And the world cracked open

Henderson's Loft | x Lydia

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    Henderson's Manor | 2019 y.o. | telekinesis | 20.08.2016 |
    Can you remember who you were, before the world told you who you should be?
    Frederick Jayson Hamilton

    Qualcosa non andava. Cominciava ad abituarsi alle stranezze, per quanto ogni giorno se ne presentasse una più inconcepibile della precedente, e aveva imparato a riconoscere i sintomi. Prevedere il disastro. Nate, sto solo uscendo a fare un giro, qual è il problema? Henderson era sempre stato un tipo particolare, ma anche nei momenti più nonsense del professore Jayson aveva saputo leggere tra le righe, interpretare i suoi comportamenti e agire di conseguenza. Quella sua agitazione scatenata dal nulla piú assoluto, invece, gli suonava nuova e, se possibile, più bizzarra del solito. Il problema è che sta scomparendo della gente, Jay. E se ti rapiscono? EH? Poteva capire che Nathaniel si sentisse in qualche modo responsabile per lui, non solo come insegnante, soprattutto da quando, una settimana prima, il teleconeta aveva fatto armi e bagagli trasferendosi a casa sua, nella periferia di Londra. Eppure, quella sera stonava persino l'apprensione. Gli sembrava carica in modo esagerato, quasi sull'orlo della disperazione. Ho letto. E starò attento, promesso. Prendo solo un po' d'aria. Una voce, proveniente dalla parte più profonda e dimenticata di sé, quasi aggiunse non sei mio padre, ma Jayson la zittí giusto in tempo. No, Nathaniel Henderson non era suo padre. Né suo fratello, o un lontano parente. Questo, il telecineta, ormai lo sapeva con terribile certezza. Dico terribile, perché è vero che a volte è meglio vivere nell'ignoranza, piuttosto che venire a conoscenza della verità.
    Non che il ragazzo fosse del tutto immune a quanto stava accadendo nel mondo magico: era stato infatti Aloysius ad avvisarlo, con una telefonata nel cuore della notte, della scomparsa di Brodino, solo qualche giorno prima. Tra tutti, proprio Amos Hamilton, l'unico di quella famiglia con il quale si sentiva davvero a suo agio, la prima persona alla quale aveva sperato di essere legato, quando Murphy Skywalker gli aveva consegnato quel maledetto fascicolo. Meglio il biondino che l'altro telecineta. Ma la gente continuava a sparire, il mondo girava sempre nello stesso verso e se proprio doveva sentirsi impotente di fronte ad una cosa evidentemente più grande di lui, tanto valeva farlo senza impazzire. Perché è questo che gli stava accadendo, volente o nolente. Almeno adesso conosci il motivo, Freddie. Sarebbe potuto tornare indietro, alla Villa, e aiutare nelle ricerche. Glielo doveva, ad Amos, per i suoi modi gentili, per aver accettato un perfetto sconosciuto facendolo sentire parte di qualcosa. Eppure, non aveva mosso un dito, terrorizzato all'idea di incrociare lo sguardo con quello scuro e penetrante di Rea Hamilton, o sfiorare con le iridi caramello il volto freddo e distaccato di Gemes.

    Gli occhi della ragazza sembrano tristi. Tutto in lei, dai movimenti del corpo al alla tensione emanata dallo stesso, sembra puntare al rendersi più piccola possibile. Si muove appena, anche quando allunga la mano destra per far scivolare la cartellina marrone sulla superficie del tavolo. «E' tutto quello che sono riuscita a recuperare.» dice, e per un attimo Jayson sente l'odore di una bugia. le riconosce a pelle, soprattutto quelle pronunciate con enorme sacrificio, ma non glielo fa notare. Forse manca qualcosa, tra quel mucchietto di fogli spiegazzati, ma sembra esserci comunque materiale a sufficienza per arrivare alla verità. Una verità che il telecineta non è più così certo di voler conoscere, ad essere sinceri. Ma è lì, davanti ai suoi occhi, ne sente la consistenza a contatto con i polpastrelli. Grazie, davvero. Le parole gli escono quasi in automatico dalla bocca, ma le iridi caramello non si scostano mai dal fascicolo. E' per questo che si perde la smorfia sul volto di Murphy, un misto di dolore e senso di colpa. Non sa, Jayson, che sta ringraziando una dei suoi carnefici, non sa di essere solo il principio di un lungo e tortuoso percorso di redenzione. Le dita di lei, improvvisamente artigliate al braccio, lo colgono di sorpresa, facendolo involontariamente sobbalzare. «Non leggerlo. Per favore, non leggerlo.»

    Adesso, ditemi voi, come avrebbe potuto lasciar perdere? Buttare quella cartellina nel primo cestino dei rifiuti seguendo il consiglio spassionato di chi gliel'aveva appena consegnata su un piatto d'argento e poi dimenticarsene? Impossibile. Non dopo due anni di attesa, di domande, di ricerche e buchi nell'acqua. Pensava di essere abbastanza forte per sapere, Jayson, abbastanza forte da non permettere alla verità di distruggere quanto faticosamente creato da quando i suoi occhi si erano riaperti in un letto di ospedale. Ma era in torto, come sempre. Eppure avrebbe dovuto prevederlo: solo un mainagioia come lui poteva meritarsi quei genere di trattamento dal Karma, una sorta di punizione infinita per qualche grave errore commesso alla nascita. Primo fra tutti, così diceva il fascicolo sottratto dai laboratori, essere venuto al mondo nella famiglia sbagliata; secondo, aver vissuto mesi con quella stessa famiglia senza rendersi conto che fosse la sua. Suonerebbe divertente, se non fosse tanto triste, quasi patetico. Frederick Hamilton, 25 luglio 1996, purosangue, prelevato dall'orfanotrofio Saint Andrews il 9 febbraio 2012, processo di rimozione della memoria completato con successo. Aspetto precedente, sconosciuto, soggetto utilizzato per il processo di transizione: Xavier Stevens. Nessuna foto allegata, nessun dettaglio sulla sui suoi familiari o la vita precedente alla cattura, nessun altro nome. Il resto del fascicolo racchiudeva esami medici, risultati di test, specifiche che Jayson non si era nemmeno soffermato a leggere. Niente poteva trascinarlo a fondo come quella prima frase, impressa ormai nella sua mente come un marchio a fuoco. Frederick Hamilton. E, subito dopo, 'orfanotrofio di Saint Andrews'.
    Benvenuto nel tuo nuovo vecchio mondo, Freds.
    Forse si trattava di un equivoco. Forse gli Hamilton ai quali apparteneva, erano altri. Qualcuno che lo aveva abbandonato, o era morto, lasciandolo solo al mondo. La prospettiva non sembrava affatto allettante, ma che alternative aveva? «Jayson Matthews, sei un maledetto testone. Scordati le stelline d'oro! ELIJAH DIGLI QUALCOSA TU!» weird. Non tanto la scenetta da coppia sposata messa in atto da Nathaniel con il supporto del giovane Dallaire, il quale a prima vista sembrava desiderare di essere ovunque tranne che seduto nel salottino di casa Henderson: a quelle dinamiche di bromance il telecineta ormai si era abituato. A rendere surreale l'intera faccenda, era il tono isterico del professore, quasi stesse tentando disperatamente di prendere tempo senza riuscirci (#ihihi) e avesse finito per arrampicarsi sugli specchi. Quasi a voler rafforzare i dubbi del ragazzo, Elijah aprì la bocca per poi richiuderla un paio di volte, senza emettere un fiato, evidentemente in imbarazzo, mentre le dita si tuffavano frenetiche nella pelliccia fulva di Giuliano. Sì, se l'era portato dietro. E sì, quel piccolo bastardo si comportava come un tenero agnellino con chiunque, tranne che con lui. «Potrebbe, mh... essere-- essere pericoloso?» suonava più come una domanda, che un'affermazione, e Jay non si lasciò sfuggire l'occasione, acchiappando la palla al balzo. Per quella sera non era intenzionato a sentire ragioni, avvertendo più che mai il bisogno di stare solo con i propri pensieri, possibilmente senza essere costretto a fissare un soffitto per ore. «Non è pericoloso. Davvero, scendo, faccio due passi e torno. Passo a prendervi una pizza.» Poi non dite che non le stava tentando tutte. Vide la bocca di Nathaniel spalancarsi in previsione dell'ennesimo attacco - per difendersi dal quale il telecineta pensò bene di compiere un ulteriore passo verso l'ingresso -, quando lo schermo del cellulare del professore di controllo poteri si illuminò, interrompendo il successivo scambio di battute sul nascere. Do what you want, 'cause a pirate is free, You are a pirate! Yar har, fiddle di dee, Being a pirate is all right with me, Do what you want 'cause a pirate is free, You are a pirate!
    Quando il termine imbarazzante diventa un mero eufemismo.
    Al venticinquenne - dear morgan, come poteva avere solo cinque anni più di lui? - per poco non cadde il telefono, nel tentativo agile e aggraziato di agguantarlo dal tavolino di fronte al divano, quasi temesse di perdersi la chiamata. O che qualcuno leggesse il nome del contatto, ma sto solo facendo delle ipotesi. «Sì! Ciao. Certo. No, ci sono. Ovvio che sto bene, ihihih, chiaro.» Jayson poggiò la mano sulla maniglia della porta, infilandosi le scarpe da ginnastica senza nemmeno abbassare lo sguardo, ben fisso sulla figura di Nate. Persino Giuliano aveva smesso di fare le fusa, preferendo fuggire in qualche meandro oscuro della casa pur di allontanarsi da quella scena surreale. Il ragazzo, dal canto suo, non ci teneva particolarmente a fare domande, o ad impicciarsi degli affari suoi, al contrario era intenzionato ad approfittare di quel momento di distrazione, per darsela a gambe come il gatto di Satana. «Ma sì. Fai con calma. No intendevo.. calma, prenditi il tuo tempo. Non ho battuto la testa ciao devo lasciarti» Se solo l'Hamilton - chiamiamo le persone con il loro nome - avesse riconosciuto la suoneria personalizzata e l'avesse quindi collegata a Lydia, forse avrebbe atteso un istante, prima di aprire la porta e sgattaiolare dallo spiraglio creato, anche solo per accertarsi che la rossa non fosse nei paraggi. Dopotutto, non la vedeva da mesi e, sebbene ne sentisse la mancanza come un fiore della pioggia dopo settimane di cielo terso e sole a picco, si era guardato bene dal chiamarla o chiedere a Nate sue notizie. Troppo forte l'orgoglio, troppo grande la vergogna. Per non parlare della paura: e se l'avesse rintracciata e lei si fosse rifiutata di parlargli? Tragedia greca.
    Preferiva rinunciare, piuttosto che vedere le proprie speranze colare a picco.
    QUEST08 Antico e nuovo, vecchio e giovane"
    Attese sul pianerottolo per un istante, l'ormai ventenne, sicuro che Nate gli sarebbe corso dietro una volta messo fine alla telefonata, ma del professore nessuna traccia. Forse si era rassegnato all'idea, più probabilmente Elijah l'aveva trattenuto. Come poteva pensare di essere finito in trappola? Non aveva più senso, per Henderson, tenerlo bloccato in casa, non ora che l'assistente della sua materia era finalmente arrivata, annunciandosi con uno squillo al cellulare davvero propizio. piuttosto che optare per il citofono. cosa che al contrario avrebbe messo in allarme Jayson rovinando quel piano perfetto. Con il senno di poi posso assicurarvi che il castafratto un po' preoccupato lo era davvero, non solo come scusa per tenere il suo pupillo dentro casa attendendo l'arrivo di Lydia: stava accadendo qualcosa, qualcosa che definire spiacevole non sarebbe abbastanza. Terribile, ci va vicino. Ragazzi e ragazze scomparsi, rapiti, presi con la forza, senza un apparente schema comune. Solo il ritrovato Hamilton sembrava incapace di pensare alla possibilità concreta di poter essere il prossimo, convinto di aver già pagato lo scotto nel Labirinto. Ah, Freddie, quanto sei ingenuo. Un sussurro appena accennato, al quale non diede peso, mentre scendeva a due a due gli scalini che portavano di sotto, fino al portone principale del palazzo. Se avesse avuto uno slancio di coraggio e si fosse azzardato a prendere l'ascensore sgangherato con cui Nate rischiava la vita quotidianamente pur di non fare qualche piano a piedi, l'avrebbe persa, #einveceno: nel momento in cui svoltò dall'ultima rampa di scale e le iridi caramello si posarono sulla porta a vetri all'ingresso, ogni singolo pensiero svanì, come cancellato da una folata di vento in previsione del temporale.
    Difficile dire per quanto tempo rimase a guardarla, per quanti secondi simili a ore Jayson se ne stesse a studiare i lineamenti della ragazza, mentre Lydia faceva altrettanto con lui, attraverso quella lastra trasparente, ultima barriera. Sarebbe rimasto immobile molto più a lungo, se il rumore provocato da una porta aperta al piano di sopra non avesse interrotto bruscamente quel suo stato di trance, costringendo finalmente le gambe a muoversi, seppure per inerzia. Così sembrava solo più ridicolo del solito, e lo sapeva. «Ciao.» Ciao? Che mossa geniale, che inizio scoppiettante. Si era appena affacciato oltre la porta a vetri, il cui peso sembrava essere aumentato di almeno il triplo, un passo oltre per poi soffermarsi di fronte alla Hadaway, pronto a scattare. Diviso, lacerato, tra la voglia di darsela a gambe e quella di rimanere lì, sul vialetto d'ingresso, perso in quelle iridi contenenti tutte le sfumature del bosco. Impossibile ingannarlo nuovamente, c'entravano poco o nulla con gli occhi gentili di Freya. «Immagino sia stata tu a chiamare Henderson, poco fa. Ti sta aspettando.» Leggere tra le righe non era mai stato il suo forte, ma anche un tardone come il telecineta sapeva fare due più due, mettere insieme qualche indizio. Nate aveva appena tentato un'altra delle sue imprese, quelle che preferiva: vi dice qualcosa 'buono sconto da Madama Piediburro' come regalo di natale? Jayson, Frederick, quel cazzo che l'è, non vedeva Lydia da almeno due mesi, non avvertiva quel profumo di vaniglia da altrettanto tempo, e ancora si sforzava di mantenere un tono di voce impassibile, l'espressione dipinta sul viso di pura indifferenza. Con questo non voglio dire che ci riuscisse, ovviamente. Trapelava un desiderio ben più profondo dal modo in cui dondolava appena spostando il peso del corpo da un piede all'altro, o dallo sguardo altalenante tra il viso della rossa e il terreno, il continuo contorcersi delle dita nelle tasche dei pantaloni leggeri, di cotone. Cinque secondi, e il bisogno di raccontarle il suo segreto, quel segreto tanto terribile da farlo letteralmente scappare da Villa Hamilton senza nemmeno raccogliere le sue cose, era già più forte del mero istinto a respirare.
    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code yb ms. atelophobia


    HO DORMITO POCO FREME, SONO STANCA PERDONAME PER STA ROB(IHIHI)A. domani se riesco gli do una sistemata <3


    Edited by - as fuck - 3/10/2017, 17:31
     
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    lost in the echo

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    you said remember i love you
    i feel like a ghost in my own life -- wtf | 20 y.o. | deatheater
    Sfiorò le foto con i polpastrelli, ritirando la mano non appena i soggetti parevano volerla toccare. Capelli ramati fra capelli dell’oro più puro, sorrisi brillanti quanto vuoti. Una strana morsa al petto, mentre serrava per la millesima volta le palpebre, poggiando poi il capo sulle proprie ginocchia. Lydia Hadaway, semplicemente, non… Non. Aveva pensato, aveva sperato che quei mesi passati lontana da tutto e tutti potessero aiutarla a capire; che un giorno, Lydia avrebbe semplicemente potuto svegliarsi Annie, con solo l’amaro languore di due anni passati nel silenzio. Ma non funzionava così: non quel giorno, né quello precedente, né nel mese prima, aveva funzionato così. Era sempre Lydia, ma aveva la storia di Annie Baudelaire. Baudelaire. Sapete cosa significa sapere di avere avuto una vita, un’intera vita, di cui tutti sembrano sapere tutto tranne te? Ci erano voluti un paio d’anni, ma la Hadaway si era abituata a quella particolare non particolare quotidianità senza nome. Come una bambina, Lydia era cresciuta. Aveva una vita, anche se definirla tale sarebbe forse stato un affronto; aveva degli amici, aveva un lavoro. Non era perfetta, Lydia Hadaway, ma era tutto ciò che aveva. Si era sempre tenuta lontana per timore che qualcuno potesse affezionarsi alla ragazza che neanche esisteva, dimenticandosi che invece sì, c’era. Non aveva un passato, non aveva una famiglia, ma… c’era. Adesso che fra le mani stringeva le risposte che tanto aveva cercato, non sapeva più chi essere. Non era Lydia, ma non era più Annie. Hadaway non esisteva, ma Baudelaire non le apparteneva. Era solo una bella storia, ma priva di memorie: un libro in cui qualcuno si intestardiva a vederla protagonista, malgrado lei non ricordasse di esserlo stata.
    Baudelaire.
    Com’era possibile. Com’era possibile che in due anni, due anni, nessuno le avesse detto niente. Nessuno la era andata a cercare, nessuno aveva cercato di avvicinarla. L’avevano semplicemente dimenticata? Non doveva essere stata una grande perdita, Annie Baudelaire. E allora perché ogni volta che vedeva quelle maledette foto, gli occhi le pungevano fastidiosamente? Il brutto del vuoto, era che non aveva un limite. Non aveva contorni che potessero limitarlo: era semplicemente vuoto, privo di colori, privo di forma. Ed era lì, lo sentiva, in ogni battito accelerato del proprio cuore. Che senso aveva sapere chi fosse se non riusciva ad esserlo? Se non riusciva a ricordarlo? Eppure, Lydia non voleva ricordare. Non poteva. Non sapeva se fosse semplice ed umano terrore o solo istinto di sopravvivenza, ma in quegli anni aveva imparato a fidarsi di sé stessa.
    D’altronde, era tutto ciò che aveva avuto.

