who got the dogs high?

festino a casa reb

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  1. crossƒire
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    25 yo | muggle | pyrokinesis
    drug dealer
    Jon Winston
    do you feel like a young god?
    Vista la natura del suo lavoro, Jonathan Winston non era di certo estraneo ai festini. Insomma, se procuravi droga a prezzi scontati... era ovvio che ti invitassero, lo si poteva quasi definire un dovere da parte degli organizzatori. Questa volta però, si trattava addirittura di persone che conosceva e che non avevano invitato troppe persone. Almeno credeva? Primo fra tutti, Gemes Hamilton. Il suo socio/psicopatico preferito, praticamente magonò come lui, che in realtà amava follemente lui ed i suoi cani, doveva solo farglielo ammettere, prima o poi. Forse quella sarebbe veramente stata l'occasione giusta, con alcool e droga annessi. Gli avrebbe fatto registrare un messaggio, un simil "giuro solennemente di non ferire mai i tuoi cani altrimenti dovrò fare... qualcosa". Ok, doveva ancora lavorarci su. Però ce l'avrebbe fatta, non vi era alcun motivo di preoccuparsi. Poi le effettive persone che vivevano in quell'appartamento di New Hovel, luogo in cui forse avrebbe dovuto vivere pure lui, ma era acab e registrarsi non gli piaceva. Prima di tutte (sì, al femminile. #skseuge), Jade Beech. Dottoressa nel laboratorio dove era andato volontario per ottenere dei poteri ed abbastanza simpatica e gnocca #skseuge pt2. Non la vedeva da un bel po', ma era il cocco dei professori versione laboratorio, in fondo non capitavano spesso molti pazzi volontari. Heidrun Crane, poi, parte del gruppo di persona rapite ed una dei tanti Jesoo insieme al suo stesso cugino. Infine Eugene Jackson e la domanda principale: che cazzo ci faceva un mago a New Hovel? Aiutava a creare un nome fighissimo per un campanello. run eu beech... Li amava già. Sapeva di altri invitati, qualcosa come ex capocasata o robe simili, ma al momento non li conosceva ancora. Certo, aveva sentito da Mitchell un cognome, di sole quattro lettere: "Holt" Si limitò a dare un colpo alla porta per aprirla e, se non avesse funzionato o se qualcuno non gli avesse aperto... i reb avrebbero dovuto dire addio alla loro serratura, perché l'avrebbe sciolta. Troppo #sbatti bussare. I cani, ovviamente tutti senza guinzaglio, vennero lasciati entrare e lo fecero con foga, uno dopo l'altro, gettandosi addosso a tutti i presenti. In contemporanea a quel flusso di corpi a quattro zampe, Jonathan alzò una busta a dir poco gigantesca di polvere bianca e agitò il braccio per mostrarla. «COCAINEEE!!!» Esclamò convinto, per poi tentare di lanciarla addosso a Run. Da dietro la schiena, finì per estrarne un altro, che appoggiò sulla prima superficie che trovò lì davanti. Chiariamo che era ad un'altezza decisamente troppo bassa perché qualsiasi animale presente nella casa potesse non arrivarci. Per lui, certamente, non sarebbe stata la prima volta in cui un suo cane avrebbe finito per drogarsi, era una controindicazione del mestiere. «Spero non vi dispiacciano i cani, perché sono in un pacchetto unico con la TROCAH.» Aveva altro dietro, ovviamente, ma per il momento la polverina magica di Pollon poteva andare benissimo da sola. Saltellò per la casa, cercando di raggiungere Gemes. In teoria, visto ciò che aveva detto Lancaster riguardo al rituale, doveva essere cambiato, quindi... Lui ci sperava sempre. Aprì le braccia, un sorriso gigante sul volto. «BROOOOO» Esclamò, alzando un sopracciglio in sua direzione, in attesa. Chissà se lo sguardo omicida e quel «Non ci provare.» che aveva sentito fossero reali o frutto della droga già presa. Eppure lui si avvicinò, tentando di stringere il telecineta in uno strettissimo abbraccio. «Shhhh, lasciati andare alla forza dell'ammmore.» Ah, avevamo già precisato che era fatto come un cocco? Gli occhi rossi potevano solamente confermarlo. Se l'altro non si fosse già spostato, gli avrebbe preso la faccia tra le mani per qualche istante, annuendo solennemente. Poi si guardò intorno, un'ultima realizzazione che lo colpì. «Ma io mi sono già presentato? Sì, no? SONO JON, yo, sempre disponibile per tutte le migliori materie prime.» Con quell'ultima frase, fece un occhiolino in direzione di Heidrun. Sembrava abbastanza interessata alla droga, ammettiamolo. In più, sembrava felice della presenza dei suoi cani, il che era STUPENDO.

