i haven't felt alright for a really long time

lydia x ashley

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1.     +2    
     
    .
    Avatar

    lost in the echo

    Group
    Death Eater
    Posts
    631
    Spolliciometro
    +594

    Status
    Offline
    i don't know what i don't know
    i feel like a ghost in my own life -- wtf | 20 y.o. | deatheater | 20.01.17, 18:00
    Era un’opera lenta e discontinua, ma non per quello meno efficiente. Non mostrava cambiamenti nell’immediato che dessero indizi su ciò che sarebbe avvenuto, ed era quella sua intrinseca meschinità a renderlo necessario nella quotidianità di Lydia Hadaway: sapeva a cosa avrebbe portato, ma non vederne le conseguenze le lasciava un senso di leggerezza nel petto che la spingeva a ripeterlo il giorno successivo, e poi quello dopo ancora. La pelle chiara come un bocciolo di luna sotto la luce sfumata del bagno, la curva morbida delle spalle e la ferita delle clavicole; le labbra dischiuse, sempre in procinto di aprirsi per dar voce a qualcosa che non aveva forma, le palpebre pesanti su un paio d’occhi verde scuro. I capelli, lasciati sciolti e spettinati, scivolavano con fluida eleganza di un colore meno intenso rispetto a come apparivano sotto i raggi del sole, attorcigliandosi sulle braccia sottili. E le cicatrici, crateri sulla superficie di un pianeta a lei sconosciuto, spessi ritagli di pelle su cui faceva scorrere i polpastrelli tracciando gli estremi di una storia senza narratore. Le dita a disegnare i contorni del proprio profilo, soffermandosi sulla bocca dalle labbra rosee per poi danzare sul naso, le sopracciglia chiare.
    Ed il pollice a premere sullo specchio. Sempre lo stesso punto, sempre la stessa intensità. Giorno dopo giorno, settimana dopo settimana, vita dopo vita: Lydia s’impuntava su quel ritaglio di riflesso, schiacciando con determinata astrattezza.
    E non accadeva nulla.
    E non accadeva nulla.
    E poi un puntino.
    E non accadeva nulla.
    E non accadeva nulla.
    Finchè qualcosa non accadeva, e le crepe si aprivano come ragnatele seguitando linee invisibili, distorcendo Lydia Hadaway in uno, nessuno e centomila frammenti di una ragazza che non conosceva. Ogni volta avrebbe potuto aggiustarlo con un movimento della bacchetta, ed ogni volta decideva di non farlo: raccoglieva ciascun pezzo e lo gettava nella spazzatura, per poi uscire e comprarne uno nuovo. Routine, la sua. Semplice abitudine di chi cercava d’aggrapparsi a quel poco ch’era certo gli appartenesse, e per quanto poco senso potesse avere per chicchessia, era tutto ciò che Lydia aveva.
    Lydia, o Annie: non aveva neanche un nome.
    Non successe nulla quel giorno, mentre con precisione maniacale piegava lievemente il capo e schiacciava il dito sullo specchio, ove lasciò la propria umida impronta. Si umettò le labbra e sbattè le palpebre risvegliandosi dallo stato di trance nel quale talvolta cadeva senza rendersene conto, ed i rumori attorno a lei parvero spandersi e ripetersi, quasi volessero recuperare il tempo ch’ella aveva perduto vibrando con più forza.
    Ad esempio, i suoi nuovi vicini di stanza. Annie era sempre stata più incline all’odio che non alle seconde opportunità, ma Lydia credeva di essere una persona paziente; davvero, passando giorno dopo giorno con Nathaniel pensava di essersi temprata, che nulla avrebbe potuto turbare la sua implacabile tranquillità. Stolta. Il sopracciglio destro scattò nervosamente verso l’alto, mentre piccata sbatteva con violenza l’anta dell’armadietto nel bagno, sperando che il boato secco potesse mettere a tacere le risate irriverenti che filtravano dai muri troppo sottili del Paiolo. Perfino ciò che casa aveva tentato d’esserlo, non riusciva ad esserlo più.
    Doveva davvero cambiare casa.
    Abbandonò la stanza senza guardare la vasca, luogo nel quale s’era svegliata anni prima, per dirigersi nella propria camera. Le bastò un’occhiata veloce per stringerle le stomaco in un misto di nausea e stanchezza, resasi improvvisamente conto di quale anfratto tenebroso fosse diventato. Ricordava (ironico) un tempo nel quale quel quadrato era stato così ordinato da far male al cuore; con il passare dei mesi e degli anni, la stanza un tempo impeccabile era ormai divenuta un misto fra ordine maniacale e caos nella sua forma più pura: gli abiti giacevano piegati impeccabilmente in ogni angolo libero dell’ambiente, accompagnati da più scarpe e borse di quante mai avrebbe avuto opportunità di indossare; sulla scrivania, in piedi come soldati pronti a scendere in guerra, v’era una sfilza di lucidalabbra da far invidia agli scaffali di Kiko. Oggetti sparsi alla rinfusa rendevano l’habitat claustrofobico, ma non era quello a catturare maggiormente l’attenzione: decine e decine di libri, alcuni aperti ed altri chiusi, decoravano il pavimento come tappeti di un particolare esteta, accompagnati da pergamene scribacchiate e post it di colori differenti. Era in spazi come quello ch’ella racchiudeva i suoi complessi ossessivi compulsivi. Sembrava avesse svaligiato la libreria di Hogwarts, e non sarebbe stato surreale supporlo – dopo l’alzheimer, un po’ di cleptomania non avrebbe guastato. Non che Lydia fosse particolarmente affascinata dalla lettura di saggi sulla storia di Hogwarts, sia ben chiaro; quelle pagine elegantemente scritte che le ammiccavano dal suolo, altro non erano che la riprova della sua testardaggine: se non poteva sapere nulla di sé stessa, significava che avrebbe saputo tutto sul resto. Non conosceva la sua storia? Orbene, avrebbe conosciuto quella degli altri. Un meccanismo di difesa distorto e distopico, ma abbastanza efficace da strapparla al cupo stato di depressione nei quali era scivolata nei mesi precedenti. Qualcosa da fare, dove la propria ignoranza non avrebbe messo nessuno in pericolo.
    Sperava.
    Ne aveva abbastanza, di perdere ciò che neanche era suo.
    Si sedette a gambe incrociate sul pavimento, le dita a tamburellare nervosamente sui volumi. Stava volutamente ignorando da giorni i messaggi di Nathaniel, e finchè la sua presenza non fosse stata più che necessaria per lavoro, non aveva alcuna intenzione di affrontare il suo capo. Dal (bellissimo!) primo dell’anno, le conversazioni con Henderson si erano fatte sempre vagamente inquietanti, e di certo seccanti per la rossa.
