you always were my favorite

oscar x bells [post quest #07]

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    every atom of me missed him -- ravenclaw's quidditch captain, 16 y.o.
    Subito, Arabells Dallaire, non ci fece caso. Stentava ancora a credere che il proprio cuore fosse ancora in grado di battere, lento e pesante contro le costole. Non percepiva la pioggia ad inumidirle i capelli sulle guance, non il sangue ad imbrattarle i polpastrelli. Avrebbe tranquillamente potuto non essere neanche lì mentre il respiro, ormai quieto e dimentico di ogni cosa, si stabilizzava.
    Se qualcuno la toccò, non lo sentì. Se qualcuno le parlò, non lo udì.
    Ci mise qualche istante a metabolizzare le parole dell’uomo, entrate in un orecchio e rimaste a galleggiare prive di reale forma nella sua mente, cozzando con tutto ciò che Bells sapeva, credeva di sapere, sulla vita.
    «e se vi dicessi che, ipoteticamente s’intende, potrebbe esserci la possibilità di riportarli indietro?»
    Ipoteticamente parlando? Il respiro le otturò la trachea, gli occhi vitrei su una radura che stentava a vedere. Si asciugò meccanicamente il volto con il dorso della mano sinistra, ma ancora non accennò a spostarsi.
    Riportarli indietro, non era possibile. Arabells, fiera Corvonero, conosceva ogni genere di Incantesimo, ed era certa che non ne esistesse alcuno con quelle capacità. Come avrebbe potuto? Se fosse esistito, l’intero ciclo vitale avrebbe smesso di avere importanza, perché non ci sarebbe stata alcuna morte. Come osava prendersi gioco di loro, in quel momento? Come poteva? Gli occhi tornarono a bruciare mentre le palpebre, stanche, si chiudevano facendo rotolare gocce di cristallo sulle gote, tracciando sentieri salati sulla pelle.
    «l’amore rende deboli» Non si sforzava neanche più di capire, il capitano della squadra di quidditch. Passivamente recepiva le parole dell’uomo, ma non riusciva a metabolizzarle nel modo corretto. Non poteva, mentre i suoi respiri smuovevano flebilmente i lembi leggeri della giacca di suo fratello, terribilmente immobile sotto la guancia.
    Fermo, cristallizzato in un istante che, per lui, sarebbe durato per sempre. Non riusciva a crederci, Arabells Dallaire. Continuava a pensare che da un momento all’altro si sarebbe rialzato, spolverandosi gli abiti con un gesto secco delle mani. Che sarebbe tornato a sorridere, gli occhi chiari che mai le avevano mentito - a cui lei aveva sempre creduto- a prometterle, ancora, che sarebbe rimasto. Allungò una mano verso la propria bacchetta, fremendo dal bisogno di puntarla contro Lancaster: non voleva intimarlo a spiegare loro il procedimento, certa che un procedimento simile neanche potesse esistere.
    Voleva solo che tacesse, che tutti smettessero di parlare. Deglutì, inspirando ed espirando con una lentezza sofferta ad ogni ansito.
    «sto cercando di dirvi che possiamo portarli indietro, se, e solo se, potete rispondere ai requisiti»
    Nessuno ribattè in maniera sarcastica alle sue affermazioni. Nessuno dubitò di quanto, il preside di Salem, andava loro sciorinando. Allora perché lei avrebbe dovuto? Si azzardò ad aprire gli occhi, ignorando gli amici poco distanti. Puntò i fanali azzurri sul cinquantenne, scrutandolo con l’attenzione che mai ricordava di aver riservato a qualcuno.
    Era davvero possibile? Lasciò, la giovane Corvonero, che quella fragile speranza s’accendesse nel petto, un appiglio da stringere su un universo sottosopra che minacciava di schiacciarla con il suo peso. Se ci fosse stata anche la più infinitesimale, invisibile possibilità di riportare indietro suo fratello, la Dallaire sarebbe stata in prima linea per provare. Tutto, avrebbe messo a rischio qualunque cosa per lui. Era la sua famiglia, e non poteva immaginare di svegliarsi ogni mattina su una realtà priva di Elijah.
    Non di nuovo, e di certo non sapendo che sarebbe stato definitivo. Non così.
    Fece scivolare lo sguardo su Jeremy, la sorella stretta fra le braccia. Due supplichevoli occhi socchiusi, il labbro inferiore morso con violenza fra i denti: può funzionare, jeremy? Può funzionare davvero? Il disperato bisogno che anche lui si facesse tentare da quell’opportunità, che anche lui volesse crederci quanto lei.
    Che anche lui, immancabilmente, avesse ceduto alle parole di William Lancaster.
    Riportarli indietro.
    Mentre il preside parlava, il cuore della Corvonero cominciò a fare le piroette, improvvisamente curioso ad ogni passaggio descritto dall’uomo: idealmente, e si parlava di teoria, un procedimento del genere avrebbe potuto funzionare. Sangue per sostituire quello perduto, volontà per colmare la coscienza ormai andata. Un infero, ecco ciò che Lancaster stava loro descrivendo. Ma l’amore? Cosa c’entrava? Inutile girarci attorno, le emozioni giocavano da sempre un ruolo principale negli incanti – oscuri, di guarigione. Perfino evocare un Sicarius richiedeva un determinato stato d’animo, senza il quale era impossibile dare al fumo scarlatto forma concreta.
    Ma da quello a riportare in vita i morti, ne passava di acqua sotto i ponti. Si inumidì le labbra, lo sguardo sveglio ed intelligente che la caratterizzava dietro i banchi di scuola. Una spugna, ecco com’era sempre stata definita – quasi quanto Jack, se non fosse che lui assorbiva solamente sambuca.
    Due volontari per ogni m-… Non ce la faceva a completare la parola, e non l’avrebbe fatto. Rimase con le mani ancora strette ai vestiti di Elijah, ancora nella speranza che la propria presenza, solo quella, bastasse a farlo tornare a casa. Perché non poteva semplicemente aprire gli occhi, intrecciare le dita alle sue e dirle che era stato solo uno stupido scherzo? Perché non poteva ridere, applaudendo alla performance di Lancaster?
    QUEST08 Hanno atteso a lungo, anni, ma non si può sfuggire per sempre l'inevitabile - e perché desiderarlo? Ed infine il loro tempo è giunto, com'era giusto (destino) fosse."
    Perché non poteva essere vivo?
    Lo seguì mentre completava il nero percorso dei caduti, occhi sbarrati e cuore martellante contro le costole. Non si oppose quando strinse le proprie mani fra le sue, staccandole delicatamente dal corpo immobile di suo fratello. Ci si aggrappò, Bells a quelle dita rugose ma morbide, alla promessa dolce che pendeva dalle sue labbra.
    «siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro?»
    Sempre. Se fosse servito, avrebbe sacrificato tutta sé stessa per Eli, e poco le importava che lui non l’avrebbe voluto: cazzi tuoi che sei morto pensò con amarezza, ruotando gli occhi chiari su Elijah.
    Cazzi tuoi che sei morto.
    Indietreggiò nel fango, alzandosi in piedi per raggiungere Jeremy. Non si degnò di guardare l’uomo, un totale sconosciuto per la francese, che ancora lo stringeva a sé. Non si preoccupò della rabbia del Tassorosso sfogata sulla carne di Shia: strinse il braccio del Milkobitch, obbligandolo a fermarsi. «jeremy?» stentò a riconoscere la propria voce, un gracchio acuto che necessitò di un paio di colpi di tosse prima di uscire definita, seppur esitante. Le dita ancorate come artigli al polso del ragazzo, lo sguardo implorante e la pioggia stupida ad appiattirle i corti capelli scuri sulla testa.
    Non voleva vedere Arci, Jack, o Oscar: in quel momento aveva solamente bisogno dell’odio, dell’ira, e della sofferta angoscia di Jeremy, riflesso più affilato delle proprie.
    Perché era la loro famiglia, quella. Non di Arci, non di Jack, non di Oscar: la loro. Non voleva conforto, la Dallaire.
    Voleva qualcuno che stesse soffrendo quanto lei, che avrebbe capito. Così lo abbracciò stretto, affondando il viso nella giacca del suo migliore amico fino a schiacciare il naso contro lo sterno, le braccia intrecciate sulla sua schiena per premerlo più forte contro di sé. E tremava, Bells – perché aveva freddo, perché aveva paura, perché non poteva essere vero.
    Nessuno di loro poteva donare il proprio sangue, e già quello era fonte di turbamento per la francese. Non conosceva nessuno special da implorare per aiutare Elijah, e non sapeva quanti, fra i maghi nella radura, erano a conoscenza del fatto che avesse perso la magia. Ma poteva fare il terzo membro, no? Convinta, la Corva, che anche se uno sconosciuto avesse dato il sangue ad Eli, sarebbe bastato tutto il suo maledetto amore per colmare la lacuna affettiva del wizard. Non aveva mai avuto altro da offrire a suo fratello, ma quello? Quello sempre. «che facciamo?» un sussurro a contenere un’infinità di domande, tutte a pendere sulla lingua incapaci di adattarsi al mondo.
    Come procediamo?
    Cosa dobbiamo fare?
    Funzionerà davvero?
    Funzionerà davvero?
    Guardò il Milkobitch annuendo con una convinzione che non possedeva, un’occhiata verso i più lontani catafratti. Non avrebbero potuto chiederle di non farlo anche se avessero potuto esserci controindicazioni, rischi.
    Non poteva rimanere a guardare, non poteva non tentare.

