lay your armor down

villa hamilton, rea x elijah, POST QUEST #07

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    it hurts until it doesn't -- deatheater, the illusionist, 26 y.o. | 17.06.16
    S’incavò in un posto libero vicino al muro, la schiena contro la parete marcescente del capanno e le palpebre chiuse. Scivolò al suolo, Rea Hamilton. Perché non aveva più importanza. Dopo mesi, dopo anni, non aveva più importanza.
    Non aveva mai voluto essere un eroe, lei. Era più confortevole la pigra e grigia zona della nemesi, veleno stretto fra i denti e nessun lieto fine ad attenderla al varco; più accogliente, nell’oscurità di una storia che nessuno avrebbe desiderato leggere, nella conquista di un potere che non avrebbe dovuto appartenerle – strappato a qualcun altro, come un regno o una corona. Deglutì, le parole sussurrate nel capanno a rotolarle morbide nelle orecchie. Non avevano alcun senso per lei, quegli addii sussurrati sulla pelle.
    Nessuno da salutare, per la Hamilton. Nessuno da cui tornare. Uno di quei sottili e catartici momenti, fili di nebbia a pesare su strade solitarie, nei quali poteva lasciar cadere l’imperturbabile maschera da guerriera: era semplicemente, ed inevitabilmente, Rea Hamilton la donna con gli occhi chiusi e le labbra serrate. Nulla di più, e tutto di meno. Piegò le gambe con una smorfia, un ansito sofferente sul palato, quindi incrociò le braccia sulle ginocchia.
    Ed i secondi passavano, ed a Rea Hamilton non importava.
    Perché non aveva mai voluto essere un eroe, ma per suo fratello avrebbe fatto un eccezione. Sinceramente, ed egoisticamente, preferiva la ricordasse così piuttosto che rimembrare la sorella, poteva essere definita tale?, che era stata sino a quel momento. Era stanca, stanca di così tante cose che sarebbe stato impossibile farne un elenco. Stanca dei segreti, stanca delle illusioni in cui lei, più di tutti gli altri, aveva creduto. Stanca, soprattutto, di fingere che non le importasse. Era meglio così, lo sapeva bene; ciò, comunque, non lo rendeva meno sfiancante. Inclinò la testa all’indietro, ignorando tutti coloro che la circondavano. Avevano la loro famiglia, loro. Avevano gli amici. A Rea Hamilton, com’era sensato fosse, non era rimasto nulla.
    As my story came to a close I realized that I was the villain all along.
    Non voleva nulla, in quell’angolo di solitudine che era riuscita a ritagliarsi solo per sè stessa. Un’amara soddisfazione di un altrettanto amara vita, la giusta conclusione di un’esistenza trascinata nel sangue altrui – nei sorrisi maliziosi, nelle sopracciglia inarcate.
    Ed i secondi passavano, ed a Rea Hamilton non importava.
    Così, rise. Rea Hamilton rise, mentre le braccia si stringevano maggiormente attorno alle spalle altrui, mentre gli ultimi saluti pesavano sulla lingua e bruciavano quanto le lacrime. Le guardò di sottecchi, quelle vite che non le appartenevano. Che non meritava. Si morse il labbro inferiore, ruotando gli occhi su Al. Lo ricordava nel Labirinto, la disperazione della solitudine a spingerlo nella continua ricerca di risposte sul fondo di una bottiglia. Perfino lui aveva qualcuno – fuori ad attenderlo, dentro a stringerlo un’ultima volta.
    Non si era mai sentita più insignificante in vita sua. E sapete qual era la cosa più grave? Che non le importava. Voleva solamente che quell’estenuante attesa finisse, che la maledetta bomba esplodesse e le togliesse quell’opprimente stretta alle costole. La sua famiglia era fuori, e non dubitava che sarebbero riusciti a sopravvivere alla sua assenza.
    Era così, che doveva finire. Era sempre stato così. Inspirò, spostando gli occhi su Eugene Jackson. Non le sfuggì il gesto degli occhiali, e non si trattenne dall’alzare flebilmente l’angolo destro delle labbra.

    «ehi, hai sentito?» non comprendeva perché i suoi compagni ritenessero che lei, Rea Hamilton, potesse essere interessata alle loro parole. Quando mai aveva fatto credere che le importasse? Quando mai li aveva degnati di una singola occhiata? Parevano cuccioli alla ricerca della sua approvazione, in quei grandi occhi spalancati ed allegri.
    Idioti.
    «anche se avessi sentito, non mi interesserebbe» quindici anni, i capelli scuri a ricadere ondulati al di là della poltrona smeraldo della sua sala comune, Rea sorrise. Un sorriso che, come sempre, non sarebbe giunto ai freddi e distanti occhi cioccolato.
    «dovrebbe» non le piacque affatto il tono del secondo compagno, del quale chiaramente non rimembrava il nome. Figurarsi se potesse tollerarne il vago ghigno sulle labbra, a cui ribattè inarcando le sopracciglia. «dubito»«hanno beccato tre studenti fuori dalla sala comune oltre il coprifuoco. Li stanno portando dal preside» il ragazzo incrociò le braccia sullo schienale della poltrona sulla quale ella era seduta. «chi potrebbe mai essere così stupido?»
    Ah.
    Rimase impassibile, sfogliando annoiata le pagine di un libro. «chi li ha trovati?» domandò in tono distratto, senza alzare lo sguardo verso il suo interlocutore. «huisman» il prefetto dei serpeverde, fantastico. Sospirò, chiudendo secca il tomo dalla copertina rigida. «hai capito di chi sto parlando, vero?» Purtroppo, sì.
    Poggiò il libro sul basso tavolino di fronte a sé, alzandosi in piedi con quieta eleganza. «non riuscirai a parargli il culo anche questa volta, hamilton» Fu il suo turno di ridacchiare, il naso arricciato e la bacchetta già impugnata nella mano destra. Cosa non poteva fare, lei?. «lascialo decidere a me» si diresse verso l’uscita, ma si fermò sulla soglia. «ah, dimenticavo…» puntò la bacchetta contro il ragazzo, un silenzioso Foramen a colpirlo di striscio sulla gamba strappandogli un mugolio di dolore. Lei poteva ridere delle disgrazie di quei tre idioti del Jackson, l’Henderson e il Dallaire, ma gli altri non potevano permetterselo. Soddisfatta, s’incamminò all’esterno.
    «stupeficium» un bisbiglio a rimbalzare nei deserti corridoi di Hogwarts, il fascio rosso a colpire alla schiena il prefetto dei Serpeverde. Quando questo picchiò contro il muro, suscitando l’indignazione di un paio di quadri, Rea non si degnò neanche di controllare se qualcuno avesse udito il trambusto: avrebbe sempre potuto incolpare uno degli altri tre. Osservò spazientita i ragazzi ancora immobili al centro dell’androne, la bacchetta nuovamente riposta nella gonna della divisa. «passavo di qua» passava sempre di lì, quando erano nei guai. Li ammonì con un’occhiataccia a non aggiungere altro, mentre lei prendeva Eugene dalla cravatta e lo sbatteva al muro, pigiando con forza sulla gola. «loro possono fare quello che vogliono, ma te sei un serpeverde, Jackson» gli sfilò gli occhiali, ignorando il sospiro rassegnato di Eugene. «quindi, segui le mie regole» perché era più semplice far credere che lo facesse per mantenere i punti intatti, piuttosto che per salvare quelle maledette cause perse. Li spezzò frantumandoli contro il muro, lasciando poi cadere al suolo ciò che era rimasto – poco.
    «stupidi» diede loro le spalle, avviandosi nuovamente verso il proprio sotterraneo. «ehi rea, aspetta!» figurarsi. Continuò a camminare ignorando la voce concitata di Elijah, finchè questi non pensò bene di stringerle il polso.
    Lo sapeva, il Dallaire, che non voleva essere toccata. E non le bastò che avesse ritratto subito le dita, consapevole di ciò che aveva fatto, per impedirle di girarsi rapida e piantargli la bacchetta sotto al mento, un’occhiata truce nella sua direzione. «volevo solo ringraziarti» chiuse gli occhi inspirando dal naso, stringendo il pugno della mano sinistra fino a far sbiancare le nocche. «non farlo» interpretabile, ma sicuramente definitivo in ogni sua accezione.
    Con le sopracciglia corrugate, si allontanò continuando a guardarlo, volgendo poi
    la propria attenzione ad un saltellante Nate che la salutava, da distanza di sicurezza, con la mano.
    Li odiava, Rea Hamilton. Davvero.
    Li odiava così tanto, da non averlo mai fatto - e quando si aveva a che fare con un Hamilton, era la sorte peggiore.


    Negli anni le avevano chiesto come potesse essere loro amica; a dire il vero, lei stessa se l’era domandato più di una volta.
    La risposta era così semplice, così intuitiva, da averla sempre fatta sorridere: non lo era.
    E non perché ella meritasse di meglio rispetto alla loro compagnia, tutt’altro; era quello ad averla fatta desistere per anni, ad averla irritata più di tutto il resto, ad averla spinta a trattarli peggio di quanto s’erano guadagnati: la vera domanda era sempre stata un’altra, ma lungi dall’Hamilton porsela.
    Come potevano, loro, essere amici suoi?
    Non aveva mai mentito, Rea. Non era loro amica, e presumibilmente non lo sarebbe mai stata. Ma loro? Nathaniel Lowell, Henderson; Elijah Dallaire; Eugene Jackson. Loro erano suoi amici.
    Era maledettamente diverso. Se li era ritrovata nella propria vita senza neanche accorgersene, con quelle espressioni sciocche già convinte del loro sodalizio. Non aveva mai avuto bisogno di essere loro amica, la Serpeverde: avevano scelto per lei, ed erano abbastanza -erano sempre stati abbastanza-, da aver colmato anche le mancanze da parte sua. Così diversi da cozzare ad ogni angolo, così opposti da scontrarsi sulle questioni più stupide. Come avrebbe potuto definirli? Nulla sarebbe cambiato dai tempi di Hogwarts: erano ancora fastidiosi, idioti e testardi.
    Ma erano i suoi fastidiosi, idioti e testardi – e, a quanto pareva, lo sarebbero stati fino alla fine.
    Che ragazza fortunata, eh?
    E invece sì, e invece sempre.
    Ecco cosa rendeva la sua vita molto più greve e triste. Ma come si era ridotta.
    «morgan, quanto ci vuole ancora?» sbottò, poggiando la fronte contro le ginocchia. Non sarebbero usciti da quel maledetto capanno, quindi per dio che almeno li facessero morire subito. Non ne poteva più di quella strisciante agonia, non riusciva a tollerare un altro di quei singhiozzi.
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    Chiuse gli occhi.
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    Le membra stanche, le braccia deboli.
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    Spense tutto. Si chiuse nella sua solitaria bolla di silenzio, ignorando i gemiti altrui – senza guardarli, senza sentirli.
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    Solamente il suo respiro a spezzarle i polmoni, rimembrandole che se non fosse morte in quell’esplosione, probabilmente l’avrebbe fatto a causa del veleno. Ironica, la vita: non aveva mai pensato che sarebbe morta così. Non aveva neanche mai pensato, ad essere sinceri, che sarebbe morta. Nei ventisei anni della sua esistenza, aveva trovato un modo per sopravvivere a situazioni decisamente più assurde di quella, perché avrebbe dovuto essere differente?
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    Perché era cambiato tutto, cambiava sempre tutto.
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    Tanto impegnata a piegare il mondo al proprio volere, da non accorgersi che il mondo a sua volta l’aveva piegata, rendendo gli angoli altrimenti affilati più morbidi, tenui. Ledendola come acqua su una roccia, lenta ma inesorabile.
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    Basta.
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    Aprì gli occhi senza volerlo, lasciandoli scivolare sulla stanza senza guardare nessuno, ben attenta ad evitare il contatto visivo con chicchessia. Aveva sempre desiderato l’attenzione su di sé, ma in quel momento voleva solamente rimanere nell’ombra – nessun riflettore, nessun microfono a renderla primadonna dello spettacolo. Come tutto era iniziato, tutto sarebbe finito.
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    Una stanza troppo piena, respiri a flettersi in uno spazio angusto. Non ebbe il tempo di osservarli, di capire: ebbe solo un esitante, flebile secondo per puntare il proprio sguardo su chi era rimasto.
    Run, Raine.
    Al.
    Elijah.
    E divenne tutto luce e buio, fuoco e freddo: un braccio a strattonarla, un vuoto allo stomaco.
    Poi, il nulla.

    Sbattè lentamente le ciglia, un denso fumo acre a pungerle sulla lingua. Cercò con scarsi risultati di alzarsi a sedere, ma non appena tentò di piegarsi in avanti, un conato ed un giramento di testa la costrinsero a rimanere distesa al suolo, dove tossì la sostanza tossica che senza alcun preavviso le aveva sommerso i polmoni. Si portò una mano alla bocca, macchiandosi i polpastrelli di chiazze cremisi. Deglutì il proprio sangue, Rea Hamilton, mentre con occhi dischiusi guardava un cielo che mai aveva visto più scuro.
    Era viva.
    Non le interessava chi li avesse portati in salvo, né si preoccupò di dar ascolto alle voci che, in lontananza, si schiacciavano fra loro cercando di prevalere l’una sull’altra. Rimase semplicemente a respirare, la pioggia a picchiettare sul volto sudato e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Avrebbe potuto sorridere a quel manto privo di stelle, a quella luna che, oltre le nubi, si faceva beffe di loro. Ma sentiva, Rea, che qualcosa non andava: così si limitò a restare immobile, i capelli sparsi attorno al capo e le palpebre dischiuse, la lingua ad umettare labbra secche. Volse la testa sull’erba bagnata di Brecon, l’odore forte di terriccio, sangue e magia ad imprimersi nelle sue narici, nel lento alzarsi ed abbassarsi del petto.
    «mi dispiace»
    Dispiaceva sempre, ad Elijah Dallaire.
    Le mano di lui troppo fredda nella propria, le palpebre pesanti su un paio d’occhi inverosimilmente chiari. Cominciò a scuotere il capo senza neanche rendersene conto, senza neanche sapere perché. Un movimento distratto, pigro, mentre la saliva faticava a scendere lungo la gola. Soffiò fuori l’aria in uno sbuffo che le svuotò i polmoni, mentre intrecciava le dita a quelle di Eli – deboli, fragili.
    Non voleva più vedere. Non voleva vedere il volto farsi ancor più pallido, gli occhi chiusi, le labbra perennemente distese in un sorriso farsi prive di forma. Non voleva vedere il sangue allargarsi sotto di lui, la giacca lacera dalle contusioni precedenti.
    Non voleva più sentire. Non voleva sentire le sue scuse, le sue parole, la sua voce. Non voleva sentire l’ultimo vischioso respiro farsi largo in polmoni spezzati, né essere testimone di quell’amara risata a brillare come lacrime – o di quelle lacrime a brillare come una risata.
    Non voleva neanche essere lì, Rea Hamilton.
    Sentì anche il proprio respiro farsi più frammentato, il battito irregolare contro le costole. Ed un vuoto all’altezza dello stomaco, una stretta soffocante al petto, parole incastrate fra i denti.