    «ma è stato un errore, Lydia. Un terribile ed imperdonabile errore, ma love finds a way, no?»
    «Nathaniel, non so di cosa stai parlando»
    «non ricordi? scioccante»
    «henderson…»
    «sai benissimo di cosa sto parlando. smettila di tenere il broncio, lo sai che ama solo te»
    Un sospiro profondo, l’aria inspirata dalle narici. «questa conversazione si conclude qui»
    «ASPETTA! Solo un’ultima cosa»
    «dimmi»
    «…hai ancora il costume da banana? Portalo alla prossima lezione, stavi una fav-»
    Ed a quel punto, con le orecchie in fiamme, Lydia gli sbatteva il telefono in faccia.
    Il che, a conti fatti, significava che si trovava nuovamente da sola. Incavò il mento fra le ginocchia, gli occhi a scivolare vuoti sulle righe mentre la mente rincorreva pensieri che a solo considerarli le lasciavano il petto gonfio e vuoto allo stesso tempo.
    Erano spariti, ed erano tornati tutti – con troppo da dire nello sguardo provato, e nulla che prendesse forma dai sorrisi stanchi. Aveva fatto ricerche su quanto era riuscita a carpire, sui babbani che sembravano implicati nella faccenda e sui presidi che, a fine missione, si erano presentati al loro cospetto. Presidi, streghe e maghi che avevano ai loro piedi l’intera comunità magica. In tutto quello, mentre la propria gente metteva a rischio la vita, dov’era suo fratello? E se già lo odiava, il fatto che fosse rimasto fuori dai giochi la indispettiva ancor di più, spingendola a stringere i pugni finchè le unghie non tracciavano mezze lune cremisi sui palmi. Stavano bene, erano vivi; eppure, la Hadaway non riusciva a liberarsi dalla soffocante sensazione che ci fosse qualcosa di sbagliato, un paragrafo non raccontato fra le paparazzate di quella storia. E, di certo, non riusciva a credere che dopo mesi di trepidante attesa e delirio, fosse tutto finito. Senza ch’ella riuscisse a rendersene conto, era arrivato Natale – e con esso, l’unica gioia che Lydia era riuscita a racimolare: Munin, una palla di pelo grigia e panna di cui si era innamorata al primo istante, le ali spesse e morbide a sollevarlo da terra di diversi centimetri. Il cane volante era divenuto in breve la compagnia più semplice ed appropriata per lei: non faceva domande scomode, e non tradiva la sua fiducia – ad esempio non so, sparendo o non tornando dopo cinque minuti. Ed era stata, oh, così brava in quell’allontanarsi discreto ed educato dai drammi altrui, dai propri. Da quegli occhi miele che l’avevano tormentata al San Mungo, nel sorriso schivo di Stiles, ed a lezione, dove sembravano sfidarla a dire un’altra cazzata (spoiler alert: vinceva sempre Xav). La sera prima che Jay… la sera prima che Jay venisse rapito, le aveva detto un nome. Lei fra tutti avrebbe potuto comprendere quel fardello, quel peso sui polmoni a rendere difficoltoso respirare; lei fra tutti avrebbe dovuto condividere lo sputo amaro con il quale Jayson Matthews le aveva bisbigliato il suo vero nome, Frederick Hamilton. Ma Lydia non poteva, capite? Perché quel nome, che avrebbe dovuto solamente risuonare di un déjà-vu del proprio marchio Baudelaire, le aveva fatto scattare un campanello d’allarme impossibile da ignorare. Le sopracciglia aggrottare, le labbra a pungere per dar forma a quell’appellativo che bruciava sul palato.
    Freddie?
    Non capiva. Non poteva capire. E ciò che non capiva, Lydia, un po’ lo odiava.
    Era quello il motivo principale per il quale mal sopportava la propria compagnia. Era quello a spingerla, borsa sotto braccio, a cercare sconosciuti bar di Londra dove far rimbalzare la sconosciuta identità di una ragazza morta: «come ti chiami?» «annie» e deglutiva, srotolando quel nome sulla lingua come un bambino avrebbe fatto con il più prelibato dei dolciumi. «annie baudelaire» ma di dolce, quel sapore, non ne aveva neanche l’accenno.
    Ancora quella risata a perforare la quiete della sua camera, sguaiata e cristallina come un campanello rotto. Serrò i denti e le dita sulla copertina blu dell’opera sui Fondatori, le palpebre serrate a cercare di racimolare un briciolo di pazienza. Ma la pazienza, Lydia Hadaway, l’aveva finita da qualche parte fra la bananamacarena, la gara a chi ce l’aveva più grosso, e la piramide umana con il vice ministro. O forse nel passionale avvinghiamento di Jayson e qualunque essere umano che a capodanno gli passasse davanti.
    Chi lo sapeva.
    Tutti.
    Decise, magnanima, di ignorare i suoi vicini di casa - d’altronde chi era lei per negare le gioie ad altri esseri umani? Ma quando questi continuarono sbattendole in faccia i loro ricordi, ridendo di memorie condivise e consumate, il primo volume volò diretto e preciso contro la parete, un tonfo sordo sul parquet logoro del Paiolo; a quello ne fece seguito un secondo, ed un terzo.
    Ed un quarto.
    Potevano solamente ringraziare che a portata di mano aveva solamente quelli e non un’arma da fuoco, perché non aveva mai pensato all’omicidio in maniera concreta quanto in quell’istante. Il silenzio che seguì la sua sfuriata, le pesò sulle palpebre abbassate come un macigno umido, la gola stretta così forte da impedirle di respirare. perché? Perché doveva sempre essere così? si trascinò fino al baule che teneva sotto al letto, dove la calligrafia elegante e sinuosa di Belladonna Baudelaire aveva tracciato il suo nome. O, perlomeno, quello che un tempo le era appartenuto: Annie. Aveva sfogliato quelle lettere fino a renderle così sottili che un alito avrebbe potuto spezzarle, aveva seguito la forma di ciascuna parola così spesso, con l’indice, da poterla trascrivere sulla nuda pelle delle gambe. Eppure, la testimonianza di ciò che (forse?) era stata, non la aiutava affatto. Non c’era nulla di diverso dal leggere le gesta di Godric o Uric Testamatta, nulla che l’aiutasse a ricordare. Non c’era Lydia, in quell’Annie Baudelaire. C’era mai stata?
    C’era ancora?
    Si strinse le ginocchia al petto cercando di schiacciare il ventre piatto contro le cosce, tentando di riempire quel vuoto che pareva spezzarla dall’interno, un grido silenzioso che vibrava in ogni costola. Non avrebbe dovuto essere così, lo sapeva. Non era vita, quella che s’intestardiva a deglutire ogni mattina sorridendosi allo specchio, una spruzzata di profumo sulla chioma ramata.