    Gli occhi verdi coperti da una patina di apatia, le labbra distrattamente dischiuse. Così Lydia, due mesi prima, aveva bussato alla porta di Nathaniel Henderson. Aveva appena parlato con Belladonna, e quell’asfissiante verità ancora le rotolava sulla lingua, pungendo sul palato come il veleno di un’ape appena masticata. Quando Nate le aveva aperto, era stata tentata di abbracciarlo, affondare il viso in quello stupido costume da pirata, e dirgli tutto quanto. Ma perché, e questa era la domanda che si era posta Lydia, avrebbe dovuto importargli? A chi avrebbe dovuto importare? Di certo non alla sua famiglia, o a quello che ne era rimasto. Baudelaire. Come aveva potuto guardarla arrancare, per tutto quel tempo, e non porgerle neanche una mano? Come aveva potuto guardarla negli occhi, quelle iridi verdi che sempre mal celavano la frattura, e non dirle niente? Non era rabbia, quella che provava Lydia Hadaway. Era delusione, era amara malinconia. Era quella certezza, nelle palpebre abbassate, di non essere mai valsa la pena. Non Lydia, e di certo non Annie Baudelaire. Forse neanche abbandonata avrebbe potuto rendere l’idea, perché per abbandonare qualcuno, bisognava averne l’intenzione. Non l’avevano mai cercata. Che razza di persona era stata? Aveva letto le lettere, immedesimandosi in quella ragazza dai colori pastello e l’anima variopinta, in quella piuma che languida era scivolata sulla pergamena raccontando una vita così normale. Non le era sembrata tanto malvagia, quella ragazza.
    Ma non poteva saperlo, Lydia, non davvero. Ed alla fine, l’apice di ciò che provava, si poteva racchiudere in una sola parola.
    Vergogna.
    Aveva chinato lo sguardo, fissandolo sui propri piedi. «devo andare via per un po’» inspirando, cercando nella propria destabilizzata memoria qualche brandello di amor proprio, aveva nuovamente alzato gli occhi su Nate. «se hai bisogno chiamami» concisa. Se non avesse detto troppo, non avrebbe dovuto mentire, né avrebbe avuto l’assillante bisogno di sentirsi dire che no, non doveva andarsene. Ma, e giustamente, Henderson come poteva saperlo? Non era altro che il suo datore di lavoro. Era stato gentile con lei, ma non era nulla di personale. Come poteva esserlo? E non poteva fare a meno di tormentarsi le mani, nervosamente strette fra loro, chiedendosi se lui, Nate, per tutto quel tempo, l’avesse sempre saputo. Forse era per quello che era stato buono con lei, che aveva passato ore a parlarle di ship (voi dite tanto di Elijah, ma sapete cosa significa organizzare incontri di lavoro per decidere le lezioni, e ritrovarsi incastrati in addestramenti, che ai militari in confronto facevano carezze, sul sacrosanto atto dello shipping? No? avete avuto il capo sbagliato), e che le aveva offerto quel suo stupido tè aromatizzato. Lydia, con l’innocenza di una bambina, vi si era aggrappata; vi si era affezionata: era stato il suo punto di riferimento, quel professore dall’aria bizzarra ed un atteggiamento ancor peggiore, ma quello sguardo sempre un po’ speciale per i propri studenti. Con quel senso dell’umorismo particolare, il sorriso sghembo che riusciva sempre a strapparle un’esasperata risata. Aveva desiderato di avere qualcuno nel mondo così, Lydia.
    Baudelaire.
    «ho preso queste venendo in qua» gli mise fra le mani una scatola di tè. Ma perché passava ancora del tempo a preoccuparsi per lui? Voleva davvero tanto, tanto, raggomitolarsi in un angolino e piangere finché il mondo non avesse avuto nuovamente senso. Una risata nervosa le sgusciò dalle labbra, prontamente messa a tacere fra i denti. «buone vacanze» e con quel lieve sorriso, Lydia se n’era andata.

    Era una sensazione di soffocante languore, quasi che l’aria si fosse fatta più solida e dolce. Rimaneva nei polmoni, gonfiava la bocca, bruciava nelle vene. Quello era ciò che si provava, quando ci si ritrovava in una strada qualsiasi di una Londra qualsiasi senza una meta. Non aveva una casa, non aveva nessuno. L’avrebbe aspettata la solita, ammuffita, camera al Paiolo Magico. Lo stesso, stopposo, porridge di verdure. Lo stesso, umido, cuscino di ogni notte. Sapete cosa si prova ad essere soli al mondo, in un mondo che neanche ti vede?
    O peggio, che vede quel che a te sfugge.
    Era da quello che Lydia aveva messo in guardia Jayson Matthews, il giorno che l’aveva trovato nella sala delle torture. Non ci si poteva legare ad una persona del genere, qualcuno che neanche meritava di essere andato a cercare. Qualcuno che andava bene, non ci fosse. Lydia non ne sapeva molto delle persone, o delle relazioni umane, ma era sicura che non dovesse andare così. Che le ragazze normali non vivessero così. Se la Hadaway di suo aveva poco da offrire, un sincero timore le suggeriva che Annie ne avesse avuto ancor meno. Baudelaire. Quello sarebbe stato il momento perfetto per il famigerato caratteraccio francese, quella fiammante combattività celata dietro ogni mossa da salotto. Un vero peccato che l’unica nota di calore avvertita da Lydia fosse stata la mano calda del sole di giugno, di luglio. Di agosto. Sole che aveva visto ben poco, per di più.
    Aveva vissuto tre mesi nel nulla, uscendo di casa solo quando obbligata. Sempre impeccabile, come un orologio caricato a dovere, con i capelli perfettamente acconciati e i sottili occhiali da sole a coprire le notti insonni passate a piangere. Non reagiva. Se fosse accaduto prima, forse, sarebbe stato diverso. Se qualcuno in tutto quel tempo l’avesse cercata, se quei mesi passati a non perdersi dentro sé stessa fossero stati utili a qualcosa, se la battaglia portata avanti con il riflesso familiare del proprio specchio non fosse stata così estenuante, forse – e si tratta sempre di supposizioni ipotetiche- sarebbe stato tutto diverso. Non biasimava suo fr-… Non biasimava Cole, o le gemelle Beaumont. Di certo non biasimava Belladonna, con quegli occhi sinceri e quel sorriso preoccupato. Non era colpa loro.
    Se fosse stato uno, avrebbe potuto. Il biasimo sarebbe stata l’ultima cosa di cui avrebbe dovuto preoccuparsi, perché Lydia avrebbe ceduto direttamente all’odio. Se fossero stati due, avrebbe pensato ad una spiegazione ragionevole, stretta a qualunque opzione che le lasciasse uno spiraglio di speranza. Perfino con tre, volendo essere ottimista.
    Ma stiamo parlando di un’intera famiglia.
    Non poteva essere colpa loro. Le sarebbe piaciuto, ma era statisticamente improbabile.
    Aveva mentito a Nathaniel. Il professore aveva cominciato a chiamarla un paio di settimane prima, ma Lydia non aveva mai risposto. In cuor suo, quasi sperava che decidesse di licenziarla. Non riusciva ad immaginare di poter tornare al castello fingendo che nulla fosse mai successo, o peggio, affrontare la situazione. Cosa avrebbe dovuto dire, poi? Mi dispiace di essere stata un tale fardello? Mi dispiace di non esservi mancata? Poteva anche non riuscire a reagire come una persona sana, ma aveva abbastanza orgoglio da non spingersi così oltre. Doveva solo… Non lo sapeva neanche lei, cosa doveva fare. Avrebbe dovuto lasciare la cattedra di assistente, non sarebbe stato così complicato sostituirla. Magari, chissà!, perfino con qualcuno di competente che sapesse di cosa trattavano le argomentazioni di Nathaniel. Ma era troppo egoista, Lydia Hadaway. Aveva solo quello. Aveva solo loro, e se l’era fatto bastare per così tanto, che non riusciva ad immaginare una vita senza. C’era Raine, c’era Amos, c’era Ashley, c’era Wynne.
    E poi c’era Jay. (-semi cit)
    Mi dispiace, davvero. Deludo le persone, non so fare altro. E non ricordo niente di chi o cosa fossi prima, perché me l'hanno strappato via. Ma so che tu sei importante. Che sei stata importante per me. Lo sento.
    Quelle parole continuavano a rimbalzarle sulla pelle, lasciando segni rossi sull’epidermide color panna. Come una caramella che mai avesse perso gusto, se le rigirava sulla lingua distrattamente, cercando di mettere ordine dove vigeva solamente caos. Poteva aver cercato di allontanarlo, o quanto meno avvisarlo, ma non poteva, né voleva, tagliare quel sottile filo rosso che pareva unirli. E non ricordo niente. Era quello che la rossa aveva sempre intravisto, nelle rare volte che aveva incrociato le iridi caramello. Lo stesso smarrimento, lo stesso senso di non appartenenza. Ma mai, per ovvi motivi, avrebbe immaginato che si trattasse proprio della medesima sensazione. E cosa poteva rispondere? E cosa poteva pensare? Lo so. Dispiaceva anche a lei, ed a quanto pare aveva deluso molte persone, e molto prima di averne raziocino. Non ricordava niente di chi fosse stata, ma non avrebbe più usato il termine strappare: probabilmente, si era trattato di un favore misericordioso. E lo sento anche io, che sei stato importante. Che lo sei ancora. Quanto sarebbe stato stupido, però, se l’avesse detto quella sera per niente. O nei giorni, o nelle settimane, nei mesi a seguire. Come un segreto del quale ancora non riusciva a comprendere il reale peso, Lydia l’aveva tenuto per sé, continuando ogni giorno a sopravvivere come aveva fatto nei due anni precedenti. E riesco finalmente a non pensare.. a quanto faccia schifo tutto il resto.
    Se solo Lydia e Jay avessero saputo di Annie e Freddie, non avrebbero più definito schifo quella vita. Ma fino a quel momento, #sacrosanteparoleJay.
    Apparentemente, rispetto al giorno prima o a quello prima ancora, non era cambiato niente. Non si sentiva diversa quel venti agosto, non aveva avuto alcun mistico risveglio di coscienza, e di certo non aveva improvvisamente riavuto la sua vita. Eppure, quando il telefono vibrò sopra il comodino, Lydia lo prese. Non lo ignorò come aveva fatto con le precedenti chiamate, rigirandosi nel letto con la testa sotto il cuscino. Voi credete fosse un segno positivo?
    Sbagliato.
    Perché la situazione stava per peggiorare non in maniera vertiginosa, di più.
    Massaggiò pigramente le palpebre, raschiando la gola con un colpo di tosse. «ehilà» «ehilà? EHILà? Lydia sono due settimane che ti chiamo! Stai bene? Sei viva? Sei tu?» Erano domande strane perfino per Nathaniel Henderson. Eppure così azzeccate. Si morse il labbro superiore, trasformando una risata isterica in un sorriso spezzato. «scusami, io…» ignorò volutamente le domande, concentrandosi sull’esordio della chiamata. «scusami» concluse quindi, inspirando con aria stanca. «ma li hai letti i giornali??!!?”?£?”?”=9» I giornali? Non sapeva neanche che forma avessero. Si mise a sedere con le gambe a penzoloni sul letto, la testa inclinata per reggere il telefono sulla spalla. Aveva un numero, ma come constatò quando se lo mise sulle ginocchia, risaliva ad almeno un mese prima. «professor henderson…» il seme del dubbio si insinuò immediato nella voce di Lydia, ora vagamente seccata, mentre un sottile sopracciglio ramato scattava verso l’alto. «mi ha chiamato perché è finito in prima pagina come scapolo dell’anno?» «... non ci sono. ma solo perché non sono scapolo» giusta osservazione. Forse? Sapeva che c’era del tenero con Aveline, ma poi era… scomparsa. MA ANDIAMO, CHI ERA LYDIA PER GIUDICARE. Annuì al telefono, sospirando piano. «davvero non ne sai niente?» voleva prendere a testate il muro. Perché aveva la sensazione che stesse prendendo tempo, ed al contempo che morisse dalla voglia di prendere direttamente lui la testa di Lydia da sbattere contro il muro? Il silenzio che seguì la domanda dovette essere sufficiente. «MA LYDIA, STANNO SPARENDO DELLE PERSONE» ti prego, Morgan, ti prego: dimmi che non ha di nuovo visto un film sugli alieni ed Elijah è troppo lontano per andargli a cantare la Ninna Nanna (molto #wat, ma mai #weird). Non ci poteva fare niente: voleva bene a Nate, davvero, ma prenderlo sul serio era così complicato! Poi lei, che di english humour ci capiva quanto sul resto (ossia poco e niente), non riusciva a comprendere dove finissero le burle ed iniziasse la verità. Nel dubbio, resistette nelle sue taciturne risponde, lasciando che solo il proprio respiro dimostrasse ch’era ancora in linea. «lydia, non sto scherzando» fortunatamente Henderson sapeva anche quanto bionda fosse la sua assistente. «aggiornati e vieni subito qua, al Ministero mi hanno dato dei fogli strani e- ELIJAH DI A NAT DI SMETTERLA DI SBAVARE SUI FOGLI no scusa amore mio non volevo urlarti contro»
    Non gli domandò se stava parlando con il cane o con il francese.
    Sappiamo tutti la risposta.