    Si lasciò cadere sulla prima superficie morbida (fattibile che si trattasse di un tappeto invece che un divano, una sedia, o qualcosa di socialmente accettabile), voltandosi verso la porta. «Uh, chi è che deve arrivare? Ed è vero che avete un tricheco?» Come gli era arrivata la notizia di TJade? Durante una conversazione (leggasi "interrogatorio") con Gemes. Un sorriso da ebete sul volto, senza rendersi conto che, mentre parlava, stava un po' sputacchiando da tutte le parti, ma sia chiaro che i cani erano felicissimi di pulire pavimenti e mobili sleccuciandoli tutti e no, non facevano pipì in giro per marcare il territorio... non da sobri, perlomeno. «Ma voi le sapete fare le ombre cinesi a forma di pene?» L'ultima domanda che rivolse in loro direzione, provando a formare una chissà quale forma con la mano. Un peccato che non vi fosse alcuna fonte di luce a fare un'ombra decente. #MaiNaGioia. Si lasciò cadere, rotolando leggermente per terra. «Vi amo già tutti. Avete dell'alcool? Qualcuno vuole mica paccare?» ...Insomma: ringraziate che non si è portato dietro pure delle tarantole.
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    18.11.16
    «potreste sentirvi disorientati per un po’, dovrete… abituarvi nuovamente a voi stessi.»


    Odorava ancora di sale, Heidrun. Malgrado la pioggia, poteva ancora sentire il sole caldo della Florida sfrigolarle sulla pelle, spolverando la pelle di una nota dorata. Il sapore dell’estate sulla lingua, e le onde a schiantarsi sulla battigia negli occhi – che il verde parevano averlo dimenticato, pagliuzze ambrate nelle iridi cupe. Una borsa a tracolla, l’asciugamano buttato distrattamente sulla spalla, pareva una turista capitata per caso nel cuore della Londra magica – e perché, Run, si trovava lì? Figurarsi se dopo tutti quei mesi, tutti quei mesi, non accompagnava Jeremy e Todd nuovamente a scuola. Almeno quello. «te ne andrai di nuovo?» almeno sempre. Non aveva certezze, la Crane, ed aveva abilmente evitato di replicare alla domanda curvando le labbra in un sorriso sghembo. «sto cercando di migliorare» che una risposta, a dire il vero, non la era.
    Ed eccola lì, dopo una serata passata a riprendere piede sulle strade acciottolate della civiltà, di fronte ad una porta dolorosamente familiare. Una sigaretta spenta e bagnata fra i denti, il cappuccio calato sulla fronte. Perché? Perché non poteva, per una volta, essere fottutamente normale? Entrare senza bussare, stringersi nelle spalle, accettare gli abbracci e gli insulti di Jade – e le domande, a cui avrebbe necessariamente dovuto rispondere. Giustificarsi, avere modo di spiegare; lo doveva a entrambi, anzi, a tutti e tre. Era casa sua; i rumori che riusciva a percepire attraverso le pareti sottili, erano quelli che per mesi l’avevano accompagnata in ogni momento della giornata. Avrebbe dovuto sentirsi meglio anche solo ad essere lì, fra le decine di appartamenti di New Hovel, di fronte al proprio civico.
    Ma Heidrun Ryder Crane non funzionava come il resto delle persone; e si sentiva soffocare, i polmoni pieni d’acqua intangibile, la gola stretta ad ogni respiro. Salì i pochi gradini con passi cauti, silenziosa come l’arma che l’avevano addestrata a divenire. Controlla il battito. Si portò due dita al polso, gli occhi chiusi e la bocca secca: respira, buon Dio. respira.
    Era tutto così sbagliato. Si sentiva così sbagliata – più del solito, più di sempre. Non era giusto, capite? Non aveva alcun senso, non era naturale: ciò che moriva doveva rimanere morto, era una fottuta legge. Quando guardi a lungo nell'abisso, l'abisso ti guarda dentro, diceva Nietzsche; Heidrun l’aveva sempre trovata una frase pomposa, da suggerire nel buio di una notte priva di stelle con un sopracciglio ironicamente inarcato – una di quelle metafore che lasciavano sempre un sapore agrodolce sulla punta della lingua, ma che quello erano: metafore. Neanche aveva mai sospettato, la mimetica, che potesse avere un senso letterale.
    Ma lei se lo sentiva addosso, l’inferno. Se lo sentiva sulla pelle, se lo sentiva nella bocca, nello sguardo; le era rimasto appiccicato come una seconda epidermide, spine conficcate in ogni vena che causavano un dolore sordo ogni volta che chiudeva le palpebre. Faceva fatica a respirare, Run; faceva fatica a dormire, a mangiare. Deglutì e riaprì gli occhi, cadendo nella quiete apatica che quella notte meritava. Si avvicinò alla finestra illuminata, segno che i suoi inquilini erano a casa e svegli; le bastò sporgersi con un occhio per osservarli, spettatrice di una vita che credeva di aver dimenticato. In cinque mesi, era cambiato tutto.