    Ed invece, poteva. All’intimidazione di venir drogati se solo avessero osato avvicinarsi più del dovuto (
    «e questa sarebbe una minaccia?» con tanto di sopracciglia inarcate e pugni poggiati sui fianchi), né Bells né Jeremy si erano effettivamente offerti per la loro famiglia.
    Più di un qualcosa turbava Bells in quel momento, le unghie strette fra i denti ed il braccio destro aggrappato con forza a quello sinistro di Jeremy. Vagava con lo sguardo sul punto in cui, fino a poco prima, sostava … sostavano gli altri, il cuore a balzarle fra le costole in una macabra partita a ping pong.
    Cosa stavano facendo.
    Perché.
    Aveva guardato Nathaniel Henderson vibrante di rabbia, Arabells Dallaire; un’ira trattenuta nel petto a cui aveva preferito non dar voce, ma la cui accusa era chiara nello sguardo ferito. Ferito, perché Nate più degli altri per lei era stato come un fratello da quando Elijah, sull’inizio di un afoso giugno, se l’era portato appresso ad Inverness. Perché aveva permesso accadesse, e l’aveva perfino accompagnato a quella mattanza.
    Perché era colpa sua, colpa loro. Ma se avesse dovuto scegliere qualcuno all’infuori di sé stessa per il compito che li spettava, sarebbe sicuramente stato lui – per quell’incantesimo, per la vita. Unico motivo che la convinse a deglutire le proteste insieme alla saliva, un sapore amaro sul palato che non accennava a scemare. Avrebbe dovuto esserci lei, non Nate. E allora perché? La spiegazione era tanto semplice quanto stupida: non voleva fallire. Aveva bisogno di un capro espiatorio da incolpare se Eli non fosse tornato, e aveva bisogno di sapere che, se non fosse andato come previsto, avrebbe potuto macerare nel rimpianto di non essersi offerta per il resto della sua vita, piuttosto che sapere di averci provato e non esserci riuscita. Non aveva dubbi riguardo l’affetto dell’Henderson o nel suo sincero intento di riportare Elijah a casa: sapeva che avrebbe tranquillamente potuto sostituirla – malgrado la cosa, ovviamente, la facesse alquanto alterare.
    Ma andiamo: Rea Hamilton? La regina di cuori? Arabells, le labbra strette fra i denti, aveva cercato di trasmettere a Nate un solo, inequivocabile, messaggio: NON È PIÙ UN MAGO. Aveva cercato di accompagnare quel metapsichico mantra con cenni del capo verso la mora, la lingua sul punto di formulare apertamente la domanda. Avrebbe potuto dirlo senza farsi troppi problemi, dato che suo fratello era … andato.
    Ma sperava, Bells, che quella stasi durasse poco: e se Eli fosse tornato davvero, non poteva permettere che qualcuno lo scoprisse. Non così, o perlomeno non finché non fosse stata una scelta di Elijah approvata e comprovata dalla sua famiglia, dacché da solo non era in grado di prendere decisioni
    sensate. Ammettendo poi che Rea, come suo fratello, avesse perso la magia……. Perché lei? Si guardò attorno deglutendo febbrilmente, cercando negli occhi di perfetti sconosciuti una qualsiasi lamina d’appiglio per una seconda opportunità. Dannazione, se fosse riuscita a tornare in tempo sarebbe andata lei stessa nei Laboratori a farsi togliere la magia solamente per poter essere idonea a quello scambio. Pregò iddio che la nomea da stronza della Hamilton non interferisse con il dorato quadretto d’amore che Eli aveva sempre dipinto dei suoi casta. Insomma, Arci era uno stronzo, ma non dubitava del loro legame. Diffidava di tante cose la Dallaire, ma mai dei suoi amici.
    Ti supplico.
    Da acuta Corvonero, preferì buttarsi sulla logica che non sull’irrazionale turbinio di emozioni che le vorticava nei polmoni, convincendosi che fra adulti avrebbero potuto cavarsela meglio. Non avevano bisogno di lei, non aveva bisogno di lei. Ciò non toglieva che il fulgore della speranza avesse spazzato in un sol soffio il dolore, lasciando solamente un pozzo di intensa, negligente, rabbia.
    Chi credevano di essere. Come avevano osato minacciarla. Immobile, il petto che neanche s’alzava ed abbassava più nella vana ricerca d’aria – che se ne faceva? Poteva solo aspettare, e pregare un Dio in cui non credeva che avrebbe funzionato. In quell’istante, li odiò tutti – e più di loro, sé stessa. Si era lasciata convincere così scioccamente a non andare, sedotta dalle proprie insicurezze a rimanere con i piedi ben piantati al suolo.
    Così giovane.
    Un sospiro tremante, le dita conficcate per inerzia nel braccio di Jeremy. Non era solita dedicarsi alla speranza, preferendo di gran lunga fatti su cui basare la propria fede; in quel momento si pentì di non essere più istintiva, più ottimista. La razionalità serviva a poco quando si aveva a che fare con qualcosa al di fuori di ogni schema - di ogni vita.
    Non era giusto. Deglutì, gli occhi chiusi e le orecchie tese a cogliere ogni frammento di respiro cercando invano una risposta alle domande che neanche aveva il coraggio di porsi. Non aveva voce con la quale mentire al Tassorosso, promettendogli che sarebbe andato tutto bene. Che avrebbero trovato una soluzione.
    Sapeva solo, e di quello era certa, che se non avesse funzionato, Nathaniel, Rea, e William Lancaster, avrebbero fatto una brutta fine. «non posso» gracchiò in un sibilo con voce roca, lasciando la presa ed indietreggiando repentinamente. Sentiva ancora sotto i polpastrelli la giacca fredda e umida di suo fratello, a ronzarle nelle orecchie quelle stupide parole di quando credeva non ce l’avrebbero fatta, nessuno di loro. Era diverso, era troppo diverso essere ancora lì, il cuore a palpitare anche per chi quel lusso non poteva più concederselo. Non era così che avrebbe dovuto andare.
    Non era
    Giusto.
    Razionale, logica, pragmatica. Si avvicinò ad Oscar, la bacchetta alla mano e lo sguardo fisso sulle proprie dita, incapace di alzare lo sguardo perfino sul suo migliore amico, su ciò che le era rimasto. Non poteva, semplicemente non poteva. Era una combattente, amava le sfide, ma era anche consapevole che per certe battaglie era inutile provarci – si aveva già perso prima ancora di stringere l’elsa e scendere sul campo, con quel peso nei polmoni a perforare e distorcere quello che non era mai stato detto. Si inumidì le labbra sentendole secche sotto la lingua, insensibili al freddo di Novembre ed alla pioggia che, ignara di tutto e tutti, continuava ad appiattirle i capelli sulla testa. «fammi vedere» ordinò lapidaria, indicando il ventre ferito del Grifondoro dalla quale maglia sdrucita era possibile intravedere la ferita sottostante. I pugni stretti, la voce insolitamente priva di inflessione. Distante da qualunque cosa, Arabells Dallaire, mentre puntava con decisione la bacchetta verso la ferita. «ferula» pronunciò eseguendo l’incanto di guarigione con un fluido movimento del polso, osservando le bende stringersi attorno al foro causato dal proiettile.
    Tempo.
    Quanto tempo era passato da quando aveva avuto Oscar così vicino? Quanto tempo era passato da quando aveva sentito il suo respiro arruffarle i capelli, caldo su una pelle che sempre aveva ambito a quel calore?
    Tempo.
    Qualcosa che non aveva mai avuto, a cui non era stata in grado di dare il giusto spessore. Quello speso con suo fratello quand’era una bambina, quello passato a preoccuparsi di e per lui quando entrambi erano cresciuti.
    Bells scosse nuovamente il capo -un sospiro a sgualcire i polmoni, un singhiozzo a stringere la gola- le braccia abbandonate lungo i fianchi e la testa china. Come era potuto succedere; come aveva potuto permetterlo, come. Si era ripromessa che sarebbe diventata una persona migliore, che avrebbe smesso di essere il pezzo di una scacchiera della quale a malapena conosceva la forma; si era allenata per anni con l’unico scopo di impedire che una cosa del genere potesse anche solo essere immaginata, la certezza che sarebbe stata in grado di proteggerli.
    Cosa aveva fatto.
    Si coprì il volto con le mani, ignorando il tremore delle dita. Si lasciò nuovamente cadere al suolo, l’eleganza morbida di una marionetta cui avessero tagliato i fili, e si strinse con forza le ginocchia al petto.
    Doveva solo aspettare.
    Doveva solo aspettare.
    Un altro respiro malandato a seguire la via sbagliata nella trachea, rimanendo paralizzato a metà strada. I polmoni vuoti a reclamare un ossigeno che non giungeva a destinazione, le palpebre pesanti a nascondere ad un paio d’occhi assurdamente chiari un mondo nel quale Arabells Dallaire non aveva alcuna intenzione di vivere.
    Non così.
    Non così.
    Passò un minuto, ne passarono cinque. Forse furono venti, forse solo dieci, chi poteva dirlo? Non Bells, rimasta nella medesima posizione che aveva assunto dopo essersi meccanicamente assicurata che Oscar non morisse dissanguato mentr’ella si premurava di maledire suo fratello per essere nato biondo. Se avesse perso anche lui, non avrebbe sinceramente potuto affrontare un altro giorno su quel pianeta, dentro quegli abiti troppo stretti che i più ottimisti chiamavano pelle. Non fu la prima ad alzare lo sguardo, fra quelli della radura; sentì i primi stentati passi sull’erba, percepì i respiri trattenuti sul palato e quelli lasciati sgusciare fra le labbra, ma si intestardì a rimanere con la testa china sulle ginocchia.
    Uno.
    Due.
    Cinque.
    Non poteva sapere.
    Sette.
    Non voleva sentire.
    Aprì gli occhi, uno sguardo di sottecchi di fronte a sé.
    Non poteva crederci.
    Sarebbe stato surreale definire quell’istante; la Corvonero non era certa se il proprio cuore avesse finalmente deciso di tornare a battere, oppure se avesse scelto proprio quel momento per smettere di farlo, un perenno bilico a dare una contorta definizione di ciò che stava guardando. Perché ci aveva sperato, abbastanza da far male, ma non poteva…
    Non poteva essere vero.
    Strinse i pugni fino a far divenire le nocche bianche, piantando le unghie nella carne. Inclinò la testa, ancora seduta a terra, studiando di sottecchi ciò che si era infine parato dinnanzi a lei: la barriera di protezione costruita da Lancaster era caduta, lasciando visibile chi era rimasto. Una rapida occhiata a Jeremy, le labbra strette con forza fra loro prima di riportare i fulgidi occhi grigiazzurri su quelli che, sconosciuti, non lo sarebbero mai stati. Guardò Nathaniel, Arabells Dallaire. Prima di spostare la propria attenzione, attese un gesto – uno qualunque, uno che le lasciasse intendere che non fosse una mera allucinazione. Assottigliò le palpebre e corrugò le sopracciglia, inspirando dal naso abbastanza da percepire i polmoni bruciare.
    Quando mai Arabells Dallaire avrebbe potuto essere pronta per il momento della verità? Regina indiscussa delle menzogne, di quelle che languide pesavano dalle labbra sottili e di quelle più affilate raccontate di giorno in giorno a sé stessa.
    Eppure.
    «eli?» non capiva, non sapeva, neanche respirava.
    Elijah Dallaire era morto, il suo cuore aveva cessato di battere. Bells aveva voluto credere che Lancaster avesse davvero avuto una soluzione, come una bambina che si fosse intestardita a credere che babbo natale potesse esistere, ma… deglutì, stringendo le labbra fra i denti. Non era possibile. Lo squadrò a lungo, gli occhi spalancati e la bocca asciutta, le mani intrecciate così strettamente fra loro da dolere. Si alzò in piedi, incespicando sul posto prima di recuperare l’equilibrio. Una parte di lei voleva sapere come, voleva i perché, ma l’altra? Quella meno cinica, la bambina raggomitolata in camera fra le braccia di un fratello che le aveva sempre promesso il mondo, voleva solo una cosa.
    Che per una volta, una sola volta, fosse vero. E decise, mentre le gambe si muovevano per inerzia mettendo un piede davanti all’altro, che non voleva porsi quesiti irrisolvibili, non voleva scavare alla ricerca di risposte che avrebbero potuto non piacerle.
    Era vivo, era lì.
    Senza rendersene conto, si ritrovò tremante di fronte a suo fratello, un paio d’occhi lucidi a scandagliarne il fisico asciutto, sporco di sangue, polvere e pioggia. Alzò lentamente lo sguardo verso il viso di Elijah, nella retina impressa l’immobilità nella quale l’aveva colto poco prima, una vita prima. Un sospiro tremulo dalle labbra sottili, le braccia che con cui si era stretta al petto per evitare di andare in pezzi, ormai abbandonate lungo i fianchi.
    Ed improvvisamente tese, i muscoli contratti, mentre piegava il destro e chiudeva il pugno per poi colpire con forza la faccia di suo fratello, i denti digrignati e le spalle rigide. In quel pugno, Arabells Dallaire mise tutta la sua rabbia, la sua sofferenza, perché gliel’aveva promesso: e non le importava che fosse ferito, o debole a causa… a causa della sua morte.
    Come aveva potuto farle quello.
    Sentì le nocche bruciare quando vennero in contatto con il volto di Elijah, il peso sbilanciato in avanti per la forza dell’impatto. «sei davvero il fratello peggiore del mondo» sibilò con voce roca, puntando poi l’indice contro il suo petto. «NON USCIRAI MAI PIÙ DI CASA» gridò sentendo i polmoni svuotarsi di quell’ira come neve al sole, improvvisamente vuota e felice. Un sorriso incredulo a curvarle le labbra, il petto a straripare di un sollievo dal quale non credeva che un essere umano potesse sopravvivere. Si lanciò nuovamente verso di lui, ma questa volta per stringere le braccia attorno ai suoi fianchi, così forte da immergere la guancia nella giacca strappata, l’orecchia contro il suo petto. Batteva, batteva davvero. Se non si fosse tenuta a lui, non aveva dubbi che sarebbe caduta, le ginocchia molli e fragili incapaci di reggere il suo peso.
    Era tornato.
    «non voglio sapere perchè sei mezzo nudo in una notte invernale e sotto un temporale» biascicò con gli occhi chiusi, altre stupide lacrime a scivolare lungo le guance mentre più testardamente si stringeva a lui, sentendolo vivo contro di sé. «ma te lo meriti» quanta ironia, se fosse morto di ipotermia.
    Era tornato. Ovunque egli fosse stato, ovunque il suo cuore avesse lasciato l’ultima impronta, era tornato - e con lui, tutti gli altri. Scosse il capo sospettosa, la lingua ad attorcigliarsi sul palato e le palpebre ostinatamente serrate: combattere il proprio istintivo bisogno di sapere era davvero complesso per la Dallaire, ma in quel momento non poteva permetterselo.
    Voleva solo andare a casa.
    «saluta i tuoi amici e goditi l’ultima serata libera, Dallaire moro, perchè non rivedrai le stelle per un bel pezzo» si allontanò per puntare i fanali grigiazzurri negli occhi chiari di lui, il cuore a battere forsennatamente contro le costole. Lanciò un’occhiata al resto dei suoi amiki, dando per scontato che avrebbero passato la notte insieme a fare… qualunque cosa facessero i semi adulti come Eugene e Nathaniel. Magari una partita a twister alcolico? Prese le mani di Eli fra le proprie, portandole entrambe sul proprio volto. Quante cose avrebbe potuto dirgli? Tante. Che quando aveva creduto fosse morto, avrebbe voluto morire con lui. Che dovevano ancora fare troppe cose insieme, che doveva smetterla di promettere quando non era certo di poter mantenere fede alla parola data. Che era un’idiota, che voleva sapere tutto riguardo a ciò che Lancaster aveva nascosto: come avevano fatto? Cos’era successo? Che le era mancato così tanto.
    E invece.
    Si inumidì le labbra, un sorriso leggero a brillare nelle iridi trasparenti.
    «casa è mia, ciao»
    Perché da brava sorella minore, dopo aver superato il trauma del lutto non lutto, doveva avere le sue priorità – e di lì ad un paio di giorni, avrebbe dovuto tornare al castello. Posò un bacio sulle nocche di lui, sentendosi improvvisamente libera e molto, molto stanca. Oh, suo fratello aveva osato morire, si meritava molte meno attenzioni rispetto a quelle che ella gli aveva serbato fino a quel momento. Prima di riacquistare l’indiscusso titolo di miglior fratellone del mondo, doveva farsi perdonare.
    Tipo prepararle una torta, o comprarle una scopa nuova. Le solite cose.
    Saltellò fino a giungere dai suoi migliori amici, che strinse in un sentito abbraccio di gruppo. Non v’erano ferite né sangue che potessero redarguirla da un gesto del genere: aveva bisogno di loro, in quel momento ed in quel per sempre. «SI VA A FESTEGGIARE» un gridolino emozionato, mentre inspirava l’odore di pioggia e pelle così dannatamente familiare. «…ma non è questo il giorno» o meglio, lo era dato che riteneva probabile fosse passata la mezzanotte, ma ciò che intendeva dire era non in quel momento. Dopo tutto ciò che avevano passato, Bells voleva solo un po’ di tranquillità. Si portò le dita agli occhi per poi indicare Oscar, notando solo in quel momento che la ferita sembrava non sanguinare più (nda: grazie Run!). Dopo i mesi passati in quello scantinato, però, non dubitava che il Grifondoro avesse bisogno di cure. Di certo, lei, ne aveva bisogno.
    «chi ci da un passaggio a casa?»

