impedire alla mano di muoversi contro il suo volere – ma il fatto era che voleva, perché non solo sia Elijah che Nathaniel l’avrebbero fatto, ma anche una Rea senza tutte le proprie deviazioni mentali avrebbe voluto farlo - e quando alla fine fallì, posò delicatamente le dita sulle nocche di Amos. «i nostri, inglesi» con il braccio libero, allungò il giornale verso l’Hamilton. «gli unici sopravvissuti sono vasilov e lamovski» la voce atona, priva d’alcuna inflessione. Cercò di riascoltarsi, di far penetrare quelle parole laddove avrebbero dovuto far più male, ma la verità era che…non poteva crederci. Semplicemente, non poteva - era troppo assurdo, troppo privo di logica o senso. «così dicono specificò quindi, seccata, lasciando trapelare dai denti serrati quale fosse il suo pensiero in proposito. Scosse impercettibilmente il capo, gli occhi a scivolare sulle lettere spedite dal Ministero quella mattina stessa, una per lei ed una per Amos. «queste, d’altro canto,» schioccò la lingua sul palato, ritraendo la mano per intrecciare le dita in grembo. «mi… disturbano» lungi dalla Hamilton ammettere di essere preoccupata. «di più. sono arrivate insieme al giornale» poteva essere il Ministero che porgeva loro le condoglianze per il cugino, certo, ma quando mai dalle alte sfere si sbattevano così tanto per qualche caduto in battaglia? Soprattutto quando tacciati di Tradimento: era già tanto, anzi, che non avessero bussato alla loro porta per un interrogatorio completo al restante (misero.) nucleo familiare. «non mi convince il tempismo» inutile specificare che la Hamilton, Rea Hamilton, stesse temporeggiando: lo sapevano entrambi che non volesse aprire quelle lettere, ma dirlo ad alta voce l’avrebbe solo reso più ridicolo e patetico.
    E reale.

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    amos hamilton
    Ad Amos non piaceva particolarmente ricevere posta, trovava quei gufi troppo inquietanti per il suo debole cuore. Era già abbastanza dover sopportare i piccioni di Sin, e sebbene Amos amasse gli uccelli, non poteva dire di amarne tutti i tipi. Avrebbe esposto i suoi pensieri sulla posta ad alta voce, ma non pensava che Rea avrebbe apprezzato o capito la battuta sui volatili. Peccato, Al o Run avrebbero riso. Il fatto che la sorella non avesse risposto alla sua domanda non gli passò inosservato, ma decise di non farglielo notare – la Hamilton non era una di quelle persone che amavano aprirsi, ormai l’aveva fatto ben chiaro. Non importava granché, il fotocineta aveva imparato a leggere le espressioni della ragazza e tra le righe delle sue parole, non aveva bisogno che gli sventolasse in faccia i suoi sentimenti. Gli sarebbe piaciuto avere quel tipo di conversazione, ma sapeva di aspirare a troppo. Per il momento, gli bastava basarsi sugli occhi stanchi della sorella e la posta che aveva tentato di tenere nascosta sin da quando era entrato in casa. Non gli piacevano le brutte notizie, eppure dal momento che qualcosa stava decisamente succedendo, non pensava di poter sfuggire loro per molto altro tempo. «ci sono state due battaglie nelle scuole magiche di salem e beauxbatons» annuì lentamente, lo sguardo confuso a posarsi su quello della Hamilton. Non capiva cosa centrasse con loro, o perché glielo stesse dicendo, in ogni caso sapeva che non gli sarebbe piaciuto. «traditori che volevano insorgere» non era una cosa normale? C’erano stati altri scontri, di certo non poteva essere stato così importante. «c’erano degli inglesi» i suoi lineamenti si indurirono, l’espressione confusa a mutare in comprensione, premette le labbra in una linea sottile in attesa delle parole che lo avrebbero colpito nello stomaco. Ci aveva messo qualche secondo a collegare le informazioni, ed erano bastati due calcoli per arrivare a uno straccio di conclusione. Eppure, quando arrivò il momento, non volle comunque sentire ragione. «i nostri, inglesi» abbassò gli occhi sulla mano di Rea, trovandosi incapace di formulare qualsiasi suono. Non pensava di aver sentito bene, poteva ripeterglielo? «non-» si bloccò senza riuscire a