    «non ho mai compreso il perché, ma dopo ogni partita di quidditch nathaniel ed eugene insistevano per andare a festeggiare» iniziò cauta, scandendo piano le parole. «anche se non aveva giocato nessuna delle nostre squadre, o peggio: se avevamo giocato l’uno contro l’altra» scosse il capo, avanzando di un passo nella sua direzione mentre le dita si stringevano attorno ad un quadrato di stoffa. «era un rito per loro, e dio solo sapeva perché vi seguissi in quello sfacelo dell’umanità» si inumidì le labbra. Stava cercando, con la voce che flebile si stendeva come fili di caramello fra loro, di tenerlo ancorato alla realtà - quella vera. Le sarebbe bastato tardare un secondo, dire la cosa sbagliata perchè facesse fuoco. Che vita greve. «tu, ovviamente, sei sempre stato il campione – di nate, di eugene, e di metà del castello. Tutti volevano starti vicino, e tu volevi stare vicino a tutti» inarcò le sopracciglia, avvicinandosi di un altro passo.
    Ma non l’hai mai fatto. Non sei mai stato vicino a tutti, non hai mai approfittato dei momenti di gloria meritati. E mentre Nathaniel ed Eugene rivivevano le azioni salienti della partita, gesticolando in quel modo buffo che sempre mi aveva fatto alzare gli occhi al cielo, con un sorriso appena abbozzato ti sedevi vicino a me, troppo lontano per risultare invadente, e troppo vicino perché potessi ignorare la tua voce.
    Perché sapevi di non piacermi, Elijah Dallaire. Eppure ci provavi comunque, eppure ci provavi sempre – da quando Nathaniel festoso come un cagnolino, ti aveva indicato in sala grande : «lui si chiama elijah, rea» presentandoti come se per me, un Grifondoro qualunque, potesse avere importanza.
    Era sempre la stessa domanda, Eli, quella che sbuffavi sopra un boccale di burrobirra. Sinceramente interessata per di più, cosa che ho sempre trovato intollerabile. Perché doveva importarti? Eri l’unico a chiedere, per Merlino.
    E la mia risposta, non è mai cambiata.
    «ti do fastidio?»
    «solo quando respiri»


    E che ne sapeva, Rea Hamilton, che quando avrebbe smesso di farlo sarebbe stato anche peggio.
    «non volevo darti fastidio»
    Sì, invece. Non rispose, rimanendo silenziosa a guardarlo chiudere gli occhi. Un brivido a fior di pelle, mentre il polso di Elijah rallentava sotto i suoi polpastrelli.
    Non ancora, non ancora. Gesù Cristo Dallaire, ce l’avevamo fatta. Ce l’avevamo fatta. Strinse i denti serrando le palpebre, cercando di trattenere fra le dita quell’ultimo fuggevole battito.
    Tu-tum. Tu-
    Portò entrambe le mani, la sua e quella di Elijah, a coprirle gli occhi, deglutendo febbrilmente il sangue e la saliva – e la bile, e quell’irritante bruciore dietro le palpebre.
    Quando rispose, non c’era più nessuno a sentirla. Non c’era mai stato. «bugiardo»
    E rimase ancora così, Rea Hamilton, mentre i primi passi strusciavano nella terra al suo fianco, calpestando l’erba un tempo verde ed i respiri soffocati nella pioggia. Non voleva muoversi, non voleva vedere, non voleva sapere. Troppo stanca per preoccuparsi di altro che non fosse il quieto gocciolare delle nuvole, troppo distratta per concentrarsi sui primi lamenti a dilaniare il petto ed i polmoni.
    Non poteva aspettare un altro po’? Non troppo, solo abbastanza perché qualcuno di capace potesse occuparsi di lui – delle sue ferite, di quel vuoto a perdersi nelle iridi verdazzurre. Perché lei?
    «eli» un sussurro soffocato, la voce di Nate.
    E quello era ufficialmente il suo momento per uscire di scena. Non aveva alcun diritto di rimanere lì, testimone di un dolore che non le apparteneva - che non avrebbe dovuto appartenerle. Non era Nathaniel, non era Eugene, non era né Arabells né Abigail. Era Rea Hamilton, e non era mai stata una spalla su cui piangere. C’era sempre stato Elijah per Nate – e per Euge; il compito di Rea, solitamente, era quello di trovare qualunque cosa li avesse ridotti alle lacrime, e distruggerlo finchè non ne fosse rimasto più nulla. In quello, era la migliore.
    Non era il suo campo.
    Non era il suo lutto.
    Sicuramente, non era il suo Elijah.
    Ogni respiro pesava come cemento sul petto, facendo rimbalzare il cuore da una costola all’altra. Un viso marmoreo, quello della Hamilton: la luce delle torce a specchiarsi su due pozze scure ancora cautamente chiuse, le mani improvvisamente fredde allacciate fra loro nella vana ricerca di serbare memoria di quel breve, brevissimo, calore. Non c’era nulla.
    Non c’era mai stato.
    Perché?
    Si sedette, le dita incastrate fra i bagnati capelli scuri. La testa china, le ferite sul ventre a riaprirsi e sanguinare su ciò che era rimasto della giacca di pelle. Non sentiva freddo, non sentiva la pioggia.
    Non capiva neanche perché facesse così fatica ad inspirare, a gonfiare il petto di un’aria che buon Dio s’era guadagnata. La morte non era presenza inusuale nella sua vita; la gente moriva ogni giorno, ed il più delle volte proprio a causa sua. Ma quello? Quello era diverso.
    Non poteva neanche rimpiangere l’addio mancato, Rea; non poteva rimproverarsi per le lacune degli anni passati senza di lui, per non avergli detto che fastidio, in fondo, non gliel’aveva mai dato. Che diritto aveva?
    Nessuno.
    Sarebbe rimasta in quell’apatico stato di stallo dove nulla la raggiungeva, e nulla faceva male, se solo non avesse udito il singhiozzo di suo fratello. Rea, quel rantolo spezzato, l’avrebbe riconosciuto ovunque. Si sforzò di aprire gli occhi, di mettere a fuoco la radura dinnanzi a sé.
    «T-tu me l-avevi promesso»

    «heidrun crane, aloysius crane» ed allora alzò gli occhi al cielo, congiungendo le mani fra loro con un sorriso sardonico. «sono addestrati per affrontare situazioni del genere, ed ho visto combattere anche loro – nel labirinto, al lavoro. ma soprattutto, dio solo sa quanto io abbia provato a cancellarli da quest’esistenza» puntò l’indice su Al, lanciando un’occhiata allusiva a Gemes. «fidati, è impossibile»

    Un sorriso così amaro da schiacciarle il cuore le curvò le labbra, mentre ruotava lo sguardo, frivola occhiata priva di spessore, su Gemes Hamilton.
    Non poteva, né voleva, crederci.
    Tornò a chiudere gli occhi, i palmi poggiati contro le palpebre alla ricerca del freddo della pioggia sulla pelle. «dio santo, crane» le unghie piantate nel cuoio capelluto, l’effimera ricerca di sentire qualcosa.
    Perché non sentiva niente, Rea Hamilton.
    Quanti anni aveva? Ventisei.
    Quanti anni, quando aveva smesso di vivere? Sei.
    Significava vent’anni. Vent’anni nei quali la Hamilton, ex Serpeverde, s’era convinta di non avere un cuore. Il suo biasimo nel non legarsi a nessuno, la sua giustificazione per il vuoto che la notte la teneva con gli occhi incollati al soffitto: ma allora, si chiese fra un respiro e l’altro. cos’è che fa così male?
    Ignorò i singhiozzi, le grida lacere ad un Dio sordo, le suppliche rivolte a mani che non avrebbero più potuto stringere alcunché.
    Un sospiro.
    Due sospiri.
    Due sospiri e mezzo.
    Tre sospiri.
    Cosa faccio.
    Tre sospiri e tre quarti.
    Una bugia.
    Riportali indietro.
    Quattro sospiri ed un terzo.
    La lingua morsa con violenza, il sapore ferroso del sangue ad inondarle il palato.
    È troppo tardi.
    Così – forse la rabbia, forse la stanchezza, forse quella stretta allo stomaco che non aveva alcuna intenzione di ammettere a sé stessa- gli occhi le si riempirono di lacrime che mai, Signore iddio, si sarebbe sognata di versare. A costo di morirci anche lei, su quel prato gallese.
    Da quando Rea Hamilton piangeva? Da mai. Non avrebbe fatto eccezione la morte di due biondi qualsiasi – sostituibili, futili. Aveva vissuto tutta la sua vita senza di loro, che differenza avrebbe fatto?
    Nessuna.
    Tutta.
    Solo Dio sapeva quanto li odiava, tutti loro. Quanto la rabbia la stesse masticando dall’interno, quanto avrebbe voluto semplicemente gridare a tutti di chiudere la loro fottuta bocca, perché non c’era nessuno a sentirli. Non lo capivano? Non lo sapevano?
    Non c’era più un maledetto nessuno da pregare.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
    Aprì gli occhi, privi della foschia opaca del pianto ingoiato insieme alla saliva e la bile, su William Lancaster. Fino a quel momento, neanche l’aveva visto: cosa ci faceva lì il preside di Salem? Domande che avrebbe avuto modo di porsi in seguito, mentre l’interrogativo dell’uomo pesava greve su tutti loro, mozzando i respiri laddove essi esistevano ancora.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
    Non riusciva a concentrarsi sulle sue parole, ingarbugliati termini fra frasi sconnesse, mentre la mente ripercorreva quell’unica domanda: se fosse stato possibile, se davvero avessero potuto invertire un fatto inalienabile quanto la morte, cosa avrebbe fatto? Mentre il Preside parlava, perdendosi nei meandri di una storia conosciuta solo a lui, Rea si azzardò a posare lo sguardo su i corpi al suolo.
    Helianta, Alec, Aiden. Sconosciuti per la Hamilton, e tali sarebbero rimasti. Ma gli altri?
    Heidrun, Al. Elijah. Dio santo, avrebbe dovuto immaginarlo che sarebbe finita così – il cavaliere dall’armatura chiazzata di rame. Si era sempre sforzato di vedere dannate lucertole dove draghi brandivano zanne come armi, e quello era il maledetto risultato. Ingollò la saliva, scuotendo impercettibilmente il capo.
    Solo una cosa, dovevano fare. Solo una, buon signore: sopravvivere. Sopravvivere. L’avevano sempre fatto, cos’era cambiato? Come avevano osato? E spostò l’attenzione su Amos, quella debole creatura con l’amore fragile per ogni giocattolo sbilenco: più erano danneggiati, più sembravano fare al caso suo. E più le sue mani plasmavano colla per rimettere insieme i cocci, e più i pollici sfregavano finchè dalla polvere non tornava il grezzo oro.
    Lo sapeva per esperienza, lei.
    Doveva abbracciarlo, dirgli che avrebbe messo le cose a posto? Che sarebbero tornati?
    Era una bugiarda, Rea Hamilton. Ma neanche lei osava tanto.
    «quando dico amore, voi a cosa pensate? Sacrificio. Condivisione. È un legame»
    Ed anche quel briciolo di speranza che, ingrata, aveva osato aizzare da una scintilla un cagionevole fuoco, si spense. Il sorriso le curvò le labbra, le ciglia abbassate; neanche sapeva più perché lo stesse ascoltando, mentre Lancaster cercava di inculcare loro i preconcetti di una favola.
    Il bacio del vero amore che risveglia la principessa, era quello il suo asso nella manica? Si massaggiò le tempie trattenendosi, a stento, dal dar forma ad una corposa risata priva di gusto. Che idiota era stata a credere, seriamente, che potesse esserci un’opportunità di riprenderseli.
    «sto cercando di dirvi che possiamo portarli indietro»
    Aprì nuovamente gli occhi, incrociando le iridi scure dell’uomo: ci credeva davvero, William Lancaster.
    E Rea, che dio la perdoni, voleva crederci così tanto da far male. Così disperatamente, da farlo.
    Due persone. Sangue dello stesso tipo. Guardò la propria mano, dove ancora pizzicava il taglio inferto ore prima - una vita prima. Strinse impercettibilmente il pugno, il cuore a saltare un battito. E Al? Spostò l’attenzione su Gemes e Shia, gli unici in quella radura dei quali si fidasse. Non del tutto, quello mai, ma abbastanza. Molto più di quanto potesse vantare il resto del genere umano.
    Non sapeva neanche a che pro, in realtà, avesse ricercato proprio i loro occhi.
    Come se loro, davvero, avessero potuto cambiare le cose.
    «Dovete essere consapevoli di quello che vi sto chiedendo: il vostro battito, sarà il loro battito. I vostri respiri, saranno i loro respiri. Le vostre vite, saranno le loro. Cambierebbe tutto»
    Ma non era quello a preoccuparla. In quel momento, in quel singolo istante strappato con troppa leggerezza alla consueta Hamilton, v’era solo la cedevole debolezza del bisogno – di fare qualcosa, di riportarli indietro.
    Il punto era un altro.
    L’amore rende deboli.
    Un sospiro e due quarti, un battito e mezzo.
    Lo sguardo a scivolare su un immobile Elijah, evitando accuratamente gli occhi chiari di Arabells. Cosa le stavano chiedendo?
    Qualcosa che non era disposta a dare.
    Non il sangue a frenarla, non il correre il rischio. In quell’astratto minuto che stentava a credere le appartenesse, non riusciva a farsi tangere neanche dalla possibilità di perdere un po’ di sé stessa – lei, che sempre aveva desiderato mantenere il controllo.
    «a-mors: un legame, qualcosa di abbastanza solido sul quale potreste camminare. Senza questo, il resto è inutile: dovete tenere a queste persone, altrimenti... come dicono i giovani? Con il cazzo che funziona»
    Con il cazzo che funziona.
    Fu una delle poche volte, così rare da aver lasciato un segno indelebile sulla Hamilton, in cui rimpianse di non essere come gli altri.
    Aveva sei anni, Charlotte ed Amos la osservavano dalla porta socchiusa.
    Aveva venticinque anni, negli occhi di suo fratello una condanna ed in quelli di sua sorella una memoria ormai rimossa.
    Aveva ventisei anni, e William Lancaster passeggiava con aria distratta fra i corpi riversi a terra.
    Tutti a chiederle qualcosa che Rea non aveva, né mai aveva avuto; qualcosa che non poteva dargli, anche provandoci.
    L’amore, per Rea Hamilton, era solo una sfumatura più marcata di odio. Non lo faceva nel modo giusto, non lo faceva nel modo sano. Ma non poteva rimanere a guardare senza fare nulla, non faceva parte della sua indole.
    Capite il dilemma?
    Ammettendo, ma non confermando, ch’ella nutrisse sinceri sentimenti verso Elijah Dallaire, quanto avrebbe potuto fare la differenza? Poco. Non era abbastanza, lo sapeva lei e lo sapeva chiunque avesse avuto modo di conoscerla.
    Quello che per lei era amore, per altri era solo un’altra, l’ennesima cicatrice sulla pelle. Perché faceva male, Rea. L’aveva sempre fatto. Quello che per lei era troppo, per gli altri non era che la più impalpabile carezza della notte.
    Con il cazzo che funziona.
    Capite il problema?
    Non era preoccupata per sé stessa, si era dimostrata nuovamente ed eccezionalmente una sopravvissuta: temeva solo, Rea Hamilton, che il legame non fosse abbastanza solido da spingere qualsivoglia persona a seguire la sua voce.
    Non qualsivoglia persona, diciamo le cose come stanno: Elijah. Perché in realtà, per quanto quel dubbio l’assillasse, ancor prima di aver sentito le condizioni di Lancaster aveva già deciso.
    Per sé stessa, non per lui. Per sé stessa, non per lui.
    Stanca, la Hamilton, di fingere che non le importasse.
    «Siete disposti a sacrificare qualcosa, per loro? siete disposti a condividere qualcosa, con loro? siete disposti a pagare un prezzo? siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro?
    ecco cosa intendo. e se questo non è amore, non so cos’altro potrebbe esserlo»