    In cinque mesi, era cambiata lei.
    Così rimase lì, la schiena poggiata contro il legno e le braccia strette al petto, immobile ad osservarli: Jade aveva le sopracciglia esageratamente aggrottate, il che significava che Euge aveva detto qualcosa di incredibilmente idiota e lei stava cercando di non riderne per la pura soddisfazione di non dargli ragione; Run alzò gli occhi al cielo soffocando un sospiro, sapendo perfettamente come si sarebbe concluso il teatrino. Eppure rimase comunque a guardare, un lieve sorriso fra le labbra, mentre il Pavor cercava di afferrare la Beech dalla vita, lei gli smollava una gomitata nelle costole, e poi si sedeva comunque sulle gambe di lui: perché era fatta così, Jade. Le veniva incredibilmente difficile accettare persone nella propria vita, o peggio, nel proprio cuore, anche quando queste c’erano già. Si sforzava di ignorarle, come se potesse bastare chiudere gli occhi perché loro non ci fossero.
    Poteva anche essere stata una Corvonero, ma era comunque bionda dalla nascita.
    Era strano come il tempo continuasse a prendersi gioco della vita di Heidrun Ryder Crane; aveva passato undici anni crescendo in un mondo immobile, farfalla fra migliaia di crisalidi, ed ora si ritrovava ad affrontare la situazione opposta: tutto andava avanti, e lei rimaneva sempre ferma. Vedeva le esistenze altrui srotolarsi in quel futuro che aveva sempre creduto di non potersi permettere, e lei rimaneva incastrata in un presente che si sforzava di rimanere tale, trascinandosi giorno dopo giorno senza mai diventare storia.
    Ed erano andati avanti, Jaden Beech ed Eugene Jackson.
    Non era il suo posto. Retrocedette rapidamente, il cappuccio ancor ben calcato sui capelli scuri mentre le gocce rimbalzavano sul tessuto impermeabile donandole una colonna sonora che ben si abbinava a quel vuoto languore nel petto. Non era pronta, non poteva … non sapeva cosa, semplicemente non poteva.
    Diede le spalle alla casa sentendosi più vacua ma tranquilla ad ogni passo, il respiro di nuovo regolare nei polmoni. Spense la mente e lasciò che fossero le sue gambe a guidarla nel dedalo di una New Hovel deserta, l’aria umida della notte a imprimersi sulla pelle salata di Miami, ed i capelli nascosti dentro la giacca.
    Così si ritrovò davanti all’appartamento di Murphy e Athena, dove adocchiò (non troppo stupita) anche Sinclair. Cosa ci voleva? Avrebbe potuto bussare, rimanere con loro per un po’. Non sarebbe stata la prima volta che Heidrun si presentava alla loro porta senza alcun preavviso, se non un grido lanciato dalla parte opposta della strada. Ed anche lì li osservò una manciata di secondi dalla finestra, arcuando le labbra insieme a Murphy e Athena ogni volta che Sin alzava gli occhi al cielo. Non capiva come potesse essere tutto così familiare ed al contempo estraneo, così vivo e nello stesso momento piatto, istanti di vita intravisti su una pellicola color seppia.
    Era terrificante.
    «cristo» sussurrò a sè stessa, serrando le palpebre. Era sempre stata brava, la migliore, ad adattarsi. Allora perché, perché, non ci riusciva? Camminava fra cocci e colla, e quelli che non calpestava le rimanevano sotto le suole scricchiolando comunque ad ogni passo. Si sentiva affilata quanto quei pezzi di vetro, e fragile quanto la bottiglia che avevano composto. Coprì il volto con le mani e continuò semplicemente a camminare, espirando fra i palmi ed inspirando quella stessa aria calda e viziata; non aveva bisogno di guardare la direzione, considerando che non aveva alcuna meta. Si ritrovò di fronte al Paiolo Magico, e da lì decise di uscire per entrare nella cittadina babbana. Ci si aspettava una qualche differenza fra il mondo all’esterno e quello all’interno, ma in realtà non cambiava un cazzo: stesso vento freddo, stesso cielo puntellato di nuvole, stesse pozzanghere sotto le scarpe. Buttò la sigaretta ormai inutilizzabile al suolo, e ne infilò una nuova fra i denti, accendendola con un rapido schiocco di dita – e continuò a camminare, Run, perché non le era rimasto altro da fare.
    Alla fine, fece l’unica cosa possibile.