continuare, gli occhi a chiudersi brevemente mentre scuoteva la testa. Perché a lui? Perché non poteva avere un maledetto momento di pace? Asciugò con il dorso della mano, quella opposta alla sorella, la lacrima a scendere sulla guancia: non voleva piangere. Voleva urlare così tanto da consumare tutto il fiato dei polmoni, buttare fuori quel peso finché la gola non avrebbe supplicato pietà. «gli unici sopravvissuti sono vasilov e lamovski» non dirmelo ma ormai era troppo tardi, Rea non poteva più riprendersi quella cruda verità. Amos si aspettava un pugno allo stomaco, in verità fu più di quello – una devastante e lacerante pugnalata al petto, al costato, ovunque. «non posso essere morti, rea» scosse la testa, non curante di quanto fosse stupido negare l’ovvio. Non gli importava, finché non avrebbe visto i corpi non ci avrebbe creduto «dev’essere come con il capanno» rabbrividì alla sola menzione dell’edificio, i ricordi di quei mesi passati prigioniero a infiltrarsi nella sua mente. «e non credo nemmeno che siano dei traditori» premette le labbra tra loro, stizzito al solo pensiero che qualcuno potesse dipingere i suoi amici in quel modo. Come osavano? Neanche li conoscevano, non avevano la più pallida idea di chi fossero. Sono. «queste, d’altro canto, mi… disturbano di più. sono arrivate insieme al giornale» Amos spostò lo sguardo sulle buste, certo che non potesse essere niente di buono. Da qualche tempo il Ministero aveva iniziato a mostrare sempre più disprezzo verso gli special, e l’Hamilton non aveva dubbio che quelle lettere ci avessero qualcosa a che fare. «ti proporrei di ignorarle ma» un debole sorriso andrò a sollevare a malapena il labbro del biondo, occhi sul viso della sorella «non credo saresti d’accordo» perché Rea Hamilton, al contrario di lui, le cose le affrontava di petto. Eh in famiglia solo una persona poteva avere le palle, non era colpa sua se la Sorte non aveva scelto lui. «che ne dici se io apro la tua lettera e te apri la mia?» domandò cercando nello sguardo della sorella quel sì che gli avrebbe dato il coraggio di prendere la busta in mano. Se ne stava già pentendo.
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    07.12.2017 | h: 08:30
    Faticava a comprendere quella fitta allo stomaco, Rea Hamilton. Era sempre, malgrado non secondo i canoni tipici, stata protettiva nei confronti del fratello minore, ma quello? Quello era un sentimento più complesso, indubbiamente più grande di lei. Erano rari, ed unicamente circoscrivibili ad Amos o Charlotte, i momenti in cui poneva qualcuno al di sopra di se stessa – ma mai aveva creduto di poter arrivare a quello. Empatia, le sussurrò ironica la sua coscienza, sorridendo triste con un cinico sopracciglio arcuato. Una roba che la Hamilton aveva evitato per più di vent’anni, indecifrabile ed illogica ai suoi occhi. Sentirsi emotivamente vicina a qualcuno, non faceva per lei. Capiva il proprio dolore, la propria rabbia, ma sentire nel petto che facesse semplicemente più male vedere quelle stesse emozioni sul viso tondo del fratello, era quasi inaccettabile. Surreale. Non aveva mai avuto con Amos il rapporto che Elijah aveva con Bells, né l’attaccamento ed il cercare, testardamente, di ricucire la ferita che Nathaniel tentava giornalmente con Jericho; con gli occhi lucidi di suo fratello e la testa di lui a scuotersi cercando di cancellare quanto appena detto dalla Hamilton, non sapeva che fare. Si mosse a disagio sulla sedia (lei! a disagio!) puntando le iridi brune su un punto indefinito alle spalle del lumocineta. «non posso essere morti, rea» Odiava quei momenti in cui i fatti cozzavano con le idee, scontrandosi contro le sbarre possenti della speranza; era difficile discernere i propri desideri da ciò che, realmente, era. Onestamente, per forse la prima volta nella sua vita, non sapeva cosa fare - o dire, o credere. Non si fidava dei giornali, figurarsi di Vasilov o Lamovski, ma non cambiava il fatto che nessuno di quelli citati dal Morsmordre fosse mai tornato a casa. Spariti da giorni: la loro morte era un’ottima giustificazione.