    Come la faceva facile, il preside di Salem. Fin troppo semplice, nell’udire le sue parole, offrirsi per qualsivoglia cerimonia ci fosse necessità di praticare.
    Ma non era così che funzionava, non lo era mai stato.
    Nessun sospiro, due battiti rapidi.
    Fissò lo sguardo su un punto imprecisato del suolo, l’indice piegato verso Gemes e Shia nel silenzioso intimar loro di avvicinarsi. Aveva bisogno di sentirglielo dire, Rea. Per una volta, una sola volta, aveva bisogno di loro.
    Stava per fare una cazzata?
    Stava sbagliando tutto?
    Potevano, gli Hamilton, permettersi il tipo d’amore del quale c’era bisogno? Potevano essere abbastanza? Sentimenti spinti così a lungo sotto il tappeto da render difficile credere fossero mai esistiti, che tirati fuori dall’armadio non mostravano altro che un esile fantasma di ciò che avrebbero potuto essere.
    Rea Hamilton amava Elijah Dallaire?
    Avrebbe risposto di no, sempre. Se gliel’avessero chiesto una manciata di minuti prima, l’avrebbe affermato con la certezza di chi sulla lingua teneva una verità assoluta, ed un sorriso sghembo a sottolineare quanto stupida fosse stata la domanda. Ed avrebbe continuato a ribadirlo, se fosse servito; avrebbe continuato a crederlo, se Lancaster non l’avesse spinta con le spalle al muro.
    Non aveva una reale scelta, e non l’aveva mai avuta.
    «Che ne dite, li aiutiamo? Magari babbo natale ci rimette nella lista dei buoni. Per alcuni potrebbe anche essere la prima volta»
    Ne ricercò le iridi chiare, le palpebre ridotte a fessura. Ignorò la battuta sul Natale, concentrata com’era ad arrovellarsi sulla domanda cui lei aveva bisogno di udire risposta – cercando, negli occhi di suo cugino, uno sputo di quella sicurezza che gli curvava le labbra. «possiamo davvero farlo?» ed allora guardò Gemes, sapendo che lui avrebbe compreso l’inespresso di quella domanda. Ne siamo in grado? Non aveva mai dubitato delle proprie capacità, ma quello era un ambito decisamente al di fuori delle sue competenze.
    Siamo abbastanza? Funzioniamo?
    E la risposta era no, sarebbe sempre stata no. Lo era quando Rea aveva sei anni, quando Amos aveva sperato in una sorella giusta, quando Charlotte le aveva stretto le mani ricercando la solidità di casa. Lo sarebbe stato l’indomani, e l’anno successivo.
    Non erano abbastanza. Non funzionavano.
    Non per sé stessi: ma chissà perché, e davvero solo dio sapeva perché, c’era davvero qualcuno al mondo per il quale il poco che avevano bastava. Per il quale loro, negli asettici sorrisi privi di allegria, funzionavano.
    E se quello non era amore, non sapeva cos’altro potesse esserlo.
    Non era molto, ma era tutto ciò che aveva.
    Due sospiri e un dodicesimo, tre quarti di battito.
    Riformuliamo la domanda, tacendo l’ovvia risposta dell’interrogativo precedente: ad Elijah Dallaire sarebbe bastato?
    Avrebbe avuto il medesimo dubbio per Nate, per Euge - eppure un po’ di meno. Perché fra tutti, Rea non era mai riuscita, non a Hogwarts e di certo non nell’anno precedente, ad accettare proprio Elijah; troppo diverso, troppo… biondo, e Grifondoro. Troppo tutto ciò che lei non era, perché potessero trovare un terreno comune. A poco e nulla erano serviti i tentativi del francese d giungere a compromessi, data l’ostilità testarda di una Hamilton tredicenne, quindicenne, venticinquenne.
    Perché, sin dal primo momento in cui l’aveva visto – ed aveva pregato il signore che la sua fosse una parrucca e non i capelli naturali- aveva capito che genere di persona fosse, una consapevolezza che s’era andata a consolidarsi giorno dopo giorno, dopo mese, dopo anno. Coperta da candido rancore, da insofferenza priva di giustifica. Perché Elijah Dallaire era una di quelle persone che riuscivano a rendere una giornata incredibilmente migliore, che riuscivano a rendere un doloroso taglio sulle mani solo un graffio; perché ne bastava il sorriso per lenire una sofferenza acuta al petto, così come bastava averlo al proprio fianco per credere che tutto andasse bene. Che tutto potesse andare bene.
    E l’aveva odiato così tanto, Rea Hamilton. Perché era ciò che non avrebbe mai potuto essere, lei, o avere. Perché non ci si poteva affezionare a quelli come lui - che quando mancavano, facevano così male.
    E lo guardò, ancora immobile - sempre immobile- la pioggia a scivolare su un petto privo d’aria, di battito.
    Aveva fatto bene, ad odiarlo per tutto quel tempo.
    E la fregatura era che si trattava di quel genere di persona che non si poteva, semplicemente, non amare. Andava contro le leggi della fisica, come convincere la pioggia ad andare nella direzione opposta.
    Quindi lo odiava ancor di più, maggiormente in quel momento che non nell’arco della loro conoscenza, perché non si era fatto odiare abbastanza. Iddio!
    Non poteva finire così. Non poteva essere morto.
    Non poteva e basta.
    Annuì fra sé, le labbra strette fra loro. Ruotò gli occhi su Run ed Al, spostando poi lo sguardo su Amos, Lienne. In tutto quello: ma Shia e Gemes? Perché, diciamocelo. La Hamilton non si era mai interessata alle loro vite personali, né si era mai preoccupata delle loro amicizie – perché avrebbe dovuto importarle? Non immaginava che, un giorno, avrebbe rimpianto non conoscere.
    Perché aveva bisogno, Rea, che funzionasse.
    Aladino non poteva davvero morire, andiamo. E se non poteva morire lui, sicuro non poteva farlo sua figlia.
    Se si fosse trattato di uccidere qualcuno, avrebbe riposto la propria –quasi- completa fiducia nella sua famiglia. Ma quello? Le pareva un tasto troppo… delicato. Potevano, davvero, vantare un legame abbastanza solido con i due biondi (chi dentro, chi dentro e fuori)? Non è un problema tuo, Rea.
    E invece, lo era fin troppo. Si schiarì la voce, riportando gli occhi sugli Hamilton. «siete sicuri di voler andare voi?» Sperava che la loro non fosse semplice presunzione, arroganza data da un sangue malato.
    Per una volta, sperava non fossero Hamilton.
    «e tu?»
    Lo era? Scrutò gli occhi blu di Gemes, le dita a ticchettare sulla gamba. «shia, sono stata avvelenata» un sorriso a curvarle le labbra, mentre tatticamente ignorava la domanda dell’Hamilton.
    Interrogativi sciocchi, i loro, quand’era palese avessero già fatto la loro scelta.
    «grazie» bisbigliò quindi a suo cugino quand’egli le tolse il veleno, sentendo il cuore pompare un sangue pulito nell’organismo. Dire che stava bene sarebbe stata un esagerazione, ma almeno respirare non la stava uccidendo.
    La cosa più difficile, dopo l’ammissione a sé stessa, era l’ammissione pubblica: significava render noto un punto debole, nonché mostrare che in Rea Hamilton, c’era qualcosa. Dopo tutti gli anni passati a cancellarne ogni traccia, ad aver creato un fossato d’ossa e sangue; dopo tutte le vite rubate, i respiri soffocati nel cuscino.
    Dopo tutta l’Hamilton, infine Rea.
    Quando si mise al fianco di Elijah, rivolse un debole sorriso alla Dallaire più piccola. «ha più sangue mio che non suo» specificò sebbene lei ignorasse il precedente scambio, come se si trattasse solamente di quello. Un’altra trasfusione, no? Nulla di più.
    Voleva sempre credere non fosse nulla di più.
    Malgrado l’avesse appena fatto con Bells, decise di non doversi giustificare anche con Nathaniel. Lui fra tutti, d’altronde, era stato il primo ad accettarla come amica – ad intestardirsi, perlomeno, a vederla come tale.
    Insieme, no? Casta una volta, casta per sempre.
    Quindi Elijah Dallaire, a conti fatti, era anche suo amico. Non doveva significare nulla più che il simbolo di un’amicizia mai realmente conclusa.
    Giusto?
    «facciamo in fretta» sibilò semplicemente senza guardare il corpo a terra, ignorando anche gli occhi blu dell’Henderson. Le sembrava di indossare la propria pelle, senza che questa realmente le appartenesse. Lontana, distante, aliena - da quel dolore, da quelle persone che avrebbe preferito non conoscere. Si inumidì appena le labbra, volgendo il viso –ma non l’attenzione- al preside di Salem.
    Dio santo, come avevano potuto morire? Come avevano potuto farle quello? Costringerla a prendere una posizione, realmente priva di possibilità di dissentire. A mettere a rischio sé stessa, a sacrificarsi e condividere - lei, Rea Hamilton. E che nessuno, santo cielo, dica che non era stata obbligata: non si fidava di nessuno, l’ex Serpeverde.
    A malapena si fidava di sé stessa.
    «a quanto pare, abbiamo i nostri campioni!»
    Cosa non andava in quell’uomo. Rimase a guardarlo impassibile, la pioggia a scivolarle senza remore sulla pelle. Volse una fugace occhiata a Nathaniel, a Shia. Si soffermò sull’altro uomo, il Tipo dei Lupus, al fianco opposto di Al.
    Non avrebbe funzionato. Non sarebbe tornato nessuno. Lo sentiva che il loro era un tentativo stupido, che non poteva bastare del maledetto amore per fottere la Morte. Si parlava di un concetto inalienabile nella vita dell’uomo, qualcosa cui dovevano scendere a patti sin dalla nascita.
    Non poteva essere così semplice.
    Fulminò Lancaster con un’occhiataccia quando, con spirito troppo leggero, cominciò ad indicare i posti che avrebbero dovuto prendere. Credeva forse fosse una recita per bambini? Gli avrebbe fatto una standing ovation? Senza attendere la diretta istruzione dell’uomo, si mise alla destra dell’ex Grifondoro. Ancora in piedi, ancora distratta. Giù.
    Non ci pensava neanche.
    Conosceva la morte, cara amica di un’esistenza stropicciata ed erronea; poteva rimanere per un incalcolabile quantità di tempo ad osservare un volto privo di vita, soffermandosi con lo sguardo sulla piega ormai immobile del collo laddove avrebbe dovuto pulsare la giugulare. Ma si trattava di sconosciuti, uomini e donne che nella sua vita non avevano mai fatto alcuna differenza. Guardò Nate, un sospiro a ronzarle nel petto come un’ape fastidiosa.
    E si chinò, le ginocchia al suolo.
    Tre quarti di respiro, un battito e mezzo.
    «tutto ciò che vedrete, tutto ciò che farete, dovrà rimanere qua dentro. Sono stato chiaro?»
    Non le importava, non le importava, non le importava. Si obbligò a respirare quieta, gonfiando i polmoni fino a sentirli bruciare prima di svuotarli lenta, una molecola d’ossigeno per volta. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe ribattuto con un ringhio grezzo, spezzato fra i denti da un’imprecazione.
    Ma non ne aveva: voleva solo che, come consueto, qualcuno – Lancaster, sé stessa- la deludesse, rendendo il fulgore della speranza niente più che cenere. Voleva solo che tutto finisse, dove quel tutto poteva essere interpretabile a piacimento.
    Ignorò i nomignoli, ignorò le istruzioni date a Nathaniel, il tono gaudioso di William. Ignorò tutto, Rea Hamilton, mentre lo sguardo si perdeva su alberi privi di consistenza. Non era realmente lì.
    Ciascuno affrontava il dolore a proprio modo: qualcuno piangeva, qualcuno gridava, qualcuno straziava con invisibili artigli un cielo d’ossidiana.
    Qualcuno, non lo faceva.
    Non chinò lo sguardo quando l’incanto del mago strappò la giacca e la maglia sottostante di Elijah, malgrado avesse sentito un lembo degli abiti sfiorarle le mani abbandonate in grembo. Poteva non guardare, no? Nessuno la obbligava a guardare.
    Stava solo facendo il suo dovere, non era nulla di personale.
    Stava solo facendo qualcosa di troppo personale, e non era suo dovere.
    «prendete la mano destra del Nucleo, e poggiate quella libera sul cuore»
    Chi credeva che nella morte risiedesse coraggio, non era mai stato uno dei sopravvissuti. Sarebbe stato così semplice se lì, a separare lei da Nate, ci fosse stato un estraneo. Ma se così fosse stato, ella non avrebbe avuto alcun bisogno di immergere le ginocchia nel fango, nell’ignorare il respiro mozzato in gola.
    Quanto ti odio, Elijah Dallaire.
    Deglutì, gli occhi chiusi. Lentamente, quasi dovesse affrontare melassa anziché impalpabile aria, fece scivolare la mano sinistra dentro quella ormai immobile, ormai fredda, del francese.
    Un ramo, un sasso, il tronco d’un albero secolare.
    Sarebbe stato più facile se non avesse stretto quelle stesse dita fino a poco prima? Sarebbe stato più semplice se non le avesse sentite sul proprio fianco, in un bacio strappato ad una realtà alla quale non poteva appartenere?
    No.
    Perché ogni polpastrello aveva una sua memoria, ogni ruga sul palmo un ricordo: ogni volta che le dita si erano distese verso di lei esitando, ritraendosi prima di sfiorarla perché sapeva, Elijah, quanto poco fosse dedita al contatto; un boccino distratto a sfiorarne con ali infinitamente sottili il dorso, un sorriso pigro sulle labbra.
    Sospirò, Rea Hamilton – tre quarti e mezzo di sospiro, due battiti e un ottavo- ed aprì gli occhi.
    Piegando il capo, rimase ad osservare le dita intrecciate alle sue, intente a cercare di trasmettere quel poco di calore che le era rimasto. Cosa hai fatto, Dallaire. Svogliatamente, con la distratta noia di chi in quell’azione stava calcolando ogni centimetro, poggiò la mano destra sul petto.
    Così insano, il non percepire il cuore a scalpicciare sotto le falangi. Così sbagliato.
    «chiudete gli occhi, inspirate. Potreste sentire un lieve bruciore, è normale»
    Mentre tutti chiudevano gli occhi, Rea rimase a guardare - Rea cominciò a guardare. Le labbra sporche di sangue, le ciglia bionde imperlate di fitte goccioline d’acqua, la pelle sporca di fuliggine e polvere, i capelli incollati alla fronte. Com’era possibile. Nessun sorriso, nessun’occhiata di sottecchi quando pensava ella non lo stesse guardando, nessuno sguardo ricco di silenziose parole verso Nate, nessun sospiro trattenuto in direzione di Eugene.
    Non vedeva il Dottore, Rea. In quel momento, non vedeva neanche l’idiota che, privo di addestramento, si era presentato alla missione: era solo lo stupido amico di Nate con il sorriso stupido ed il nome altrettanto stupido che, seduto al tavolo dei Grifondoro, alzava una mano salutandola con evidente imbarazzo – di Rea, di Elijah, dell’intera maledetta Hogwarts fatta eccezione per Nathaniel Henderson.
    Chiuse gli occhi.
    Un sibilo trattenuto nelle labbra serrate, mentre il palmo destro cominciava a bruciare. Le sopracciglia corrugate, il cuore a palpitare contro le costole. Tu-tum. Tu-tum.
    Tu-tum Tu-tum.
    E quella risposta che non s’era aspettata. Aprì gli occhi, fregandosene degli ordini impartiti da Lancaster. Com’era possibile: sotto la mano, su quell’epidermide ancora troppo fredda, Rea Hamilton percepì un battito rispondere al suo. Ali frettolose di un uccellino ch’altro non voleva se non l’essere liberato. Il pulsare del suo muscolo cardiaco accelerò, e così fece quello di Elijah – rincorrendolo, privo dell’esitazione imposta dall’uomo. La gola secca, la lingua incollata al palato. Per un istante, ne fu così intrinsecamente terrorizzata da sentire il bisogno di ritrarre la mano, colloso ponte di un legame del quale tutti loro, tutta lei, stava abusando.
    Era il suo battito, quello. Era il suo: quando aveva chiesto loro di metterci il cuore, non pensava intendesse letteralmente. Più il petto vibrava sotto i polpastrelli, più la paura scemava in liquido sollievo – a scioglierle le spalle, a scioglierle le costole. Era surreale, illogico.
    Ma sbagliato? Quello no. Ignorò la voce che le gridava di strapparsi a quell’assurdità, di tenere gelosamente per sé ogni maledetto pulsare del muscolo cardiaco. Non posso, dannazione. Non posso; e divenne confortante, quel secondo cuore a sfarfallare sotto le dita.
    «chiamateli»
    Strinse la mano di Elijah sentendola calda, viva nella sua. Un vago abbozzo di sorriso a curvarle le labbra, il palmo a premere su un petto che ora, nell’immobile aria di novembre, ripeteva le sue stesse, discordanti, note.
    «quanto ti ho odiato, Elijah dallaire»
    Abbastanza, da non averlo mai fatto.
    Ed Elijah Dallaire, stupido Grifondoro, aprì gli occhi.