    Accadevano fatto inspiegabili nel mondo. Roba che quando lo venivi a sapere, ti chiedevi come fosse possibile che tu non lo sapessi. La terra non avrebbe dovuto cominciare a muoversi in senso opposto? Non avrebbero dovuto piovere polpette cavallette, o qualche altra creatura del genere? Si era rifugiata nella propria solitudine, testarda e patetica, mentre nel mondo accadevano code che.
    Però, Morgan, ci voleva quasi dell’impegno per perdersi non una, non due – e neanche tre!- ma ben sette persone smarrite. Smarrite, come i bagagli in un aeroporto. Raine, Amos. Come… continuava a guardare la pagina del giornale, rigirandosela fra le dita come se avesse potuto darle qualche risposta. Le sopracciglia corrugate, le labbra strette fra loro. Camminava distrattamente per Londra dimentica di quei mesi che cercavano, malgrado tutto, di rimanerle appiccicati sulla pelle. La morbida chioma color fragola, raccolta in una coda alta, le solleticava le spalle ad ogni passo mentre estraeva il telefono per lo squillo che Nathaniel le aveva chiesto. Che il citofono fosse rotto? Che dovesse nascondere le prove di un efferato omicidio? Che volesse solamente una scusa per sentire la suoneria - per la quale pareva nutrire sempre un sincero stupore- ? Non aveva chiesto, limitandosi ad eseguire. Se avesse risposto ad ogni ordine assurdo del suo capo con un interrogativo, starebbe ancora facendo il colloquio. Era così abituata a giungere nell’appartamento di Nathaniel Henderson da non far più caso alla strada; ne aveva approfittato, rimanendo con lo sguardo incollato alle pagine del Morsmordre, finchè i suoi piedi non si erano fermati automaticamente di fronte all’entrata della palazzina. Abbassò il giornale, rimanendo a guardare il proprio riflesso sulla porta a vetri: la pelle troppo chiara risaltava come un pugno nell’occhio, ma Lydia ormai ci era abituata. La maglietta verde pastello era infilata dentro corti pantaloncini blu ma, non indossando tacchi, questi non slanciavano particolarmente le gambe corte. Che vita greve.
    Si avvicinò, ma a metà del gesto si bloccò sul vialetto. Al di là del proprio riflesso, e non poteva sbagliare (LEI.), intravide un paio di occhi color caramello, i capelli scuri spettinati. Potevano anche essere in tre, ma Lydia avrebbe sempre riconosciuto Jayson Matthews: non era una particolarità estetica, malgrado di differenze con gli altri due ve ne fossero, era qualcosa di… diverso. Forse il modo in cui tendeva sempre a stringere le labbra, o quelle sopracciglia spesso corrucciate (confusione? Irritazione? Holt, sei tu?), o ancora come pareva essere abituato a muoversi guardingo, quasi avesse dovuto ponderare ogni passo. Quando aveva saputo delle sparizioni, non aveva potuto che sentirsi sollevata nel sapere che il suo nome non era fra quelli. Dire che non lo vedeva da mesi, sarebbe stato riduttivo. Era una vita. A lezione aveva sempre fatto del suo meglio per limitarsi a quei sorrisi cordiali, labbra rosse che neanche scoprivano i denti, ed era stata ogni volta rapida a distogliere lo sguardo.
    Perché poteva dire quello che voleva, Lydia Hadaway, ma c’era qualcosa. Senza proferire parola, con ancora le dita strette sulla pagina di giornale, si spostò lateralmente di un passo per farlo uscire. «Ciao.» Da quant’era che Lydia non parlava, faccia a faccia, con un essere vivente? Non ricordava neanche più come si facesse. «ehi» Brillante ed arguta come al solito, sollevò gli occhi su Jay. Doveva abbracciarlo? Stringergli la mano? Optò per rimanere immobile, le dita strette convulsamente fra loro e l’accenno di un sorriso ad incurvarle le labbra. Un po’ più sincero, un po’ meno freddo. «Immagino sia stata tu a chiamare Henderson, poco fa. Ti sta aspettando.» Ecco. Bastava assentarsi due mesi, e Nate si trovava una nuova segretaria. Si evitò, per il bene di tutti, di chiedergli per quale motivo si trovasse lì. Quella sì che sarebbe stata una domanda da biondi – e poi non erano affari suoi. Annuì, ruotando gli occhi verso destra nel chiaro intento di non ridere. Ma non potevano nascere normali? No. Erano entrambi nati male, cresciuti male, e dimenticando erano diventati peggio.
    Il vero disagio. «sì, lo so» rispose infine, incapace di tenere per sé l’ovvietà dell’affermazione. Imbarazzo sociale e personale a livelli vi prego uccidetemi subito. «grazie» completò portando nuovamente le iridi verdi su di lui, cercando di addolcire la replica vagamente ironica. Strinse le labbra fra loro, abbassando lo sguardo sullo stesso punto nel terreno che sembrava piacere tanto ai due #alzheimer.
    Vattene, Lydia. Doveva augurargli buona serata, chiudersi la porta alle spalle, e salire fino all’appartamento di Nate. Sarebbe stato così semplice, ed era così invitante. Non era che stesse scappando, chiariamo, stava solo… evitando… situazioni… okay stava fuggendo. L’aveva fatto per mesi, per anni. Inspirò, notando come Jay apparisse nervoso. Non era quel genere di nervosismo dato dall’imbarazzo, tipico della Hadaway, ma quello febbricitante di chi era sul punto di dire qualcosa. Come faceva a saperlo? Perché aveva imparato a conoscerlo e a riconoscerlo in ogni minima sfumatura. Non sapeva come, né credeva di averne mai avuta intenzione, ma era successo. Aveva importanza quando?
    BEH, almeno un figlio fa.
    Deglutì, cercando un appiglio qualsiasi che le permettesse di rimanere lì ancora un poco. «ho letto di amos» GRANDE! UN APPLAUSO PER LYDIA! Insomma, giuro che voleva dire qualcosa di sensato. Si inumidì le labbra, infilando il giornale in borsa. «come stai?» sapeva che viveva con lui, e non riusciva a capacitarsi di come una cosa del genere fosse potuta accadere. Mentre buttava la spazzatura. MA DAI. Quindi era così vicino a casa, che avrebbe potuto accadere a chiunque. Ovviamente Lydia era molto preoccupata anche per Al, Xavier, e Gemes.
    E per quelli che non conosceva, ma era sicura fossero bravissime persone (#ahah).
    Ovviamente.
    Come Gesù, amava tutte le sue pecore.
    «qualcosa non va?» qualcuno le dia un Nobel, ve prego. Gli occhi si erano spostati sulle mani di lui nascoste nelle tasche; non si era neanche resa conto (e forse, ragazzi, qui si parla di alzheimer vero) di aver allungato anche la propria mano, rimanendo a breve distanza dal braccio di Jay. Lasciandosi prendere dall’ispirazione del momento (una lezione imparata da Nate: «dai lydia, non possiamo guardare i cartoni oggi? Ci sono i pokèmon: sai che devo imparare la mossa di Ash quando prende la pokèball e dice “SCELGO TE”» no, Lydia non lo sapeva. «ma nate, la lezione è fra due ore e non abbiamo ancora niente…» «carpe diem, ragazza») schiaffeggiò il braccio del telecineta, quindi arricciò il naso. «c’era una zanzara, scusa» giustificò, con un sorriso compiaciuto.
    Perché compiaciuto? Lydia non lo sapeva (strano).
    Ma Annie sì. La Hadaway poteva non ricordare, ma certe cose rimanevano ad un livello così profondo, che era impossibile cancellarle del tutto. Sì, se ve lo steste chiedendo, era ancora per i cinque minuti.
    Dopo tutto questo tempo?
    SEMPRE.
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    Edited by low/h/ell - 5/2/2017, 20:04
     
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    «Jayson, per l'amore di Morgan, me lo fai un cazzo di favore?» Abbassó lentamente gli occhiali, lasciandoli scivolare fino alla punta ben delineata del naso, il sopracciglio destro a sottolineare un'espressione già di per sé priva di vita. Gli toccava usare un paio di lenti graduate perché, cristiddio , Nate insisteva ormai da mesi nel costringerlo contro la sua volontà a fissare uno schermo da quindici pollici, ed Jay aveva perso nel mentre almeno due o tre diottrie. E poi in quella stupida serie tv non avevano idea di cosa fosse la luce, il che rendeva ogni singola scena tetra e oscura come l'umore del telecineta stesso. «Puoi farmelo tu un favore? Non dire più quella parola.» «Quale, cazzo?» «No, Morgan.». Portava i ricordi di quella bruciante esperienza marchiati a fuoco sulla pelle, Jayson Matthews, e incubi irribili popolati da rastrelli volanti ed interviste con Morgan in persona nelle quali l'uomo chiacchierava amabilmente respirando di tanto in tanto elio da un palloncino. Never again.
    Premette la schiena all'indietro, finendo con il ficcarsi nelle reni lo spigolo di un armadietto, conscio di quanto Henderson stesse per dirgli. Dopotutto, bastava guardarlo in faccia, soffermandosi sulla vena che gli pulsava proprio al centro della fronte, o sugli occhi umidi di pianto, per capire dove l'uomo volesse andare a parare. «È possibile che io non ti abbia insegnato proprio niente? Jay tu mi spezzi il cuore.» Fu lesto, il telecineta, a spostarsi di lato, pronto a neutralizzare con entrambe le mani un possibile bacio in arrivo. Aveva riconosciuto la citazione cinematografica («Nate, ma Il Padrino? Di nuovo?» «sempre.».) e sapeva cosa ne sarebbe seguito. O, almeno, lo immaginava conoscendolo. Nathaniel, invece, non si mosse, una lacrima a rigargli il volto, l'ennesima. Non piangeva per il disappunto, ci tengo a specificarlo, ma per quanto era accaduto negli ultimi dieci secondi della puntata, ormai messa in pausa. E qui stava l'inghippo: Jayson non si era lasciato andare ad un pianto isterico come il suo mentore. «Io sono qui, che ti faccio vedere come, dopo sei fottute stagioni, l'amore trionfa, e tu sbuffi? Mugugni??»
    Voleva davvero bene a Nate, ma alle volte gli sembrava che il professore si rifiutasse di vivere sulla terra, dove i piedi di Jayson si erano ancorati già da tempo, piombati da una realtà che non aveva mai lasciato molto spazio all'immaginazione, al what if, all'utopia. Aveva pianto guardando il Re Leone, Jayson Matthews, e forse una parte di sé sarebbe crollata sotto il peso di quell'amore tanto sofferto se fosse stato da solo di fronte allo schermo del computer, ma la veritá era che quei due - evidentemente una delle tante ship di Nathaniel- lo facevano davvero incazzare. Perché non funzionava così nel mondo reale, okay? Le persone non si ritrovavano dopo essersi dimenticate una dell'altra, non aprivano varchi dimensionali solo con la forza del loro amore. Nella vita vera non bastava dire remember i love you e you don't have to per risolvere i problemi.
    Ma tu ci hai mai provato, Freddie?
    La risposta era no, ovviamente. «È una serie tv Nate. Qui l'amore non trionfa su niente. Te ne sei accorto?» E improvvisamente non stavano più parlando del finale di metà stagione di teen wolf o dei due protagonisti che dopo anni di sofferenze si dichiaravano finalmente amore reciproco correndo uno tra le braccia dell'altra con tanto di canzone strappalacrime in sottofondo. Lo sapeva Henderson, lo sapeva Jay. Erano lui e Lydia, l'argomento principale, il vero motivo per cui - inconsciamente o meno - il professore aveva preso così tanto a cuore l'educazione del telecineta al mondo delle otp e dello shipping compulsivo, ed era anche ciò che lo spingeva a provare nei confronti del ventenne un inedito mix di frustrazione e malcontento. Sì, perché il Matthews, ormai Hamilton a tutti gli effetti, era capace di rovinare qualunque cosa toccasse, trasformando anche la situazione più semplice in imbarazzo, dolore e disagio. Cristo, non è che non ci provasse a fare la cosa giusta! Solo, ogni volta che faceva un passo avanti, e nello specifico verso la Hadaway, finiva per essere sbalzato almeno una decina di metri indietro, ricadendo di chiappe su un pavimento di marmo tappezzato di rastrelli. La perfetta metafora della sua vita. «Lo sai che l'altro giorno non è venuta a trovarti solo perché c'ero io in casa.» gli lanciò un'occhiata ammonitrice, in seguito alla quale Nate richiuse la bocca, nonostante fosse già pronto a chiedere con falsa innocenza di chi stesse parlando, come se quello non fosse stato tra le righe il suo argomento di conversazione preferito. Quello, Elijah e l'eyeliner. «Smettiamola di prenderci per il culo Nate, ok? Mettici una pietra sopra, trovati un'altra ship.»
    E si alzò, prima che il professore potesse aggiungere altro, abbandonando il salotto per chiudersi nella camera che ormai sembrava essere diventata sua di diritto, come se vi avesse sempre vissuto. Vestiti appoggiati alla rinfusa su una sedia, una pila di fumetti e dvd ricevuti come regalo di Natale da Stiles con l'obbligo di farsi una cultura e poi discuterne insieme, una finta bacchetta magica con tanto di stellina in cima appoggiata al comodino accanto al letto. Non avevano reagito bene, i fremelli, quando Jayson aveva detto loro della sua famiglia biologica, e non ne era rimasto affatto stupito. Il fatto, però, che nessuno dei due avesse trovato il coraggio di fermarsi a parlarne con lui, chi per un motivo chi per l'altro, lo aveva lasciato svuotato, quasi abbandonato. Li considerava come fratelli a tutti gli effetti, ormai, e l'idea di non potersi sfogare con loro, esporre i propri dubbi e le paure non faceva altro che aumentare la confusione. Come se di quella non ne avesse già accumulata a sufficienza.

    *


    «Frederick?»
    «Va tutto bene... cinque minuti. Torno tra cinque minuti. An?»
    «Freddie..»
    «Ricorda che ti--»