    Guardò pigramente il calendario appeso sulla parete, la guancia stretta nervosamente fra i denti. Da quando lavorava per Nate, aveva imparato molte cose sugli Special; alcune l’avevano semplicemente affascinata, meravigliandola di un mondo che aveva dimenticato di conoscere, mentre altri l’avevano allettata come un miraggio d’acqua nel deserto. Può assorbire anche un ricordo o un pensiero della persona che ha di fronte, causandogli un'amnesia. Assorbimento cinetico, come Lienne Hale. Chiaroveggenza, come Freya Gardner e Judas Ortiz. Nulla di differente dall’incantesimo Oblivion, eppure alla Hadaway pareva più… intimo, forse perché parte di ciò che erano. Al contrario dei maghi, la loro magia non era neutra: non poteva variare, divenendo offensiva o di guarigione. Loro erano la capacità di cancellare i ricordi dalla vita di qualcuno. Freya e Judas erano la possibilità di scorgerne brandelli di passato e di futuro.
    Può conoscere il passato di una persona toccandola. Capacità di viaggiare indietro nel tempo senza alcun limite.
    Elysian, Helianta, Killian. Ashley. Sospirò piano chinando il capo, il sapore ferroso del sangue ad indicarle che i denti avevano tagliato la tenera carne della guancia. Quante volte si era ripetuta di non averne bisogno? Quante volte aveva resistito, ricordandosi che non erano strumenti da utilizzare a proprio piacimento?
    Quante volte si era vergognata del suo passato, preferendo l’ignoranza alla consapevolezza?
    Non aveva mai creduto di essere nel torto, prendendo quella posizione. Anche in quel momento non riusciva a rimpiangerlo, le unghie a ticchettare ritmicamente sul pavimento. Ma poi ricordava l’ennesimo Natale in cui nessuno l’aveva aspettata per farle gli auguri, ricordava l’odio provato nell’intravedere a Capodanno il profilo di Cole ed Akelei, e quello altezzoso e bellissimo di Morrigan ad ogni lezione. E rimembrava il sorriso caldo di Bella, quella mano morbida stretta alla sua nella sincera promessa che lei, una casa, l’aveva avuta.
    E Lydia, una casa, voleva disperatamente averla.
    Si allungò pigramente sul letto recuperando il cellulare, le dita ad esitare sopra la tastiera. Chi poteva chiamare? Di chi aveva bisogno?
    Di tutto ciò che non poteva avere.
    Il cuore batteva così forsennatamente contro le costole da farle temere che si sarebbe spaccato per lo sforzo, il palmo sudato a farle scivolare lo strumento dalle mani.
    Non farlo.
    Fallo.
    Non farlo.
    Fallo.
    Non farlo.
    Scelse la via di mezzo. Digitò il numero e si portò il telefono all’orecchio, la fronte poggiata sulle ginocchia e gli occhi chiusi.
    Clic. «ufficio slash casa slash qualunque cosa tu vuoi che sia del miglior professore che Hogwarts e il Ministero potessero desiderare: il meraviglioso e… Nate, devo dirlo per forza tutto?»
    «SÌ, SOLO IN QUESTO MODO POTRAI REDIMERTI DAI TUOI ERRORI»
    Non potè trattenere un sorriso, il calore familiare delle loro voci a mozzarle il fiato in gola. Riuscì quasi a sentire sulla pelle il sospiro stanco di Jay, un brivido a smuovere i fini capelli sulla nuca. «…non so perché qualcuno dovrebbe chiamarlo» il sorriso della Hadaway si allargò, gli occhi alzati al cielo. «me lo chiedo sempre anche io» rispose in un sussurro, muovendo appena le labbra. Il silenzio che seguì quella breve informazione bastò a farle balzare i battiti sulla lingua, il sangue a defluire dalle guance. «Lydia» Non fu una domanda, quindi lei non rispose. Si morse il labbro superiore ed annuì, come se Jay, dall’altro capo della linea, potesse vederla. «nate sta… sono le cinque» Lo disse come se fosse una spiegazione. In effetti, lo era: per Nathaniel Henderson, le cinque del pomeriggio significavano , e tè significava non voglio essere interrotto. «ah… già» come se Lydia, dopo anni passati a scaldare l’acqua, potesse dimenticare le bizzarre abitudini del suo capo. «non avevo fatto caso all’ora» mentì, maledicendosi per aver chiamato.
    Voleva solo sentire una voce familiare, Lydia. Voleva solo riempire quel vuoto, anche se per poco. «scusa» «JAY, CHI È?» di sottofondo, lontano come un eco udito sott’acqua. «non hai nulla di cui scusarti» e quel tu implicito che aleggiava nella linea, pesando quanto il respiro trattenuto nei polmoni. Perché Lydia e Jay potevano anche non rendersene razionalmente conto, ma lo sentivano entrambi di essere in debito. Terribile sapere che mancava qualcosa, e non riuscire a capire di cosa si trattasse.
    Terrificante. «è lydia» rispose Jay a Nate, ma in tono così basso che dubitò Nathaniel l’avesse udito – evidentemente, lo sottovalutava. «DILLE DI VENIRE A PRENDERE IL TÈ CON NOI» Una pausa, ed in quella pausa Lydia potè quasi vedere il telecineta abbassare lo sguardo ai propri piedi, la spalla poggiata al muro. «chiede nate se vuoi venire qui a prendere il tè» la lingua a inumidire le labbra. «non credo sia una buona idea» una pausa. «HADAWAY, RICORDA CHE SONO IL TUO CAPO. QUESTO È UN ORDINE» «ignoralo» Lo faceva sempre. «se è colpa mia, posso…» ma non concluse la frase, che morì sui puntini di sospensione. «no» e non sapeva se fosse sincera o volesse semplicemente rassicurarlo. «non è colpa tua. Ho altri impegni» quella, all’incirca, era una bugia. Sentì il ragazzo prendere fiato, e prima che potesse aggiungere altro si affrettò ad aggiungere: «devo andare» Clic.
    Non sapeva neanche lei, perché avesse così paura. Immotivata, ingiustificata, priva di senso – eppure asfissiante, pesante, convulsa. Stupidi, lei e quel timore irrazionale.
    Stupidi.
    Sapeva che il problema era lei, e nessun altro. quel costante ricercare sé stessa sulle foglie opache di vita altrui l’avevano costretta ad allontanarsi da tutti, scavandosi una fossa solo ed unicamente per Lydia: nel momento in cui avesse scoperto chi era, si era ripetuta spesso, avrebbe trovato il modo per risalire. Fino a quel giorno, però, non voleva che nessuno arrivasse a conoscere un’ombra priva di nome, qualcuno che di lì a poco avrebbe potuto essere qualcun altro. Perché non sapeva cos’era stata, e non voleva perdere nessuno per le colpe di una ragazzina viziata dal portamento elegante ed un pugnale nascosto fra le margherite.
    Era giunto il momento di darsi un’opportunità.