    Ma continuava a non avere alcun senso. Cosa diamine facevano in America, o in Francia? Per quale motivo Aladino avrebbe lasciato suo figlio a lei per una guerra lontana che non lo toccava personalmente? Non l’avrebbe fatto, si rispose corrugando le sopracciglia. Non senza avvisare, perlomeno – lo conosceva abbastanza da sapere almeno quello. O da sperare? Umettò le labbra, inspirò secca dalle narici. «dev’essere come con il capanno» Rea inarcò un sopracciglio, gli occhi scuri a saettare diretti ed indispettiti in quelli chiari del fratello. Loro non erano morti, certo, ma altri l’avevano fatto – l’aveva forse già dimenticato? Perché per la Hamilton era difficile scordarlo, metafisico patto finchè morte non ci separi a parte. Non lo specificò ad alta voce, ma non potè trattenere l’occhiata seccata con il quale lo informò, silentemente, di aver appena detto una stupidaggine. «intendi rapiti scandì, specificando il lasso di tempo in questione. Perché, dannazione!, la storia del capanno non finiva maledettamente bene – e preferiva non ripetere l’esperienza, grazie tante. «e non credo nemmeno che siano dei traditori» Tamburellò le dita sul legno del tavolo, lo sguardo nuovamente assorto alle spalle di Amos. Impercettibilmente, irrigidì la schiena: quello era un discorso delicato che preferiva non affrontare, né in quel momento né mai, con nessuno – men che meno con suo fratello. Sapeva, ovviamente, dell’esistenza della Ribellione; sapeva, ovviamente, che le probabilità che qualcuno fra le sue conoscenze ne facesse attivamente parte erano alte. Semplicemente, non voleva sapere chi - la conoscenza era potere, ma l’ignoranza sopravvivenza. «punti di vista» rispose vaga, liquidando la questione con un cenno della mano prima di volgere un’occhiata allusiva a suo fratello. Riportò l’attenzione sulle lettere ricevute quella mattina, gli occhi a scivolare dall’una all’altra delle buste color porcellana. «ti proporrei di ignorarle ma non credo saresti d’accordo» Fermò le dita dal nevrotico tamburellare sul tavolo, ricambiando altrettanto debolmente l’abbozzato sorriso del fratello. Purtroppo non si trattava di una di quelle situazioni nelle quali l’ignoranza l’avrebbe salvata da sorti peggiori – si trattava di missive ministeriali, ed era suo dovere, civico più che morale, conoscerne il contenuto. Attese una manciata di secondi prima di sospirare, arrendendosi così alla proposta del fratello; perfino sollevata, la Hamilton: non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma sapere cosa volessero da Amos le premeva maggiormente sulla coscienza rispetto alla lettera vergata con il proprio nome. Spinse, seppur recalcitrante, la propria busta verso il biondo. Rimase con i polpastrelli sul sigillo oro del Ministero, gli occhi scuri a guizzare verso quelli di Amos. «al mio tre» ordinò categorica, obbligando entrambi a seguire le istruzioni aprendole contemporaneamente. Inspirò, scosse infastidita il capo. «tre.» e non attese di controllare che Amos avesse aperto la sua, prima di far scivolare l’elegante pergamena fra le dita. Allenata dagli anni di sfaticati, ma sempre di successo, studi ad Hogwarts, trovò subito le parole chiave senza bisogno di leggere tutta la manfrina precedente – ma avrebbe recuperato anche quella, non temete.