    Salutò Jack ed Arci nella radura, stringendoli ancora un poco a sé prima di lasciarli andare. Abbracciò Eleanor, Thea, Kendall, Tiffany; lanciò un’ultima occhiata ad Elijah, Nate ed Eugene, mentre il varco si apriva dinnanzi a loro, e l’allegra combriccola dell’anello vi si lanciava senza rimorso.
    Inverness probabilmente non aveva mai visto una tale portata di turisti a quell’ora di notte. Sembravano sbagliati, ancora sporchi di sangue e fango, sul vialetto ordinato che portava a casa sua. Osservò Run, il fratello di Kendall, il fratello di Rea, il padre di Run e una tipa che era certa l’avesse guardata in modo inquietante (ciao murphy!) critica, spostando poi la propria attenzione su Jeremy. Cercò supporto in Oscar, stringendo impercettibilmente la presa sulla mano ed intrecciando le dita alle sue; non era che non si fidasse della compagnia che il catafratto s’era scelto, figurarsi. Semplicemente, non si fidava. «sicuro di non voler rimanere qui?» domandò per l’ennesima volta, ignorando i commenti di Jeremy in risposta. Al centesimo rifiuto del Tassorosso, non potè che arrendersi all’evidenza, abbracciandolo ancora una volta.
    What a time, to be alive.
    Mesi passati alla ricerca dei dispersi, una missione di salvataggio che si era rivelata essere una trappola, nemici improbabili ed altamente letali; quel sedici novembre, Arabells Dallaire aveva ucciso. Tutti i catafratti erano divenuti ufficialmente adulti, parte di un mondo di cui fino a quel momento avevano solamente sentito parlare.
    Si erano ripresi Oscar.
    Elijah era morto.
    Elijah era tornato.
    Forse è solo un sogno.
    Si massaggiò le palpebre, ancora immobile dove aveva saluto gli altri prima che sparissero nuovamente in un secondo varco diretti solo Dio sapeva dove. Poggiò quindi la fronte sulla spalla di Oscar, sentendo il peso di quella vita premerla al suolo, renderle difficile respirare.
    Si era ripresa Oscar. Dopo tutte le notti passate nell’ombra del suo profumo, dopo tutti gli interrogatori al Ministero, dopo tutti i bisbigli secondo i quali era troppo tardi, era riuscita davvero a riaverlo con sé. Malgrado sentisse la concretezza della sua mano nella propria, ancora non riusciva a capacitarsene. Il giorno dopo, forse, avrebbe realizzato; fino ad allora, non era altro che l’illusione di una mente distorta. Egoista e presuntuosa, non mise in dubbio neanche per un istante che Fraser potesse avere esigenze del tutto personali – ad esempio, dire ai propri genitori che non era morto – dando per scontato che quella notte, almeno quella, fosse solo loro. Voleva raggomitolarsi sotto le coperte con la testa poggiata al suo petto ed il braccio a stringerla a sé, in quel calore familiare che le era mancato troppo a lungo, e troppo disperatamente.
    Voleva solamente casa, Bells.
    «hai fame?» domandò solamente, spalancando la porta d’entrata con una stanca spallata. Lasciò cadere i manganelli vicino alla porta, togliendosi le scarpe sporche di fango prima di entrare nel corridoio, dove i suoi passi non fecero alcun rumore. Non che ci fosse qualcuno da svegliare, in ogni caso: Theo lavorava, e Davina… era Davina. I suoi amici avevano sempre pensato fosse forte non avere un orario a cui tornare, essere priva di vincoli temporali come il resto degli adolescenti.
    Lei, forte, non l’aveva mai trovato.
    Lasciò cadere la giacca vicino alle scarpe, ignorando l’alone di sangue ed acqua rilasciato dall’indumento – ed evitando, minuziosamente, di soffermarsi sulle macchie di tessuto secco e scarlatto che avevano raggrinzato il maglioncino appiccicandolo alla pelle. Si sedette sul tavolo con le gambe a penzoloni, un sorriso sghembo e le braccia ad allargarsi per indicare la stanza, prima di intimargli di avvicinarsi a sè.
    «mi casa es tu casa»
    Ed era vero in quel momento, ed era vero sempre.
    arabells lies dallaire
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by - as fuck - 3/10/2017, 17:30
     
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  2. blaze¨
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    User deleted