    Più osservava il cancello di New Hovel, più rimpiangeva la propria sciatta e disordinata camera al Paiolo Magico. Indossava un paio di jeans spessi e bassi stivaletti con il tacco, una giacca grigia che le arrivava fin sopra le ginocchia ed un impeccabile sciarpa smeraldo annodata con sapienza attorno al collo. I guanti ed il cappello di lana, dello stesso colore della sciarpa, non riuscivano a mantenerla calda quanto la loro apparenza le avevano promesso, e per quanto continuasse a procrastinare il momento di varcare la soglia del quartiere degli Special, se fosse rimasta un altro po’ li fuori sarebbe andata in ipotermia. Quando sospirò, il fiato si condensò in una spessa nuvoletta bianca e minacciosa, e non aveva bisogno di guardarsi in uno specchio per sapere che la pelle delle guance e del naso s’era già arrossata.
    Sbattè le ciglia con stizza e drizzò la schiena, costringendosi a mettere un piede dinnanzi all’altro finchè non arrivò di fronte alla porta dell’appartamento dove sapeva abitasse Ashley Stewart, una sua studentessa. Difficilmente Lydia si fidava di qualcuno, vedi i motivi sopracitati, ma per qualche inspiegabile motivo, sentiva… aveva qualcosa in comune, con Ashley. Apparivano totalmente diverse l’una dall’altra, eppure era certa che, in fondo, non fossero completamente differenti.
    La memoria di un figlio perduto, ad esempio.
    Sulla soglia esitò di nuovo, il braccio piegato pronto a bussare contro il legno.
    Fallo.
    Non farlo.
    Fallo.
    Probabilmente non sarà neanche in casa.
    Lydia…
    Picchiettò tre volte, secca, contro la spessa porta di legno dell’appartamento, un’occhiata distratta e disorientata ad osservare le luci di Natale che qualche inquilino (: REB) si era dimenticato di togliere. Gonfiò il petto d’aria e di una sicurezza che non ostentava, stampandosi sulle labbra rosse un sorriso più confortante e determinato di quanto mai avrebbe potuto essere. Quando Ashley Stewart aprì la porta, l’espressione allegra di Lydia venne, per un istante infinito, sostituita da un terrore ed un bisogno così primordiali da torcerle le budella; fu così rapido che era praticamente impossibile che la cronocineta se ne fosse accorta, ma così straziante da costringere la rossa ad un colpo di tosse, il vano tentativo di liberare la gola da quel fastidioso nodo. «ciao ashley» salutò cordiale, espirando l’aria in uno sbuffo lento. «mi dispiace disturbarti, io…» si inumidì le labbra, le dita a giocare nervosamente con la borsa appesa a tracolla. «…ho bisogno di un favore» sbottò in un sussurro flebile, lasciando che la maschera si sciogliesse mostrando un briciolo del vuoto che l’ossessionava. «un grande, favore. posso entrare?»
    Ti prego, lasciami entrare.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:00
     