    Le palpebre, fino a quel momento calate pesantemente a nascondere le iridi caramello, si spalancarono all'improvviso nella penombra, le ciglia imperlate di sudore. O erano lacrime? Non sembrava in grado di percepire la differenza, il telecineta, mentre le labbra dischiuse tentavano disperatamente di risucchiare ossigeno e costringerlo a filtrare attraverso la gola chiusa. Respira respira respira cazzo respira; ma stava già respirando, sebbene la sensazione fosse quella di annegare, e fu solo appoggiando il palmo della mano destra sul petto che finalmente se ne rese conto. Perché allora faceva così male? Si mise seduto, le dita strette sulla stoffa umida della maglia, impregnata di sudore al pari delle lenzuola sulle quali si era sdraiato senza nemmeno ripiegarle, indeterminate ore prima. O, forse, solo una manciata di minuti. «Merda.» Un sussurro flebile, nel silenzio più totale. Perché non sentiva rumore di padelle, o Nathaniel cantare sotto la doccia? Non riusciva a credere che si fosse offeso al punto da uscire di casa senza nemmeno avvertirlo, ma visto il soggetto in questione non se la sentiva di metterci la mano sul fuoco. Scoprire sempre cose nuove dei propri coinquilini faceva evidentemente parte del gioco.
    Peccato che in quel momento avrebbe dato qualunque cosa per ascoltare una ramanzina di Nate, piuttosto che il battito sordo del proprio cuore nelle orecchie; avrebbe dato qualunque cosa per non avvertire l'angoscia di quel sogno irrequieto drizzargli i capelli dietro la nuca. Non era la prima volta che la mente del telecineta concedeva al ragazzo di perdersi in pallide fantasie nelle quali lunghi capelli biondo fragola e grandi occhi verdi facevano da padroni, ma quello, quello era tutta un'altra cosa. Vivido, come mai era capitato prima, con colori così brillanti da far lacrimare gli occhi, cosí reale che il sapore delle parole sembrava essergli rimasto sulla punta della lingua. Un gusto amaro e dolce insieme. An? Ricorda che ti amo. Non tornava niente: Lydia che pronunciava quel nome, Frederick, lui che la chiamava An. Ma non erano le sue mani quelle strette a pugno contro le gambe, mentre altre braccia gli si stringevano attorno trascinandolo via; non era suo il riflesso nelle iridi color del bosco incapaci di abbandonarlo, colme di un'angoscia impossibile da descrivere.
    Non tornava niente, eppure tornava tutto. Che cazzo di casino.
    Qualcosa gli cadde in grembo, spezzando il flusso confuso dei suoi pensieri, e solo allora Jayson capì di aver avuto un bigliettino a forma di stella incollato alla fronte per tutto quel tempo. C'era poco da sorprendersi, considerato l'uso smodato che Nathaniel faceva di quei post-it appiccicandoli persino sullo specchio del bagno (BUONGIORNISSIMO!), eppure il messaggio vergato a mano sulla carta era così direttamente collegato al sogno appena interrotto, quasi il professore avesse imparato a leggergli nel pensiero, che il ventenne non poté fare a meno di corrugare la fronte, interdetto. Io esco, tu chiamala. Non fare il cazzone. Severo, ma innegabilmente giusto. Poteva benissimo accartocciare il foglietto e gettarlo nel cestino, fingere di non averlo mai letto; scelse invece di poggiarlo sul comodino, premendo con due dita sulla parte appiccicosa in modo che rimanesse incollato alla superficie liscia, prima di alzarsi finalmente in piedi, quel Freddie? appena sussurrato a sfiorargli la mente simile ad un bacio leggero. Era stanco di sentire la sua mancanza, più di ogni altra cosa, e ammetterlo suonava già come una piccola vittoria; tutto il resto veniva da sé.
    Già, il resto. L'ultima volta che aveva parlato con Lydia, la cornetta del telefono saldamente poggiata tra l'orecchio e la spalla destra, le iridi caramello inchiodate al pavimento, aveva sentito qualcosa spezzarsi: nella voce di lei, nella propria sicurezza, nell'aria stessa che respirava; sapeva di essere lui il vero problema, e non esisteva una sensazione più spiacevole di quella consapevolezza. «Pronto?» La voce della Hadaway, smorzata dall'apparecchio, lo colse impreparato: quando era entrato in salotto per comporre il numero? La cornetta quasi gli sfuggì dalle mani, tornando repentinamente al suo posto, la conversazione interrotta bruscamente da un click inequivocabile. Era il segnale che stava perdendo la testa. «Perché devi comportarti come un cretino, Jayson? » sbatté entrambi i palmi delle mani contro il ripiano sul quale era poggiato il telefono, sentendo il legno tremare contro la pelle, e in quel preciso momento si rese conto di aver detto la cosa sbagliata. «Non Jayson, Frederick.» Le iridi caramello risalirono lungo il muro, incrociando finalmente l'immagine riflessa nello specchio intenta a ricambiare l'occhiata, riconoscendo nei lineamenti puliti e nelle labbra dischiuse dettagli con cui a fatica era riuscito ad entrare in sintonia. «Sei un Hamilton, giusto? Fai l'Hamilton, cazzo.» In parole povere, nel caso specifico, smettila di fare il vigliacco e tira fuori gli attributi . O forse qualcosa di ancora non ben definito, astratto, di più simile all'agire nei propri interessi, senza pensare alle conseguenze. Poteva farcela, qualunque fosse il suo nome, il colore dei capelli, il taglio degli occhi; doveva solo mettere a tacere il frastuono di pensieri e battiti cardiaci contro la cassa toracica, afferrare nuovamente la cornetta e.. e rispondere al telefono che stava suonando.
    Non sarebbe successo se Nate, o qualunque altro essere umano presente nella sua vita, gli avesse spiegato cosa accadeva chiamando un telefono cellulare, soprattutto quando l'altra persona aveva evidentemente il numero salvato in rubrica. E figurarsi se quello non era il caso. «Pronto, Nate? Hai dimenticato come si usa il telefono?» Abbassó lentamente le palpebre, Jayson, assaporando per un istante il suono della sua voce quasi potesse sentirlo sul palato, la mente alla frenetica ricerca di una scusa. Una qualunque, che la convincesse a passare sopra l'idea della sua presenza, a costo di raccontarle una bugia; Nate, sostenitore incallito del a mali estremi, estremi rimedi, avrebbe sicuramente apprezzato. Probabilmente. Forse. Beh, non stiamo qui a spaccare il capello. «Lydia, sono.. sono Jay.» stava trattenendo il respiro? il ventenne di sicuro si sentiva a corto di ossigeno, ma a quel punto ormai era in ballo. «Nate mi ha chiesto di chiamarti, scusa se... potresti passare? Ha una delle sue crisi esistenziali e non sono, ecco.. la persona adatta con cui parlare.» Quanto meno non l'aveva sparata così grossa, né per quanto riguardava la crisi esistenziale né sul fatto che Henderson avesse bisogno di lei. Avrebbe fatto lezione in mutande, brandendo un uncino di plastica, se non ci fosse stata Lydia Hadaway ad occuparsi di lui. Tenne gli occhi chiusi, poggiando la fronte contro la parete fingendo che l'attesa di una risposta non gli stesse togliendo ulteriore aria dai polmoni, finché questa spezzó il breve silenzio con una nota di rassegnata accettazione.

    Un'ora. Un'ora per togliersi di dosso ciò che rimaneva sulla pelle troppo chiara di quel sogno tanto vivido, estremamente reale; un'ora per costringere il sangue a rallentare la sua corsa nelle vene, giungendo al cuore con più ossigeno e meno disperazione. Un'ora, prima che le nocche della ragazza si trovassero ad impattare contro il legno lucido della porta d'ingresso. Che Jayson aprí conscio di quanto quei sessanta minuti scarsi e l'acqua bollente a scivolare sul corpo non fossero serviti a nulla. Voleva respirare, ma non ci riusciva. Voleva invitarla ad entrare, ma non ci riusciva. Voleva sembrare sereno, calmo, padrone di se stesso, ma poteva solo annegare. Dentro a occhi troppo verdi che non incrociava da più di un mese, tranne che nei propri pensieri. Occhi, capelli, labbra di cui aveva seriamente creduto di poter fare a meno. Non fare il cazzone.
    Non lo fece. O forse sì, dipende dai punti di vista. Un passo avanti, sufficiente a mettere piede oltre la porta raggiungendo Lydia sul pianerottolo, e avvolgerne la figura minuta tra le braccia. Senza essere delicato, senza esitare, i palmi delle mani a premerle contro la schiena, il volto affondato tra i capelli ramati quasi potesse respirarvi attraverso, ultimo porto sicuro nel mare in tempesta.
    Come sempre.
    Come se non se ne fosse mai andata .
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    Edited by blank/space - 5/2/2017, 19:59
     
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    Di punto in bianco, senza alcun preavviso. Si era svegliata, Lydia Hadaway, ed aveva deciso che quello sarebbe stato il giorno in cui avrebbe messo un punto alla sua vita, smettendola di rimandare al giorno dopo la ricerca di un’identità che, inevitabilmente, le sfuggiva. Non sapeva chi fosse Annie, non sapeva chi fosse Lydia; aveva importanza? Dopo tutti quegli anni, poteva ancora avere importanza? Era stanca di fingere di esistere quando esistenza non sapeva neanche cosa significasse, di inseguirsi ed al contempo fuggire consapevolezze che non era certa di volere.
    Di punto in bianco, senza alcun preavviso. Non era un appartamento particolarmente bello, e non aveva alcun fascino se non per l’assenza, gradita dalla Hadaway, di vicini di casa. Si trovava a metà strada fra il Paiolo Magico e l’appartamento di Nathaniel, così che Lydia potesse raggiungere in rapidità entrambi i luoghi – a seconda, diciamocelo, di dove fosse Nate in quel momento. Un quartiere relativamente nuovo, molti appartamenti erano ancora in vendita; c’era un parco, forse, e poco altro nelle vicinanze.
    Eppure, Lydia non credeva di averne mai visto uno più bello.
    Profumava di libertà, di quell’indipendenza che aveva vantato d’avere pur non possedendola realmente; profumava di una nuova vita, quella che s’era convinta, infine, di meritare. Di un’altra possibilità. Era il primo a cui faceva effettivamente visita, ma sentiva che sarebbe stato anche l’ultimo – che già, la rossa, apparteneva a quella sgualcita facciata azzurro pastello. Quando si era decisa a mettere un annuncio sul giornale per cercare un coinquilino con cui dividere le spese, non si era davvero aspettata che qualcuno avrebbe risposto; aveva pensato a scherzi telefonici, a Nate con spessi occhiali da sole neri ed una parrucca a fingersi un aspirante coabitante solo per assicurarsi che non si mettesse in casa qualcuno che a lui non piacesse («nate, sarebbe la mia vita – se permetti» «MA LO SAI CHE GENTE GIRA AL MONDO? E se arriva un serial killer? Io ho ancora bisogno della mia colf!» «…» «vorrei correggermi con assistente, ma sappiamo entrambi che non lo farò»). Non sapeva chi fosse più stupito fra lei ed il ragazzo al di là della linea di aver effettivamente ricevuto una chiamata seria ed interessata.
    «cerchi ancora un inquilino?»
    «...ciao?»
    «ciao. Cerchi ancora un inquilino?»
    «…sì?»
    «ok, se trovi qualcosa chiamami»
    Inutile dire che, per quell’incontro, si era armata di spray al peperoncino. Si fidava del mondo abbastanza da rimanerci sempre incastrata, ma non da buttarsi bendata dalla cima di un dirupo. Nervosa di natura, Lydia, ma al contempo gonfia di un emozione che non credeva avrebbe mai brillato nei propri occhi. Speranza.
    Guardò nervosamente l’orologio da polso, la spumosa chioma biondo fragola legata in una disordinata, almeno apparentemente, coda alta. Era in anticipo, ma aveva preferito arrivare per prima all’appuntamento con chiunque fosse il presunto coinquilino; non sapeva neanche che aspetto avesse, il che la portò ad adocchiare in modo molesto chiunque fosse stato così sfortunato da passarle affianco.
    15:59
    È ancora presto, Lydia. Si umettò le labbra, la guancia stretta fra i denti, mentre lo sguardo verde vagava distratto dalla punta dei propri piedi alla strada deserta di Londra. Si tolse la borsa da tracolla per tenerla fra le dita, così da avere le mani impegnate – ed una plausibile arma contundente, Nate sarebbe stato fiero di lei.
    16:00
    Cosa credevi di fare, Lydia? Era stato incredibilmente stupido da parte sua, ingenuo, credere che qualcuno potesse realmente presentarsi. Non le aveva neanche detto il nome, o dato indicazioni su come riconoscerlo; chiunque, eccetto Lydia Hadaway, avrebbe creduto ad un catfish - di cattivo gusto, per di più. Peccato che la rossa, più di qualunque altra cosa, avesse bisogno che fosse vero. Aveva bisogno, Lydia, che ci fosse qualcuno con cui condividere quel passo, più di quanto non avesse necessità di un reale supporto monetario; aveva vissuto da sola per anni, interagendo con ben poche persone: era giunto il momento che cominciasse a vivere da essere umano – e gli umani, come si soleva dire, erano animali sociali.
    Forse era nata nella razza sbagliata.
    16:01
    Il fatto che lei fosse lì da più di un’ora e mezza, non significava che anche il ragazzo fosse tenuto a presentarsi in anticipo; con Nathaniel, avrebbe dovuto abituarsi ai ritardi delle persone, ed un minuto non avrebbe dovuto fare alcuna differenza. Ma era così importante, così dannatamente fondamentale, che non riusciva ad impedire al proprio cuore di continuare la sua cavalcata verso un principio di attacco di panico. Si sedette sugli scalini che portavano all’entrata, la borsa fra i propri piedi e le dita a ticchettare sui pantaloni.
    16:02
    «sei quella dell’annuncio?»
    Vorrei poter dire qui che Lydia, in attesa, fosse effettivamente preparata all’arrivo di qualcuno, ma sarebbe una menzogna. Deglutì così rapidamente da farsi andare la saliva di traverso, gli occhi ruotati verso l’alto ed una sincope in corso nascosta pudicamente dalla mano a coprire le labbra – e la faccia, perché no.
    «e tu quello che ha chiamato?» riuscì infine a domandare, un paio di polmoni dopo, alzandosi in piedi. sì dico che ha un prurito perchè le mutande sono strette (?) «lydia» espirò, sforzando le labbra in un sorriso che non apparisse isterico. «lydia hadaway» In quello, durante le lezioni con Henderson, si era duramente allenata, tanto da risultare perfino convincente. «shot» attese pazientemente che il giovane, avrà avuto all’incirca la sua età, completasse la sua presentazione. Non lo fece. «come Cher?» inarcò un sopracciglio, lui si strinse nelle spalle. «come shot» il fatto che la sua logica non facesse una piega, spinse anche Lydia a fare spallucce. Era stata svezzata da Nate, d’altronde: era abituata a primi approcci decisamente peggiori.
    E chi era lei, nata Annie Baudelaire, per giudicare la fallacia di un nome.
    A dire della maggior parte delle persone, gli appartamenti nuovi avrebbero dovuto causare un certo scompenso, l’arido bruciore del loro essere vuoti, disabitati – i passi a echeggiare sul parquet, le pareti da ridipingere poiché portavano l’alone di antichi quadri ivi appesi, l’odore di chiuso e la polvere. Ma Lydia non era la maggior parte delle persone, e non riusciva a fare a meno di sorridere. Ogni mattonella calpestata sotto la suola delle scarpe, era una firma in più sul contratto d’affitto, uno spicchio di libertà in più, di nuova affermazione nel mondo. La Hadaway, quella casetta dimenticata, la sentiva già sua.
    «ti serve lo sgabuzzino?» la voce di Shot le arrivò ovattata dall’altra sala, dove lo raggiunse con passi misurati e cauti. «non credo, perchè?» «mi serve per le armi» Lydia rise, un vago cenno con la mano nell’aria.
    Rise finchè lui non inarcò un sopracciglio, il capo lievemente reclinato. Quando comprese che la sua era stata una domanda seria, si ricompose. «tutto tuo» lo scrutò stringendo le labbra fra loro, piegate nell’abbozzo di un sorriso. Perché avrebbe dovuto non fidarsi, Lydia; avrebbe dovuto trovarlo inquietante, ed esserne sinceramente terrorizzata, e trovare una scusa qualunque per telare e cercare un nuovo inquilino.
    Ma era di Lydia Hadaway, che si stava parlando. Risparmiamo sull’antifurto. «quando puoi trasferirti?»