    Confusa, stanca. Turbata. Una stretta al cuore che non accennava ad allentarsi, mentre quello stesso battito si ripercuoteva nel polso del francese. «ha funzionato» un sussurro annegato in un respiro a metà, soverchiato da un insieme di emozioni fra le quali la Hamilton, Rea Hamilton, non riusciva ad orientarsi.
    Senso di colpa.
    Malinconia.
    Una gioia così viscerale da far male.
    Osservò le iridi chiari di Elijah senza realmente credere a quanto era successo. Aveva funzionato.
    Per davvero.
    «e se questo non è amore, non so cos’altro potrebbe esserlo»
    Aveva funzionato - lei, non l’incantesimo. Ritrasse la mano senza aggiungere altro, districando le proprie dita da quelle del francese senza proferire parola. Svuotata, e piena di un tutto che non le apparteneva. La testa vorticava di pensieri che non erano suoi, di ricordi che non aveva mai avuto modo di conoscere. Si inumidì le labbra strisciando al suolo, lontana da loro – lontana da sé stessa.
    Perché voleva piangere, e ridere, allo stesso tempo? Perché voleva abbracciarli, stringerli a sé immergendo le dita in quella carne che aveva visto crescere, inebriarsi del profumo di casa ignorando quello agrumato e ferroso del sangue?
    Cosa le stava succedendo.
    «ciascun membro del triumvirato ha preso qualcosa dagli altri due. Inclinazioni, passioni, attitudini, comportamento, paure… non sarete più gli stessi»
    «se muore uno di voi, muoiono anche gli altri due»
    « potreste, sempre ipoteticamente parlando eh, ritrovarvi qualche volta nei sogni l’uno dell’altro»
    « cos’altro devo dirvi? Se rimanete insieme, vi sentite meglio. È come… unire tre pezzi di un… cos’ha tre pezzi? un hamburger! Ecco, voi siete i panini»
    «beh, un po’ del manzo ce l’hai» emerse dalla propria distaccata apatia per rivolgere un sorriso sghembo ad Elijah. «ad esempio, anche tu sei morto» non appena ebbe concluso quella risposta, Rea corrugò le sopracciglia.
    Pessimo umorismo, battute scadenti di seconda mano… fammi indovinare.
    «nathaniel» un ringhio, gli occhi nuovamente chiusi. Fra tutti i tratti che poteva prendere da Nate, perché quello? Provò sinceramente il bisogno di piangere, mentre i palmi andavano a coprire il volto.
    «se muoio io, morite anche voi. CIAONE!»

    Fece tintinnare le chiavi nel palmo della mano, osservando come la luce del lampione ivi si riflettesse. Alzò poi gli occhi sul portone in legno di villa Hamilton, un laconico sguardo al cancello ormai dimenticato alle proprie spalle.
    Così normale, in una vita sotto sopra.
    Cambierà tutto.
    Guardò Elijah di sottecchi, mentre infilava la chiave nella serratura. Si stava sforzando così intensamente di non pensare, da essersi quasi dimenticata della sua presenza al proprio fianco – chiusa in sé stessa, nella nuova sé stessa.
    Era vivo. Per davvero.
    «voglio solo dormire» specificò in un sospiro stanco, stremato da una consapevolezza che lentamente cominciava a farsi strada in una mente annebbiata. Non aveva alcuna voglia, né in quel momento né presumibilmente l’indomani, di affrontare le domande fastidiose del biondo, o di mettersi a parlare del senso della vita. Provò l’irrefrenabile istinto di addolcire la frase con un sorriso, e dovette ringraziare la meno delicata indole di Nathaniel per essere riuscita ad ingollarlo.
    Che vita di merda – e c’era tutto di guadagnato, se tutti loro potevano sentirlo.
    Non aveva domandato ad Elijah perché non fosse andato a festeggiare con Eugene e Nathaniel – e Gemes, si ricordò con orrore: e Gemes-, ed aveva saggiamente deciso di non interrogare neanche sé stessa sulla motivazione che l’aveva spinto a rimanere con lei. Lo sentiva sotto pelle che se avesse percepito il completo pacchetto Elijah picchiettare oltre la sua coscienza, obbligandola a sotterrare l’Hamilton in lei, sarebbe stato troppo complesso resistere al bisogno di stringerli tutti a sé come teneri cuccioli. Soprattutto, non voleva ammettere di non desiderare affatto rimanere sola- lei, che della solitudine aveva fatto manto e coperta. La rediviva Heidrun Crane le aveva portato via metà dei suoi inquilini, il che limitava di molto la compagnia in villa; non voleva più sentire gli afosi silenzi, le lacune a mangiarle le ossa.
    «BRANDON, sono a casa. Sì, li abbiamo trovati. Sì, sono tutti sani e salvi» Lasciò cadere la giacca nell’atrio, una smorfia irritata a stringerle le labbra con disappunto. «mostragli il bagno e dagli dei vestiti puliti – no, non mi interessa di chi, basta che non siano miei» una pausa, un urgente necessità a pungerle la lingua.
    No.
    E invece lo dirai.
    Che palle.
    «per favore» specificò stringendo i denti, gli occhi tristemente dischiusi.
    Non salutò prima di sparire al piano di sopra, la porta della camera chiusa con enfasi alle proprie spalle.
    Infantile, distratta e distrutta.
    Cosa aveva fatto.
    Lasciò che l’acqua, troppo calda, scorresse più a lungo di quanto fosse tollerabile sulla pelle ambrata, portando via i rimasugli di pioggia – sangue, fango, lutto. Rimase finché le dita non cominciarono a raggrinzirsi, finché l’epidermide non minacciò di staccarsi dai muscoli, finché anche respirare non divenne inammissibile in quel vapore bollente.
    Eppure continuava a provare freddo, la fronte poggiata contro le mattonelle e le braccia strette al petto.
    Cosa aveva fatto.
    Meccanicamente, si vestì per la notte e si asciugò i lunghi capelli castani, gesti istintivi che le permisero di non pensare - di non essere.
    Cinque sospiri e un quarto, due battiti e mezzo.
    Si infilò sotto le coperte, la testa premuta sul cuscino. Non voleva sapere dove fosse Nate, dove fossero Al e Shia, dove fosse Amos. Non voleva niente, Rea Hamilton.
    Voleva solo dormire, fingere che nulla fosse successo.
    Che Elijah non fosse morto.
    Voleva tornare all’abitudinaria vita di ogni giorno -un sorriso a curvarle le labbra ad ogni vita strappata, un bicchiere di vino ad attenderla a fine giornata, un odio appiccicoso a seguirla come una seconda ombra.
    Voleva solo.
    «è aperta» rispose, prima ancora che le nocche del francese potessero picchiettare contro il legno della porta.
    Solo quello.
    Perché lo sapevano entrambi che Rea Hamilton, qualunque Rea Hamilton, non gli avrebbe mai chiesto spontaneamente di rimanere.
    Così come sapevano, ormai, quanto ne avesse bisogno.
    E quanto poco dipendesse da Nate ed Eli, e quanto fosse tutto Hamilton il vuoto a perdersi.
    Lo odiava, quello sfrigolante bruciore sul palato: non era suo, perché lei sapeva accettare quel vacuo non essere. L’aveva sempre fatto.
    Lo odiava, Nathaniel Henderson – perso a bere chissà dove, ancora a perdurare nel calore di quello che era sempre stato più di un amico, una famiglia.
    Lo odiava, Elijah Dallaire: come sempre – e come mai.
    Avrebbe dovuto farsi drogare da Shia, dannazione. Come si viveva con tutti quei… sentimenti sparsi? Come faceva la gente a dormire?
    Come si faceva a vivere?