    OSCAR "BLAZE" FRASER ( ) - l'età è solo un numero - GRYFFINDOR - CATAFRATTO
    « But no one, no nobody can give you the power to rise over love,
    over hate, through this iron sky that’s fast becoming our mind »
    Lenti, i secondi scandivano il suo affogare nelle tenebre, inghiottito da un'ombra maligna e più forte di lui. Così quell'ombra inghiottì tutto il suo mondo e poco a poco vide sparire anche lei, divorata da quelle tenebre, l'unico rammarico, quello di non averla salutata, non averle lasciato il proprio bottone, affinché lei glielo riportasse. Malessere, fu ciò che provò a primo impatto, uno stordimento infimo, ancorato al suo cranio e pulsante, faceva male, era spaventato, ma più di ogni altra cosa cercava di capire cosa cazzo l'avesse colpito in testa.
    Lenti, i secondi diventavano minuti ed Oscar Fraser tentava di raccimolare ogni ricordo di quanto avvenuto. Avrebbe tenuto conto delle svolte prese dalla vettura su cui era stato portato, se fosse stato sicuro di trovarsi su un auto, sì, proprio come nei film. Avrebbe ascoltato le voci dei suoi rapitori, se la botta in testa non fosse stata così forte, ma non era un film, lui non si trovava su un auto ed era troppo confuso per ricordare qualsiasi dettaglio. Quando riaprì gli occhi dopo attimi di buio, non avrebbe saputo dire esattamente come fosse arrivato in quell'anfratto freddo e putrido, non aveva la vaga sensazione di nausea all'altezza dello stomaco e questo suggeriva che i suoi rapitori non avessero utilizzato una smaterializzazione, nè una passaporta. Il respiro era regolare, fin troppo leggero, eppure dentro di sè provava una paura indescrivibile, tanto forte da stringergli la gola in una morsa. Le mani, legate da una corda metallica così sottile ed intricata da assomigliare ad una catena per auto, andarono a cercare qualcosa nelle tasche ma niente, si mosse, tentando di capire se sotto la t-shirt avesse ancora la propria bacchetta, ma niente, era disarmato. Una lenta, inesorabile sensazione di perdimento gli attraversò la spina dorsale, e deglutì. Era la prima volta in vita sua che provava una sensazione simile, mai l'aveva provata, mai si era sentito così perso. E ora?.
    Ma era da lui perdersi d'animo? Certo che no.
    Lenti, i minuti diventavano ore, ed Oscar Fraser aveva iniziato a familiarizzare con l'ambiente: c'era una pala, affianco alla porta di legno graffiato poco distante da lui, magari se fosse riuscito a prenderla avrebbe combinato qualcosa.
    Non pensarci nemmeno, pivello, o quella pala te la ficco su per il culo.
    Un grosso energumeno sollevò in alto un pugno, per rafforzare la frase sputatagli addosso con veleno, ed Oscar non poteva non odiarlo, anche se l'odio non era il suo sentimento preferito.
    Sequestro di persona, da sei mesi ad otto anni di reclusione. Se avesse potuto guardargli le mani avrebbe visto che no, non stava contando, ma lo stava mandando doppiamente a fanculo.
    Abusi sessuali su minore, da sei a dodici anni di reclusione.
    Min-

    Anzi, te la faccio mangiare questa pala. Taci scherzo della natura, o non uscirai vivo da qui. E gli puntò contro un fucile, obbligandolo a tacere. Lo scandire del tempo giocava brutti scherzi sulla sua mente, lo costringeva a pensare che la stessa sorte potesse essere toccata ad Arabells, temeva che fosse stata aggredita anche lei, ma anche la migliore delle ipotesi, ossia pensare che fosse al sicuro, lo preoccupava: sapeva, che in qualunque posto lei fosse, non avrebbe smesso di cercarlo, non si sarebbe data pace finchè non lo avrebbe trovato, avrebbe sofferto, sarebbe stata male e questo pensiero lo tormentava. Pensare ad Arabells, ai suoi genitori, ai suoi amici e sapere che avrebbero sofferto per lui, gli strappava il cuore in mille pezzi. Incredibile rendersi conto di essere molto più altruista di quanto avesse creduto di essere! In una situazione simile riusciva a pensare agli altri, oltre che a sè stesso, e riusciva persino a stupirsi di sè per questo lato buono e positivo. Chissà se avrebbe vissuto abbastanza a lungo da potersene vantare, dopotutto aveva passato un periodo di vita pensando di essere un mostro insensibile, doveva riscattarsi.
    Lente, le ore diventavano giorni, ed Oscar aveva appreso di non essere l'unico rapito là dentro, ma niente lo aveva colpito come vedere entrare dentro quella stanza fredda e polverosa sua cugina Tiffany...quanti giorni dopo il suo arrivo? Due? Tre? Forse una settimana?
    T-Tiffany?
    Vedere quegli uomini tenere stretta sua cugina, sbatterla a terra con poco garbo e farle battute squallide era come prendere in pieno uno spigolo nel fianco e non poter reagire. Le mani prudevano ma erano legate dalle catene, gli occhi pungevano per la vista di Tiffany così spaventata ma se non voleva una pallottola nello stomaco non doveva fiatare. Quando l'energumeno che faceva da guardia a quella cella si voltò per uscire di lì, Oscar riuscì a tirare un po' la catena tanto da spostarsi e mettersi vicino a Tiffany.
    Rimase vicino a lei per tutto il tempo, parlandole, distraendola quanto possibile alla fine quella era la sua specialità, parlare gli era sempre piaciuto. Ed i giorni divennero settimane, ed Oscar iniziava a risentire del tempo che passava. Lo stomaco brontolava per il poco cibo che gli veniva dato, le labbra erano secche per la poca acqua bevuta, il sonno era tanto ma raramente gli era concesso, la barba era cresciuta, ed anche i capelli avevano iniziato a diventare più lunghi. Aveva persino rischiato di finire gli argomenti di conversazione con i suoi compagni di cella, (sia mai!) e si era lanciato in profonde elucubrazioni mentali per tentare di capire perché si trovasse li. Ancora, dopo settimane, non gli era chiaro. Che avessero chiesto un riscatto ai suoi genitori non era possibile, i Fraser non avevano certo la fama di essere una famiglia dai tanti possedimenti, anzi, suo padre aveva accumulato così tanti debiti da rischiare di far affondare tutta la famiglia. Poi...un lampo. Suo padre. Magari era lui la causa di quella situazione, magari... ma certo, si era buttato in loschi traffici che alla fine non era riuscito a gestire ed adesso, per ricattarlo, volevano rifarsi su di lui. Sin da quando era bambino aveva sempre amato seguire suo padre nei numerosi tour delle bische clandestine di Inverness, la notte non era destinata a dormire, come avrebbe dovuto essere per un bambino di otto anni, la notte si animava, diventava un gioco proibito al quale solo lui poteva partecipare. Oh certamente stava impazzendo, non poteva essere altrimenti, in nessun altro modo si spiegavano quelle intense paranoie che da giorni lo privavano del sonno più di quanto riuscissero a fare i suoi aguzzini. Le unghie sporche di terra avevano grattato il terreno così tanto da procurare un buco che, se avessero scoperto, avrebbero pensato ad un tentativo di fuga, nemmeno fosse una talpa. Continuava a rigirare tra le mani quel bottone che a fatica era riuscito a tirare fuori dalla tasca del jeans, e pensava a lei sempre a lei. Ma la sua mente non si fermava solo sulle cose belle, continuava a pensare e ripensare, tanto che avrebbe voluto staccare la spina per non dover avere il cervello affollato da tutti quei pensieri. Dannazione, non aveva mai pensato tanto in vita sua...magari la colpa era di suo nonno, quel dannato bastardo lo aveva sempre odiato ed adesso aveva deciso di vederlo a dei babbani per un traffico di organi all'est europeo (?). Non era nemmeno lontanamente vicino ad immaginare il perché quei tizi tenessero tutti loro là dentro, ma persino una persona come Oscar - che, diciamolo, senza cibo disponibile non può dirsi tanto acuta - era riuscito a trovare qualcosa che accomunasse tutti coloro che erano stati rapiti: tutti loro avevano qualcosa di speciale, che fossero maghi o esperimenti, non era presente nemmeno un babbano là dentro, gli unici babbani erano coloro che tenevano in mano il fucile e li chiamavano mostri.
    E le settimane divennero mesi, ed Oscar, per la prima volta, pianse là sotto. La paura di non rivedere più la luce del sole aveva rischiato di abbatterlo, ma mai quanto la paura più grande, quella che nemmeno riusciva ad ipotizzare perché faceva troppo male, era che non avrebbe più rivisto la sua famiglia, i suoi amici, Arabells. Dov'erano? Qualcuno lo stava cercando? E poco a poco, poi, quello spazio sotterraneo aveva iniziato a farsi sempre più stretto, accogliendo sempre più persone, alcune delle quali conosceva da anni, come Hope Mills. Non aveva perso la forza che lo caratterizzava e sapeva di dover far leva su se stesso per provare a tirare su anche gli altri, coloro che per indole e per carattere non sarebbero riusciti a tirarsi su da soli. Perché Fraser sapeva che nonostante tutto l'unione fa la forza e quel gruppo era unito, per forza di cose ma lo era.
    Poi, un giorno, qualcosa cambiò. Niente dura per sempre, tutto muta, ed anche se aveva vissuto quelle ultime settimane temendo di non vivere abbastanza per vedere un cambiamento, il sottile equilibrio di quel buco sotterraneo venne sconvolto una notte di un mese imprecisato. Ah, non sapeva certo dire quanto tempo fosse passato da quando era entrato li, magari era già Natale. Chissà se stanno organizzando una festa per noi. Tipo le nozze rosse di GOT... commentò ad Hope Mills, sorridendo, che per tutta risposta lo guardò confusa. Non guardi il trono di spade? Diamine Mills ma fai schifo. La spintonò leggermente con la spalla, senza metterci forza. Comunque mi hanno rubato un mese di vacanza da scuola, penso non ci sia delitto più grande.
    Sta zitto Fraser, non frega un cazzo a nessuno.
    La voce della guardia lo fece sbuffare.
    Quella sera era diverso, sentiva che sarebbe successo qualcosa di diverso e chissà, magari il troppo tempo passato con Arci lo aveva reso un po' sensitivo.
    Per la prima volta dopo tanto tempo ci fu qualcosa di diverso. Avete visite. Sollevò lo sguardo sull'uomo - che il tempo aveva soprannominato Dick, anche se lui non aveva mai rivelato il suo nome - che puntava un dito contro gli schermi polverosi appesi nella parente dinnanzi a loro e che mai prima di allora erano stati accesi. Una videocamera puntò un gruppo di persone immerse in una radura buia e apparentemente fredda, e tra di loro Oscar riconobbe i suoi amici. Erano tutti li, scorse i loro visi uno per uno:
    Jack, era lì per lui, quel libro aperto che non sopportava la vista del sangue, che si sentiva male solo a percepirlo, si era dato a quella battaglia per lui. Un pesce fuor d'acqua, non avrebbe trovato sorrisi su quella radura. Chissà se stava temendo la morte quanto lui, in quel momento, eppure rimaneva lì, ed il suo sguardo non era mai stato così sicuro.
    Arci, era lì per lui, bisognava temerlo, nascosto dietro un velo di spessa ironia esisteva un soldato spietato. Quante volte avevano dato fuoco insieme alle divise dei primini antipatici? Bè, forse questo non gli rendeva onore, ma era convinto che Arci avrebbe potuto guidare meglio di tutti quel gruppo, persino facendoli ridere di tanto in tanto.
    Jeremy, era lì per lui, il Milkobitch. Era sicuro che quel campo di battaglia non fosse il suo posto, ma non importava dove si trovasse, perchè insieme agli altri si sarebbe sentito sempre a casa e questo lo aiutava. Non aveva dubbi che si sarebbe fiondato a cercarlo.
    Erano tutti lì per lui. - Oddio, forse erano lì anche un po' per i loro familiari ed altri amici eh, (tipo Heidrun) però sì, erano tutti lì per lui. #egoblaze. - Ci avrebbe scommesso la pelle che avevano brindato in suo onore, una, due, tre volte. Dannazione, li amava così tanto e sorrideva, non riusciva a non sorridere, senza riflettere davvero su quanto fosse pericoloso per loro trovarsi lì...
    Si soffermò sul volto di Arabells in particolare. Amore mio l'aveva pensata così tanto quei mesi da darle vita nei suoi pensieri tanto affinchè gli facesse compagnia, perché nonostante fosse circondato da un mucchio di persone là dentro, senza Bells al suo fianco Oscar si sentiva incredibilmente solo. Avrebbe dovuto impararlo due anni prima, quando non vederla per mesi interi e non avere sue notizie dalla Francia gli aveva levato l'aria dai polmoni quasi uccidendolo, eppure era riuscito a rendersene conto ogni giorno dopo il rapimento. Gli occhi pungevano minacciando lacrime ma le trattenne. Lei era lì anche per lui, ma non avrebbe dovuto esserci perché era pericoloso. Quei bastardi non scherzavano, ed anche se conosceva la forza dei suoi amici, perché ne avevano combinato davvero tante insieme, erano pur sempre dei ragazzini. Ma ci voleva credere, voleva crederci fino in fondo che avrebbero fatto il culo a quei babbani. Ascoltare le parole pronunciate da quella voce fu come sentire suo nonno, sentire la voce di suo nonno pronunciare uno dei suoi tanti discorsi sull'importanza dell'essere maghi, ma al contrario i babbani li denigravano. Ciò che non cambiava, però, era l'odio che quelle parole riuscivano a suscitare nel giovane Fraser. Come potevano esistere sulla terra persone tanto stupide?
    Come in un campo di concentramento, vennero presi uno alla volta e gli vennero poste delle domande, tutte uguali, sempre le stesse. Colpevole o innocente? In quel momento fu la sua maledizione a rispondere per lui, con le parole più vere che potesse pronunciare – - no, non "relativamente a cosa?" ma - Nessuno è innocente. Un colpo con il calcio del fucile sul mento lo fece ribaltare, mandandolo a finire su Dakota che, con chissà quale forza, riuscì a sostenere entrambi. Il sapore metallico del sangue si fece sentire sulla lingua, e si leccò il labbro, in attesa di uno sparo che non si fece attendere. Lo sapeva perché prima di lui avevano sparato ad altri.
    Non percepì subito il dolore, questo, subdolo, si fece sentire dopo qualche istante, bruciante nella sua forza che gli mozzava il respiro. Lo sentiva con chiarezza dentro di sè, quel corpo estraneo che gli faceva contrarre i muscoli dell'addome dal dolore. Poteva percepire il buco nella carne come se avesse una cintura stretta messa in vita, così stretta da fargli mancare l'aria ad ogni tentativo di respirare. Faceva male, troppo male. Strinse i denti, portando una mano a coprire l'addome per fermare almeno un po' la fuoriuscita del sangue. Potevano fottersi tutti, quei bastardi, avrebbe tenuto duro fino alla fine. Se si aspettavano che morisse così facilmente dopo aver visto che Arabells ed i suoi amici erano lì per lui bè, si sbagliavano di grosso. Quando poco dopo toccò a lui sentenziare l'innocenza o colpevolezza di due ragazze, si trovò spiazzato. Non voleva che altre vite dipendessero da lui, perchè avrebbe scelto ancora la propria vita. Non conosceva le due ragazze, e certamente non poteva, nè voleva, permettersi un altro proiettile addosso perchè sapeva che il prossimo sarebbe stato fatale. Non poteva morire, le ragazze avrebbero dovuto scusarlo, ma doveva soppravvivere abbastanza da assicurarsi che Bells tornasse a casa sulle proprie gambe. Colpevoli. Gli dispiaceva, ma dal canto suo aveva fatto la scelta giusta.