    Era tornata al Paiolo Magico, incapace di cancellarsi dal viso un espressione euforica. Era la volta buona, se lo sentiva; avrebbe finalmente rimesso insieme i pezzi di una vita strappata e sdrucita, ed allora avrebbe potuto respirare, come mai s’era permessa di fare. La padrona di casa, a cui pareva non importare un accidenti di niente, aveva detto loro che potevano andare ad abitare lì in una quindicina di giorni, massimo venti; neanche il non conoscere la persona con il quale avrebbe condiviso l’abitazione bastava a mettere a tacere il suo entusiasmo, frizzante e morbido come una bevanda dolce. Prese il telefono, le dita ad indugiare sopra la tastiera. La prima persona cui avrebbe voluto dire del suo grande passo sarebbe stata Nate, ma la verità era che non voleva mostrargli subito quanto avesse bisogno, lei!, del suo supporto; fra i due, era Lydia a dover essere quella responsabile, ed aveva tutta l’intenzione di dirgli la notizia di persona, con tanto di non curante stretta nelle spalle – come se quel trasferimento, per lei, non significasse tutto. Scorse la rubrica, le ginocchia strette al petto, lanciando occhiate gonfie di rammarico ad ogni contatto: era difficile instaurare rapporti personali, quando la filosofia di vita era i would text you but i don't' want to annoy you. Alla fine, con un sospiro di esasperazione, scrisse un messaggio ad Amos.
    Yoooooooo. No, non andava bene. Cancellò il messaggio, bloccò lo schermo, chiuse gli occhi. Ehi! Ma chi sei, Lydia. Cancellò ancora, bloccò lo schermo, si mordicchiò il dorso della mano. Tenne premuto il tasto per mandare l’audio, ma alla fine tacque per così tanto, che dovette cancellare anche quello. Perché doveva essere così difficile? Buonasera. No, no e no. Fece per bloccare lo schermo, arrendersi all’evidenza di essere socialmente un disastro, QUANDO lo vide: online. Maledizione; chissà da quanto tempo stava vedendo sta scrivendo. Optò per inviare una gif a caso, seguito da un ti andrebbe di aiutarmi nel trasloco? Dico a Nate di darti stella doppia #wat. Così, per dire e non dire, sapete.
    Cosa, non lo so.
    Quando il telefono cominciò a vibrare fra le sue dita, perse almeno dieci anni di vita. Dio santo, Nate! COME FACEVA A SAPERE CHE STAVA PARLANDO DI LUI! Potevano anche far lezione agli esperimenti, ma buon signore, il più Special fra tutti era indubbiamente lui. Quando qualcosa lo interessava (accadeva, anche se di rado ed in maniera molto selettiva) era un po’ come Lele quando posti una risposta alle role: lo sapeva prima di te. «pronto?» domandò portandosi il telefono all’orecchio, il cuore a sbattere invisibili ali contro le costole.
    Clic.
    Le aveva
    Davvero
    Davvero
    Sbattuto il telefono in faccia. Che razza di… primadonna. Aveva un ego così grande che era impossibile capire dove iniziasse e dove finisse – Lydia l’aveva sempre ritenuto come lo spazio, senza dei veri confini. Sbuffò portandosi una mano alla fronte, scivolando sul bordo del letto per mettere i piedi sul pavimento, quindi compose nuovamente il numero dell’Henderson. Nell’attesa, si morse con esasperazione le pellicine sui polpastrelli, la testa premuta contro la spalla per tenere l’orecchio contro l’apparecchio. Quando sentì il rumore della cornetta, grugnì irritata – e con tanto di sopracciglia inarcate. «Pronto, Nate? Hai dimenticato come si usa il telefono?» ironica e mordace, come solo con Nathaniel si permetteva d’esserlo; l’unico con cui, d’altronde, aveva abbastanza confidenza da poter evitare i sorrisi luminosi ma vuoti quanto una lampadina al neon.
    «Lydia, sono.. sono Jay.»
    Fra tutte le voci.
    Fra tutte le voci.
    Il cuore di Lydia prese a battere così forte da farle temere che Jayson, dall’altra parte della cornetta, potesse sentirlo. Alzò la testa così di scatto da perdere la presa sul telefono, costringendola a riprenderlo abilmente al volo – e rimase a fissarlo senza dire nulla, Lydia. Un comportamento così stupido, e così infantile. E la sua voce a ripetersi ancora e ancora nella sua mente, dove sempre abitava. Nel modo in cui diceva Lydia, c’era qualcosa che faceva desiderare alla Hadaway che fosse quello il suo vero nome. Poteva esserlo. Deglutì, portandosi delicatamente il telefono all’orecchio. Le parole strozzate in gola, gli occhi chiusi. Le bastava anche solo sentirlo respirare, sapere che stava bene, per stringerle il cuore in una morsa dolorosa - ed era così difficile prendere aria, quando percepiva il profumo della sua pelle permearla, quasi si fosse trovato seduto accanto a lei. Si morse il labbro, ma smise quando anche quel piccolo gesto bastò a ricordarglielo – e potevano essere passati mesi, anni, ma quando ripensava al bacio durante la festa, era sempre soffocantemente recente. «Nate mi ha chiesto di chiamarti, scusa se... potresti passare? Ha una delle sue crisi esistenziali e non sono, ecco.. la persona adatta con cui parlare.» Per un istante, durevole quanto un battito di ciglia, Lydia aveva pensato che avesse voluto solamente sentire il suono della sua voce – che ne avesse bisogno quanto lei, con la testa premuta contro il cuscino, ne aveva bisogno. Sospirò piano, la schiena così piegata da avere il capo a sfiorare le ginocchia. «ovviamente» commentò, cercando di mascherare la delusione con il disappunto, le palpebre serrate. Guardò l’orologio, tamburellando con le dita sulle coperte. «dammi un’oretta, se riesci toglili la katana: a volte si convince di essere in fruit ninja» così dicendo, con un respiro pregno delle cose schiacciate sul palato, Lydia Hadaway chiuse la chiamata.

    Avrebbe potuto smaterializzarsi o prendere i mezzi, ma optò per una passeggiata; quella mezz’ora di cammino le serviva principalmente per schiarirsi le idee, cancellare l’alone rosso dalle guance e mascherare il proprio turbamento con l’aria fredda d’inizio febbraio. Nell’usuale borsa a tracolla, aveva infilato la lavagnetta che aveva trovato in un adorabile mercatino pochi giorni prima; ovviamente non le era stato venduto alcun libretto d’istruzioni, quindi il funzionamento le era del tutto ostico. Da sé, quasi conoscesse Lydia meglio di Lydia stessa, si era sintonizzato sull’umore del suo capo. Si aggiornava costantemente sul suo stato d’animo, così che la Hadaway sapesse sempre quando bussare alla sua porta recando biscotti ed un nuovo tipo di tè che, era certa, gli sarebbe piaciuto. Quel giorno non c’era nulla di particolare, solo una faccina con un paio di occhiali da sole, ma Nathaniel Henderson era tutto ad interpretazione: una tale emoji avrebbe, di fatti, potuto benissimo significare ch’egli era triste e amareggiato dalla vita ma voleva comunque apparire cool. Dopo anni, ci aveva fatto il callo.
    Jay sarà già uscito continuava a ripetersi come un mantra, senza neanche guardare dove stava andando – i piedi, ormai, la portavano in automatico sotto casa di Henderson. Non sapeva neanche lei perché insistesse sull’assenza di Jay, quando era presumibilmente ciò di cui aveva meno bisogno in quel momento: era stanca di andarsene, di mettere barriere, di perderlo. Era stanca di fingere che non fossero nulla, loro due, quando era palese fossero tutto – ed un tutto molto più grande di quanto la Hadaway fosse a conoscenza.
    Era stanca di tante cose, Lydia. Ma aveva paura. Quella che bloccava il respiro, asciugava la bocca, e ti faceva stringere convulsamente le mani fra loro; quelle che minacciavano di aprirti a metà, scavando in un petto di per sé nullo. Non sapeva di cosa, non sapeva cosa, ma aveva un sincero timore.
    Di lui, per lui, con lui.
    Di lei, per lei, con lui.
    Non era certa di quando fosse accaduto, ma si trovò a fissare la porta di Nathaniel – potevano essere passate ore, o minuti, o vite. Osservò il proprio opaco riflesso sul legno, i capelli lasciati sciolti a nasconderla dal resto del mondo – e le scarpe, basse, che neanche ci provavano a slanciare una figura di per sé troppo minuta. Bussò piano, temendo di rompere il precario equilibrio costruito durante il tragitto, da quando aveva ricevuto la chiamata. Vibrava fra la preoccupazione per Nathaniel, e quella per sé stessa. Cosa aveva fatto, Nate? Cosa aveva fatto, lei?
    Almeno per la seconda domanda, una (triste) risposta, l’aveva: niente.
    Niente.
    Un niente che prese a pulsare come una piccola galassia, quando la porta si aprì. Rimase a fissare il ragazzo di fronte a sé con gli occhi spalancati e le labbra strette in un sorriso nervoso, temendo che aprire la bocca avrebbe significato liberare demoni a cui non avrebbe voluto, non così, dare luce. Lo osservò con il cuore a rimbalzarle in gola e sulla lingua, lo sguardo a scivolare con languida malinconia sulle spalle, il collo, arrampicandosi poi con un brivido sulle labbra sottili che tanto le facevano accelerare le pulsazioni, il loro sapore ancora fresco sulle proprie. Ed infine giunse agli occhi, quelle spezzate iridi miele che sentiva giungere laddove nessuno sguardo era mai arrivato, nel nucleo più vero e malfunzionante della Annie dimenticata - e della Lydia rotta, e di tutto quel che era stata e non era più.
    Si dimenticò di respirare, o forse decise di non farlo. In un istante fugace, sia Annie che Lydia furono d’accordo – per una volta, almeno quella: non c’era nulla di cui avere paura, perché loro, lei, lo conosceva. L’aveva sempre fatto. E se era quello a terrorizzarla ogni qual volta lasciava vagare lo sguardo su di lui, al contrario in quel momento le parve l’unica cosa giusta al mondo.
    Fallo, Lydia.
    Non posso.
    Sì, che puoi.
    Rimase immobile, abbagliata quanto un cerbiatto dai fanali di un automobile, quando lui fece un passo nella sua direzione – e l’aria si fece più calda, ed il battito più irregolare, ed il sorriso vacillò in un espressione più seria di puro e primordiale bisogno. E poi un altro.
    E poi era lì.
    Le sue braccia ad avvolgerla contro il petto, così forte che Lydia era certa potesse sentire il cuore di lei contro le proprie costole – così forte che Lydia temette che, se solo si fosse allontanato, avrebbe ricominciato a cadere a pezzi. Come se fosse quello, semplicemente e da sempre quello, a tenerla in piedi. Abbandonò con un sospiro il capo sulla sua spalla, gli occhi chiusi e le braccia ancora lungo i fianchi. Le dita fremevano per il bisogno di stringersi attorno alla sua maglietta, di sentire la pelle sottostante, la morbidezza dei corti capelli castani sui polpastrelli.
    Fallo, Annie.
    Non voglio.
    Sì, che vuoi.
    Voleva tante cose, Annie Baudelaire, la metà delle quali non coincidevano neanche per uno spicchio con i desideri di Lydia, Lydia Hadaway. Ma quello? Di quello, entrambe, avevano bisogno quanto ne avevano di respirare; a Annie mancava la possibilità di averlo detto, a Lydia la possibilità di ricordarlo.
    Ma non cambiava i fatti.
    Dapprima timidamente, le braccia di lei si avvolsero alla vita di lui stringendolo ancora più a sé, un respiro profondo quanto l’oceano a tremarle sulla lingua. Le mani scivolarono poi in avanti, posate fra Lydia e Jay, e da lì risalirono fino alle spalle. Si allontanò di poco, abbastanza da poterlo guardare, mentre le dita indugiavano sulle sue guance, sfiorando l’aria quasi fosse già la pelle. «te ne sei andato» bisbigliò appena – senza rifletterci, senza realmente pensarci. Era un’accusa, ma suonò come una supplica.
    Se n’era andato Freddie.
    Se n’era andato Jayson.
    E lei l’aveva aspettato, sempre - e l’aveva cercato, in ogni sfumatura cerulea o miele, non aveva avuto alcuna importanza. E l’aveva trovato, sempre. Chiuse gli occhi, le sopracciglia ramate corrugate nello sforzo di ricordare - perché fosse lì, perché l’avesse detto, ma anche più semplicemente perché facesse così male.
    Ogni parola.
    Ogni respiro.
    Scosse la testa, un sorriso forzato sulle labbra rosse – ed i pollici a sfiorare appena le guance di Jay, e le altre dita piegate contro il palmo a trattenersi dall’essere intrecciate sulla nuca di lui per premerlo contro di sé.
    Cosa stai facendo, Lydia.
    Ricordare.
    Si irrigidì appena, inspirando ma senza lasciare che l’aria poi lasciasse i polmoni, la punta del naso ad un palmo dal mento di lui.
    Alla fine, fece l’unica cosa che Lydia Hadaway avrebbe potuto fare – non Annie, mai Annie.
    «nate è messo così male?» un sorriso più morbido, marcato d’ironia e d’esasperazione, velato d’imbarazzo per quell’abbraccio che sentiva bruciare nelle vene quanto veleno – e per quei polpastrelli che proprio non riusciva ad allontanare; e per quello sguardo che proprio non riusciva ad abbandonare.
    Abbraccio che, da parte del telecineta, doveva sicuramente essere indotto dallo spirito combattivo di un Henderson in piena crisi isterica, e dal finalmente agognato aiuto dello Spirito Hadaway Santo. Doveva.
    Perché altrimenti non giustificavano, Annie e Lydia, come potesse essere così difficile.
    Così difficile, essere semplicemente loro due.
    Cercavano scappatoie, vie di fuga; cambiavano strada, e si trovavano, e si perdevano ancora. Non era così, che avrebbe dovuto funzionare.
    Dimmi che non c’entra nulla, Nate. Dimmi che hai semplicemente bisogno di me. Dimmi che mi vuoi, e che lo vuoi, Jay.
    Dimmelo, Freddie
    .

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    Moodboard: può memorizzare al massimo una persona, ma di questa persona ti dirà sempre, quando guarderai la lavagnetta, come si sente (a seconda dell’umore, comparirà un diverso emoji)


    Edited by #epicWin - 6/3/2017, 03:07
     
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    Non poteva nemmeno immaginare, Jayson, quanto la sua vita fosse stata - e continuasse ad essere - influenzata dal destino, quasi questo avesse già scritto una storia con tanto di finale. Poco importava come ci si arrivasse, o quanti sforzi facesse il ragazzo per cambiare le cose, modificare un percorso pre impostato, ciò che contava era rispettare le tappe fondamentali senza perdersi per strada. Così, pur non ricordando nulla della sua vita prima di diventare Jayson Matthews , il telecineta si era ritrovato dentro quello stesso labirinto che i suoi figli avevano contribuito ad ideare, tra le cui mura imponenti l'esistenza fino a quel momento priva di un qualunque legame con il passato si era aggrappata disperatamente a coloro che l'avevano riportato a casa. Villa Hamilton, la sua famiglia. L'amore per Lydia rappresentava l'ennesimo tassello tornato al suo posto, minuscoli pezzetti combacianti che messi uno accanto all'altro finivano per formare un'immagine familiare eppure estranea, attraente e allo stesso momento terrificante. Perché sapeva di averla lì, quella vita, a sciogliersi sulla punta della lingua come il nome di un amico d'infanzia, della prima fidanzatina, la sigla di una pubblicità vista da bambino; facevano scattare degli interruttori, Gemes e la Hadaway, illuminando la mente del telecineta come un albero di Natale avvolto da troppe luci difettose. Buio, lampo, buio, lampo, in un susseguirsi di immagini e sensazioni che Jayson non aveva il coraggio di definire ricordi, ma alle quali si aggrappava comunque con le unghie e con i denti per paura di perderli. Per paura di perdersi. Anche se, in fondo, perso lui lo era già; lo era da sempre, prima ancora di scoprire cosa significasse sentirsi smarriti, avvertire la propria esistenza scivolare tra le dita. Lo era da sempre, quando ancora bambino passava ore con la fronte poggiata contro il legno di una porta chiusa, grandi occhi spalancati per cogliere anche solo uno scampolo del fratello al di là della serratura, affondare le iridi grigio azzurre in quelle altrettanto chiare, farsi forza tramite le sue parole così da non crollare sotto il peso di altre, peggiori; lo era da ragazzino, quando le dita di Charmion si erano strette attorno al suo polso per l'ultima volta, le lacrime della sorella a bagnare la pelle troppo chiara del collo, il profumo dei suoi capelli inspirato così a fondo da rimanerne stordito, sapendo che non l'avrebbe più sentito, così come il cuore di lei contro il proprio petto. Era stato perso, Frederick Hamilton, finché nell'attesa della fine le labbra, le mani e la voce di Annie Baudelaire non l'avevano riportato a casa. Lontano dalle ombre color pece di una cella, lontano da dolori e sofferenze, spazzando via la convinzione di non appartenere a niente e nessuno. «te ne sei andato» Torno tra cinque minuti. Sbatté le palpebre, riemergendo da una bolla di ossigeno per tornare alla realtà, dove questa finiva inevitabilmente per mescolarsi con il sogno. Ammesso che si trattasse solo quello. Annie, ricorda che ti amo. Come ci era arrivato a quel punto? Non le aveva dato tempo di entrare in casa, mosso anima e corpo da un istinto primordiale impossibile da placare, le braccia a stringere il corpo di Lydia contro il proprio per il bisogno di sentirla reale sotto le dita; ed erano rimasti immobili secondi, minuti, briciole di tempo che a Jayson sembravano ore infinite, poi i polpastrelli di lei gli avevano sfiorato le guance, delicati ma fermi, e quelle parole scivolate inconsciamente dalle labbra piene avevano fatto il resto. Le sentiva rimbombare nelle orecchie, palpitare dentro al petto, scivolare al di sotto di quella membrana che un tempo era appartenuta a Frederick Hamilton e di cui ora il ragazzo indossava i resti, ogni giorno più vicino a sentirsi padrone degli stessi e non volgare ladro di una vita non sua. Un pezzetto alla volta, Freddie. «Mi dispiace. Mi dispiace davvero.» di essere scappato, di aver avuto paura, di non essere stato all'altezza, di averti detto che tornavo quando sapevo di mentire. Non aggiunse altro, incapace di parlare, incapace di spiegarle il perché di quel gesto avventato, quando mai si era spinto oltre ad uno sguardo, un cenno con il capo; aveva immaginato di abbracciarla solo nei suoi sogni, vividi e leggeri, nei quali Jayson Matthews poteva permettersi di essere solo Jay e lei solo Lydia, dove le parole gli nascevano dal cuore e come tali venivano formulate dalle labbra dischiuse, invece di frantumarsi contro la barriera costruita un mattone alla volta dietro cui il telecineta si nascondeva con l'intento di proteggere se stesso e gli altri, senza rendersi conto di quanto lo estraniasse. Sentì le mani della ragazza premere sul viso, il calore delle stesse ad avvampargli le guance mescolato al desiderio impellente di cancellare anche quei pochi centimetri di distanza, fare per una volta la cosa giusta; ma come poteva supplicarla di rimanere tra le sue braccia ancora un altro secondo, o per sempre? Come poteva confessare che il nome in continuo pulsare nelle tempie fosse Annie e non Lydia?
    Chiediglielo, Freddie.
    Non posso.
    Codardo.
    Lo so.