    Indicò il divano dalla parte opposta della stanza, puntando l’indice con determinata vena Hamilton contro il mobilio.
    Ma Nate? Ma Elijah?
    Vi odio. Come potevano, tre persone così differenti, convivere come uno stesso organismo? Come poteva Rea accettare quel loro insulso, patetico essere, come proprio?
    Ah si, non poteva: ma non aveva voce in capitolo. Deglutì, lasciando ricadere il braccio con un sospiro prima di picchiettare sul materasso al proprio fianco.
    «possiamo parlare di smalti e ragazzi» bofonchiò con una mano posata sugli occhi, volgendo un metapsichico sorriso alla mente ancora connessa di Nathaniel.
    Non provate a negare, so che l’avete fatto.

    «sono stupidi»
    «tu dici?»
    «non hanno amor proprio»
    «già
    «sono sempre nei casini»
    «se non hai intenzione di dirmi qualcosa che non so, puoi smetterla di infastidirmi con la tua irritante presenza»
    «solo una domanda. perché, rea?»
    Silenzio: perché, Rea?
    «filantropia» un sorriso.
    «davvero, liberatene prima che sia troppo tardi»
    Lo era già, troppo tardi.
    Diciassette anni, un diploma dai voti eccellenti ad un soffio dalle dita. Non si domandava, Rea Hamilton, per quale motivo qualcuno ritenesse opportuno preoccuparsi per lei, o interessarsi ai suoi affari - era giusto così. Il punto era: perché loro?
    «devo forse ucciderli?» una domanda distratta, divertita. Cosa avrebbero potuto farle ben, la pipì sul tappeto? Era chiaramente lei il pericolo - fra loro, per loro. Ma li aveva visti, quei tre disagi ambulanti di Nathaniel, Elijah ed Eugene?
    Sì, li aveva visti. E meglio di lei.
    «sì» un respiro, le sopracciglia di Rea arcuate. «altrimenti saranno loro a distruggere te»

    Non ci aveva creduto, Rea. L’amore rende deboli.
    Lancaster aveva detto che se fossero rimasti insieme, si sarebbero sentiti meglio: evidentemente, non conosceva la Hamilton.
    Cosa aveva fatto.
    goddamn rea hamilton
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by selcouth - 7/2/2017, 17:39
     
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    Un respiro strozzato in gola, che non raschiava, né faceva male. Lacrime invisibili, inconsistenti ed inesistenti, che non bruciavano le gote, che non lasciavano segno del loro passaggio, che non si incastravano tra i corti fili di una barba dorata, cercando in quel dedalo di trovare una strada verso la base del viso per poi cadere a terra, inesorabili. Suppliche vuote ed afone che s’imponevano di voler fare da sottofondo ad un silenzio devastante, ad un’assenza cristallizzata in un attimo di tempo ormai immobile, ove nulla faceva rumore e dove niente poteva farne da base.
    Avrebbe voluto sentirle tutte, Elijah, quelle sensazioni, eppure non ci riusciva. Avrebbe voluto percepirle una per una, fare sua la pioggia sulla pelle, il calore dell’incendio che ancora divampava nonostante il temporale, il dolore delle ferite, l’acido sapore del sangue e del veleno sul palato, le voci soffuse di chi si era avvicinato a coloro i quali non avevano più la forza di rialzarsi, le urla rivolte ad un cielo che non avrebbe dato ascolto a nessuno. Ma non avvertiva alcunché, mentre il tempo stesso sembrava essersi fermato per tutti, tranne che per lui – per lui, tranne che per tutti. Non udiva alcun suono, nessuna voce o lamento sopra i rombi dei tuoni lontani, del crepitio delle fiamme – né, tantomeno, udiva quest’ultimi -; niente e nessuno si muoveva davanti alle iridi verdazzurro, e tutto pareva aver perso la propria consistenza, la propria vitalità in una realtà che sembrava non voler più essere a colori, sfumando sulle tinte più scure, vuote, anonime. E non riusciva più, in quel piccolo antro d’inferno personale, a simulare quello che doveva essere stato un respiro strozzato in gola. Non riusciva più, il Dallaire, a pretendere che lacrime invisibili scorressero sul volto che aveva creduto provato dalla missione, e che invece nemmeno era. E quelle preghiere prive di qualsivoglia intonazione nemmeno riusciva più a pensarle. Semplicemente, pensarle. Non c’erano più, e non c’erano mai state – e non c’era lui, e non poteva più fingere andasse tutto bene. Fingere per sé, fingere per gli altri: posare una mano laddove una spalla scossa dai singhiozzi necessitava solo una vicinanza familiare a fare da conforto, sussurrare parole leggere e calde, fluido miele ad addolcire i muscoli tesi, ad alleviare il bruciore in gola, nel petto. Non poteva più nulla, fermo in quel piano che si scuriva sempre un po’ di più, annebbiandosi e perdendosi davanti a due occhi troppo chiari, già persi di loro.
    Cosa stava succedendo?
    Avanzò di qualche passo, e forse non si mosse affatto, in quella crisalide d’immutabili eventi, ignaro di cosa stesse accadendo fuori – fuori da quell’incubo, fuori da quell’illusione, fuori da quella stasi che non aveva le facoltà di definire. Volse lo sguardo più e più volte, probabilmente chiuse le palpebre ripetutamente nel vano tentativo di privarsi di quella vista senza mai riuscirci davvero, focalizzandosi talvolta su una foglia secca schiacciata a terra dall’acqua, talvolta su volti sconosciuti, chiedendosi effettivamente cosa stesse accadendo – fuori da quel Limbo; fuori, ai vivi. Ma non poteva comprenderlo, il chiaroveggente. Non poteva capire, né percepire ciò che fuori da quel sogno in bianco e nero stava accadendo. Ma faceva male, faceva così male; non di quei dolori fisici, lacerazioni sulla pelle sgorganti denso sangue scarlatto, né di quelli tanto psicologici da costringerti al terreno, le mani tra i capelli, davanti agli occhi, sul petto. Ma quello non era nemmeno dolore: la bocca socchiusa che cercava di immagazzinare aria di cui i polmoni non avevano alcuna necessità, le dita a scivolare frettolose e distanti su abiti incollati al petto, alle braccia, che i polpastrelli nemmeno sfioravano; era altro. Non era niente, ma era ogni cosa; ed era quella mancanza a fare male, ed era quel tutto a piombargli addosso quando meno se l’era aspettato. Quello, il ventiquattrenne, non l’aveva previsto – come mai avrebbe potuto farlo?
    Aveva chiesto, prima che le luci divenissero ombre, prima che le fiamme dell’esplosione e delle torce si spegnessero seppur mantenendo viva la propria scintilla, se sarebbero stati bene. Perché era sempre e solo quello che aveva voluto, Elijah Dallaire, per ciascuno di loro; li aveva amati così tanto, nel corso di tutta la sua vita, che non riusciva a pensare ad altro se non al loro benessere, anche in quella che vita non era più. E non era riuscito a non aggrapparsi con tutto il proprio essere a quel silenzioso assenso del Crane, senza notare l’ombra triste nelle iridi verde bosco, perché ne aveva il bisogno – doveva crederlo, doveva essere così.
    Aveva il bisogno di credere che quel ti voglio bene che ancora vibrava sulle labbra, in quel petto privo di battito, avesse raggiunto sua sorella, che ella sapesse quanto l’aveva amata anche quando non ricordava chi fosse – e un po’ di più, perché l’aveva riportato a casa, con sé; un po’ di più, perché non l’aveva lasciato solo pur meritandoselo, restandogli accanto fino all’ultimo istante. Aveva bisogno che capisse lui, per quanto assurda potesse suonare una tale presunzione: che comprendesse che l’aveva fatto per lei, che ogni cosa che nella vita l’aveva spinto un po’ più in là, un po’ oltre il limite imposto dall’essere umano – e dettato dalla paura di valicare quel confine, dal terrore di sbagliare e di non rendersene conto se non quand’è ormai troppo tardi -, era stata guidata dal bisogno di renderla felice. E non poteva dirglielo, non poteva avvicinarsi a lei come aveva sempre fatto, spingere la testa di lei contro il proprio petto e sfiorarle con morbide dita i capelli; non poteva sussurrarle, con un filo di voce, che in quel momento ogni memoria persa sembrasse voler riaffiorare – senza fretta, senza premere troppo laddove già altre mancanze sembravano scavare sempre un po’ più a fondo -, che se solo il fato fosse stato un po’ più clemente con loro avrebbe imparato a recuperarle tutte. Non poteva chiederle perdono per non aver mantenuto la promessa, non poteva chiederle semplicemente di dimenticarsi di lui e di andare avanti comunque – e non poteva dirle che pur sapendo l’epilogo di quella storia l’avrebbe fatto altre mille volte, se solo fosse bastato a provarci fino all’ultimo respiro. Avrebbe altre mille volte varcato con l’innocenza sul volto le porte di robusto acciaio dei Laboratori con la speranza di trovare, dietro a centinaia di fiale e di promesse di un futuro più roseo per tutti, una cura per lei e loro madre. Avrebbe altre mille volte perso la memoria nel tentativo di non perdere sé stesso, sapendo che la strada di casa in un modo o nell’altro gli sarebbe apparsa davanti nel più inaspettato dei momenti. E altre mille – diecimila, infinite – volte si sarebbe gettato in quella missione suicida, ed altrettante volte avrebbe risposto a quel “vai da Arabells” di Oscar soffocando un singulto, ingoiando sangue, perché era il Fraser a dover andare da lei, ed era per quello che era lì; altre mille volte sarebbe morto, se ciò poteva significare tenerla al sicuro, viva, felice nelle braccia di qualcuno che non l’aveva mai dimenticata e mai l’avrebbe fatto.
    Per Arabells Dallaire, e per la sua felicità, Elijah non avrebbe mai esitato – in quella, in diecimila altre vite.
    E si era ancorato a quella convinzione, a quel “staranno bene” taciuto da chiunque in una radura ormai empia, perché l’esatto opposto sarebbe stato insopportabile per il Grifondoro. Era stupido anche solo pensarci, lo sapeva bene, ma questo non lo tratteneva dal farlo; non poteva pensare che sua sorella sarebbe stata male, per quanto razionale fosse crederlo: c’era Mephisto, c’era Oscar, c’erano i suoi migliori amici, e c’era sicuramente qualcuno che avrebbe potuto fare meglio di lui il suo lavoro; ancora non riusciva a comprendere come potesse averlo accettato nuovamente dopo che era sparito senza lasciare alcuna traccia, dopo aver dimenticato. A lui andava bene così, ovviamente; ma Bells? Lei meritava di meglio.
    Non poteva tollerare il fatto che Nate, Euge, Rea potessero soffrire per una perdita del genere: se per loro il Dallaire era stato qualcosa di rilevante nelle proprie vite, lui li aveva delusi dimenticandosene. Avevano ciascuno l’appoggio dell’altro, nonostante tutto, in quel “insieme” che si tramandavano da sempre, da una vita.
    E si era ancorato a quella convinzione, a quel “staranno bene” taciuto da chiunque, perché consapevole che non avrebbe avuto l’occasione di vedere come il tempo sarebbe riuscito a lenire le ferite inferte dal suo stesso operato. Più i minuti scorrevano, però, in quel silenzio e su quelle ombre gettate da alberi che sembravano non accorgersi di quel ticchettio inesistente, più era difficile pensarlo. Più era difficile pensare, e più era difficile semplicemente esistere. Perché, dopotutto, non lo stava più facendo. Avrebbe voluto, con quell’ultimo frammento d’anima che gli era rimasta, con quella che forza non era – e che cosa fosse, non lo sapeva -, avvicinarsi a ciascuno di loro, pietrificati come statue di cera in quella visione contorta di ciò che era stata la realtà, e dire che andava tutto bene. Glielo aveva promesso, no? A tutti loro, aveva detto che sarebbe andato tutto per il meglio; bastava crederci, così come aveva sempre fatto lui. Bastava essere consapevoli che, se non subito, presto il dolore sarebbe venuto meno: rimaneva, rimaneva sempre un po’, insediato nelle fessure più fastidiose e che non credi nemmeno di avere, ma ci sarebbero state tante altre cose piacevoli con le quali sarebbe risultato facile addolcire quel rossore che lui aveva lasciato, giusto?
    E ancora voleva credere, Elijah Dallaire, che nessuno stesse soffrendo per lui – in quel momento, per sempre. Che, al contrario di quanto aveva visto, Sin e Murphy non avessero soffermato troppo lo sguardo su quei cadaveri. Che Eugene non avesse, invece, chinato lo sguardo, incapace di sostenere le stesse immagini – e che non aveva, il biondo, letto nelle iridi cerulee quello sconforto, quell’impotenza che mai avrebbe voluto vedere sul volto dell’amico. Che Nathaniel non si fosse chinato al fianco del suo corpo, implorandolo di fare qualcosa che non sarebbe più stato in grado di fare; che il suo migliore amico non avesse preso il proprio capo tra le braccia, carezzandogli i capelli col fare affettuoso che solo l’un l’altro si erano sempre riservati. Che l’impeto di rabbia di Bells non avesse mai avuto luogo – e che, peggio ancora, non si fosse accovacciata al suo fianco al termine di questo. Che Rea non avesse stretto le sue dita fino all’ultimo secondo, all’ultimo battito, tenendole ancora strette per sé un altro po’; che non fosse rimasta a guardarlo fin quando non ebbe chiuso gli occhi per l’ultima volta, impressa nella retina l’immagine della Hamilton – di Rea, dopo tutto quel tempo, dopo tutti quegli anni, che aveva speso a vederla solo in quel modo, spogliandola delle vesti che ella, aderenti al proprio corpo, si era cucita: della Rea che aveva sempre voluto conoscere, e che in fondo aveva sempre conosciuto.
    Che tutto quello che aveva osservato, distante e lontano dal proprio corpo, e prima che i contorni iniziassero a svanire, sbiadendo nei colori opachi di un’illusione atroce, non fosse affatto vero
    A dispetto di quanto non potesse sembrare, era davvero facile credere tutto ciò; come lui non si meritava tutte quelle attenzioni, loro non meritavano quella pena.
    Ma non aveva più importanza, giusto?
    Quello che voleva Eli – sempre tutto, e sempre niente -, quello che desiderava o che si impuntava di credere, non aveva più importanza; e sbiadivano un po’ di più i colori, ed i tratti dei visi andavano a perdersi davanti agli occhi troppo chiari.
    Quello che aveva sempre desiderato, che mai si era osato chiedere, non poteva essere mai più rilevante; e svaniva la boscaglia tutta intorno, le foglie dal terreno, le ultime luci riflesse su visi marmorei
    Lo stesso Elijah non aveva più importanza, mentre tutt’attorno restava un vuoto privo di colori, di luci e di ombre. Mentre di ciò che era stato lentamente svaniva anche l’ultimo brandello, soffiato via da una brezza tanto leggera quanto irreale.