    Black out, tutto divenne buio per un po', solo un po' anche per Betta è tutto un po' buio.
    Quando si riprese, riconobbe appena Elijah.
    Elijah? Rantolò dolorante ed al limite delle proprie forze. Quanto tempo era trascorso da quando aveva chiuso gli occhi? Non sembrava possibile, eppure il ragazzo era lì e stava provando a liberarlo delle catene. Il sangue sgorgava ancora dal suo addome, prosciugandolo come una lenta tortura.
    Bells è fuori.
    L'ho vista, s-sta attento.
    Si rese conto che, nonostante ci stesse provando con tutto sè stesso, Elijah non riusciva a sciogliere le catene che lo tenevano legato, era in panico, forse.
    Ti voglio bene, Elijah, oh si sentiva così debole in quel momento, avrebbe quasi potuto pronunciare davvero quelle parole, magari le aveva anche pronunciate tra un sospiro ed un altro, ma non se ne rese conto. V-vai da Bells, non lasciarla sola. Lo pregò.

    Black out, again.
    Di ciò che accadde dopo, i ricordi sono confusi, forse per l'ingente perdita di sangue dovuta alla ferita alla pancia, forse per l'esplosione della botola che gli aveva creato non pochi problemi, rendendolo più simile ad uno scemo di guerra che al ragazzo sveglio che era sempre stato. #madove? Dell'Oscar che era sempre stato, in quel momento era rimasto poco. Non era sicuro che l'avesse riconosciuta appena l'aveva vista, eppure istintivamente l'aveva guardata scendere gli scalini due alla volta, come colto da una forza magnetica che lo costringeva a guardarla, l'aveva guardata come si guarda una cosa bella ma irreale, e se fosse stato conscio di sè, avrebbe pensato che non importava che non fosse presentabile per lei, dopo così tanti mesi, nè che avesse più cose rotte che integre, nè che fosse sporco di sangue ovunque. Era importante che fossero insieme di nuovo. "fraser biondo" Dopo interminabili istanti di contemplazione del suo volto sorridente, però, riuscì ad ancorarsi a quel poco di lucidità rimasta, ed a pronunciare il suo nome Arabells.
    Siamo venuti a prenderti.
    siamo?
    Riuscì a sorridere, piano, quando poco dopo riconobbe anche Arci e Jeremy dietro di lei.
    I miei mostri. Lo stava slegando il più velocemente possibile, e dopo pochi istanti, finalmente, le sue mani ritrovarono la libertà dopo mesi, battendo a peso morto contro terreno. Avrebbe voluto stringerla più forte, ma le braccia rimaste per troppo tempo in una posizione innaturale non rispondevano ai suoi comandi come avrebbe voluto, ed avrebbe urlato, se ne avesse avuta la forza. Si lasciò baciare dalla ragazza, chiudendo gli occhi, senza lasciarsi mancare di nuovo, doveva essere presente, anche se faceva malissimo resistere, doveva farlo.
    Poteva maledirsi per non esserle vicino come avrebbe voluto? O forse trovandosi in quella situazione avrebbe semplicemente dovuto darsi pace? Ma come faceva a calmarsi, quando sentiva Bells al suo fianco dire addio a suo fratello? Non poteva credere davvero che Elijah stesse morendo, e non lo credeva, infatti. Non ci avrebbe creduto finché lui stesso non avesse posato un fiore sulla sua tomba al suo funerale e questo non sarebbe mai successo, perché era probabile che morisse anche lui quella notte. Non ci voleva credere perché pensare che anche lui stesse lasciando Bells era inconcepibile, almeno lui avrebbe dovuto restare. Oscar non era sicuro di arrivare a vedere la luce del giorno, ma adesso avrebbe dovuto lottare il doppio per sopravvivere. Doveva lottare, perché non le aveva ancora lasciato il bottone, ed entrambi sapevano cosa questo significasse. Doveva lottare, ma tutto si faceva sempre più buio, il respiro sempre più lieve, ma doveva lottare, anche se non percepiva più le gambe che erano più simili ad arbusti morti che a parti di lui. E aveva freddo, più di quanto ne avesse mai avuto. Fu solo una sensazione, ma si immaginò mentre portava una mano alla tasca del pantalone e ne estraeva il bottone che gli aveva fatto compagnia quei tre mesi. In realtà non si mosse da quella posizione, ma con l'immaginazione poteva fare tutto. Aveva estratto il bottone e lo aveva lasciato sulle mani di Bells. Non si immaginava vestito di stracci, ne con la barba ed i capelli incolti, al contrario la sua immagine non era mai stata così bella come in quel momento.
    Ma non si era mosso davvero, era rimasto fermo, con i capelli sul volto sporco di sangue.
    Un'ultima parola fu l'unica cosa chiara che avrebbe ricordato, ed avrebbe portato con se ovunque fosse andato. Perché nonostante avesse passato una vita a bestemmiare Dio, in quel momento era quasi speranzoso che al di là ci fosse qualcosa altro in cui portare con se qualche ricordo e quell'ultima parola Grazie
    E scusa.
    Scusa se non sono stato così forte come avresti voluto, se anche io ti sto lasciando. Quale mostro era per dar vita alla paura più grande della sua ragazza?

    Black out, l'ultimo.
    Richiuse le palpebre e le riaprì piano. Quando riprese conoscenza di nuovo, non si trovava più sotto quella botola, nel terreno sporco, immerso nel suo stesso sangue. Non era certo di cosa fosse accaduto in quel lasso di tempo in cui i suoi occhi avevano visto il buio, nè tanto meno se, ciò che le sue orecchie avevano percepito, fosse reale. Poteva qualcuno resuscitare dalla morte? Piano, Oscar si era sollevato dall'erba, rendendosi conto solo in quel momento che la brezza notturna non era cambiata da come la ricordava, era la stessa e lo svegliava, dava vita ai suoi pensieri di nuovo. Stava meglio, adesso. La ferita alla pancia sembrava non sanguinare più ma non era sicuro di chi dovesse ringraziare per questo, forse Bells, forse Heidrun. Ma adesso, poco a poco, stava recuperando le forze.
    Come farei senza di voi? Domandò ai suoi amici una volta riuniti, abbracciandoli tutti in un unico abbraccio caloroso. Oscar non gli voleva solo bene, li amava, era molto diverso. Li amava davvero.
    Festeggeremo il prima possibile, devo riprendere il ritmo.
    Era ovvio e scontato che sarebbe andato via con Arabells quella sera, impossibile non stare insieme dopo mesi di separazione. Salutò anche Elijah, che immaginava avrebbe ricambiato con un "i'm watching you", ed invece, contro ogni pronostico, lui andò ad abbracciarlo. "Stai attento". Le stesse parole che gli aveva detto lui sotto quella botola, come se si stessero passando un testimone, avrebbero dovuto fare attenzione a loro stessi, ma avevano anche Bells al loro fianco, un bene forse più prezioso.