    .
  2.     +1    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Member
    Posts
    3,862
    Spolliciometro
    +529

    Status
    Offline
    what survives a broken heart?
    no mood can be maintained quite unaltered in the passing of the hours.
    Sheet | muggles | Cronocineta
    Quanto poteva essere noiosa una persona o per quanto tempo poteva lamentarsi della propria vita e fare la vittima?Se fosse capitato ad Ashley di avere qualcuno accanto a lei che si lamentava anche solo un decimo di quanto non lo facesse lei probabilmente lo avrebbe come minimo preso a schiaffi. Insomma doveva reagire, doveva rassegnarsi ad essere diversa, non era più una babbana, era lontana dalla sua famiglia ma era viva, doveva essere grata almeno a quello, nonostante in quel momento non fosse tutto rosa e fiori poteva ancora sentire l'aria nei polmoni, il sole – per quanto potesse splendere a Londra – riscaldarle la pelle, le orecchie erano costantemente assordate dal rumore delle macchine, delle persone che le passavano accanto, ignorando quello che poteva essere la ragazza, doveva essere felice di potersi godere ancora la vita. Ma davvero, la sua era una vita di merda e proprio non riusciva a non lamentarsi, che poi alla fine non lo faceva davvero, era solo sempre grigia come l'aria di Londra ma non andava in giro a piangere; anche se a pensarci bene , forse, presto o tardi, qualcuno si sarebbe stancato di sicuro di quel suo modo di fare, sempre acida con quel modo di rispondere male a chiunque le rivolgesse la parola. Stava per farsi terra bruciata intorno e di quel passo se fosse rimasta sola sarebbe stato quello il motivo e non poteva neanche incolpare qualcun altro era lei che allontanava le persone con quel suo caratteraccio. Non era in grado di apprezzare la vita come una volta, non riusciva a gioire quando vedeva un arcobaleno dopo la tempesta, era così spenta e una parte di lei era morta diverso tempo prima quindi a difficile essere come una volta. Chiunque fosse stato in grado di tornare alla vita prima dei laboratori era da ammirare, magari poteva chiedere Jericho, oppure a Donnie per capire come fare ad essere una persona migliore, meno rompiscatole. Ma come poteva affrontare la vita come gli altri, quando si sentiva così vuota, dentro? L'unico motivo per il quale era andata avanti fino a quel momento era stato suo figlio, e ora che non c'era più che doveva fare della sua vita? Era scappata da Judas perché non poteva tollerare di guardarlo negli occhi dopo aver sentito che suo figlio era morto, si era isolata da tutti, se ne stava nella propria stanza a New Hovel, in solitudine da settimane ormai. Ogni tanto sentiva bussare alla porta, inizialmente non apriva ma l'insistenza di Idem, ad esempio la portò a farsi almeno vedere («Tutto bene tesoro?» - «No» - « Lo sapevo, per questo ti ho portato de biscotti») Aveva represso l'istinto di chiuderle la porta in faccia ma in primo luogo non poteva davvero farlo, era Idem la persona davanti, era impossibile fare un gesto così tanto maleducato, era una personcina così adorabile, probabilmente per la mora era anche l'unica; e comunque quando lo stomaco prese a brontolare non poté che accoglierla in camera; ovviamente seguita da quell'infame di Judas («Scusa, ma sapevo che a lei avresti aperto» - « e dimmi veggente hai visto anche la tua morte?» - « si ma non avverrà oggi » - « ne sei sicuro?») Alla fine aveva accolto anche lui ed era rimasto con lei per tutta la notte mentre la mora piangeva, beveva, piangeva e beveva. Se prima era una stronza e acida, ora era il fantasma di quella persona e sicuramente sarebbe stata molto più odiosa, non appena si fosse ripresa da quel lutto. Ma era difficile, era così fottutamente difficile tutto quanto, dal respirare ad aprire gli occhi ogni giorno con la consapevolezza che suo figlio non c'era più, perché aveva ricordato, forse era meglio vivere nell'ignoranza con quella sensazione di vuoto ma non consapevole, ora non solo era vuota dentro ma il dolore la stava annientando. Il mondo faceva davvero schifo e non importava se alla fine si sarebbe ritrovata sola perché allontanava gli altri per quel suo modo di fare, che sapeva dare sui nervi a molte persone, lei stava male e avrebbe affrontato il dolore in quel modo. Fanculo gli altri. Guardò la bottiglia vicino al comodino, ormai vuota, come tutto del resto, Judas era andato in giro, forse per cercare della droga, chissà magari poteva usarne anche lei così da placare così la sofferenza che lentamente tornava a galla, ogni qual volta che lui era lontano o quando l'alcool aveva terminato l'effetto di euforia.
    Poi sentì bussare alla porta, perché Judas non usava la chiave,ormai stava lì da lei praticamente tutti i giorni e sapeva quanto lei odiasse alzarsi dal letto quando era sobria (#wat) Judas, usa la chiave che ti ho dato, dannazione disse alzandosi dal letto e trascinandosi in modo pesante verso la porta. Ad ogni passo sembrava avere dei pesi alla caviglie che le rendevano il gesto, che per le persone normali era così semplice, davvero faticoso, quasi inutile da fare alla fine. Non aveva voglia di doverlo fare ma Judas poteva aver portato le birre, così alla fine arrivò alla porta e le sembrò che fossero passate diverse ore, e meno male che era una cronocineta, a volte pensava che davvero non era in grado di usare a modo quel potere, poteva fare tantissime cose, ma alla fine non aveva mai voglia.
    Quando aprì la porta vide una figura femminile davanti a lei Non sei Judas disse soffermandosi su Lydia, un'amica? Non era chiaro, ma alla fine le persone che sopportavano la Stewart erano davvero in pochi e senza contare Idem, che amava davvero tutti, il resto si potevano contare sulle dita di una mano; quindi era certa che la rossa non era tra queste persone, ma almeno non si odiavano. A pensarci bene, una volta aveva anche visto qualcosa sul passato della donna, ma aveva ignorato di proposito, non era brava a gestire quelle situazioni, spesso evitava di toccare le persone per paura di vedere qualche scena passata, cosa le importava a lei di quello che gli altri avevano vissuto eh? Mica era una psicologa o Idem, insomma si trattava di Ashley e non era famosa per la simpatia o perché era in grado di capire le persone ed essere compassionevole. A stento si sopportava, non riusciva di certo con gli altri.
    «ciao ashley» disse la donna, Ciao Lydia disse la mora appoggiandosi alla porta e guardando la rossa che cercava di dirle qualcosa, sembrava essere serio. «mi dispiace disturbarti, io…» e poi si fermò, possibile che non trovasse le parole? Mmh, non era una veggente, ma se la rossa era così riflessiva voleva chiederle un favore. Non lo sapeva che lei era una pessima amica e aiutante? Di solito chi aveva bisogno non si recava da lei, non era la più disponibile a New Hovel. «…ho bisogno di un favore» eccolo, lo sapeva che sarebbe successo. Aveva sicuramente preso una botta in testa per chiedere alla cronocineta un favore e di quelli grandi a quanto aveva sentito. «posso entrare?»
    Ashley la guardò dalla testa ai piedi per poi voltarsi e farle quindi strada all'interno di quel “lussuoso” posto. Tolse dal letto qualche cianfrusaglia e le fece cenno di accomodarsi mentre prendeva una sedia per se stessa . Devi essere davvero molto disperata per venire a chiedere aiuto proprio a me lo sai? Non conosci nessun altro cronocineta? si fermò e prese una bottiglia di birra, fece col cenno di offrirgliela Vuoi? chiese per poi aprirne una per se stessa Non sono la persona più simpatica di questo mondo e lo sappiamo entrambe le labbra si posarono sulla bottiglia per poi sentire l'alcool scivolarle in gola, sentire il fresco era un sollievo Quindi cosa vuoi, Lydia? disse per poi guardarla negli occhi. Era curiosa, chissà magari aiutare la rossa le sarebbe servito per affrontare meglio il lutto.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
    .
  3.     +1    
     