    Quello che lesse, però, non ebbe alcun senso ai suoi occhi. Drizzò maggiormente le spalle, il pugno chiuso sotto il mento mentre studiava gli ordini, con effetto immediato descritti dal Quinto Piano Ministeriale – il suo. «no» sibilò semplicemente quel dato di fatto, poggiando il foglio a faccia in giù sul tavolo. «no» ripetè, caso mai non fosse stata chiara la volta precedente, sollevando un dito in direzione del fratello. «possiamo trovare un’alternativa» anticipò, lasciando spazio alla mente logica e razionale della Hamilton stratega, piuttosto che a quella più animale e crudele soffocata dalla rabbia. «è una missiva standard inviata a tutti coloro presenti nel Registro degli Special» lo stesso che Rea Hamilton aveva aiutato a redigere, farcendolo di nomi su nomi. «revocano tutti i diritti precedenti questa lettera» spiegò asettica, non facendo trapelare nulla di quel che realmente pensava o provava: stava descrivendo dei fatti, e nei fatti non c’era nulla di personale. Non c’era Amos. «niente è più permesso lavorare. Obbligo di residenza a new hovel» sbuffò in un sorriso amaro e iracondo, le palpebre sofferentemente chiuse. «cristo santo» cosa dannazione era successo in una notte? Un altro respiro misurato, gli occhi a riaprirsi puntando sul fratello. «che idiozia» arcuò le sopracciglia annoiata, concludendo il problema nelle dita intrecciate fra loro. «non andrai a new hovel» chiarì, caso mai Amos avesse idee diverse. Non le piaceva, quella situazione – quel nuovo, e peggiorato, ghetto nazista, diverso dalla più libera politica precedente. «è stupido» sottolineò, preferendo quelle imprecazioni al principio di isteria che sentiva sfaldarle fastidiosamente i polmoni. Non potevano portarglielo via - non gliel’avrebbe permesso. Non così.
    Non punto.
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    Di solito quando gli mandavano la posta a casa si trattava di bollette o pacchi, ma a giudicare dal tipo di carta non era nessuno dei due. Non aveva bisogno di guardare Rea negli occhi per rendersi conto che c’era qualcosa di terribilmente sbagliato in quelle lettere – non gli piaceva quello che stava succedendo negli ultimi giorni, e quello era l’ennesimo pessimo presentimento. Qualcosa stava cambiando, e di certo non in meglio. Osservò la busta scivolare verso di lui, e seppur l’iniziale esitazione la prese in mano. Deglutì nel leggere il mittente, il Ministero non era mai stato kind con gli special, chissà che quella non fosse la comunicazione di qualcosa come – non lo sapeva, la sospensione dell’assegno mensile? Scrollò le spalle, avrebbe potuto vivere senza. «al mio tre» «va bene»forse, quando finalmente avrebbe aperto la lettera, quel peso sul petto si sarebbe sollevato. «tre.» fece scivolare il dito sotto la chiusura per strappare la carta, per poi estrarre esitante il foglio dalla busta. Prese un respiro, poi trovò il coraggio di guardare il contenuto. Di certo c’erano tanti paroloni e giri di parole, non aveva incontrato tanta difficoltà a tradurre qualcosa da quando studiava Dante; lanciò un’occhiata disperata alla sorella nella speranza di un aiuto, per trovarla concentrata sulla propria lettera. Scosse la testa, voleva dire che avrebbe sofferto in silenzio. Si immerse di nuovo in quel garbuglio di termini, cercando di arrivare il più in fretta possibile al nodo della questione: non gli interessavano i preamboli, voleva sapere di cosa lo stavano privando. Della sua libertà? Ne sarebbero stati capaci. Di suo figlio? Anche. «no, no» la guardò allarmato, la sua mente a farsi diecimila viaggi diversi su cosa fosse successo. «possiamo trovare un’alternativa» l’Hamilton corrugò le sopracciglia, poggiando il mento sul palmo della mano «un’alternativa a cosa?» non gli piaceva il suono di quelle parole, né il tono che aveva assunto la sorella. Era combattuto tra il tapparsi le orecchie o prepararsi per la cruda realtà, e quella maledetta attesa gli stava solo facendo contorcere lo stomaco maggiormente. «revocano tutti i diritti precedenti questa lettera» «non può essere vero» scosse ripetutamente il capo, negando ogni parole vergata su quella carta. Prima i suoi amici, e poi quello. Era come una giostra continua dalla quale non sarebbe mai sceso. «niente è più permesso lavorare. Obbligo di residenza a new hovel» abbassò gli occhi sulla pergamena, cercando tra le righe la conferma di quello che la sorella gli aveva appena detto – magari aveva letto male, o si era sbagliata. L’ultima speranza a cui si aggrappava gli venne strappata via quando trovò la conferma di quanto detto da Rea, la quale si traduceva in una condanna per loro.