    Strinse la mano della ragazza fino alla fine, finchè non arrivarono a casa, così poco distante dalla sua. Il quartiere di casa, così familiare, gli fece contorcere lo stomaco dalla felicità. Lanciò uno sguardo alle finestre spente della camera dei suoi genitori e decise che non era il caso di svegliarli, non per altro, magari erano anche svegli, ma lo avrebbero trattenuto in casa senza farlo uscire più, li conosceva e lui voleva rimanere lì, con la sua ragazza, adesso. La sua migliore amica / ragazza. Se avesse mandato un messaggio a sua madre con scritto "Sto bene", lei lo avrebbe ucciso il giorno dopo. Subito, quell'idea gli parve geniale quanto stupida. E poi non voleva certo che andasse a cercarlo a casa di Bells, si sarebbe presentato da loro il giorno dopo, appena prima che potessero leggere i giornali.
    hai fame?
    Dio se aveva fame, una fame da lupi. Ma più di ogni altra cosa necessitava di lavarsi.
    Oh sì...Facciamo un bagno? Domandò, senza trattenersi dall'abbracciarla da dietro con leggerezza, inspirando il suo profumo ad occhi chiusi. Dopo quei mesi di prigionia, sentirsi a casa, con Arabells vicino era qualcosa di più simile a ciò che alcuni chiamavano paradiso. Era la vera concezione di paradiso, il suo paradiso personale. Se avesse avuto la forza di farlo l'avrebbe stretta in un abbraccio senza lasciarla andare più, ma ad ogni movimento forzato tremava.
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    Strofinò il naso contro la propria spalla, arricciandolo quando l’odore di terra e sangue le giunse alle narici. Poteva anche essere uscita fisicamente da quel bosco, ma Arabells Dallaire riusciva ancora a percepirselo addosso: rivedeva le ombre muoversi rapide fra i tronchi, sentiva i flebili rumori delle foglie lasciar posto ai tonfi sordi dei cecchini che cadevano al suolo. Chiuse gli occhi concentrandosi sul meccanismo della respirazione, lasciando che il ricordo di quella notte scivolasse nel buio oblio dove meritava di stare; aveva tutta l’intenzione di non pensare mai, mai più alla missione cui aveva, così a cuor leggero, partecipato. Non che, se avesse immaginato cosa l’avrebbe aspettata, non l’avrebbe rifatto, anzi: per riavere Oscar ed il resto dei suoi amici, avrebbe affrontato delle quaglie killer anche cento volte. Ciò non significava che le dovesse piacere. Dato che la memoria sembrava il tallone d’Achille della sua famiglia, magari era così fortunata da riuscire a dimenticare – le sarebbe bastato scordarsi lo stretto necessario per continuare a vivere la sua vita come aveva fatto sino a quel momento,solo quello. Nulla più.
    Riaprì gli occhi guardando di sottecchi il profilo opaco e sporco di Oscar, lo sguardo grigio ad indugiare sulle ferite ai polsi, la pelle delle braccia graffiata e sporca di polvere, il mento nascosto da una fitta barba ed i capelli a scivolare sulla fronte, coprendogli gli occhi. In quei mesi l’aveva immaginato così spesso nella propria cucina (il frigo aperto davanti a sé e le sopracciglia corrugate: «ma voi francesi non bevete birre?»; seduto con i libri aperti sul tavolo, apparentemente concentrato a studiare mentre in realtà valutava una strategia per il quidditch, il piede a picchiare contro la sua gamba per il puro gusto di innervosirla; la spalla poggiata alla cornice della porta, un sorriso sghembo e divertito a valutarla mentre lei tentava, con scarsi risultati, di cucinare: «sono troppo giovane e bello per morire, non possiamo andare da starbucks?») da non riuscire a credere che fosse realmente, e fisicamente, lì. Così continuò ad osservarlo, seria ed impettita, mentre le gambe ciondolavano svogliatamente oltre il bordo del tavolo, l’unico movimento che in quel momento si permise. Avrebbe voluto dire tante cose, Bells; tutte quelle che in quei mesi, in quegli anni, aveva lasciato sempre penzolare sulla punta della lingua senza mai dargli forma concreta, convincendosi che le parole fossero superflue – ma lo erano davvero? La gola stretta in una morsa, gli occhi tristi e riflessivi ad esitare ancora sulla curva morbida delle labbra, sulle iridi azzurre delle quali mai credeva avrebbe sentito la mancanza, perché non pensava le avrebbe mai perse.
    Scosse il capo, chiuse gli occhi. Inspirò, lasciò uscire l’aria.
    È reale?
    Riaprì gli occhi, trovando Oscar ancora più vicino. I palmi le prudevano dal bisogno di sentire la sua pelle sotto la propria, la necessità di stringerlo a sé senza permettere più che se ne andasse, che glielo portassero via. Ed era terrorizzata, la francese, da quel sordo dolore alle costole, perché era diverso da qualunque cosa avesse mai provato. Era quel genere di sofferenza a cui l’essere umano anelava, il principio di panico ad inebriare i sensi; era la spinta in un abisso conosciuto e sconosciuto, un sapore familiare ma sempre nuovo. Tenne le mani sotto le cosce, schiacciando le dita contro la carne per poi mordersi ferocemente l’interno della guancia.
    «Oh sì...Facciamo un bagno?» Quando le braccia di Oscar si strinsero sulle sue spalle schiacciandola contro il proprio petto, il fiato a sollevarle i fini capelli castani che così facendo le solleticarono le guance, Arabells Dallaire si rese conto che non era cambiato niente. Scivolò in quell’abbraccio, confortante e liquido quanto la propria camera, con gli occhi nuovamente chiusi, il dolore al petto ad attenuarsi ad ogni battito. Gli angoli delle labbra erano curvati nel più infinitesimale dei sorrisi, le sopracciglia inarcate nella miglior espressione scettica di repertorio. «inconcepibile» commentò, ruotando il capo in modo da riuscire a guardarlo in viso, mentre le dita andavano ad intrecciarsi a quelle di lui. «fraser biondo, davvero è questa la prima cosa che ti viene in mente?» avrebbe voluto suonare accusatoria ed ammonitrice, invece la voce di Bells tradiva una certa nota di urgente sincerità. Si volse completamente verso di lui, i polpastrelli ad arrampicarsi piano sulle braccia, giungendo titubanti a pochi centimetri dalle sue guance. Corrugò le sopracciglia, ancora tacendo; non credeva, come probabilmente chiunque la conoscesse, che sarebbe mai arrivato il momento nel quale sarebbe rimasta senza parole. Di solito, o perlomeno così le era stato riferito, era alquanto complesso, al massimo, farla tacere.
    Ma non trovava niente di giusto da dire, Arabells Dallaire. A dire il vero, neanche qualcosa di sbagliato.
    «pensavo…» deglutì, appena un sussurro soffiato a labbra dischiuse. Era scontato, ed era stupido, e non c’era alcun bisogno di dirlo, eppure le premeva ugualmente alla bocca dello stomaco, costringendola a ingoiare febbrilmente la saliva.
    Pensavo di averti perso.
    Pensavo che fosse la fine.
    Pensavo che non avessimo più tempo.
    Pensavo che sarei morta senza averti mai detto che ti amo.
    Lo tirò leggermente a sé, le mani intrecciate dietro la nuca; arrotolò i capelli di lui fra le dita, prima di posare un delicato bacio sul mento - e poi proseguire sullo zigomo, sulle palpebre chiuse, sul naso. Sfiorò con le labbra ogni centimetro del viso di Oscar, soffiandogli il proprio alito caldo sulla pelle. Temporeggiò sulla sua bocca, la fronte poggiata sulla sua. «pensavo ti fossero mancati i miei pancake» ogni parola fu un leggero sfiorarsi, piccole scosse sotto pelle a far fremere il muscolo cardiaco custodito fra le costole. Si ritrasse con un sorriso sghembo ed un’occhiata maliziosa, le mani ora abbandonate sopra le proprie gambe. «dopotutto, è risaputo che io sia una cuoca eccelsa» commentò ancora, schioccando la lingua sul palato. Il solo fatto ch’ella avesse potuto dirlo, e che lui non avesse sentito alcun dolore, dimostrava quanto quella fosse una menzogna. You tried, Bells. Alzò le braccia verso l’alto, stiracchiandosi come un gatto satollo mentre il sorriso non accennava a scemare.
    Erano mesi che Arabells Dallaire non si sentiva così… normale? Giovane? Felice.
    Perché anche quando tutto il resto cambiava, loro non cambiavano mai.
    «vai tu, io preparo qualcosa» preparo, aka: metto a scaldare nel microonde quello che mio fratello ha lasciato nel freezer, perché non so fare neanche un omelette; se non c’è niente, buone che sono le mele!. «però muoviti, grifontonto…»
    Perché mi manchi già.
    Perchè preferirei rimanere con te.
    Perché vorrei che fossimo già a letto, le gambe avvolte fra loro e la mia testa sulla tua spalla, a respirare piano.
    «altrimenti non ti aspetto per mangiare» saltò giù dal tavolo poggiando i pugni chiusi lungo i fianchi, il capo ad indicare secco la direzione del bagno – come se, dopo tutti quegli anni, ce ne fosse bisogno.
    arabells lies dallaire
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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  4. blaze¨
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    OSCAR "BLAZE" FRASER ( ) - l'età è solo un numero - GRYFFINDOR - CATAFRATTO
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    over hate, through this iron sky that’s fast becoming our mind »
    Casa Dallaire, solo qualche tempo dopo.
    Era trascorsa una vita da quando era stato rapito, non una frase fatta, ma un’altra vita lo era davvero, freddo, distante, Oscar Fraser aveva fatto in modo che quei ricordi gli scivolassero addosso come sabbia, attutendo su di lui il meno possibile, che ci fosse riuscito era innegabile per chi lo vedeva camminare nei corridoi a scuola: tranquillo, solare, lo stesso Oscar di sempre, tanto che alcuni – meno informati di altri – si erano domandati se l’Oscar rapito fosse lui o qualcun altro. Sembrava essere tornato tutto come sempre, ma nessuno si rendeva conto di come Blaze rallentava il passo prima di svoltare ogni angolo, persino nei luoghi che conosceva a memoria, avevano minacciato di distruggere le sue sicurezze, ed in qualche modo avevano fatto centro, ma forse non era stato un male, non per lui. Nessuno poteva scorgere, osservandolo, quell’acquisita prudenza che gli era mancata mesi prima, un bonus, niente di più. Gli avevano fatto un regalo.
    Ma era un’altra vita, quella sera apparteneva ad un’altra esistenza, non la sua, di certo.