    .
    Avatar

    lost in the echo

    Group
    Death Eater
    Posts
    631
    Spolliciometro
    +594

    Status
    Offline
    i don't know what i don't know
    i feel like a ghost in my own life -- wtf | 20 y.o. | deatheater | 20.01.17, 18:00
    Come inizio, malgrado non fosse dei migliori, avrebbe potuto definirlo discreto. Nella sua breve nuova vita, Lydia aveva avuto approcci più traumatici rispetto a quello con Ashley Stewart, ma l’esserne cosciente non rendeva più facile la sua presenza in quel luogo, né alleggeriva il peso che sentiva pesarle sullo sterno. Di suo, la Hadaway non era particolarmente incline alle conversazioni, né alle persone in linea generale; non le era mai accaduto di accettare di aver bisogno di qualcuno, ed il sorriso forzato con il quale osservò la giovane cronocineta, avrebbe dovuto essere abbastanza esplicativo da sé. Era ovvio che Lydia Hadaway non volesse realmente essere lì. Palese, che non volesse realmente la sua vita. Eppure, ne aveva una necessità viscerale – di essere lì, di avere la sua vita. Aveva smesso di diventare un suo problema, e quindi accantonato dalla rossa come gestibile, quando aveva iniziato ad intaccare il suo rapporto con gli altri, fosse Nathaniel, fosse Jayson. Si sentiva incastrata in una scatola troppo piccola, incapace di contenerla; una scatola della quale non solo non vedeva via d’uscita, ma non aveva alcuna idea di come, in primo luogo, ci fosse finita.
    Un nuovo livello di disagio.
    Ogni secondo passato sull’uscio dell’appartamento di New Hovel della mora, ogni respiro a condensarsi sulle labbra rosse, perdeva il briciolo d’intraprendente coraggio che l’aveva spinta a compiere quella scelta. Estrema, ma necessaria. Non avrebbe voluto, Lydia: non chiedere aiuto ad Ash, non spingersi a ricercare sé stessa grazie al potere degli altri. Si era testardamente convinta di non aver bisogno di Annie Baudelaire, che non aveva alcun senso cercare di capire chi ella fosse stata, ma era sempre stata una menzogna. Un inganno, un illusione nella quale s’era avvolta per timore di sapere chi Lydia fosse destinata ad essere. E se, chi era stata, non le fosse piaciuto? E se fosse stata una ragazzina terribile, e per quello nessun membro della sua famiglia la era mai andata a cercare? Voleva credere di non aver nulla a che spartire con quell’altisonante cognome francese ormai impresso nella sua fragile memoria.
    Ma lo sapeva, che non era vero.
    E che ne aveva necessità, come un cucciolo che imparasse a volare, di essere cosciente delle proprie origini. Anche solo per lasciarle andare, liberandosene come di una pelle vecchia e consumata. Aveva bisogno di sapere cosa aveva dimenticato, se voleva andare avanti. Lydia Hadaway doveva, andare avanti.
    Non era più una scelta – non lo era mai stata, non realmente.
    Mantenne il sorriso educato e gentile anche quando le iridi smeraldo andarono a scontrarsi contro il cipiglio annoiato, e nient’affatto impressionato, di Ashley. Sapeva che, come lei, non era propriamente portata al contatto umano – ed era certa, vedendola sulla soglia della porta, che non stesse passando un buon periodo. Fu tentata di mentire, dire che era passata solamente per assicurarsi che stesse bene, chiederle lo zucchero; fu tentata di scendere i gradini che l’avrebbero riportata in strada, e come se nulla fosse accaduto, ritornare alla piccola stanza al Paiolo Magico, dove il consueto nulla l’attendeva per impedirle di dormire. Il fatto che non lo fece, non fu da imputare a coraggio, quanto più ad una stanchezza così articolata e complessa da non avere parole per essere espressa. Stanca in un modo che non avrebbe dovuto essere umano, e che dell’uomo aveva tutto. Sentiva il proprio cuore schiacciarsi fastidiosamente dietro le costole, un pesante e rapido pulsare sulla punta della lingua. Per un istante, che nella mente della Hadaway parve durare almeno un paio d’ore, temette che le avrebbe detto di no: no, non poteva entrare. No, non poteva aiutarla. Così, per placare quella (razionale) paura, si umettò le labbra ed ampliò il proprio sorriso, sforzandosi di mascherare la scintilla disperata nello sguardo con una piega fiduciosa della bocca. Le ragazze, al giorno d’oggi, imparavano a mentire in fretta. Quando infine le fece cenno di entrare, si trattenne a stento dal dar forma al sospiro che le premeva sul palato – ma il sollievo fu tale da darle le vertigini. Annuì alle spalle della Stewart, seguendola all'interno dell’appartamento senza neanche preoccuparsi di guardarlo; a malapena si accorse del fatto che la babbana si fosse data l’adito di togliere di mezzo alcuni oggetti ingombranti, un gesto del quale si rese conto solamente perché straordinariamente gentile, da parte di una ragazza come Ashley. Intrecciò le dita fra loro prendendo posto sul divano al centro della stanza, il capo chino a cercare di nascondere l’agitazione nelle iridi bosco – fallendo miseramente, come prevedibile. Non che ci fosse poi molto da celare, dopo la disperata richiesta di aiuto con la quale era esordita poco prima. «Devi essere davvero molto disperata per venire a chiedere aiuto proprio a me lo sai? Non conosci nessun altro cronocineta?» Non immaginava neanche quanto. Un risolino nervoso minacciò di scuoterle le spalle in maniera isterica e vagamente folle, impaziente quasi quanto il grido che premeva d’uscire titillandole le corde vocali. Si schiarì invece la voce ruotando lo sguardo su Ashley, le sopracciglia inarcate ed una linea maliziosa sulle labbra. «sì» rispose alla seconda domanda, ignorando il primo interrogativo che (sperava?) aveva interpretato come retorico. Era l’assistente dell’insegnante di controllo di poteri, conosceva ogni cronocineta e su ciascuno di loro aveva un fascicolo – puramente didattico, chiaramente; didattico, e con le ship che Nathaniel aveva deciso per loro, in caso Lydia non fosse stata aggiornata. Helianta, Elysian, Killian – perfino Heidrun, avrebbe potuto essere inclusa nella lista.
    Ma non era così semplice, quando mai lo era? Tossì ancora portandosi la mano alla bocca, agitandosi nervosamente sul divano. «sì, ci sono altri cronocineti, però…» aggrottò le sopracciglia, cercando un modo per esprimersi che non suonasse privo di tatto. «non li conosco» si giustificò invece, tornando ad abbassare lo sguardo sui propri piedi. Non poteva vantare di conoscere Ashley, certo, ma sempre più di quanto non conoscesse gli altri. Non si fidava, degli altri. «con questo non voglio obbligarti ad aiutarmi: se non ti andrà, proverò con qualcun altro» ma si trattava di una bugia, e lo strategico modo con il quale evitò di guardarla, bastò a chiarirlo. Se avesse ricevuto un secco rifiuto dalla Stewart, non avrebbe avuto più alcun coraggio con il quale presentarsi alle porte altrui, sobbarcandosi il proprio problema da un appartamento all’altro. Non era così impavida, o indipendente. «Vuoi?» Osservò la bottiglia di birra fra le mani della ragazza, quindi scosse il capo. Dopo tutte le assurdità vissute nel mondo magico, aveva appreso di non accettare bevande a meno che non fosse stata più che certa della loro provenienza. «no, grazie» le sorrise, torturandosi le dita fra loro. «non bevo» si giustificò, temendo che potesse interpretare il rifiuto come una mancanza di rispetto – e voi direte, che pensiero stupido! ma oh, le persone erano strane, e la Hadaway sapeva aspettarsi di tutto, oramai. «Non sono la persona più simpatica di questo mondo e lo sappiamo entrambe» Niente preamboli, subito al punto.
    Proprio un Ashley Stewart. Proprio ciò di cui aveva bisogno. Strinse le labbra fra loro, senza negare né confermare l’affermazione della cronocineta – decisamente vera, ma non vedeva motivo d’infilare il dito nella piaga. «Quindi cosa vuoi, Lydia?»
    Voleva tante cose, Lydia. Voleva un futuro, un passato, un presente. Voleva certezza, voleva ricordi – e soprattutto, voleva essere in grado di farsene di nuovi. Voleva un’altra possibilità, e sempre la stessa. Voleva conoscere Annie – il desiderio capriccioso, tenace e pericoloso di un bambino che volesse conoscere i propri genitori biologici, pur sapendo ch’essi l’avevano abbandonato.
    Come già detto, Ashley non poteva immaginare, quanto Lydia fosse disperata.
    «ho perso la memoria» iniziò diretta, la Hadaway. Come Ashley, balzò dritta al punto, sperando che la fine di quella storia (sempre che potesse essere definita tale) attirasse la sua attenzione abbastanza da convincerla a darle una mano. Grattò, con le corte unghie ben curate, le pellicine sui polpastrelli; con il capo chino, ed un sorriso triste, Lydia continuò a parlare. «tre anni fa, mi sono svegliata in un posto che non conoscevo, senza avere alcuna idea di chi fossi» si strinse nelle spalle, minimizzando il suo dramma esistenziale con una scrollatina. «tabula rasa, completamente: anche lydia, non è il mio vero nome» reclinò il capo all’indietro, cercando nel soffitto dell’appartamento risposte a domande che non aveva neanche il coraggio di porsi. «l’anno scorso ho scoperto … chi dovrei essere» strinse il labbro inferiore fra i denti, soffocando un sorriso amaro e spezzato. «annie baudelaire» dirlo ad alta voce, le causava sempre i brividi. Si abbracciò il petto, le dita ad affondare nelle morbide curve dei fianchi.
    Annie Baudelaire.
    «pensavo che saperlo sarebbe bastato a … farmi ricordare, ma non è così. Non la conosco, e io…» deglutì, spostando infine l’attenzione sulla cronocineta. Non voleva che capisse, né che mostrasse compassione nei suoi confronti. Non voleva essere ritenuta una sciocca, una vigliacca, o essere giudicata. Non voleva. «non sapevo a chi altro chiedere» concluse, lasciando in sospeso la frase precedente. Ciò che sapeva di Annie, era ciò che Belladonna le aveva detto a riguardo – e le lettere, storie di un’altra vita su filigrana delicata e lussuosa. Troppo poco, troppo niente. A quanto pareva, solamente Annie Baudelaire conosceva Annie Baudelaire.
    Senza contare che Annie era sparita per un anno. Un intero anno di oblio che Bella non era stata in grado di riempire, e di cui Lydia non si era mai azzardata a domandare a suo frat- Cole.
    Non voleva davvero ricordare, tornare la francese ch’era stata: voleva solamente saperne un po’ di più. «tu puoi vederlo, ashley,» continuando a mordicchiarsi la guancia, costrinse le labbra a piegarsi in un sorriso – uno di quelli un po’ arresi, fatti di pesanti brandelli. «ma puoi scegliere di non farlo, non te ne farò una colpa» l’avrebbe capito, davvero.
    Forse, vigliaccamente, un po' ci sperava.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
    .
  4.     +1    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Member
    Posts
    3,862
    Spolliciometro
    +529