    In merito non c’erano dubbi e forse il ventenne non ne aveva mai avuti, sebbene tentasse con tutte le sue forze di dimostrare il contrario, più a se stesso che agli altri; fatica sprecata, vita sprecata. «nate è messo così male?» Allentò la stretta attorno al suo corpo, i palmi a sfiorare le proprie gambe quasi la pelle fosse rimasta scottata da un improvviso calore del quale fino a quel momento non si era affatto reso conto. Aveva perso l’attimo, di nuovo, soffocato dal terrore di rovinare tutto ancora, e ancora; con un passo indietro si sottrasse al tocco delicato di Lydia, iridi caramello costrette verso il pavimento in marmo del corridoio perché lei non potesse leggervi dentro l’imbarazzo di una bugia, lo scintillio febbrile di una pulsione sempre più difficile da controllare. «A proposito di Nate..» le fece cenno di entrare in casa, chiudendo la porta alle spalle di lei una volta superato l’ingresso, le spalle a poggiarsi contro lo stipite in una posizione che tutto sembrava fuorché di difesa; si arrendeva alle conseguenze, Jayson Matthews, forse per la prima volta dietro la facciata alla quale aveva fatto l'abitudine, senza muri o barriere. O tutto o niente, Freddie.«Non è in casa. Ho pensato..» pensava pure? What a time to be a player. «che se ti avessi detto la verità non saresti venuta.» si costrinse a sollevare lo sguardo, incrociando l’intensità di quel bosco nel quale pareva impossibile riuscire a districarsi, di nuovo paralizzato da una ridondante sensazione di deja-vu: c’è chi dice si tratti di brevi attacchi epilettici, altri che li considerano quasi atti divini, ma per Jay rappresentavano sabbie mobili in cui affondare a poco a poco nello stupido tentativo di trovarvi un fondo contro cui far presa per risalire in superficie; e mai quel fondo gli era sembrato tanto vicino. Poteva essere sincero, una volta tanto, voleva e doveva, perché Lydia meritava qualcosa di reale, concreto. non la confessione biascicata tra i fumi dell'alcol o quella sussurrata alle sue spalle quando il ventenne era certo non potesse sentirlo, ma l'unica che contava davvero. Occhi negli occhi, cuore a cuore, gli fosse anche costato un rifiuto, una ferita in più, l'ennesimo colpo dal quale riprendersi. Poteva essersi sognato tutto, il telecineta, immaginando nella propria testa il motivo che l'aveva tenuta lontana tutti quei mesi, sempre in attesa della sua assenza per incontrare Nathaniel, così attenta a non incrociare mai i suoi passi o il suo sguardo, il respiro interrotto a stento per pronunciare poche parole al telefono, un soffio e niente di più. Poteva essersi sognato tutto, ma aveva bisogno di una dannata conferma, prima di affrontare la realtà (aka morire dentro più del solito) «E la verità è che mi mancavi.» Tanto, troppo, più di quanto sia umanamente accettabile, da lacerarmi il cuore, per tutta la vita. «ma non sapevo come dirtelo.» doveva essere sincero, giusto? Anche nel ribadire un concetto che certamente Lydia doveva aver già recepito da tempo, leggendo tra le righe dei suoi interminabili silenzi, il lieve tremore delle mani strette a pugno, le palpebre calate sugli occhi quando il rumore assordante del nulla nella testa si faceva troppo forte e opprimente; lei sapeva, e lo vedeva, e lo conosceva. «O se fosse giusto farlo. Perché c'è qualcosa che non va in me, Lydia.» Era arrivato al punto, finalmente. Non parlava della memoria perduta, dell'aver scoperto di essere un Hamilton, o del peso ancora gravante sul petto dovuto alla certezza di non aver fatto abbastanza, non aver dato abbastanza, quando ce ne era stato bisogno, prima che un esplosione squarciasse la notte cambiando le vite di tutti, senza eccezioni. Separò finalmente le spalle dalla porta d'ingresso, avvicinandosi alla ragazza quel tanto che bastava per avvertire il profumo fruttato dei capelli biondo fragola, lasciandole comunque una via di fuga, la possibilità di tirarsi indietro; sapeva di averle già fatto quel discorso, avrebbe potuto giurarlo sulla sua stessa vita, ma il dove e il quando rimanevano un mistero, così come se si fosse trattato di sogno o realtà. Gli era ormai impossibile distinguere i due piani, al punto che persino provarci risultava una totale perdita di tempo. «Rovino sempre tutto. E' una costante.» Corrugó la fronte, rendendosi conto solo una volta pronunciate quelle parole quanto suonassero giuste, prive del velo di patetica commiserazione di cui temeva sarebbero state impregnate una volta abbandonata la punta della lingua; ed erano giuste perché non si può affrontare una dipendenza finché non si ammette a se stessi di esserne schiavo.«Ma forse tu puoi...» Ma l'aveva già detto, giusto? Parole sussurrate come balsamo sull'ennesima ferita, una voce troppo giovane a rimbombare tra le pareti della stanza vuota, il sapore metallico del sangue sulla punta della lingua morsicata nello sforzo immane di rivelare finalmente se stesso. Forse tu puoi aggiustarmi, Annie.
    E l'aveva già guardata in quel modo, la testa leggermente chinata in avanti, la bocca dischiusa, il respiro ridotto ad un filo d'aria nei polmoni; e l'aveva già toccata in quel modo, i polpastrelli a sfiorare il dorso della sua mano per risalire lungo il braccio, soffermandosi tra la spalla e la pelle sottile della gola; e l'aveva già desiderata a tal punto, sentendosi scoppiare il cuore nel petto per la fame e l'amore e il bisogno. Viscerale, istintivo, animale, quello che Jayson aveva represso sin dal principio trasformandolo in rabbia e frustrazione, un modo facile per non doversi scoprire rendendo vulnerabile un involucro delicato, ancora troppo fragile. Facile, non semplice. E poi, solo qualche mese prima, incatenato e malnutrito, in ginocchio sul pavimento lurido di un capanno pronto ad esplodere, il telecineta aveva rischiato tutto, vita e onore, famiglia e dignità, solo per rendersi conto di non avere tempo; gliel'avevano rubato, strappato dalla mente pur avendovi affondato le unghie e i denti per tenerlo stretto a sé, portato via lasciando un cratere incolmabile in grado di risucchiare qualunque sensazione piacevole, ogni attimo di pace, il più piccolo pulviscolo di felicità. Non aveva più tempo da sprecare, Frederick Hamilton, ma solo da vivere, Lasciò la frase in sospeso, la voce calda a morire sulle labbra ormai ad un soffio da quelle di Lydia, vicini come sarebbero dovuti essere da sempre; come era stato concesso loro di rimanere per un lasso di tempo troppo breve, separati nella maniera più terribile. Costretti a dimenticarsi uno dell'altra, e non solo.

    Li senti?

    Solo un sussurro, le dita di lei a guidare le sue sulla superficie liscia e calda del ventre, ultimo grado di separazione tra il mondo esterno e la vita all'interno; la prima cosa che il ragazzo avesse il coraggio di considerare propria. Alla domanda di Annie aveva risposto di sì, senza esitare, il battito del cuore divenuto un tutt'uno con quello dei figli non ancora nati e che mai avrebbe guardato negli occhi, finchè i loro volti non sarebbero apparsi come sconosciuti in una folla a cercare la sua attenzione, pedine inconsce di un gioco evidentemente finito male. Ma a tutto questo Jay non poteva pensare; forse nemmeno voleva, nonostante i sogni e le sensazioni ed il martellante senso di deja-vu provato ad ogni tocco, ogni respiro, ogni brivido sulla pelle. In un attimo tutto scomparve, il tempo stesso si fece sottile e sfilacciato, trasparente; come Jayson era certo di apparire agli occhi di Lydia, un libro aperto attraverso il quale poteva leggere a piacimento. Lo spaventava a morte, ma sapeva anche che era giusto. Premette le labbra contro le sue, conoscendone in anticipo sapore e consistenza, morbide e dolci come le ricordava. Come le aveva immaginate e sognate, sentendosi piccolo e stupido per quella mancanza di coraggio che tanto lo opprimeva. Sarebbe potuto essere un bacio lieve, assaggio contenuto e movimenti delicati, ma Jayson aveva aspettato troppo; non poteva parlare per Lydia, anche se sperava lei provasse la stessa fame, l'identico bisogno. Non c'era altro modo per definire, o spiegare, l'urgenza con cui il telecineta le avvolse entrambe le braccia attorno alla vita stringendola a sé, il corpo teso a premere quello di lei all'indietro. Contro la parete, un divano, un armadietto, qualunque cosa ci fosse sul loro cammino. E fu in quel momento che accadde: uno squillo, due squilli, la magia interrotta dal peggiore dei rumori - secondo solo allo stridio del gesso sulla lavagna, gli occhi a spalancarsi per la frustrazione ed il terrore. Quello vero, puro, impossibile da quantificare; che cosa provi? paura, perché jay sapeva cosa sarebbe seguito. Si ritrovò a fissare le iridi verde bosco della rossa con pupille dilatate ed un principio di tic all'angolo destro della bocca, immobilizzato ed incapace di reagire con prontezza. Troppo tardi, sempre troppo tardi.

    Ma come diavolo funzionano questi agg- ah, sto già registrando, ma pensa. Euge ma la smetti di fare il cretino? Eli non dargli manforte. Se non si fosse capito, questa è la segreteria telefonica di Nathaniel Henderson, sono un uomo impegnato, se avete bisogno richiamate. Che? Ah, no, lasciate un messaggio, ciao!

    «JAY! sono nate! allora, come sta andando? hai fatto come ti ho detto? so che l'hai fatto, lo sento. Cuore di shipper non mente! Sai ch--»

    La comunicazione fu interrotta bruscamente, quando il telecineta risorto dallo stato di trance trovò la forza necessaria per balzare fino al telefono e sollevare la cornetta, tagliando senza troppi convenevoli il messaggio registrato dalla segreteria. Non rispose comunque al mentore, colpevole di aver appena distrutto anche la più piccola possibilità dell'Hamilton di concludere quella giornata in bellezza; o forse no? Quasi arrivò a porle la domanda, muto, implorando Lydia con gli occhi al limite del pianto, il telefono stretto contro il petto ed un inquietante tuuu tuuu tuuu in sottofondo. Non era la prima volta che il ventenne si trovava invischiato in tali figure di merda, alle quali per inciso aveva ormai fatto - tristemente - l'abitudine, ma in un momento delicato come quello sentire la voce di Nathaniel fare il tifo nella sua più pura forma di shipper compulsivo rischiava di aumentare in maniera considerevole il suo quotidiano bisogno di scomparire dentro ad una buca nel pavimento, per non riemergerne mai più. «Scusa... scusa, è stato-- stavamo dicendo?» Ma non stavate affatto parlando, jay.
    Dettagli.