    Un ordine a cui Amos, per quanto volesse farlo, non poteva disobbedire.
    Lui, che raramente trasgrediva alle regole, sempre il primo a chinare il capo. Era stanco di continuare a subire senza avere la possibilità di dire la sua, ma aveva un figlio. Dannazione, aveva un figlio non poteva fare quello che voleva.
    «non andrai a new hovel, è stupido» Amos posò finalmente il foglio sul tavolo, gli occhi lucidi a trovare quelli della sorella «che scelta ho?» voleva sentirsi dire che c’era un’altra strada, che non doveva per forza abbandonarla.
    Non un’altra volta.
    Aveva il terrore che, una volta chiuse le porte di Villa Hamilton, Rea si sarebbe dimenticata di lui. Dopotutto l’aveva già fatto, aveva passato la maggior parte della sua vita senza un Amos a ricordarle di mettere la sveglia o che le preparava la colazione appena sveglio. «non voglio andare» glielo si leggeva in faccia, avrebbe preferito qualsiasi altra cosa a trasferirsi. «cosa possiamo fare? c’è qualche scappatoia?» doveva esserci, e se c’era qualcuno in grado di trovarla era sua sorella.
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    07.12.2017 | h: 08:30
    Dannazione. Deglutì, socchiuse le palpebre e si sforzò d’inspirare dalle narici. Magari, si disse scioccamente, è solo un errore - capitava, con tutta la burocrazia con cui il Ministero aveva a che fare. Una svista, o un incidente di percorso; una scelta affrettata per la quale avevano deciso di prendere misure drastiche, ma senza realmente intenzione di metterle in atto. Rigirò la lettera fra le mani sperando, pregando, se avesse avuto un Dio a cui domandare, che ci fosse una scappatoia che le fosse sfuggita ad una prima lettura. Un marchio apposto male, magari; qualcosa che le lasciasse intendere che la missiva non fosse ufficiale, ma lo scherzo di cattivo gusto di qualche stupido inglese sfaccendato. In cuor suo, la Hamilton lo sapeva che non ci fosse - né una via di fuga, né un errore – ma non poteva realmente crederci.
    A nulla di quel che aveva letto quella mattina, poteva credere. Com’era possibile che fossero tutti morti? e cosa dannazione ci facevano in maledette scuole magiche che non li riguardavano oltre manica od oltre oceano? Non…non aveva semplicemente senso, e la lettera ministeriale non faceva che evidenziare quella mancanza di logica: perché? Perché, dopo tutti quegli anni, avevano deciso di agire in quel momento? Un cambio al potere, okay, ma se essere inglese le aveva insegnato qualcosa, era che nessun despota durava mai abbastanza a lungo da poter mantenere la sua parola. Giusto?
    «non voglio andare» Ah, Signore. Che vita difficile e ricca di stenti quella delle sorelle maggiori, costrette a sentire tutto amplificato contro la pelle e nel sangue. Quelle tre parole le percepiva amare e taglienti sulla lingua e fra i denti, un obbligo morale a far battere più rapidamente e testardamente il cuore contro le costole: Amos non voleva andare, e per quanto la tenacia fosse una delle caratteristiche più conosciute della Hamilton, in quel momento non…riusciva a pensare, o a trovare parole - strategie - che potessero affievolire quella tensione fra loro. Dovette costringersi a strappare lo sguardo ai fogli stretti fra le mani per posarlo sul profilo tondo ed ancora infantile di suo fratello, più per principio morale che per sincera intenzione di ricambiarne l’occhiata: fra le varie cose che in quel momento Rea Hamilton non voleva, c’era sicuramente leggere delusione e paura nelle iridi azzurre di Amos.