    Status
    Offline
    what survives a broken heart?
    no mood can be maintained quite unaltered in the passing of the hours.
    Sheet | muggles | Cronocineta
    La ragazza guardò la rossa che cercava di esprimersi, quasi sembrava che provasse ad essere una persona normale. Parliamoci chiaro, Ashley non giudicava nessuno visto che lei per prima era una persona profondamente instabile, ma questo non toglieva lo stupore nel vedere Lydia timida, la preferiva schietta e diretta. Non doveva farsi certi problemi con lei, insomma era la Stewart l'interlocutrice, era decisamente più acida quando comunicava con gli altri, spesso neanche si preoccupava di quello che poteva scaturire in loro con quel suo atteggiamento da stronza. Non aveva paura di rimanere da sola, in fondo già lo era stata e prevedeva un'infinità di solitudine per lei.
    «sì, ci sono altri cronocineti, però…non li conosco» disse scaturendo una leggera risata nella mora, neanche lei ci credeva in quello che stava dicendo, era così ovvio che non si conoscevano davvero le due ragazze; avevano entrambe un carattere particolare e riguardo ad Ashley era difficile starle vicina, lei non permetteva nessuno di starle accanto, anche se c'era qualche eccezione lei si definiva un lupo solitario e le piaceva anche esserlo, visto che il mondo secondo lei faceva schifo. Devo essermi persa le serate a bere insieme disse sarcastica, non voleva essere offensiva ma visto il suo stato mentale al momento tutto era possibile. Ah, non scherziamo lo avrebbe detto anche se fosse stata emotivamente stabile.
    «con questo non voglio obbligarti ad aiutarmi: se non ti andrà, proverò con qualcun altro» beh quello era ovvio, quasi sicuramente non aveva le capacità per poterla aiutare, per non parlare che non ne aveva voglia. Come non desiderava molto vivere in quel momento e non aveva neanche così tanto il bisogno di distrarsi da quella mainagioia, stava bene grazie all'alcool. Bastava.
    «ho perso la memoria» ma quello lo sapevano tutti no? La guardò confusa, cercando di capire dove voleva arrivare la rossa, ma una piccola idea se la stava facendo. Mentre le parlava da una parte comprendeva quello che Lydia stava provando, non nello stesso modo, perché non aveva mai davvero perso completamente la memoria ma le era stata strappata via qualcosa d'importante nella sua vita. Aveva ignorato di avere un figlio per quasi un anno, non aveva idea di quale aspetto avesse, era certa che fosse un maschio ma non ne aveva la certezza, aveva ancora oggi un vago ricordo del parto, i dottori avevano davvero fatto un bel lavoro con lei, cancellandole la memoria e manipolare la realtà a pro loro. Se avesse avuto almeno una foto, se solo....magari non sarebbe neanche morto ( o magari è vivo, forse cambierò questa realtà per farla tornare con Barrow che qui mi sto confondendo di brutto. Massona amami nella confusione).
    «l’anno scorso ho scoperto … chi dovrei essere..annie baudelaire» sembrava turbata, non era sollevata dalla scoperta, addirittura era più angosciata, non sembrava assolutamente una persona che aveva ricordato davvero tutto della sua vita ma qualcuno che a stento sapeva il proprio nome. Comprendeva sempre di più il motivo della sua presenza in casa.
    «pensavo che saperlo sarebbe bastato a … farmi ricordare, ma non è così. Non la conosco, e io…» appunto, altro che cronocineta lei era una medium, aveva un sesto senso per certe cose o magari le player si sono messe d'accordo . Posò la bottiglia della birra, ormai finita, a terra e guardò la rossa, che mettendo in un angolo l'orgoglio le stava praticamente chiedendo aiuto. Ora, lei aveva due possibilità: mandarla al diavolo, lei aveva i suoi demoni da affrontare perché doveva mettersi addosso anche il peso degli altri? Odiava entrare nelle vite degli altri, magari se glielo avesse chiesto prima di tutto quello, avrebbe accettato immediatamente, perché anche se è difficile da credere non era sempre stata acida, era stata solare e con la voglia di vivere, a volte era anche fin troppo invadente nella vita delle amiche, ma la amavano per quello. Ma era tutto diverso, quando toccava gli altri molto spesso vedeva qualcosa riguarda la loro vita e cazzo se tutti avevano una vita di merda. Non aveva voglia. E poi c'era la seconda opzione, ma davvero doveva? Si alzò, barcollando leggermente, maledetto alcool, forse era diventata un'alcolizzata. Ma un problema alla volta, doveva capire se davvero accettare la proposta della rossa.
    In un primo momento pensò di declinare, andiamo era uno straccio perché doveva farsi aiutare da una come Ashley? Manco si reggeva in piedi. Ma perché doveva lasciarla al suo destino? Andiamo, dove era finita la solidarietà femminile. E poi che altro doveva fare la Stewart oltre a crogiolarsi nel dolore aspettando che Judas tornasse con le birre? La risposta è un bel niente, magari aiutare Lydia l'avrebbe anche distratta e sarebbe riuscita a mettere in un angolo il proprio dolore. Poteva spegnere per un secondo la sofferenza e aiutare qualcuno a tornare a vivere.
    Inspirò, sentendo l'aria viziata della stanza riempirle i polmoni, ma come diavolo viveva, davvero? Si guardò intorno, quella casa era uno schifo. Ora,lei non era una persona che ci teneva all'ordine ma insomma quella stanza era davvero disgustosa; decise di aprire la finestra per poi tornare a guardare la Baudliaire che era rimasta in attesa della sua decisione. Era proprio disperata per non aver commentato il suo stile di vita del momento, le sorrise debolmente o magari era solo un ghigno non era ben chiaro, a volte dimenticava come si facesse a sorridere agli altri, ma lo sapeva fare ancora? Chissà se era come imparare ad andare in bicicletta, una volta che si sapeva come pedalare in teoria non si dimenticava. Si avvicinò a Lydia e le parò la mano come per stringerla e suggellare il patto che stava per arrivare Ok, Ti aiuterò. perché doveva fare giri di parole, non era mai stata in grado di fare discorsi troppo impegnativi o peggio, fare un gran discorso, insomma l'avrebbe aiutata bastava dirle quello. ma non ti garantisco la riuscita. Non l'ho mai fatto. Proviamoci disse poi, doveva essere sincera, non era una brava persona e tanto meno una brava cronocineta. Ma poteva provarci ecco.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
    .
  5.     +2    
     
    .
    Avatar

    lost in the echo

    Group
    Death Eater
    Posts
    631
    Spolliciometro
    +594

    Status
    Offline
    i don't know what i don't know
    i feel like a ghost in my own life -- wtf | 20 y.o. | deatheater | 20.01.17, 18:00
    Annie Baudelaire non si sarebbe mai abbassata a tanto. Cresciuta fra arroganza ed orgoglio, non avrebbe mai ingerito la propria dignità per curvare le labbra rosse in quel sorriso forzato, in quel sospiro sollevato: era cresciuta sola, la francese, e le era stato insegnato che così avrebbe dovuto continuare. Non aveva bisogno d’altri, Annie – erano gli altri ad aver bisogno di una Baudelaire. Ma Lydia? Aveva imparato che si andava avanti a compromessi, che da sola a malapena esisteva. Il bruciore che sentiva alla bocca dello stomaco non era dovuto alla masticata presunzione di un sangue antico e mai dimenticato, ma dall’aver disturbato una ragazza che a malapena conosceva. Aveva un’indole gentile, Lydia. Non amava chiedere aiuto perché rispettava l’altrui tempo libero, e non voleva usufruirne per sé stessa: non voleva usare le persone, la Hadaway.
    Annie l’aveva fatto così a lungo, da consumare anche sé stessa.
    Allungò il braccio per stringere la mano della cronocineta, il peso di quel a vibrare nella presa con cui avvolse le dita sottili, ma indubbiamente forti, di lei. «ma non ti garantisco la riuscita. Non l'ho mai fatto. Proviamoci» Non aveva bisogno d’altro, Lydia. Le bastava che Ashley ci provasse, che lei stessa ci provasse - troppo codarda per sperare davvero nella riuscita di quell’impresa. Tanto diceva, la rossa, quanto poco pensava: mettere insieme i pezzi della sua vita non era affatto una liberazione, era semplicemente la cosa giusta da fare. L’unica della quale necessitasse per andare avanti, chiudere la maledetta porta e darsi la libertà, finalmente, di prendere una boccata d’aria pulita.
    Doveva conoscere per dare una fine a quel che era stata, non per tornarlo.
    Quello mai.
    «grazie» sussurrò, stringendo ancora la bocca nell’ombra di un sorriso di gratitudine. Ignorò la stretta alla gola, il pesante battito sulla lingua. Ignorò il sudore freddo che iniziava ad imperlarle la fronte. Era migliore, di così. Si doveva quelle risposte, Lydia.
    Che le piacesse o meno.
    Intrecciò le dita fra loro e lasciò uscire un respiro di puro malessere dalle labbra dischiuse, il capo nuovamente chinato verso la punta dei propri piedi. In linea teorica sapeva, ovviamente, come funzionava il potere della Stewart… Il fatto era che non l’aveva mai provato sulla propria pelle, e non era certa di quale sarebbero state le conseguenze. Non sapeva quali porte fossero state sigillate con l’incanto oblivion, né il perché: cosa c’era di così terribile nella sua testa da giustificare una tale pulizia etnica? Cosa sapeva, Lydia, che non avrebbe dovuto sapere? Sperava nulla, perché altrimenti avrebbe messo in pericolo anche la cronocineta. Sperava che fra i ricordi smarriti ci fossero semplicemente i segreti di Cole – un paio di mutande variopinte, una bambola gonfiabile a forma d’anatra, quel genere lì. Avrebbe volentieri chiesto a suo fratello cosa l’avesse spinto a cancellarle la memoria, ma a) sara non ricorda se lo sa non voleva parlarci b) non ci avrebbe parlato. Fine dei motivi – stupidi, ma sinceri. «solo un’occhiata» bisbigliò rapida, prima che Ash poggiasse le mani sulle sue spalle. Non voleva un resoconto perfetto della sua vecchia esistenza – le sarebbe parso strano vedersi con indosso i panni di una ragazza che non le apparteneva più -, voleva solo…
    Chiuse gli occhi.