    [...]

    La sera dei ricordi, così l’aveva memorizzata nella sua mente, e si era rifiutarlo di ricordare quella sera come “la sera del rapimento”. Era successo anche altro, quel giorno. Ricordava il contatto con Bells, l’ultimo prima di troppo tempo, seduti su una panchina si erano fermati a guardare uno dei ricordi che caratterizzava la loro infanzia: quel momento estivo in cui, euforici (Bells forse non tantissimo ma Oscar lo era davvero), attendevano le stelle cadenti. Ricordava quel momento, l’attesa perenne di quelle stelle che non si presentavano mai, quegli astri morenti che sfuggivano ai loro occhi, coperti da un manto di cielo troppo scuro. Si era reso conto, in quel momento, che non erano le stelle ad attrarlo, non quanto la presenza di Bells al suo fianco che, come lui, le stava aspettando. Aspettare insieme qualcosa, qualsiasi cosa fosse, che fossero stelle, o i dannati fuochi d’artificio alle feste di paese, quegli stupidi fuochi che per un motivo o un altro tardavano a cominciare, o venivano rimandati, e lui che trovava un ottimo motivo per prendersela con gli organizzatori (tra cui rientrava anche suo nonno). La bellezza non risiedeva nel momento, ma nell’attesa di esso, nell’attesa di esso con Arabells. Non ti piacevano per niente le stelle eh... Aveva commentato lei, guardando l’immagine di quel ricordo sbiadire poco a poco. E lui aveva sorriso, perché l’ingenuità di allora era la stessa che aveva adesso, solo che in pochi riuscivano a scorgerla come Oscar riusciva a fare ancora, dopo anni.
    Mi piaceva guardarle con te. L’aveva corretta lui, poggiandosi con i gomiti sulle ginocchia ed osservandola sbieco.
    Avanti Dallaire, non devo dirtelo io che con Jeremy non sarebbe stata la stessa cosa… Santo cielo, certo che no. Immaginarsi sdraiato sotto un cielo stellato con Jeremy poteva significare solo che erano entrambi troppo fatti per chiudere gli occhi o spostarsi dal prato. Forse con Arci poteva anche pensarci, come leggeva l’oroscopo lui attraverso le stelle ci riuscivano in pochi.
    Meglio così, Fraser biondo.
    Si erano alzati da quella panchina ed avevano ripreso a camminare lungo quel viale dei ricordi. Nessuno di loro avrebbe mai potuto pensare che proprio quella sera.

    [...]

    A distanza di un anno, Oscar si sentiva in dovere di starle vicino come non lo era mai stato. Prendersene cura come si fa con una ferita ancora sanguinante, ma non era questo che avrebbe voluto vedere guardando Bells, non era così che avrebbe voluto immaginarla, eppure se a volte la immaginava come una guerriera, più spesso era così che le veniva in mente: una ferita ancora non del tutto sanata, uno squarcio. Cosa doveva aver provato nel vederlo sparire? Impossibile pensare che non avesse sofferto come fosse all’inferno, impossibile credere che fosse rimasta indifferente nel vedere l’ennesima persona che amava venirgli strappata via con forza, in un modo brutale. E lei non era riuscita a salvarlo, non quella notte. E nonostante avesse passato anche lui delle situazioni simili, Oscar non pensava a sé stesso, con Arabells non ci riusciva mai forse solo sul quidditch, non riusciva a guardarla senza avere paura di lei, almeno un po’. Perchè si ha paura di una ferita, si teme di vederla peggiorare, di non essere in grado di guarirla del tutto, ed anche dopo, la cicatrice rimane per sempre. Ma una persona ferita può spaventare anche per la sua forza, per la sua tenacia nell’andare avanti comunque, una forza inumana che Oscar possedeva, senza rendersi conto, ma che doveva possedere anche Bells. Di cosa doveva essere capace, una persona così forte? Quale mondo interiore doveva avere? Sempre il solito sciocco che vede tutto o bianco o nero, non esistevano sfumature nella sua visione delle cose. Temeva di poterle fare del male, ancora, spezzarla davvero questa volta, ed era l’ultima cosa che avrebbe voluto.
    Una serata come tante a casa sua, chiedeva solo questo. Una serata ricca di ricordi, alcuni belli, altri meno. Allora… hai detto che avevi in mente qualcosa di buono per stasera...Ma qui non c’è aria di cena. Non vorrai ripropormi ancora un surgelato di Elijah? Domandò, seriamente spaventato. La sera della liberazione, dopo la battaglia, la ricordava bene anche perché aveva rimesso l’anima dopo cena, e sebbene sapesse che non era davvero colpa del Dallaire, ma dello scombussolamento generale di quella notte, Oscar era riuscito a scherzarci su. Elijah e la sua cucina.
    sheet code © psìche


    L'ho riletto solo una volta perchè i miei scassano *-*
     
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    Arabells Dallaire avrebbe disperatamente voluto che, dopo la faccenda dei cacciatori, non le fossero rimasti che i bei ricordi - così si diceva, giusto? Si andava avanti, cancellando la ruggine per lasciare solamente le memorie del ferro lucente a brillare come diamante sotto un cielo di cobalto. Avrebbe voluto che, del lontano quattordici agosto duemilasedici, le fossero rimasti impressi solamente i momenti passati con Oscar prima che il ragazzo venisse rapito, l’innesco di uno degli incubi peggiori e più lunghi della vita della Corvonero: si era trovata, di nuovo, privata di una persona che amava – ancora impotente, ancora convinta che aspettare sarebbe bastato.
    Ed invece, non era bastato. Non lo faceva mai. Quando di notte, prima di addormentarsi, si lasciava avvolgere dal calore di quella prima estate, i suoi pensieri finivano per trascinarla a fondo con sé prima che potesse rendersene conto, sporcando frammenti di storia dorata in grezzo ed affilato vetro.

    […]


    Il braccio a scivolare distrattamente, ma con maliziosa intenzione, a sfiorare quello di Oscar ad ogni passo. Le piaceva la sensazione della sua pelle, bollente perfino dopo che il sole era calato; le dava un senso di pacato ed elettrizzante conforto, sentirla sfregare contro la propria. Non c’era nulla di eclatante in quel contatto, specialmente considerando quanto intimi, seppur non in modo convenzionale, fossero sempre stati. Eppure, con il tramonto ad ingrigire gli occhi di Bells e rendere diafana la pelle del Fraser, anche quel semplice tocco bastava per dire tutto ciò che nessuno dei due aveva mai avuto bisogno di specificare: ci sono io con te – l’ho sempre fatto. Non c’era altro rumore se non quello dei loro piedi sull’erba smeraldo del boschetto dietro casa, i respiri ad impigliarsi ai rami ed i sorrisi complici strappati fra schivare radici e l’evitare rocce che conoscevano quanto i loro stessi battiti – una strada fatta dieci, cento, mille altre volte. Bells si fermò di colpo, una mano allungata dietro di sé per bloccare Oscar; gli lanciò una bieca occhiata di sottecchi, la mano ad indugiare sul petto di lui - tu-tum tu-tum tu-tum - prima di scivolare lenta sul suo braccio, fino a giungere alle dita che intrecciò alle proprie. Gli rivolse un sorriso a labbra serrate, tirandolo maggiormente verso di sé. «te la ricordi?» indicò una piccola grotta naturale di fronte a loro, appena visibile con la scarsa luminosità degli alberi. Si trattava di un incavo nella terra stessa, abbastanza piccolo per contenere una ragazza rannicchiata. Un sospiro scivolò dalle labbra dischiuse del capitano della squadra di quidditch blu bronzo, melanconia mista al dolce languore di aver sempre avuto la risposta a portata di mano. Oscar inarcò un sopracciglio, un sorriso sghembo a curvare le labbra. «difficile dimenticarlo, a meno che tu non sia Eli- AHIA» Con la mano libera, lo colpì con un pugno secco alle costole, le sopracciglia corrugate mentre Oscar ghignava. Il bisogno di sentire, di sentirsi, era reciproco – non un segreto - ma mentre Bells cercava di toccarlo nelle maniere più sottili e disinteressate possibili, il Fraser moro non si era mai fatto alcun problema di discrezione: le dita di lui a scivolare fra i corti capelli a caschetto della Dallaire, un sorriso ora più caldo e serio ad adombrare le iridi azzurre. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma subito la richiuse e si limitò ad osservarla, il respiro più denso e concreto nell’immobile aria scozzese. Fu la Dallaire a distogliere per prima lo sguardo, tornando a guardare la piccola grotta di fronte a loro. «quando litigavo con…» te. Arcuò allusiva le sopracciglia. «…chris, venivo sempre qui.» Un rifugio come un altro. L’aveva scoperto per caso, le dita a memorizzare i tronchi degli alberi e gli ostacoli sul proprio cammino, ed era lì che, quando Oscar la faceva arrabbiare, andava a nascondersi. Nessuno sapeva di quel ritaglio di mondo nel mondo, neanche Elijah; nessuno, tranne Oscar: lui la trovava sempre. Lui l’avrebbe trovata sempre. «eri così… insopportabile» ancora sorrise, la Dallaire. Potè quasi vedere i due bambini attorcigliati nell’anfratto di bosco, Oscar che faceva l’idiota per farsi perdonare, e Arabells incapace di tenergli a lungo il broncio – come si poteva, resistere ad Oscar Fraser. Nessuno poteva esserne immune. Lei di certo, non lo era mai stata. «secondo te ci stiamo ancora?» domandò, una tacita sfida lanciata con zelo ed un tono di voce opaco e pungente. La bocca di lui a tendersi in un sorriso delinquente, gli occhi ridotti ad una fessura. «proviamoci»

    […]