    Ed un battito sordo, un respiro che invadeva i polmoni, li spezzava.
    Un suono in quella valle d’echi inudibili; un colore nel buio, dietro lo spiraglio di luce.
    Irrazionali ed effimere percezioni, sbagliate agli occhi di chi, quelle, non avrebbe più dovuto sentirle. Sbagliate, per chi si stava abituando – pur non volendo farlo, costretto dall’evidenza – a non sentirle più.
    Una, due, mille voci. Lo stavano chiamando?
    Cos’era? Chi era?
    Cosa stava succedendo?

    «elijah dallaire?» Alzò lo sguardo cristallino, l’undicenne, fino a quel momento tenuto chino sulla tavolata di legno non ancora imbastita per la cena, mentre passivamente udiva lo Smistamento procedere. Non aveva la concentrazione giusta, il Grifondoro, per posare lo sguardo su ciascuna delle persone che con lui avevano fatto quel viaggio verso la scuola di Hogwarts, per esultare ogni qualvolta che il Cappello Parlante emanava la propria, inderogabile, sentenza. Non aveva la testa per prestare realmente attenzione a chi potesse esserci seduto al suo fianco, quando era scivolato sulla panca titubante, né per accorgersi di chi, mano a mano, seguiva il suo esempio. Non riusciva a far altro che pensare, dal momento che l’Espresso aveva lasciato il binario 9 e ¾, di aver commesso un errore: avrebbe dovuto insistere di più, far valere le proprie ragioni sopra quelle di Theodore e non partire, restare ad Inverness con sua sorella; perché loro padre non era in grado di fare il padre, perché loro madre non sapeva nemmeno chi loro fossero. Perché aveva bisogno di Arabells, tanto quanto era convinto ella avesse bisogno di lui. Spostò una ciocca dei lunghi capelli dorati che, nel tempo, erano andati a coprirgli gli occhi, incontrando lo sguardo di chi era al suo fianco. Ed era un mondo così diverso, rispetto a quello al quale era sempre stato abituato il Dallaire, così pieno di persone; di chi era, quella voce? Cosa voleva? Voleva prenderlo in giro per qualcosa - qualsiasi, in effetti -? Doveva essere più grande, non l’aveva visto alla stazione, né tantomeno aveva notato i corti capelli castani durante l’attesa della Cerimonia: stava cercando di conoscere la sua nuova preda prima di attaccarla – i documentari di Discovery Channel non lo avrebbero aiutato, in quel caso -? Ma Elijah, il sorriso apertosi sul volto con la stessa semplicità con cui i fiori aprivano i propri petali al levar del sole, non diede adito a nessuna di queste domande, indugiando appena qualche istante prima di incontrare le iridi celesti del concasato. «s- sì?» domandò, lasciando scivolare una nota di puro e semplice divertimento dalle labbra sottili, senza pensare a quanto sarebbe potuto suonare patetico. «non sai nemmeno il tuo nome?» Rettifico: senza pensare a quanto era effettivamente suonato patetico, sentendosi ancora più stupido mentre il sopracciglio dell’altro scattava verso l’alto, l’angolo della bocca ad arcuarsi divertito. «n-no, è che io… ecco…» non mi aspettavo qualcuno mi avrebbe parlato, volevano essere le parole a seguito di quel balbettante delirio, ma non uscirono dalla bocca del ragazzo. «sì, sono elijah dallaire» affermò infine, annuendo con più convinzione. «sei strano», e a quella risposta il sorriso vacillò appena, tremando mentre lo sguardo dell’altro si posava altrove. Lo sapeva, Elijah, che non sarebbe stato facile integrarsi dopo undici anni in cui non aveva avuto molte possibilità di farlo, e quel silenzio che faceva battere il cuore in gola, sempre più forte secondo dopo secondo, non faceva altro che fargli pensare che no, quello non era il modo giusto di farlo. «mi disp…» «mi piaci» continuò quello, con così tanta naturalezza da lasciare il biondo con la bocca socchiusa, incredulo ad una tale affermazione appena sussurrata sopra al fracasso dell’ennesimo applauso. «… davvero?» «sì, dai» Sorrise un po’ di più, il mago, seguendo lo sguardo del Grifondoro che s’era andato a posare su un altro primino, gli occhiali spessi come fondi di bottiglia che minacciavano di scivolargli dalla punta del naso ad ogni passo che lo separava dalla tavolata dei Serpeverde. Quando iniziò a temere che non avrebbe più parlato, lasciandolo con l’amaro, per quanto piacevole, sapore dell’illusione di una nuova amicizia, udì di nuovo la sua voce. «per inciso» portò di nuovo l’attenzione sugli occhi azzurri, un po’ più a suo agio.
    «nathaniel»
    «elijah» ripeté, felice.
    Era iniziata nel modo più semplice, uno di quelli un po' noiosi e che narri ai figli aggiungendo mirabolanti avventure per rendere il tutto più succoso e la tua vita un po' più degna di un film.

    «nate?»
    Un filo di voce, appena un caldo anelito, nulla di più.
    Eppure c’era stato. C’era qualcosa che non andava, in tutto quello.
    Qualcosa di sbagliato, nell’eco della voce del suo migliore amico che ancora, lo sentiva!, cercava di chiamarlo a sé. Qualcosa gli diceva che non doveva farlo, non doveva ascoltarlo. Non doveva assecondarlo.
    Ma voleva, Elijah, assecondarlo. Seguire la sua voce.
    Seguire le loro voci.

    I passi rimbombavano nel corridoio scuro, lungo il quale sporadiche fiaccole gettavano una luce fioca, soffusa appena. E udiva soltanto, l’appena sedicenne, il proprio battito nel petto, i respiri affrettati dalla lunga camminata senza alcuna meta prefissata; eppure, non avvertiva la paura che potesse venir sorpreso da qualcuno a vagare per i corridoi dopo il coprifuoco. Aveva sempre riconosciuto i limiti, sempre apprezzato i propri, ma non per questo, da bravo grifondoro qual era, cercava di restare costantemente dietro la linea bianca marcata sul terreno, di allontanarvisi. Andava valicato, quel confine: almeno, andava valicato quando ce n’era la necessità. E quella, lo era senza ombra di dubbio. Si costrinse anche a non sentire il rumore dei tacchi in lontananza, tempestivi e, per quanto chi quelle scarpe le indossava di consueto si sforzava di dirgli il contrario, sempre presenti alle loro spalle, mentre trafelato poggiava la schiena contro il muro del… che piano era? Non che avesse importanza, dopotutto. Prese fiato, le palpebre calate su occhi stanchi ed assonnati, rischiando di scivolare contro la parete senza nemmeno accorgersene realmente. Non aveva senso, non aveva finalità, eppure avrebbe continuato a vagare per il castello, a cercare ogni notte di sgattaiolare fuori dalle recinzioni senza rischiare che qualcun altro venisse coinvolto da quella sua perseveranza. Lo sapeva lui, e senza ombra di dubbio lo sapeva lei. «elijah dallaire.» volse lo sguardo verso il volto della Hamilton, incapace di trasformare il fiato corto in un vero e proprio sorriso. Nel cuore della notte, e alla tiepida luce delle loro bacchette, dopotutto, nessuno l’avrebbe visto. Perciò, e fortunatamente, non aveva nemmeno bisogno di quella maschera, in quel momento: un sollievo non da poco per chi sembrava aver sempre meno motivi per sorridere e che, nonostante tutto, ne trovava comunque uno in più per farlo – per sé, e soprattutto per gli altri. «ehi, rea!» salutò gioviale, ansimando nel silenzio di quell’ennesimo vicolo cieco. «che cosa» un passo. Due, dieci passi. «stai» la bacchetta della Serpeverde, ancora accesa, puntata sotto al mento. «facendo» E lo sapevano entrambi cosa stava facendo, ma ciò non lo aiutava a dirlo. «una passeggiata» mentì spudoratamente, sentendo la punta del catalizzatore premere con più voga sotto la mandibola, gli occhi verde chiaro riflessi in quelli cioccolato della ragazza. Per un attimo, un solo fottuto attimo, avrebbe voluto non essere Elijah Dallaire, e che quella di fronte a lui, così vicina eppure, sempre, così lontana, non fosse Rea Hamilton. Per un solo frammento di secondo, avrebbe desiderato non essere lì fuori perché Eugene era scomparso - scomparso per colpa sua, scomparso quando erano insieme e avrebbero dovuto seguirlo, restare uniti - desiderato che non lo dovesse cercare in ogni angolo di quella dannata scuola e fuori i giardini di questa. Per un solo istante Elijah abbozzò un sorriso sincero e di semplice sollievo, immaginando come sarebbe stato se fossero stati in quella stessa situazione in altre vite, dove lei non si ostinava continuamente ad odiarlo e dove lui, dal canto suo, non cercava continuamente di farle cambiare idea. Quanto sarebbe stato sbagliato, in quella penombra e lontani dal resto del mondo, fingere di non essere loro? Si morse le labbra, già pentendosi di aver osato troppo, restando lì, immobile. «non dirmi cazzate, dallaire» disse soltanto, un passo indietro ma la bacchetta ancora contro la carotide. «non dovresti essere anche tu nel tuo dormitorio?» Se aveva un freno, non era sicuro fosse quello il caso di premerlo: conosceva la Hamilton, sapeva quanto potesse essere facile farla irritare, eppure non vedeva il motivo per non farlo. Masochismo, forse? Probabile. «non sono affari che ti riguardano» Ovviamente, e naturalmente passava di lì per caso. Nessuno dei due disse alcunché: lui avrebbe potuto far notare così tante evidenze che la mora già conosceva, e lei avrebbe potuto benissimo fregarsene e portarlo in sala delle torture. Ma nessuno dei due avrebbe fatto nulla di tutto ciò.
    E il silenzio che ne seguì fu più dolce, e le occhiate più dure.

    «rea…» Ed era ancora più sbagliato, era ancora più sbagliato, era fottutamente sbagliato.
    Ma si avvicinò ancora un po’ di più alla voce, nel petto il fanciullesco capriccio di sentirla ancora un’altra volta.

    «rea…» Le dita a scivolare sulle barre della cella, il profilo assopito della ragazza sulla brandina così lontana. Aveva sbagliato tutto, Elijah Dallaire. Aveva solo voluto migliorare le cose, trovare una cura, ed ora? Ed ora. Era certo non ci fosse nessuno, e che il resto degli esperimenti stesse dormendo – ed anche lei dormiva, ma era meglio così. «domani ti tiro fuori» Posò la testa contro il freddo acciaio, strofinando la fronte su questo, gli occhi chiusi e gonfi. «non potevo immaginarlo, rea» Ed era ingenuo, ed era spaventato, e voleva rimediare a tutto. Voleva soltanto salvarla, soltanto portarla fuori da quel carcere.
    Voleva soltanto fare quello che per tanti anni lei aveva fatto per loro, per lui.
    E sorrise, le palpebre ancora calate, una sola lacrima a rigare il volto.
    «tocca a me dire che passavo di qua»

    Ma non ce l’aveva fatta. Non l’aveva salvata, ed ora lei non poteva semplicemente salvare lui.
    Non poteva chiamare il suo nome, non se lo meritava.

    Scosse la testa.
    Un battito.
    Non era giusto.
    Un respiro.
    Ma non poteva ignorarli, non poteva fargli questo.
    Non di nuovo.
    Rispondi, Elijah.
    Apri gli occhi.


    L’aria boschiva, la pioggia sulla pelle, il calore delle fiamme. Le voci, e le luci, e le mani altrui. C’era tutto.
    C’era lui. «ehi» sussurrò con gli occhi ancora chiusi, inspirando piano quell’aria che, cristo!, gli era così tanto mancata senza nemmeno rendersene razionalmente conto. Non che ci fosse effettivamente qualcosa di razionale in quello che era appena successo: decise, però, che non gli sarebbe importato, non in quel momento. Decise di stringere un po’ più forti quelle mani alle quali era ancora e per sempre legato, di non lasciarle andare, di trattenere quel calore per sé. E decise che andava bene così, almeno per quel momento, ignorando l’urlo dal petto che lo ammoniva, che gli diceva che non andava affatto bene così. Che era sbagliato, che era morto. «ha funzionato» Fu appena un sussurro, quello di Rea, ma il Dallaire non poté che sorriderne felice. Cosa avesse funzionato, non volle chiederselo. Non ancora, almeno.
    Eppure la felicità non era l’unica cosa che sembrava avvertire in quel momento, così come i pensieri, così come i ricordi. Strinse, piuttosto che aprirli, gli occhi, cercando di ottenebrare quel martellante ed incessante flusso. «damn uomo» mugugnò, saggiando sulla lingua ancora l’appiccicoso e metallico sapore del sangue. «c’è qualcosa che non va» si sentì in dovere di far notare, nonostante, beh!, dovessero già saperlo tutti.
    Quando finalmente gli occhi chiari si degnarono di gettare uno sguardo sulla radura circostante, non si sorprese di incontrare quelli di Nate e di Rea: già lo sapeva, erano le loro voci ad averlo guidato.
    Tentò di non lasciare che la presa della Hamilton venisse meno, tenendola ancora un po’ per sé. Per un solo attimo, un solo istante, un solo fottuto frammento di secondo.
    Lasciò che le braccia dell’Henderson lo avvolgessero, beandosi di quel caldo torpore ed incuneando il viso nell’incavo tra la testa e la spalla del suo migliore amico. E anche quando questo sembrò volersi liberare dall’abbraccio, Elijah lo tenne ancora un po’. Un po’ di più, un po’ più forte, annegando una risata rauca e sincera nella giacca del professore. «te l’avevo promesso che sarebbe andato tutto bene, no?» disse, facendosi tirare su dall’altro, poco prima che William Lancaster prendesse la parola.