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    i feel like a ghost in my own life -- wtf | 20 y.o. | deatheater
    Sapete cosa si provava ad essere privati di tutto? Il proprio nome, la propria identità, i propri ricordi. Da quando Lydia Hadaway, la fu Annie Baudelaire, aveva aperto gli occhi su quel mondo, nulla le era parso familiare; nulla, nelle grigie strade di Londra, le aveva stretto la gola nell’ansito di casa. Dire che si fosse sentita persa, sarebbe stato un eufemismo: si poteva sentire la mancanza di qualcosa che non si rimembrava di aver mai avuto? Si era sentita vuota così a lungo, Lydia, da far abitudine all’opaco languore nei polmoni – agli incubi che la soffocavano di notte, a quelli che non l’abbandonavano di giorno. Non aveva avuto alcun luogo a cui tornare, lei. Non aveva avuto nessuno a cui appartenere, tanto meno sé stessa. Era stata un nulla a perdersi per giorni, e mesi, finchè quel nulla non era diventato tutto ciò che aveva: abitudini vacue e fittizie, sorrisi falsi e fossette a scavarsi solchi nella carne. Non aveva avuto i fremelli, lei; non aveva avuto una sorella, né amici che l’aiutassero a riabituarsi a quel mondo. Ed anche scoprendo la sua famiglia, Baudelaire, non aveva avuto altro se non un pugno di polvere e cenere: Lydia Hadaway, o Annie che dir si volesse, non aveva avuto appigli concreti come Jayson, o come Elijah. Non si era mai sentita completa: una fotografia senza cornice, un negativo senza stampa, una virgola priva di parole su di un foglio. Neanche brandelli di memoria erano stati benevoli con lei, spingendola a riconoscere nelle forme un senso. Nulla aveva avuto un senso, nella vita di Lydia Hadaway.
    Finchè un senso, allucinato e distorto, l’aveva avuto. Era iniziato in modo così sottile, da non permetterle di riconoscere la sensazione di calore che andava spandendosi sotto pelle, sciogliendo dove neanche credeva ci fosse del ghiaccio. Era stato così graduale, così spontaneo, che non aveva avuto il tempo di farle accorgere del vuoto che andava colmandosi, dei tasselli che lentamente s’incastravano dando a tutto una sua origine d’esistenza.
    Se solo avesse compreso, se solo avesse saputo, l’ironia della sorte l’avrebbe spezzata a metà, come una di quelle marionette cadute ai fili del burattinaio. Annie era sempre stata la bambina di troppo, di cui nessuno voleva sapere niente; quella diversa, che anche quando provava ad essere uguale risultava fuori posto, sbagliata. Non era mai stata accettata dalle figlie del marito di sua madre, così come mai Ophelia era riuscita a guardarla sentendola appropriata: l’eredità dei Baudelaire era Cole, non Annie. La secondogenita era stata semplicemente un fardello del quale liberarsi era stato un sollievo – di fatti, mai nessuno la era andata a cercare. Un gesto magnanimo, quello del fratello, assicurarsi che potesse avere comunque una nuova vita; per gli standard di Cole, così come Annie lo conosceva, quasi affettuoso - ma ben lungi, la situazione, dall’essere catalogata come famiglia.
    O come casa. Quei posti sicuri dove respirare diveniva più semplice, dove gli incubi non potevano entrare. Annie Baudelaire non aveva mai avuto il privilegio di sentirsi al proprio posto, finchè il tutto ch’aveva avuto non le era stato portato via, lasciando solamente una ragazzina viziata con la consapevolezza che nessuno sarebbe andato a salvarla. E lì, dove ogni altro essere umano aveva scoperto solamente tragedia e sangue, Annie Baudelaire aveva scoperto che casa non doveva necessariamente essere una villetta dalla staccionata bianca; un paio d’occhi verdi, di quella peculiare tonalità che poteva apparire nocciola quanto azzurro, poteva bastare. Nel modo più stupido, nel mondo più sbagliato. Forse, proprio per quello: non aveva mai avuto niente, Annie, finchè non aveva avuto Freddie. Niente da perdere, niente da guadagnare, niente per la quale valesse la pena combattere – e fra le sbarre di metallo di un Laboratorio, Annie aveva ricevuto tutto quanto con l’intensità di un treno in corsa, incapace di fermarsi. L’aveva saputo fin dall’inizio, da sempre, che non si sarebbe fermato, ma poca importanza aveva avuto. Non proprio casa, ma la flebile speranza che un giorno, fuori da lì, avrebbe potuto averla: qualcuno cui avrebbe potuto appartenere, che avrebbe sentito la sua mancanza, che avrebbe rovistato fra le onde pur di trovarla. Sapeva a cosa stava andando incontro, Annie, quando i Dottori li avevano lasciati avvicinare. Sapeva che si trattava di puro studio accademico, che non si trattava d’altro che cavie ai loro occhi, ma non le era importato – perché dove non aveva avuto niente, aveva trovato il suo personale tutto. E quei bambini. Le avessero detto un anno prima che sarebbe rimasta gravida di due bambini, si sarebbe limitata a rider loro in faccia, liquidando la questione con un ”Non in questa vita”; non avrebbe mai immaginato quanto, diventare madre, potesse cambiare una persona: aveva qualcosa per cui vivere, Annie, qualcosa di suo. Non di Ophelia, non del perfetto Cole Baudelaire, non delle impeccabili Akelei e Morrigan: di Annie.
    Era quello, il vuoto che percepiva Lydia Hadaway. Che la consumava, e di notte la levigava come gomma su un foglio di carta. Poteva non averne memoria, ma una parte di sé avrebbe sempre, sempre ricordato cos’avesse significato, per lei, famiglia - sentirsi, infine, completa. Con le dita a sfiorare il viso di Jay, il profumo di lui a permeare il poco spazio che li divideva, Lydia si sentì normale: poteva non sembrare l’aggettivo più romantico su cui fare affidamento in una situazione del genere, ma per chi normale non si sentiva da anni, era un respiro fuori dalla sempiterna superficie dell’acqua – sentire il sole sulla pelle, e non aver paura, per una volta, di affogare. Era quello che l’aveva terrorizzata sin dalla prima volta che aveva incontrato Jayson Matthews: troppo inopportuno, troppo fuori posto, il bisogno di sentire la sua pelle contro la propria, e la consapevolezza che se avesse potuto poggiare la testa sulla sua spalla, tutto sarebbe andato, finalmente, a posto. Non importava che Freddie avesse cambiato aspetto, cambiato vita: non importava chi la guardasse, ma come lo facesse - like there was something in me worth seeing. Avrebbe voluto dirglielo, Lydia. Avrebbe voluto dirglielo dall’inizio, in ogni incontro strappato ad un Fato beffardo, ma quanto sarebbe parso… disperato? Una ragazza incapace di trovare una propria ancora, costretta a far leva sulle debolezze altrui per trovare un proprio epicentro – assai comodo che, anche Jay, non avesse memoria. Si era detta fosse quello il motivo che l’aveva spinta verso di lui, e l’aveva reputato così stupido, che non aveva potuto far altro che allontanarsene, mettendo quanta più distanza possibile fra sé stessa e Jayson. Quando già si sfiorava il fondo, era difficile poter andare ancora più giù. Impossibile riconoscere la differenza fra follia ed angoscia, in una mente deturpata quanto quella della Hadaway.
    Come avrebbe potuto, ammetterlo con lui – lui fra tutti, che sembrava l’unico in grado di vederla. Voleva essere migliore, per Jay: non poteva sapere, Lydia, di esserlo stata – di esserlo sempre. Ed anche in quel momento, Lydia, si arrampicò sugli specchi di quell’assurda esistenza rimangiando, ma mai rimpiangendo, l’abbandono con il quale s’era lasciata stringere. Lo osservò allontanarsi senza far nulla, se non stringere impercettibilmente i pugni lungo i fianchi. Inspirò profondamente, cercando di racimolare quel briciolo di calore che Jay s’era lasciato alle spalle - deja vu. Eppure mantenne l’abbozzo del sorriso, sperando che la pelle lattea celasse il rossore delle guance. Ignorò volutamente la stretta soffocante alla gola, e quel bruciore agli occhi apparentemente ingiustificato: non ricordare cosa si fosse perso, non implicava non sentire, comunque ed ovunque, un bisogno quasi frenetico. «A proposito di Nate..» Inarcò un ramato sopracciglio, seguendo il suo sguardo quando le indicò l’interno dell’appartamento. Cauta, passò accanto al telecineta per entrare a casa di Nate, le orecchie ben tese alla ricerca di qualunque rumore sospetto – trattandosi dell’Henderson, si sarebbe aspettata davvero qualunque cosa. Mosse qualche passo all’interno dell’abitazione, volgendosi solamente quando sentì che Jay non la stava seguendo. «Non è in casa. Ho pensato...che se ti avessi detto la verità non saresti venuta.» Forse aveva sentito male. Sbattè lentamente le ciglia, le labbra ad aprirsi e chiudersi senza realmente nulla da dire. La verità? Eppure non poteva negare, Lydia: se avesse saputo da principio che Nate non ci sarebbe stato, non avrebbe mai osato avvicinarsi a quella dimora. Ma quale verità. Tacque, lo sguardo che prima s’era impigrito ad osservare il profilo in ombra di lui, ora incollato ai suoi occhi. Ogni volta che ne incrociava le iridi caramello, sentiva il cuore saltare un battito, il sangue affluire alle guance: il suo corpo ricordava cose che la sua mente neanche si azzardava ad immaginare, e reagiva di conseguenza costringendola a distogliere la propria attenzione per focalizzarsi su altro - per ricordarsi come respirare. Non fu quello il caso: per una volta, una volta, si concesse il proprio tempo, ricambiando l’occhiata di lui con una prudente sbirciata di sottecchi. «E la verità è che mi mancavi. ma non sapevo come dirtelo.» La risposta le punse la lingua con tanta intensità da farle percepire sapore di sangue sul palato: così, Jay. Buon Dio, così. Che poi forse non avrebbe cambiato niente – ma forse, avrebbe cambiato tutto. Continuò a tacere, immobile al centro del corridoio. Avrebbe potuto ribattere in così tanti modi, taluni meno opportuni di altri, che la testa le vorticava di parole delle quali neanche credeva di conoscere il significato; il cuore, però, che prepotente cozzava contro le costole, ne era perfettamente consapevole. «O se fosse giusto farlo. Perché c'è qualcosa che non va in me, Lydia.» Avevano già avuto quella conversazione, Annie e Freddie.. Avevano già avuto quella conversazione, Lydia e Jay; era stata lei stessa a dirglielo, più di un anno prima - la risposta di lui, ancora, le riverberava nelle vene: Qualcosa non va, anche qui dentro. Ma non so come fare a sistemarlo. O forse non dobbiamo.. sistemarlo, dico. Sistemarci. Così spontaneo, così leggero. Per un po’, la Hadaway ci aveva perfino creduto, lasciandosi cullare in quella mezza verità dove due pezzi rotti potessero fingere assieme di essere un intero. La verità era che Lydia, in Jay, non aveva mai visto qualcosa che non andasse, non nel modo in cui non funzionava lei. Che non poteva permettersi, il Matthews, di avere una Hadaway nella propria vita – Lydia, non si sarebbe augurata a nessuno. Eppure rimase ancora in testardo silenzio, temendo che parlare potesse alterare la bolla d’equilibrio che Jay stava cercando così affannosamente di sistemare: voleva sentirglielo dire, Lydia. Si umettò le labbra, le unghie a strofinare nervosamente contro i polpastrelli. «Rovino sempre tutto. E' una costante.» Un sorriso ironico curvò la bocca rossa dell’assistente di Henderson, gli occhi alzati lievemente al soffitto: bello avere qualcosa di rovinare, eh Jay. Lydia non aveva neanche quello. Chissà cosa si provava, a temere di rovinare qualunque cosa si toccasse: l’unica cosa che Lydia temeva di danneggiare, era lui. Sollevò lentamente lo sguardo, la fatica fisica d’aggrapparsi ad ogni centimetro del suo corpo prima di giungere infine al viso, dove gli occhi si fermarono con malcelata sofferenza. Perché era diventato un dolore fisico, ormai, fingere che tutto fosse normale - fingere di essere, normale. Pretendere che loro non fossero nulla, quand’era suo il profumo nel quale sognava di addormentarsi. Avevamo avuto quasi tutto, Freddie, dove nessuno si aspettava ci fosse qualcosa da avere. Chinò il capo seguendo il movimento delle sue mani, dimentica perfino di respirare. «Ma forse tu puoi...» Non poteva, Lydia. Non perché non volesse, o perché non sapesse da che parte cominciare: gliel’aveva già detto, il motivo. Rabbrividì quando le dita di lui scivolarono delicate sulle braccia, scavandosi strada nella pelle con il più impalpabile dei tocchi. Alzò infine gli occhi, abbassando le proprie difese fino a non lasciare nulla fra sé e l’esterno - fra sé e Jay. Nulla a proteggerla, nulla a colmare le lacune che sentiva nel petto ad ogni battito, quel vuoto che trapelava dalle iridi verde bosco. Aveva un tale terrore di spaccare quella bolla d’irrealtà, la cosa più reale che ricordasse di aver mai avuto, che non potè far altro se non rimanere immobile, il cuore e gli occhi a parlare per lei. Non c’era mai stato bisogno di dire nulla. Le parole non sembravano fatte per momenti come quello, fatti di respiri caldi e pelle su pelle. Così chiuse gli occhi, Lydia, strappandosi all’intensità dello sguardo di lui per ricordarsi come esistere: era spaventoso l’abbandono che percepiva nel proprio organismo, il bisogno razionale e maledettamente fisico di annullare le distanze fra loro e premere le labbra sulle sue, stringendo il suo corpo contro il proprio finchè non avesse fatto male, finché non ne avesse avuto abbastanza. A recuperare un tempo che neanche sapeva di aver perso, o di aver disperatamente agognato. «jay…» deglutì aria, in quel sospiro messo a tacere dal telecineta. Ed in quel momento, in quell’esatto momento, Lydia tornò l’Annie dei laboratori: trovò il suo tutto in un nulla, che nulla mai lo era stato. Non era solo naturale, era necessario - come mangiare, dormire. Respirò quella frase priva di fine sulla bocca di lui, lasciandola uscire in un tremulo suono sottile che forse non giunse mai alle orecchie di Jayson. Era quello di cui aveva bisogno, di cui aveva sempre avuto bisogno – inconsciamente, come un qualcosa d’intravisto con la coda dell’occhio. Nessuna droga, nessuno a vederli, nessuna ferita da rimarginare se non le cicatrici ch’erano loro stessi: così fece scivolare le mani sulle sue spalle, quella volta permettendosi di attorcigliare le dita ai corti capelli sulla nuca, i palmi a schiacciarlo contro di sé per impedirgli, almeno quella volta, almeno in quella vita, di lasciarla. Se non l’avesse sentito bruciare di quel bisogno viscerale e smanioso, se non avesse sentito con precisa nitidezza le mani di lui sulla propria vita, Lydia avrebbe anche potuto dimenticare di avere un corpo: ed invece era lì, ben presente, a cercare d’imprimersi la sua forma dove altre forme andavano a sovrapporsi – più giovani, rese sottili e delicate dalle torture. Jayson Matthews sapeva di estate, e di primavera, e di tutto ciò che di bello e vivo andava a sostituirsi alle stagioni rigide e secche. Sapeva di un mare che Lydia non ricordava di aver mai visto, di quelle risate dimenticate in un cortile francese, di quei sorrisi scambiati nella poca luce di due celle adiacenti. Del suo rossetto preferito, del profumo caldo del pane appena sfornato; aveva il sapore aspro e dolce dei frutti rossi, a riempirle la bocca e il cuore di una sensazione della quale aveva dimenticato ogni sfumatura. I polpastrelli di lei seguirono la linea del collo, fermandosi poi sulle guance di Jay per lasciarvi la propria impronta, serbare la consistenza morbida della sua pelle sulle falangi.
    E poi.
    Quando il telefono cominciò a squillare, Lydia, le labbra ancora a saggiare quelle di Jay, si immobilizzò all’istante. Poggiò la schiena al muro, il petto ad affannarsi alla ricerca d’aria, mentre la fronte ancora indugiava sul viso di lui, caparbia nel non voler perdere quel contatto. Erano a casa di Nate - il suo capo, Nathaniel. Avrebbe potuto rientrare in qualunque momento, e solamente quando il telefono smise di squillare, Lydia se ne rese conto. Cosa stavano facendo? Deglutì, un sospiro a sgusciare dalla bocca dischiusa quando l’apparecchio tacque.
    Per poco.
    «JAY! sono nate! allora, come sta andando? hai fatto come ti ho detto? so che l'hai fatto, lo sento. Cuore di shipper non mente! Sai ch--»
    Inarcò entrambe le sopracciglia mentre Jayson Matthews scattava nel recuperare la cornetta, così da troncare il messaggio in segreteria della fin troppo riconoscibile voce di Nathaniel Henderson. Davvero, come gli aveva detto. Avrebbe potuto stupirsene, rimanerne offesa, ma conosceva abbastanza Nate da sapere come… agisse. Non poteva farne una colpa al telecineta.
    Anche se, dare a Nate la soddisfazione di aver infine fatto salpare la nave, la faceva un po’ incazzare. Quando gongolava, era insopportabile. «Scusa... scusa, è stato-- stavamo dicendo?» Lydia intrecciò le dita dietro la schiena, il capo chino.
    Era il momento di scegliere. Non era mai stata brava a farlo. Inspirò ed espirò, cercando di placare il ritmo folle del proprio cuore. «non posso.» sbattè le ciglia, lo sguardo sempre fisso sul pavimento. Diede spazio alla voce prima che potesse mancarle il coraggio, prima che anche quel briciolo di sincerità venisse ingoiato dal semplice, pulsante, bisogno che non finisse. Si diede la spinta con le mani per compiere un passo in avanti – ed allora ne fece un altro, ed un altro ancora, finchè non si trovò vicino alla presa del telefono. Con un sospiro seccato, staccò il filo dal muro. Quando si rialzò, si ritrovò irrimediabilmente vicina a Jayson, il ricordo del calore di lui ancora a strinarle la pelle. «non posso aggiustarti, jay» non posso aggiustarti, freddie. E gliel’aveva già detto – ma se ce ne fosse stato bisogno, gliel’avrebbe ripetuto altre cento volte, in altre cento vite. Riallacciò lo sguardo al suo, le mani a cercare quelle di lui per sollevarle sul proprio viso – Dio, quanto aveva aspettato quel momento. Neanche se n’era resa conto. Soffiò l’aria sui suoi palmi, poggiandovi il più delicato dei baci mentre parlava. «perché non c’è niente da sistemare.» non lo capiva? non lo capiva? Dopo tutto quel tempo, per tutto quel tempo, non c’era mai stato niente da aggiustare. «sei…» non era perfetto, Jay, e non lo era stato Freddie. Ma non era quello che Annie aveva voluto dire, e che aveva lasciato morire in un insulto poco velato ed ironico; non era quello che, infine, Lydia avrebbe ammesso. Sei come me. «sei quello di cui ho bisogno.» in appena un bisbiglio a stringerle la gola, gli occhi di nuovo chiusi. Senza guardarlo, con solo le dita di lui nelle proprie, sembrava non essere cambiato nulla - perfino nei suoi sogni, quelli così terribili nella loro bellezza da divenire incubi al risveglio, la situazione era le medesima.
    Non aveva mai avuto il coraggio di ammetterlo – non a sé stessa, non ad alta voce. Eppure le parole scivolarono dalle labbra prima che potesse fermarle, veloci e taglienti come ghiaccio d’inverno. «non ricordo nulla,» aprì gli occhi, li sollevò su di lui. «ma non ho dimenticato te,» ed alla fine, l’aveva detto. Senza chiedere, senza supporre, semplicemente sapendo: non avere memoria, non significava aver dimenticato. Lo sentiva, in ogni fibra ed in ogni cellula. Così si alzò sulle punte, giungendo nuovamente ad un soffio dalle sue labbra – le unghie a conficcarsi nella carne dei propri palmi per impedire a sé stessa di accelerare i tempi. Voleva sentire il peso di ogni secondo, di ogni intenzionale ritardo.
    Perché, per una volta ed una vita, avevano tutto il tempo del mondo.
    «Freddie?» suonò come un interrogativo, ma non fu davvero una domanda. Premette gentilmente le labbra sulle sue, senza pretendere nulla se non quel breve e tenero e liberatorio contatto – sapere di poterlo fare, di poter davvero, senza temere ripercussioni. Nessuno a guardarli, a studiarli: non avevano mai avuto bisogno di fingere, Annie e Freddie - Jay e Lydia. «e ti conosco,» perché l’aveva osservato, perché ne aveva studiato ogni reazione, perché ogni volta che lui non la guardava, lei lo faceva. Perché alla fine, Lydia, non avrebbe potuto amare Freddie, opaco fantasma di una storia che non possedeva più; non era solo il sentore di averlo già conosciuto: era la tacita promessa che l’avrebbe ritrovato, e l’avrebbe riconosciuto sempre – e l’avrebbe amato sempre. Freddie era parte del passato di Annie, ma «jay.» era il presente di Lydia. «io…» e non seppe come continuare la frase, ma non ne aveva bisogno – di nuovo. Quando la bocca di Lydia si mosse, non fu più per parlare: eppure, in quel bacio, Lydia disse tutto.
    Tutto ciò che Annie non aveva mai avuto la possibilità di dire.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by #epicWin - 11/6/2017, 03:54
     