    «Allora… hai detto che avevi in mente qualcosa di buono per stasera...Ma qui non c’è aria di cena. Non vorrai ripropormi ancora un surgelato di Elijah?» Quant’era stupido, Oscar Blaze Fraser. Alzò gli occhi al cielo, un sospiro di pura esasperazione a premerle sul palato; quando, però, riportò la sua attenzione su di lui, non ebbe più forza di mettere il proprio disappunto in quel respiro – che uscì debole, tremante. Erano passati mesi da quando era tornato, eppure Arabells non riusciva ancora ad abituarsene. Le pareva non fosse mai accaduto, quasi quanto lo sentiva opprimente ogni qual volta che lo osservava – da vicino, da lontano, da ieri e da sempre. Aveva il costante bisogno di stringerlo a sé, di serrare le palpebre e nascondere il viso nella sua maglia, respirando piano per timore fosse solo un altro sogno. Non aveva mai domandato nulla che Oscar stesso non fosse stato disposto a condividere, adattandosi alla filosofia preferita dal Grifondoro nel suo personale andare avanti: non l’avrebbe mai costretto, Bells, a confessioni di una prigionia che il ragazzo voleva dimenticare. Avevano un passato, Oscar e Bells; avevano un presente. Perché non avrebbero potuto permettersi un futuro? Contava sul fatto che sapesse, il Fraser, che lei ci sarebbe sempre stata – Dio santo, quanto non l’avrebbe più lasciato andare. Inarcò entrambe le sopracciglia, i pugni poggiati sui fianchi: erano poche le persone che, pur avendo venti centimetri in meno ed indossando una maglietta che giungeva a coprire fin sopra il ginocchio, risultavano cazzute. Arabells Dallaire, per sfortuna, era una di quelle. «fraser biondo, sei uno spreco d’intelligenza» il tono piccato non poteva che cozzare con la menzogna a pender pigra dalle labbra di Bells: dopotutto, se Oscar fosse stato davvero un’idiota, non avrebbero mai potuto essere amici.
    Figurarsi altro. Reclinò il capo avvicinandosi di un passo, le mani intrecciate dietro la schiena con fare cospiratorio e drammatico. «ho forse specificato commestibile Ma che priorità aveva, quell’adolescente bifolco, se subito andava a parare sulla cena. Sessista. «io, io sono il qualcosa di buono» Scosse i capelli con un movimento deciso, avanzando ancora di un passo verso il Grifondoro. «i miei genitori sono in vacanza» meh: in realtà, Davina e Theodore erano in Francia a cercare una cura per la malattia della madre – e quanto era stato naturale mentire, in quel la trovo un’ottima idea con il quale aveva salutato suo padre. «eli è…» Si grattò pensosa un sopracciglio, l’interno della guancia stretto fra i denti. Dov’era Elijah? «da nate?» una domanda retorica, l’occhio destro semi chiuso in quell’azzardo – non che ci fossero molti altri posti dove avrebbe potuto andare: Mephisto era diventato un ricercato, Eugene viveva nel ghetto magiko, Rea nei giorni pari l’aveva bandito (#headcanon, segnatela Pidi). Si strinse nelle spalle, liquidando la questione con un vago gesto della mano. «cibarmi non è una mia priorità» Fece schioccare la lingua sul palato, avvicinandosi abbastanza da sentire il calore della sua pelle perfino attraverso i vestiti, il profumo di casa di lui a pungerle le narici. «ma se preferisci mangiare, dovresti rivedere a quale Dallaire chiedere il prossimo appuntamento.» Sbattè le ciglia, un lento sorriso sornione a piegarle gli angoli della bocca. «nei giorni pari è ufficialmente single – nate permettendo» Lo superò per saltare sull’isolotto della cucina, le gambe incrociate e le dita intrecciate pigramente sulle ginocchia. «scelta tua.»
    arabells lies dallaire
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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  6. blaze¨
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    Oscar Blaze
    di fuoco e cenere
    17 gryffindor quidditch captain animagus (red fox)

    [...]


    13 y.o
    Le giornate come quella che aveva passato quel giorno d’estate si potevano contare sulle dita di una mano. Le difficoltà in famiglia, specialmente con suo nonno, erano all’ordine del giorno, ma era raro che il grifondoro si richiudesse in sé stesso ed era ancora più raro che si mettesse a piangere per questo. Era un momento che Oscar avrebbe volentieri cancellato dalla sua vita. Il pianto, lo aveva sempre ritenuto inutile, tutto fuorchè liberatorio ed anzi dopo aver pianto si sentiva sconfitto. Ma quella giornata in particolare, di tanti anni fa, Oscar aveva ceduto dopo giorni di sopportazione, giorni in cui, come sempre, aveva fatto finta di niente, convincendo chiunque al proprio fianco che avesse un cuore simile a quello di una pietra, inscalfibile e duro.
    In genere tentava di non dare le peso alle parole di suo nonno, faceva in modo che queste gli scivolassero sulla pelle lasciandogli addosso solo una sensazione di divertimento. Era convinto che il nonno lo maltrattasse apertamente per provocarlo, ne era proprio certo, tanto che le parole che gli sputava addosso avevano un sapore diverso di quelle che pronunciava alle sue spalle, quando lui non poteva sentirlo e non poteva esserne toccato. Quelle, alla fine, erano le più sincere.
    Appena dietro la soglia della porta, quel giorno aveva assistito ad una conversazione tra l’uomo e Chris, nella stanza del vecchio.
    "Tu sei l’unico che valga qualcosa, Oscar è solo una delusione."
    E quelle parole avevano assunto nella sua testa la dimensione di un tornado, non si aspettava una reazione del genere, forte rispetto ai suoi standard, inaspettata. Non capiva cosa fosse quella fitta all’altezza del cuore che lo tormentava, non riusciva a spiegarsi perché facesse così male se, dopotutto, era abituato alle parole brutte di suo nonno.
    Non erano state pronunciate per provocarlo, non erano intrise dello stesso veleno che portavano con loro ogni volta, erano state dette con una calma ed una lucidità disarmante, ma il vero problema era che a lui importava il giudizio di quell’uomo, per la prima volta in tutta la vita.
    Si era nascosto nella casetta degli attrezzi di suo padre per stare un po’ da solo e soprattutto non vedere suo nonno che, da sempre, era restio ad avvicinarsi troppo agli oggetti di quel babbano del genero. Un luogo pericoloso per chiunque, figuriamoci per un ragazzino, e immaginiamo poi quanto avrebbe potuto esserlo per una ragazzina cieca. Ma niente fermava Arabells, non quando si trattava di Oscar, era così e lo sarebbe stato per sempre.
    Sei qui? La voce di Bells lo aveva ridestato, per un attimo, ed Oscar aveva tirato su con il naso dando segno della sua triste presenza.
    Stai piangendo? Il tono di voce appariva neutro, ma Oscar riuscì a scorgervi preoccupazione e sorpresa. Incredibile come potesse rendersene conto senza nemmeno vederlo, lei che non aveva la vista, mentre i suoi genitori, pur avendolo sotto gli occhi per gran parte della giornata, non si accorgevano mai dei suoi momenti bui.
    La risposta alla sua domanda partì troppo presto.
    No! Ed era stata troppo veloce, non sincera.
    La ragazzina, ponderando ogni passo al buio e con le mani distese dinnanzi a sé, aveva raggiunto lentamente la sua posizione, portando le dita sulle sue guance per constatare se stesse piangendo o meno, ed aveva ragione, piangeva.
    Lui gliel’aveva concesso, alla fine era vero, e con Bells era spesso sincero, più che con chiunque altro. Forse un po’
    Aveva portato le mani su quelle di lei e le aveva strette nelle proprie, cercando un conforto che nessun altro avrebbe potuto dargli. Non c’era niente di malizioso in quel contatto, materno, fraterno, più che amichevole senza dubbio ma senza alcuna malizia.
    Poi, con un sorriso che lei non avrebbe visto, ma che forse avrebbe percepito, se ne uscì come sempre. Tu non hai visto niente. (cit)
    Una frase spontanea, detta un po’ per caso, un po’ forse perché era un po’ stronzo ma nessuno avrebbe mai saputo la verità. - forse in realtà era solo molto biondo, ma passare per insensibile faceva figo. -
    Fraser.
    Un attimo di silenzio, e poi le aveva raccontato di quella giornata, dei suoi turbamenti, si era aperto con lei che sapeva ascoltarlo, non si era mai sentito di troppo con lei, nonostante ciò che turbasse la piccola Dallaire era un male che Oscar difficilmente avrebbe potuto comprendere, la sua vita era sempre stata più difficile. Lei lo ascoltava sempre.

    […]


    Ritrovarsi lì a parlare di tutto era la sua più grande aspirazione (seconda solo alle colazioni a letto che Arabells gli concedeva molto raramente). Era così tranquillo che sembrava aver messo da parte le paranoie – erano ben quindici minuti che non fissava la porta d’ingresso temendo di veder entrare l’uomo nero (?) (no, non Elijah) – Bells riusciva a distrarlo, con ogni sospiro scocciato o lo sguardo torvo. Perchè aveva scelto Bells? Tante ragazze glielo chiedevano spesso a scuola, e lui, anche se avesse voluto, non era mai riuscito a dare un perché di quella scelta. Lei era lei, non aveva dovuto sceglierla, in realtà. Certe cose, in determinate situazioni, non si scelgono. Gli era letteralmente piovuta addosso alla nascita ed andava bene così. E poi come poteva non amarla? Sorrise, rimanendogli di fronte con fare per niente impacciato, più che altro sembrava studiarla – uno sguardo nemmeno troppo attento avrebbe potuto supporre che Oscar aveva lentamente iniziato a mangiarla con gli occhi, a proposito di cibo. L’aveva sbucciata un po’ alla volta e la osservava desideroso di assaporarla.
    Sei un dolcetto alla Superbia con una spolverata di Presuzione proprio qui. Le sfiorò i capelli con il palmo della mano aperto sulla testa, dove poi poggiò la mano. Incredibile quanto fosse bassa, Oscar se ne stupiva ogni volta.
    Avevano la casa per loro, esistevano TUTTI i presupposti per una mossa alla Fraser – così erano conosciute a scuola, quelle mosse. (ma quali wat) - ma con Bells tutto risultava imprevedibile, era convinto che una mossa alla Fraser avrebbe distrutto l’armonia ed avrebbe allontanato Bells, perché lei non voleva e non doveva essere trattata in modo ordinario. A volte Oscar non la capiva – ma era pur sempre una ragazza, eh e lui aveva molti limiti – Adesso gli appariva così...sensuale, ma aveva quasi paura di toccarla e vederla scappare e non voleva.
    Non preferisco mangiare, chiarì, tanto per iniziare. Non sia mai che la Dallaire fraintendesse.
    Poi fece una sincera constatazione.
    Chissà perché la gente associa il cibo al sesso, non l’ho mai capito. Molto random, eh. Ma funziona.
    La guardò sedersi sull’isolotto della cucina. In realtà era proprio la cucina in sé a riportargli alla mente immagini scabrose, o forse erano le gambe di Bells che apparivano spoglie, nude della maglietta che copriva solo fino a metà coscia ora che era seduta e che lo costringevano a domandarsi se sotto la maglietta avesse i pantaloncini o se fosse semplicemente in mutande. O magari non le aveva, le mutande...Tentò, comunque, di tenere lo sguardo solo sui suoi occhi, con molta difficoltà. Aveva smesso di domandarsi da quando aveva iniziato a pensare a lei in quel modo, non era stato un vero e proprio passaggio, era stato graduale ed era avvenuto, in gran parte, nell’anno in cui lei era stata in Francia. La sua assenza aveva scatenato una tempesta ben più grande di ciò che Oscar avrebbe potuto immaginare. Si avvicinò con le mani alle piastrelle della cucina, chiudendola in una prigione fatta di braccia.
    code by psiche
     
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