    Sarebbe dovuto essere così giusto, tutto quello: il tiepido fuoco che andava spegnendosi, il vento che sferzava le vesti lacere; il respiro, il battito, Elijah. Era vivo, ed aveva voluto convincersi fosse bene, aveva voluto non pensare alle conseguenza. E ad ogni parola dell’uomo, il muscolo cardiaco sembrava non rispondere più ai suoi stimoli. Ad ogni sua affermazione, un soffio di fiato rimaneva incastrato tra la trachea e la bocca, incapace di uscirne.

    Perché era tutto così sbagliato, e non c’era niente di giusto: il tiepido fuoco che andava spegnendosi, il vento che sferzava le vesti lacere; il respiro, il battito, Elijah.

    Volse lo sguardo verso entrambi, verso il resto dello spiazzo, verso il bosco, il sorriso a spegnersi sempre di più secondo dopo secondo, cercando di non dare realmente ascolto alle parole del preside di Salem. «dov’è bells?» domandò, senza nemmeno aspettare la risposta prima di muoversi alla ricerca della sorella. Aveva bisogno di non ripetersi in mente quanto appena udito, di non pensarci, di non credere fosse vero.
    Aveva bisogno di vedere Bells, di sapere fosse salva.
    Aveva bisogno di sua sorella, Elijah Dallaire, tanto quanto ella potesse averne di suo fratello.
    Ed aveva bisogno di quel pugno, aveva bisogno di quello sfogo, aveva bisogno di tutto quello che poteva, lei, pensare di meritare. E si meritava anche di peggio, si meritava di tutto, ma esitò dal dirle alcunché, tacendo ogni replica possibile ed attendendo solo quel momento. «ti ho detto che ci sarei sempre stato, bells» sussurrò, carezzando i corti capelli corvini, mentre la guancia calda di lei intiepidiva il petto nudo. Sussurrò, senza nemmeno rendersi conto che lui, di un patto così antico, non ne aveva nemmeno memoria. Aveva importanza? No, assolutamente, non ora. «pensavi davvero avrei infranto il giuramento?» Sorridente, le prese il volto minuto tra le dita sicure per quanto tremanti, allontanandola appena dal proprio petto per tamponare con i pollici le lacrime della corvonero. E, prima che potesse allontanarsi, minacciandolo di segregarlo in casa ed affermando che, per quella notte, sarebbe stata sua, prese le sue mani tra le proprie, sfilando il tessuto di cuoio che ancora trattenevano. Delicatamente, gli occhi fissi sul polso della ragazza, allacciò il bracciale di cuoio ben stretto. «una promessa è una promessa» l’aveva dimenticata, l’aveva incrinata, era stato così vicina al romperla definitivamente: ma aveva promesso di esserci sempre per sua sorella, Elijah Dallaire. Aveva promesso che avrebbe fatto di tutto per farla stare bene, sempre, malgrado tutto: e quello, un oblivion, non poteva toglierglielo. «e ci vuole ben altro per spezzarne una del genere»

    Restò per più tempo di quanto fosse necessario sotto il caldo getto della doccia, seduto sulla base di marmo a fissare la parete. Restò lì e basta, con le braccia strette attorno alle gambe tirate al petto, senza nemmeno pensare. Perché sapeva, in fondo, che rimuginare su quanto appena successo non avrebbe reso tutto più comprensibile, felice, facile. Si annullò e basta, mentre l’acqua portava via ogni singolo rimasuglio della polvere e del sangue ancora sul corpo, un istinto quello di estraniarsi da tutto il resto che non aveva mai provato davvero. E non sapeva se attribuirne il merito a Rea, o a Nate, o a sé stesso. Non si mosse, mentre la pelle si raggrinziva sotto quel flusso incessante di gocce.
    «se muore uno di voi, muoiono anche gli altri due» Non si mosse, chiudendo gli occhi e lasciando che quelle parole pungessero ogni lembo di pelle come lunghi aghi roventi. «potreste, sempre ipoteticamente parlando eh, ritrovarvi qualche volta nei sogni l’uno dell’altro» Nascose la testa tra le gambe, respirando quieto e pesante.
    Cos’avevano fatto? Che razza di patto con il Demonio avevano stipulato, per portarlo indietro? Lo sapevano, almeno, a cosa andavano incontro? Che lui avesse fatto lo stesso senza rifletterci nemmeno una prima volta non aveva abbastanza importanza, in quel momento.
    Cosa aveva fatto. In che situazione li aveva cacciati? Cosa poteva fare per ridare loro la propria vita, senza il timore di morire da un giorno all’altro per colpa sua? Cosa poteva fare per evitare che vivessero i suoi stessi incubi ogni notte, per permettere loro di portare avanti le loro esistenze in maniera normale?
    E lasciò che fu l’acqua ormai rovente a fargli scivolare di dosso quelle domande, incapace di dar loro alcuna risposta. Incapace, il Dallaire, di formularle realmente nella propria mente, tanto ne era terrorizzato. Qualunque cosa avrebbe fatto, sarebbe parsa uno sbaglio; qualunque cosa già fatta, sembrava uno sbaglio.
    Non ne valeva la pena, Elijah.
    Quando fu ormai troppo insopportabile – il vapore, il calore, la finta che portava avanti con sé stesso -, decise di uscire dalla doccia. Si mosse per i corridoi della casa con assoluta facilità, quasi la conoscesse da sempre nonostante ci fosse stato soltanto due volte, esitando unicamente quando raggiunse la grande scalinata che sapeva portare alle camere da letto, sfiorando con i polpastrelli la ringhiera in ferro. Un sorriso fugace, prima di fare una tappa dovuta nella cucina di Villa Hamilton.

    «è aperta» udì, e ringraziò che Rea lo sapesse già lì – con le mani impegnate, era improponibile bussare: al massimo poteva prendere a testate lo stipite per farsi sentire, ma non era un’alternativa allettante. Aveva ponderato a lungo l’idea di recarsi effettivamente nella stanza della ventiseienne, incerto sul da farsi. Incerto se restare in disparte, sul divano della sala finché qualcun altro non fosse giunto a sfrattarlo o a riportarlo a casa propria; incerto se restare o andarsene, peso per sé stesso e per gli altri. Ma non voleva davvero andarsene, Elijah Dallaire. Non voleva sparire un’altra volta; non voleva restare da solo, un’altra volta.
    Le labbra si piegarono in un dolce sorriso, le gambe a muoversi già in direzione del letto quando la Hamilton cambiò idea. Quante volte aveva immaginato una scena del genere, un più giovane grifondoro; quante volte, nelle occhiate di puro e menzognero odio che gli veniva lanciato, aveva desiderato che non fossero loro due, che le loro vite fossero diverse? Prendendola con filosofia, tralasciando tutto il resto che si erano portati a casa quella notte, le loro vite ora erano diverse, e loro non erano più soltanto loro due. «smalti?» sbuffò, avvicinandosi. «non ci conosci bene come pensavo: nate ama parlare di eyeliner, non di smalti» Si sedette infine sul bordo del letto, avvicinando la tazza alla ragazza. «ti… ho pensato che avrebbe potuto farti piacere una cioccolata calda» disse, umettandosi le labbra con la lingua, più imbarazzato di quanto non avrebbe voluto sembrare, o essere. «avevo pensato di fare una mug cake ma non ho trovato le uova da nessuna parte e…»
    E… cosa? Non ne aveva idea. Non avrebbe nemmeno dovuto essere lì pensò, chinando gli occhi sulla propria tazza di liquido scuro e bollente. Ma in quel momento non c’era altro posto dove avrebbe desiderato trovarsi.

    C’era qualcosa, c’era qualcosa che non andava. C’era quel battito che spingeva contro le costole al ritmo di quello di Rea, e c’era il respiro che non era il suo. C’era che non andava bene così, c’era.
    Ma ci sarebbe sempre stato qualcosa che non andava, no?
    «posso sdraiarmi vicino a te?» domandò, con l’ingenuità di un bambino e la voce tremante, prossima ad un crollo che si sforzava di rigurgitare ad ogni secondo che scorreva.
    Aveva bisogno che gli dicesse di sì, aveva bisogno che fosse lì per lui – così come c’era sempre stata a coprire le spalle sue, di Nathaniel e di Eugene; così come c’era stata a chiamarlo, a chiedergli di tornare. Per la prima volta in vita sua, sentiva che non avrebbe realmente accettato un no come risposta.