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    I felt an empty space, never could explain
    like you were never gone -- 20 y.o. | telekinesis | fucked up | 01.02.2017
    Da che poteva ricordare, aveva sempre inseguito il dolore. Jayson Matthews, Frederick Hamilton, almeno sotto quell’aspetto parevano inscindibili; attaccati con le unghie e con i denti ad un singolo pensiero, la necessità – quasi fisica di lasciarsi piegare e poi spezzare, permettere alla rabbia chiusa in trappola di sgorgare come fiele dalle ferite inflitte. Ne traevano entrambi giovamento, specchio distorto uno dell’altro, e avrebbero continuato a considerare ogni goccia di sangue versato come un balsamo, il tributo da pagare per vedere riempiti gli spazi lasciati vuoti, se solo due occhi troppo grandi e verdi da far male – gli stessi di sempre, incapaci di mutare davvero – non gli avessero insegnato il vero significato di sofferenza. Pura, semplice, letale: quella che solo chi ha amato e perso può provare, un figlio, un fratello, l’unica persona in grado di farti sentire completo anche quando non fai altro che lasciarti dietro una scia di pezzi dagli angoli affilati, troppi per provare a contarli. Aveva già sperimentato quella paura, Frederick Hamilton, e la conseguente sensazione di vuoto incolmabile nel cuore, ma era solo un bambino; e da adulto, con tutta l'ingenuità di un'anima ferita nel profondo, aveva creduto di esserne divenuto immune. Distante da tutto e da tutti, impermeabile all'effetto incondizionato, spinto dal proprio istinto di conservazione a cercare solo timore e reverenza nello sguardo dei propri simili. Finché non era arrivata lei. Ed incauto l'aveva voluta subito, forte del desiderio che solo un ragazzino viziato poteva provare, diaposto a tutto pur di ottenere qualcosa - qualcuno - alla quale mai avrebbe pensato di potersi legare in modo tanto profondo, un'unione capace di durare nello spazio e nel tempo, perdersi e ritrovarsi dentro a corpi e menti mutate. Così la paura si era trasformata in terrore, e la perdita aveva assunto i contorni dell'inevitabile; quasi scontata, direbbe un qualunque editore leggendo la trama di un romanzo già scritto. Lui incontra lei, lei odia lui, per qualche mistica volontà del destino si innamorano, solo per poi venire separati. Una storia già sentita, un finale privo di colpi di scena. Se solo non si fossero trovati di nuovo, entrambi pronti a strappare quelle ultime pagine per poterle riscrivere insieme. Annie Baudelaire aveva insegnato a Frederick Hamilton cosa volesse dire amare e perdere, lì dove Lydia Hadaway stava dando un piccolo assaggio a Jayson Matthews del dolore provato da chi pensa di non poter amare mai. «non posso.» Due parole. A volte bastavano due parole a fermare il cuore di una persona, altre anche solo un semplice sguardo rivolto al pavimento. Le dita del telecineta persero forza, la presa prima salda sulla pelle scoperta di lei fu abbandonata con un movimento d'inerzia, che poco aveva a che fare con la forza di volontà; avrebbe fatto buon viso a cattivo gioco, il caro Freddie, nascondendo le fitte alla bocca dello stomaco dietro ad una facciata di sprezzo e strafottenza. Ma era come nudo, quel ragazzino troppo pallido, nelle cui iridi caramello si poteva leggere qualunque emozione, ogni maledetta sfumatura; scritte sul volto a caratteri cubitali, a sfiorare le labbra dischiuse. Indecifrabile a chiunque, tranne che per lei. «io.. non-» Che razza di idiota. Stupido, stupido Jay. Socchiuse gli occhi come per un colpo ricevuto, coltellata dritta nelle scapole, un passo indietro a lasciarle spazio, anche se era lui il primo ad averne bisogno; per respirare, per nascondere a quegli occhi di bosco la delusione di un bambino. Incapace di comprendere altro, anche nel vedere Lydia allungare una mano fino alla presa del telefono e tirare via il cavo, eliminando il rischio di ulteriori chiamate imbarazzanti; anche quando le sue dita gli premettero delicate sul petto. Non andartene, supplica silenziosa che non riuscì a raggiungere le labbra, bloccata nel petto da quell'unica affermazione; nemmeno si rendeva conto, il telecineta, che se quello di Lydia fosse stato un rifiuto non avrebbe cercato di cancellare il più rapidamente possibile la distanza tra di loro. «non posso aggiustarti, jay» Sentì la crepa espandersi nel proprio corpo, raggiungere ogni centimetro libero del cuore, il dolore a ripercuotersi lungo gli arti fino alla punta delle dita. Era stato lui, tanto troppo tempo prima a rassicurarla, affermando che qualunque ingranaggio si fosse rotto dentro di loro non doveva per forza compromettere ciò che erano, ma aveva smesso di crederci; in se stesso, nella possibilità di essere una persona migliore, nel proprio futuro. E se nemmeno lei poteva metterci una pezza, recuperare le briciole lasciate lungo la strada, completare il puzzle, qual era il senso? Abbassò lo sguardo, iridi caramello pronte a fuggire dalla verità, e solo allora si accorse delle sue dita strette attorno alle proprie mani, un tocco rapido e leggero prima di posarsi gli stessi palmi sulle guance. Sentiva la pelle di Lydia scottare sotto i polpastrelli, lì dove Jayson credeva avrebbe trovato solo gelo. «perché non c’è niente da sistemare.» Mh? Le palpebre del ragazzo si mossero veloci, animate da vita propria, scatti involontari dati dalla più totale incredulità; fosse stato un uomo avanti con l'età, come un certo Sinclair, avrebbe anche potuto dare colpa all'udito non più fino, ma in quel caso la vecchiaia non c'entrava un cazzo. Ci sentiva benissimo Jayson Matthews, come Frederick Hamilton prima di lui, quando dita tremanti avevano stretto le sue poggiandole sulla curva appena accennata dietro la quale si nascondevano lievi battiti di cuore. Quasi impercettibili, a chiunque ma non ad un padre. «cosa.» Non si trattava di una domanda, anche se nella testa del telecineta il pensiero era stato formulato come tale; cristo, non sapeva nemmeno più come mettere insieme una frase di senso compiuto, la punta della lingua intorpidita dalla mancanza sostanziale di ossigeno: intrappolato in un respiro che non aveva ancora il coraggio di esalare, iridi nocciola alla ricerca spasmodica di una traccia di verde scuro, una traccia di verità. Di conferma. Ma gli occhi di Lydia erano chiusi e le sue labbra troppo vicine per poter anche solo pensare di aver frainteso. «sei quello di cui ho bisogno.» Tensione, delusione e paura defluirono dalle vene del telecineta spinte dall'ossigeno di nuovo in circolo, evaporando dai pori come tossine; marcivano il sangue, rendendolo cattivo, un'infezione per la quale esisteva soltanto una cura. Chiuse gli occhi, la bocca dischiusa e un sospiro di sollievo a sfuggire dalle labbra, per quanto sollievo potesse sembrare al suo cuore un termine maledettamente riduttivo, e chinò il capo fino a poggiare la fronte contro quella della Hadaway, il profumo confortante dei capelli ramati ad invadergli la testa e i polmoni con la sensazione di essere a casa. E lo era davvero, Jayson Matthews, Frederick Hamilton: lì dove casa sarebbe sempre stata lei. «Non farlo mai più.. ti prego.» Una vera e propria supplica, quella del telecineta, ad infrangersi contro la pelle calda di Lydia a contatto con le dita, le labbra, il volto; la sfioró delicatamente, ma assaggiando ogni centimetro, il braccio destro a scivolare intorno alla vita per tenerla stretta a sé. Non l'avrebbe lasciata andare, a meno che non fosse stata lei a chiederlo, mai più.
    Non fare promesse che non puoi mantenere, Freddie.
    Fottiti, Gemes.
    «non ricordo nulla, ma non ho dimenticato te,» Credeva seriamente fosse finita, che al suo cuore fosse concesso di battere ancora senza brusche frenate e aumenti di intensità senza controllo, ma si sbagliava; capitava spesso, capitava sempre. Una costante per Jayson Matthews, quella di sperare in una cosa solo per ottenerne il contrario, variante negativa in tutte le occasioni tranne che con lei. Perché il muscolo cardiaco che gli rintoccava dentro al petto si fermò, di nuovo, e il telecineta sentí l'ossigeno marcargli nei polmoni, di nuovo, ma non vi fu dolore; né disappunto o delusione, nemmeno un grammo di paura ad insinuare infida un dubbio. Mancava persino la sorpresa, di fronte a parole tanto pesanti, così colme di significato che quasi poteva vederlo traboccare, come se l'avesse sempre saputo. E lo aveva sempre saputo, dal momento in cui sperdute iridi caramello si erano legate a sprazzi di verde e nocciola, ritrovando la strada. Non un percorso semplice, ma tortuoso ed in salita, il labirinto di una memoria grattata via dalla superficie e mai del tutto estirpata. «lo sapevo, sai.. che eri l'unica persona.. l'unico pezzo ad avere un senso, qui dentro.» allontanò la mano destra dal volto della Hadaway per sfiorare la propria fronte con le dita, i polpastrelli a scivolare poi sul torace all'altezza del cuore, dove le sue dita si erano fermate. «lo sapevo da sempre. Senti?» Sfiorò il polso sottile, premendo il proprio palmo sulla sua mano, così che anche attraverso la stoffa della maglietta potesse avvertire quel ritmo frenetico, una musica che Annie aveva imparato a memoria; dal giorno in cui l'aveva baciata per la prima volta, arrogante e presuntuoso quasi fosse una scommessa stretta col destino, fino a quell'ultimo istante in cui i loro sguardi si erano incrociati, sulla scia di una bugia alla quale nessuno dei due avrebbe mai creduto davvero. Torno tra cinque minuti. Trattenne il respiro, soffiandolo piano sulle labbra della ragazza quando queste lo sfiorarono di nuovo, il proprio nome sussurrato quasi fosse una domanda, quasi Lydia avesse bisogno di conferme; le stesse che Jayson aveva cercato - e continuava a cercare - nei suoi occhi, ogni giorno, in ogni momento possibile. «freddie?» quasi poté sentire il click di un invisibile interruttore mentale, il flusso dei pensieri finalmente interrotto, lo sbalzo di corrente elettrica a mandare in cortocircuito l'intero sistema. Aveva aspettato troppo, Frederick Hamilton; non avrebbe aspettato oltre, Jayson Matthews. La lasció fare, per un po', dita sottili a premere contro il petto e labbra morbide a saggiare caute un sapore conosciuto e dimenticato, come le crostate divorate da bambini e mai più assaggiate: bastava il profumo però, a riaprire cassetti della memoria fino ad un istante prima chiusi a chiave. La lasció fare, il torace a muoversi impercettibilmente lí dove l'ossigeno non voleva saperne di riempire i polmoni, le dita intente a giocherellare con una ciocca di capelli ramati quasi fosse una distrazione, un prendere tempo. La lasciò fare finché la pressione del sangue che gli ribolliva nelle vene non fu troppa, troppa da sopportare, impossibile da placare; voleva godersi ogni singolo istante, ma rallentare avrebbe significato soffocare , ed era così che si sentiva. A corto di aria, il cuore martellante nel petto, la pelle in fiamme. Dischiuse le labbra, la punta della lingua a cercare quella di lei - ma non avevi detto di odiarmi, Ann? - il proprio corpo proiettato in avanti spingendo Lydia nuovamente un passo indietro, le braccia ad avvolgerle la vita tenendola quanto più possibile vicino. Non sapeva bene cosa fare, il telecineta, come muoversi, ma in certi casi è l'istinto a far da padrone, non un'esperienza di vita cancellata dalla lavagna. Quando la parete della stanza cozzó nuovamente contro la schiena di Lydia, segnando il loro punto di non ritorno, quasi lo disse: quel nome ad esplodergli nel petto, l'unica risposta possibile ad una domanda appena sussurrata. Annie. Non è tanto difficile, Freddie. Ma lo era sempre stato, anche per Frederick Hamilton; così poco abituato all'amore da prenderlo come un gioco, il blando passare di un dito su di una fiammella, solo per finire bruciato; così poco abituato all'amore da esserne sopraffatto, terrorizzato, assuefatto ad un nome, un profumo, un sentimento. Se l'avesse pronunciato di nuovo, gliel'avrebbero portata via come l'ultima volta? Gli rimase nei polmoni, la promessa distorta di un amore lontano, insieme ad aria condensata e sangue improvvisamente divenuto incapace di trasportare altro ossigeno al cervello, completo black out. Non voleva più pensare, Jayson Matthews. Non voleva più sforzare di ricordarsi una vita che non gli apparteneva, perché l'unico pezzo perduto ormai lo stringeva tra le dita saggiandone sapore e consistenza.
    «ti amo.» così naturale, nonostante la voce spezzata, che nemmemo se ne accorse. Le parole gli scivolarono fuori dalle labbra dischiuse, il cuore a reclamare ossigeno lí dove il corpo non poteva permettersi di produrne a sufficienza per rimanere al passo. Naturali, pronunciate mille volte e nessuna, impossibili da dimenticare. La strinse con maggior vigore, la bocca a ricercare famelica quella di lei impedendole di rispondere, le braccia ad accogliere un corpo del quale conosceva ogni singolo centimetro, sollevando i piedi di Lydia da terra.
    Tutto il resto poteva aspettare.

    ciao nate usiamo camera tua xoxo.

    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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6 replies since 21/8/2016, 22:42   390 views
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