    «cooooooooooooooooole» una bambina trascinava i piedi sul perlaceo pavimento di marmo, le dita a scivolare sul broccato dorato delle tende. «coooooooooooooooooooooooole?» l’eco risuonava sulle pareti della magione francese, tornando distorto alle orecchie di Annie.
    E di Lydia.
    La poltrona sul quale s’era seduta a New Hovel era ancora con lei, così come le mani di Ash sulle proprie spalle. Deglutì e sollevò gli occhi sulla ragazza, fallendo nel nascondere il terrore nei grandi occhi verdi. Qualcosa le premeva sul cuore, grattando una coscienza che desiderava solo d’essere messa a tacere.
    Prima che potesse dire alcunchè, una donna apparve in fondo al corridoio. «cole non c’è. torna in camera, annie. Le signorine non alzano la voce» Le signorine non facevano un sacco di cose. Lydia, amara, sorrise suo malgrado. «ma mamm-» «non mi interessa, e non è un problema mio. Vai. torna quando saprai comportarti a modo»
    «più avanti» sussurrò roca alla cronocineta, serrando le palpebre sulle immagini opalescenti di quella casa, di quella vita. Di quella Annie dai capelli biondi e gli occhi pieni di lacrime.
    Anche Lydia deglutì lacrime.

    «èmeric è morto» una pausa. L’adolescente seduta sul suo letto non diede segno di averla udita – la schiena dritta, lo sguardo vacuo. «spero che questo basti a far cessare questo stupido-» Ophelia strappò una lettera color lavanda, ed Annie ebbe un fremito. «-e superfluo scambio epistolare, ora che tuo padre non può più risponderti» Le sorrise, la donna. Annie si limitò a ruotare la testa verso la finestra. «è tutto, madre?» Lydia non ricordava la Baudelaire, ma non aveva bisogno di ricordare, per leggere la posa della ragazza, o per interpretare il suono asciutto della voce.
    O per sapere che in cuor suo pregava fosse stata la madre, a morire. «il funerale c’è già stato»
    O per sapere che quell’affermazione le spezzò il cuore.
    «più avanti» supplicò, sollevando le mani per poggiarle meccanicamente su quelle della Stewart.
    Non voleva vedere – non voleva sapere.
    Doveva vedere – doveva sapere.

    L’ambiente le parve assurdamente familiare. Non familiare dell’esserci già stata, ma familiare di quel calore confortante che solamente casa sapeva dare – ed un senso di sbagliato a torcerle le budella, a farle dolere le braccia rinfrescando cicatrici ormai antiche: perché si trovavano in una cella.
    Inspirò l’aria dalle narici.
    Udì la voce, prima di vederla. Una cantilena lenta - una ninna nanna francese, si rispose – e dolente, bagnata di lacrime e follia. Neanche si riconobbe, Lydia: fu il cuore a parlare per lei.
    «andremo via di qui» un sussurro strascicato e piegato. La ragazza accartocciata nell’angolo della prigione non aveva nulla di Annie, ma aveva le braccia segnate di Lydia; i capelli un’opaca macchia incolore, la pelle grigia, il respiro scostante. «non lascerò che vi portino via» rauca, in quella preghiera vuota. Annie stringeva le mani sul ventre – un ventre che di piatto, in quell’occhiata che Lydia vi rivolse, non aveva nulla. Una pancia gonfia, sotto dita sottili come carta velina.
    La Hadaway smise di respirare.
    «non è-»
    Possibile.

    Si alzò in piedi così rapidamente che l’appartamento di New Hovel parve vorticare, un senso di nausea a risucchiarle le viscere in un pugno di ferro. Si rannicchiò a terra, i piedi sul pavimento e la testa fra le ginocchia, senza avere coraggio di guardare la giovane cronocineta.
    Si costrinse a respirare. Si costrinse ad esistere, mentre l’emicrania andava spandendosi dietro gli occhi chiusi ed il sangue le impregnava le papille gustative. «scusa» fu la prima cosa che disse, soffocandola sulla pelle. Una risata ironica premette sulla lingua, e la rossa la mise a tacere con i denti: davvero la prima cosa a cui aveva pensato era stata di chiedere scusa?
    E davvero quella richiesta di perdono fu per Ashley?
    No. Chiese scusa ad Annie, Lydia. Chiese scusa a Lydia, Lydia.
    Perché non aveva alcun senso, ed il senso era l’unica cosa del quale avesse avuto bisogno. «non è possibile» ed allora un poco si volse verso la ragazza ancora in piedi al centro della stanza, un sorriso incredulo a sporcarle le perfette labbra rosse. «evidentemente hanno fatto qualcosa alla mia testa, quando hanno cancellato tutto. qualcosa non va – non è colpa tua, figurati. Grazie ancora di averci provato, sei stata bravissima, eh. Lo dirò a nate. perché non è possibile, giusto? Cioè, insomma – cos’abbiamo visto? No, cioè -» ed ancora rise, rasentando questa volta un briciolo d’insana follia.
    Forse pazza lo era davvero.
    Quand’era nervosa, la timida Hadaway, diventava improvvisamente loquace: non l’avreste mai detto, mh? «è impossibile. Inimmaginabile. Forse era freya – sì, era sicuramente freya. A parte che – davvero, cos’abbiamo visto?» e stavolta fu una domanda sincera, una muta supplica mentre ruotava gli occhi chiari su Ashley. Un poco disperata, in quel sorriso falso quanto un cielo privo di stelle. «ci dev’essere un errore» in me. «non è possibile, giusto?» e fu un sussurro quello di Lydia, le sopracciglia corrugate e le mani a premere istintivamente sul ventre.
    Non poteva, essere possible.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
    .
4 replies since 14/1/2017, 02:45   423 views
  Share  
.
Top