    Edited by (un)lucky - 12/4/2017, 16:26
     
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    Si alzò a sedere, la schiena poggiata contro la spalliera del letto e le gambe allungate pigramente davanti a sé, ancora sotto le coperte. Non provò neanche a nascondere il pronunciato broncio che curvava le labbra verso il basso, dando forma concreta all’irrazionale nervosismo che le adombrava le iridi cioccolato. D’altronde, Rea Hamilton non aveva mai avuto bisogno di un vero motivo per mostrare il proprio disappunto, fosse questo indirizzato al mondo intero o a quelle incaute e sfortunate persone che avevano deciso, malgrado tutto, di rimanere nella sua vita. Non si trattava di languida tristezza, né di soverchiante dolore, o malcelata rabbia: era semplicemente contrarietà, verso tutto e verso nulla. La cosa che più le rincresceva, e che sulla lingua le lasciava l’amaro sapore del disprezzo, era che non poteva prendersela neanche con Elijah. L’unica colpa del francese, era stata quella di mostrarsi, come al solito, un Elijah - peccato che si trascinava appresso dalla nascita- ma non era da quello che derivava il malcontento della mora. Perché era colpa sua, s’era scavata lei quella fossa. Avrebbe potuto dispiacersi per la dipartita dell’ex Grifondoro, dare una pacca sulla schiena di Nathaniel ed andare avanti con la sua vita, cieca di rabbia e assetata dalla morbida vendetta che sino a quel momento le aveva sporcato le labbra di vermiglio. Ma non l’aveva fatto, e non poteva imputare quella sbandata dal proprio originale percorso al Dallaire: l’aveva scelto, e l’aveva fatto coscienziosamente.
    Non le piaceva mettersi in mostra, non così. Poco importava che negli anni ad Hogwarts, i suoi amici avessero sempre saputo ch’ella si adoperava, senza che potessero vederla, per rendere la loro permanenza a scuola più… tollerabile. Non ne avevano mai fatto parola con lei, sapendo quanto suscettibile fosse all’argomento, e Rea aveva potuto tranquillamente fingere che non ne avessero mai saputo niente. Voleva tante cose la Hamilton, ma non che s’illudessero di una fede ch’ella non possedeva. Poteva tollerare di essere etichettata come una stronza priva di cuore, lo preferiva e lo idolatrava, ma non aveva alcuna intenzione di rivedere l’espressione disgustata che avevano avuto i suoi genitori quando, infine, si erano resi conto che lei non era come si erano immaginati fosse. Si lasciava dipingere con colori foschi e pennellate secche e folli, la mano guidata da una mente distorta e deplorevole, piuttosto che permettere di venire idealizzata per qualcosa che non era. Non voleva essere quel tipo di persona, Rea Hamilton. Non per Eugene, non per Nathaniel, non per Elijah; non per Lienne, non per Jade, non per Ego; non per Amos, non per Orion, non per Shia.
    Non per sé stessa.
    Era spietata, ed era crudele. Era sadica, ed era pragmatica. Era leale, ma vendicativa.
    Era un Hamilton, ed era rea, prima ancor di Rea, di colpe in cui si specchiava ed alle quali, allo specchio, sorrideva con fredda malizia. Lei non salvava, lei condannava.
    Le eccezioni erano vanto solamente degli incoerenti – e Rea, a suo modo, aveva sempre cercato di non esserlo. Ed invece, lo era stata sempre.
    Neanche il sorriso di Elijah riuscì a sciogliere l’imperturbabile maschera di disagio della Hamilton, le sopracciglia corrugate e un’occhiata in tralice verso il francese. Perché lo faceva? Dove trovava il coraggio di essere sempre così… Elijah? Non esisteva un aggettivo per descrivere il biondo, considerando che l’unico, per l’appunto Biondo, veniva usato da Rea come appellativo. Essere stata nella sua testa non aveva aiutato affatto a mettere un punto a quella descrizione sempre a metà, parole impalpabili ed incapaci di rendere realmente l’idea.
    Finto. Era l’unico aggettivo al quale la Hamilton, in tutti quegli anni, era arrivata. Non che il Dallaire non fosse genuino, Morgan ce ne scampi, ma aveva un modo tutto particolare di esserlo che riusciva a renderlo, inevitabilmente, falso. Con sé stesso, in realtà. Era una di quelle persone che seguivano l’ideologia del fingere che tutto andasse bene convinte di farlo per gli altri, ma che a favore degli altri non era mai stato - perché era quando cominciavi a mentire, che tutto andava male. Quando limitavi il tremore delle mani alla punta delle dita, quando tenevi stretto al petto il capo di un amico, o di un fratello, o di un genitore, nella bisbigliata menzogna di una felicità fallace e irraggiungibile.
    Fra i due, Rea Hamilton ed Elijah Dallaire, non aveva dubbi a chi per primo avrebbe affibbiato il termine bugiardo. Lei era realista, lui idealista; lei distopica, lui utopico. Lei ometteva, ma era lui quello che mentiva.
    Se ne rendeva conto, almeno? Lo osservava, seria ed in pensieroso silenzio, mentre si avvicinava tenendo fra le mani due tazze, i capelli biondi scompigliati e lo sguardo rischiarato da quella luce tutta Elijah che riusciva, da sempre, a rendere tutto più tollerabile – perfino lei, soprattutto lei. Vedeva un mondo migliore, il Dallaire, che a lei era sempre sfuggito; vedeva delle persone, migliori. Bastava quel sorriso a rendere tutto dolorosamente più semplice, e più complicato. «non ci conosci bene come pensavo: nate ama parlare di eyeliner, non di smalti» per quanto la riguardava, soprattutto complicato. Alzò gli occhi al cielo, il braccio sinistro sul petto e quello destro ivi poggiato, le dita a massaggiare la radice del naso. «sempre così sciatto» commentò scuotendo il capo, inviando un pensiero poco felice a Nathaniel riguardo i suoi gusti in fatto di trucchi. O meglio, riguardo le discussioni da fare in merito: fortuna, o meglio, qualche costola rotta, volle che con lei non avesse mai parlato di tali questioni da ragazze, perché non credeva sarebbe mai riuscita a sopportare un’intera serata a parlare di inchiostro, o di come si dovesse applicare per rendere lo sguardo più seducente - d’altronde, lei, non aveva mai avuto bisogno di tali meschini raggiri. Rimase ad osservare Elijah anche quando si fece più vicino, le ginocchia a sfiorare la trapunta; lo guardò ancora quando si sedette sul bordo del letto, rimanendo irragionevolmente immobile e granitica nella sua posizione, permettendosi l’unico movimento del petto che s’alzava ed abbassava per appropriarsi d’aria. Perché doveva essere tutto così difficile? S’intestardiva a non volerlo capire, Rea Hamilton - perchè fino a quando non l’avesse saputo, non sarebbe stato reale. Sbattè le palpebre, abbassando lentamente e con intenzione lo sguardo sulla tazza che lui le stava così gentilmente porgendo. «ti… ho pensato che avrebbe potuto farti piacere una cioccolata calda» Era così tanto un Elijah Dallaire, che voleva piangere.
    Ed invece sorrise, gli occhi nuovamente chiusi ed una nota d’amara ironia a spingerle la lingua contro i denti, una risata a gorgogliare ruvida in gola. «tu hai…» annuì, sollevando di poco le palpebre per scrutarlo. «…pensato» avrebbe voluto continuare la frase con un alla cioccolata? Come se potesse bastare, ma credeva che già così rendesse egregiamente l’idea. Picchiettò l’indice contro il proprio petto, laddove batteva il cuore – di entrambi, e per entrambi – prima di sfiorarsi delicatamente una tempia. «allora funziona davvero» commentò allusiva al rituale con il quale, lei e Nathaniel, avevano legato la propria vita a quella di Elijah, portandosi con sé molto più del mero circolare del sangue nelle vene: vita, dove con vita s’intendeva tutta. Prese la tazza sfiorando appena la mano di lui con le proprie, una fastidiosa scossa sotto pelle che le fece arricciare il naso ed alzare nuovamente lo sguardo al soffitto. «avevo pensato di fare una mug cake ma non ho trovato le uova da nessuna parte e…» «grazie» lo interruppe, stupendosi di quanto quella parola, detta dalle proprie labbra, suonasse leggera ed al contempo infinitamente pesante, quasi sbagliata. «grazie» ripeté schiarendosi la voce, più per sé stessa che per il gesto di Eli – così, giusto per sentire sulla lingua che sapore avesse. Piegò le ginocchia contro il petto e increspò le sopracciglia, un accigliato dubbio affogato nelle labbra tese che soffiavano aria fredda sulla tazza. Era tutto così familiare, da non esserlo affatto. Non ricordava di aver mai permesso ad Elijah Dallaire di essere così gentile con lei, né l’aveva permesso a sé stessa – per anni che aveva creduto un per sempre. Non sapeva neanche, buon Dio!, come fossero arrivati a quel punto. Non c’erano antipodi più opposti nella loro somiglianza dell’illusionista ed il bugiardo – allora cosa non andava, in loro? Era sul punto di farglielo notare, con una di quelle retoriche domande per le quali non esisteva una risposta giusta; era sul punto di dirglielo, che non funzionavano: non erano mai stati amici, loro due. Non funzionavano e basta, non come avrebbero dovuto. Ancora, lasciò che le palpebre oscurassero la vista donandole quello strappo di tenebra del quale, da quando avevano riportato indietro il francese, sentiva la mancanza. «elijah, io…» non credo che sia una buona idea. Ho fatto quello che dovevo fare, ma non significa niente - non deve significare niente. L’ho fatto per me, non per te. Non mi importa - non mi importi. Non è cambiato nulla - non c’era nulla da cambiare. Lo pensava davvero, Rea Hamilton.
    Abbastanza, da non farlo affatto. Così, quando con gli occhi di un grigio sporco fra felce e fiordaliso lui le fece quell’unica, indolente, domanda- alla quale, per svariati motivi avrebbe dovuto rispondere di no- si limitò a guardarlo da sopra la ceramica della tazza, le dita dei piedi arricciate sul materasso. «posso sdraiarmi vicino a te?» Una richiesta così innocente, e così disperata da vibrarle come un diapason in ogni battito, ogni respiro. Non ci sarebbe stato nulla di sbagliato, in quella semplice richiesta, se solo non si fosse trattato di loro -perché non esisteva mezzo motivo al mondo che giustificasse una risposta affermativa. Deglutì, la fronte poggiata sulle ginocchia. «odio che tu l’abbia chiesto» soffocò nella stoffa del pigiama, in un tono così basso da apparire più simile ad un ringhio, senza alzare lo sguardo. Era quello che più odiava, di Elijah Dallaire: le dava sempre la possibilità di scegliere, e lei avrebbe preferito non farlo – e dare la colpa a lui, e biasimare lui, e convincere sé stessa che non era mai stata una sua decisione. Perché, messa alle strette, Rea Hamilton si era sempre sentita in dovere di dirgli di no - di principio, d’irrazionale questione a priori- anche quando, in fondo, non avrebbe voluto farlo. Era stupido, se ne rendeva conto, ma si trattava di un genere di intimità che Rea non aveva mai concesso a nessuno, e per questo rappresentava qualcosa di ancora suo, sempre suo. Non era un bacio strappato da un luogo ed un tempo che neanche esistevano, prodotto fittizio di un’esigenza che non era mai nata – perché avrebbe potuto trovare mille modi, la Hamilton, per distrarre Elijah, ma alla fine aveva scelto quello: perché per una volta, una sola, voleva sapere cosa si provava ad averlo un po’ per sé, un po’ su di sé, ed un po’ in sé; solo per poco, e solo poco, quel suo che non si era mai concessa di ammettere di desiderare.
    Avevano cambiato tutto.
    Si strinse nelle spalle, un’occhiata laconica scoccata di sottecchi ad Elijah. Anziché rispondere, allungò il braccio destro verso di lui e, piegando l’indice, gli fece segno di avvicinarsi. Una volta che si fosse trovato più vicino, fastidiosamente vicino, avrebbe infilato un dito nel colletto della maglia di lui abbassandola di poco, il polpastrello a lambire una linea rosa, quasi invisibile, poco sopra la clavicola. «nate ti ha raccontato come te la sei procurata?» appena un sussurro, il segreto di un passato impresso nella cute, ma nella stanza vuota suonò come un concerto. Il soffio d’aria caldo di quelle parole a scivolare sulla pelle, quando si era avvicinata così tanto?, mentre un sorriso crudele addolciva le labbra della mora. Rapida, lasciò andare la maglia di Elijah per alzarsi in piedi; gli diede le spalle e si diresse verso l’armadio, dove aprì l’ultimo cassetto in basso per prendere il violino che vi custodiva con gelosa possessività (strumento che nessuno, eccetto lei, poteva toccare). Un regalo di Barrow, ma non per quel motivo così prezioso agli occhi della Hamilton: aveva cambiato tutto. Poggiò il violino sulla spalla, gli occhi chiusi e la guancia ad accarezzarne la superficie, quindi sollevò l’archetto.
    «ero al sesto anno» iniziò, sfiorando appena le corde per produrre il più delicato dei suoni. «nate e eugene, con un sincero istinto suicida, hanno pensato bene di spolverare il legno del violino con un nuovo tipo di droga che si attivava a contatto, proprio prima dei miei esercizi quotidiani» e mentre raccontava, la musica accompagnava le sue parole, un flusso concreto e fisico che pareva scivolare sulla pelle con dita ambizioo e e veraci, ma alo stesso tempo timide ed esitanti. Interruppe la musica per lasciar spazio ad una risata armoniosa e malvagia, sangue caldo a coprire la densità dorata del miele. «non ricordo molto di quello che accadde in seguito, ma dovevano pagarla» continuò a parlare con gli occhi chiusi, il battito regolare a scandire note, vita. Non sapeva neanche perché avesse cominciato a suonare, o perché, fra tutte, avesse scelto quella. Era confortante, l’aiutava a rimanere sé stessa. Non era Nathaniel a suonare, non era Elijah; il brivido che le stringeva la gola ogni volta che teneva un violino, era qualcosa che apparteneva a lei, ed a lei soltanto - una magia diversa, ma sempre di magia si trattava.
    E quella canzone, era tutto ciò che aveva.
    «mi sono chiesta quale fosse la cosa peggiore che potessi fargli» sollevò di poco le palpebre, incurvando maggiormente le labbra, per vedere la reazione. «fare del male a loro non sarebbe stata una novità, ci voleva qualcosa di più…incisivo» Aveva diciassette anni, Rea Hamilton; per il mondo magico, era considerata maggiorenne – e non era più una bambina da molto, molto più tempo. «la cosa peggiore che potessi fargli, era ucciderti.» lo disse con un sorriso morbido, con la dolcezza con la quale avrebbe potuto rimembrare le estati passate sull’altalena a farsi spingere da Orion. Lo ammise con la naturalezza con la quale respirava, Rea Hamilton.
    Eppure, respirare, le era stato così difficile, all’epoca. Perché aveva davvero voluto ucciderlo, lo stiletto puntato contro la pelle ed una ferocia figlia di rabbia, e dolore, e umiliazione - un concetto che pareva non avere significato, per loro tre. Non sarebbe stato il suo primo omicidio; aveva, ingenuamente pensato, che sporcarsi le dita del sangue di Elijah Dallaire, non avrebbe turbato la sua naturale quotidianità. Anzi, avrebbe mostrato l’effettiva realtà ad Euge e Nate, così che la smettessero di crederla dalla loro parte: Rea Hamilton, di parte, aveva solo la propria.
    Ricordava di aver visto lo sguardo del Grifondoro incrinarsi, quando aveva compreso che Rea faceva sul serio – non per gioco, non per scommessa.
    Gli Hamilton avevano un modo del tutto peculiare di mostrare il proprio affetto; se non tentavano di ucciderti almeno una volta, per loro non significavi nulla.
    Capite? Perché Rea Hamilton, assistente torturatrice Serpeverde, aveva già ucciso: e sapeva, Rea, di poterlo rifare; e sapeva, Elijah, ch’ella avrebbe potuto farlo. Ma era quello il punto. Era quella la forma più primitiva ed istintiva di amore, l’onda che levigava il vetro rendendolo ciottolo prezioso.
    Perché l’avrebbe ucciso, la Hamilton.
    Ma non l’aveva fatto. Non per Nate, non per Eugene. Semplicemente, premendo la lama sulla pelle di Eli abbastanza da far scorrere il primo scarlatto filo di sangue, si era resa conto di non volerlo fare.
    Di non volerlo fare, e non perché si trattava di privare un sedicenne del proprio futuro. Perché era Elijah.
    Sempre Elijah.
    La musica finì ed il silenzio rese appiccicose le sue parole, le lunghe ciglia a sfiorarle gli zigomi. Poggiò delicata lo strumento sul cassettone, sfiorandone con i polpastrelli le corde – e non poteva sapere, Elijah Dallaire, ch’ella non avesse mai suonato per nessuno. «poi nathaniel ha cominciato a piangere» ruotò il capo con un sorriso sghembo, incrociando brevemente le iridi trasparenti di Elijah. Non si trattava di una menzogna, ma dell’ennesima omissione. Diede per scontato, in quella conclusione, che fosse stato quello a frenarla – e voleva, la Hamilton, che così tutti credessero. Inspirò, tornando vicino all’uomo ancora seduto sul bordo del letto. Prese cauta la tazza dalle sue mani, mettendola sul comodino insieme alla propria; si morse l’interno della guancia, il respiro un po’ più veloce a strozzarle le parole in gola. «mi hai chiesto se puoi sdraiarti vicino a me» con un’esitazione che non le era mai appartenuta, cercò il suo sguardo mentre intrecciava le proprie dita a quelle di lui, un passo indietro per costringerlo ad alzarsi in piedi. «non ti hanno mai detto» iniziò aggrottando le sopracciglia, tenendo il capo chino, per poi avvicinarsi nuovamente a lui. «che bisogna fare molta attenzione» continuò, alzando ora le iridi di pura ossidiana velata di malizia su Elijah, le mani ancora strette nelle proprie ma poggiate contro il suo petto. «a ciò che si desidera?» così dicendo, mosse rapidamente la gamba per agganciarla a quelle di lui, e mentre da una parte tirava verso di sé, dal petto spingeva.
    Per terra.
    Casquè.
    Lo scavalcò per balzare sul letto, dove si coricò con un braccio piegato sul cuscino e la testa sorretta dal palmo, un sorriso bieco a curvarle le labbra. Si spinse di poco oltre il materasso, le sopracciglia inarcate, prendendo con la mano libera la cioccolata posata sul comodino. Ma era un sorriso diverso, quello spennellato sulla sua bocca; era uno sguardo diverso, quello che Rea Hamilton, dall’alto, rivolse al biondo. Più giovane, più allegro; più tante che la Hamilton non era da tempo.
    Perché era Rea, ma non solo- non più.
    Il naso arricciato, le palpebre assottigliate ad ammiccare verso il Dallaire. «you tried»
    Solo quello, e solo sempre.
    goddamn rea hamilton
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    SERENATA E CASQUè


    Edited by #epicWin - 22/2/2017, 03:18
     
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2 replies since 6/12/2016, 05:02   318 views
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