    Maledizione. Com’erano finiti in quella situazione? Aveva perso il controllo nel giro d’un paio di giorni, le redini a scivolare dalle mani nel momento in cui Al, Shia, Gemes e Jay – degli altri, onestamente, non le importava abbastanza - erano spariti nel nulla, ma quello? Non avrebbe potuto prevederlo o immaginarlo. Ovvio, in un contesto delicato come il loro quella manovra non avrebbe dovuto stupirla, anzi, eppure l’aveva fatto: perché non era giusto, perché credeva stessero facendo progressi, perché non potevano portarle via anche suo fratello. Dopo il ghetto, poi, cos’altro avrebbero fatto agli Esperimenti? Speciali camere a gas? Lavorare in miniera? Buon Dio, l’essere umano non imparava mai – mai – dai propri errori. «cosa possiamo fare? c’è qualche scappatoia?» Tacque per diversi secondi, gli occhi spostati nuovamente sulla lettera. Non che ci fosse molto altro da leggere, ma qualunque cosa era meglio da guardare rispetto all’espressione afflitta di Amos; sentiva pungere sulla lingua un mi dispiace che non le apparteneva, alieno dalla sua indole quanto un sorriso o una risata priva di secondo fine – e non voleva dargli voce, la Hamilton, perché sapeva che avrebbe significato arrendersi. «non voglio tu te ne vada» ammise, sotto voce ed a denti stretti, sollevando il serio sguardo bruno su suo fratello. Non era giusto, l’aveva già detto? Non era maledettamente giusto. Era stata costretta a cacciare Charlotte in America, ed aveva perso parte della propria famiglia in meno di una settimana – non potevano, non maledettamente potevano, indurre suo fratello ad abbandonarla. Rea era certa che se non avessero vissuto insieme, se non l’avesse vista tutti i giorni, alla fine suo fratello si sarebbe lasciato influenzare da quel che il mondo magico credeva di sapere, e diceva, di lei, o peggio: di suo, Amos si sarebbe reso conto che una vita senza Rea era più semplice, meno soffocante, e non avrebbe più voluto avere nulla a che fare con lei.
    Non poteva perdere anche lui. Era l’ultima, l’ultima!, famiglia che le fosse rimasta. Non voleva rimanere sola. Fece guizzare la lingua fra le labbra, allungando una mano per prendere la tazza poggiata sul tavolo – quella riempita di vino, per intenderci: sì, di primo mattino, fatele causa. «possiamo contattare nathaniel» esordì infine, guardando le proprie mani. «è il responsabile degli special al castello, magari…» magari cosa? Dubitava che l’Henderson non avesse ricevuto alcuna lettera, quella mattina. Tacque ancora, ritrovandosi per la prima volta in vita sua senza parole – senza nulla da dire. «ha una soluzione. Oppure puoi nasconderti» un mezzo sorriso sollevò appena l’angolo della bocca di Rea. «possiamo fingere la tua morte» come abbiamo fatto con Charlie. Cercò gli occhi chiari di Amos soppesando lentamente la frase successiva fra palato e lingua, scrutandone il sapore agrodolce che faceva scivolare in gola – era una soluzione come tante altre, d’altronde, e sempre migliore rispetto al seguire le regole imposte dal Ministero.
    Di nuovo, non significava le piacesse. «oppure potresti andartene» non era la prima volta che faceva quella proposta al fratello, e conoscendola non sarebbe stata l’ultima. Malgrado ci vivesse da tutta una vita, sapeva quanto corrotta fosse la Gran Bretagna; sapeva che, nel mondo, v’erano paesi più tolleranti dove spendere la propria esistenza.
    Semplicemente, non erano posti per lei. Ma avrebbero potuto esserlo, per Amos: quella possibilità, doveva perlomeno offrirgliela. «in america con charlie potrebbe essere pericoloso, ma…ci sono altri posti che non sono niente male» si strinse nelle spalle sollevando un elegante dito per elencare le possibili mete. «nuova zelanda, cambogia, gli emirati…» alla fin fine, uno valeva l’altro – e tutti avrebbero significato la stessa cosa: addio.
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