    Quando giunse al pianerottolo, c’era più acqua che Heidrun ad attendere che qualcuno le aprisse la porta. Dondolò sui talloni, le mani ficcate nelle tasche della giacca. Bussò una, due, tre volte, quindi rimase in attesa.
    «run?»
    «ciao will. Posso rimanere da voi per un po’?»

    18.12.16
    «potreste, sempre ipoteticamente parlando eh, ritrovarvi qualche volta nei sogni l’uno dell’altro.»


    Aveva una memoria eccezionale, ma un’attenzione a dir poco selettiva; se avesse ascoltato maggiormente il suo interlocutore, un mese prima, non si sarebbe mai trovata in quella situazione.
    Ma il karma era una puttana.
    Aveva la schiena poggiata ad una superficie fredda, gli occhi chiusi. Razionalmente si rendeva conto che, essendo in un sogno, non poteva sentire il gelo del vetro sulla pelle, così com’era certa di non poter provare dolore. Ma la ragione non c’entrava un cazzo, e Run percepiva tutto con la minuzia di una foto consumata sotto i polpastrelli. Non si trattava di un semplice sogno, né di un ben più apprezzabile incubo – quello, la Crane, avrebbe saputo gestirlo. Non era neanche un illusione.
    Era un ricordo – e due, e cento, e mille. Era la sua realtà, e si ripeteva incessantemente ogni fottuta notte.
    Dormiva poco, e le ore in cui ci riusciva, lo faceva male.
    Non provò neanche a muoversi, le ginocchia strette al petto ed il capo abbandonato al muro alle proprie spalle; sapeva, Run, che non sarebbe riuscita a farlo. Non c’era alcuna corda a legarla, eppure si sentiva messa alle strette, imprigionata, impotente. Si trovava in una piccola stanza quadrata con soffitto e pavimento completamente bianchi; anche tre muri erano bianchi, mentre il quarto era una finestra sul mondo, ossia ciò che il suo subconscio le proponeva quando non riusciva a resistere al sonno. C’era solo una brandina all’estremità opposta, ma pareva del tutto intonsa.
    Sotto le gambe di Heidrun, un fucile.
    Un sospiro senza sostanza fra le guance, una stanchezza irreversibile sulle palpebre.
    «come ti chiami?»
    Ancora, e ancora, e ancora. Aveva fatto tante cazzate Heidrun Ryder Crane; aveva commesso più errori di quanto il mondo, o perfino sé stessa, sapesse, e le sue mani erano sporche da troppo sangue perché potesse vederne i lembi chiari di pelle. Avrebbe potuto sognare qualunque cosa, qualunque crimine, e invece ricadeva sempre su quello. Non è colpa tua, Run.
    Sì, invece.
    Si sforzò di non guardare, un sorriso pigro e amaro sulle labbra – labbra sulle quali poteva percepire il sapore ramato del sangue, malgrado di sangue non ve ne fosse. Nelle versioni precedenti di quello stesso scenario, le aveva provate tutte: aveva tentato di liberarsi delle corde (e talvolta c’era riuscita), aveva cercato di rompere il vetro, aveva provato a cantare una canzone per mettere a tacere le voci alle sue spalle, ma non era mai servito. Erano nella sua testa, erano la sua testa.
    « run» soffiò appena, mentre la sua stessa voce, poco distante, ripeteva: «non lo so». «sempre run» poggiò la fronte sulle ginocchia, deglutendo piano.
    Lo sentì subito, Run, che c’era qualcosa di diverso. Era troppo abituata alla pressione del vuoto attorno a sé per non accorgersi della differenza; con la lentezza di chi era certo di ritrovarsi ad affrontare qualcosa di peggiore, alzò lo sguardo. Corrugò le sopracciglia, mentre le parole di Lancaster fluttuavano morbide di fronte ai propri occhi, trascinandola con severa solennità al suolo. Se ne avesse avuto la forza, avrebbe riso. Se fosse stata Heidrun, la stessa che ogni giorno portava il caffè ad Harrison Palmer con un nomignolo differente scritto sopra il bicchiere, avrebbe spezzato la tensione dicendo qualcosa di stupido e del tutto inopportuno, pur di cambiare l’oggetto di principale attenzione. Ma nella propria testa, Run, era molto meno divertente di quanto non fosse durante il giorno.
    Svegliati.
    Non era giusto, non era maledettamente giusto. Quello era l’unico fottuto posto sulla fottuta faccia della terra in cui poteva smetterla di fingere, ogni fottuta volta, che niente la toccasse; era l’unico posto dove, buon dio, se voleva non guardare, poteva farlo. Dove avrebbe potuto gridare, o piangere, o semplicemente smetterla di sorridere in quel modo sghembo e meschino che brillava della fredde cenere di una sigaretta consumata senza che nessuno l’avesse mai fumata. Rimase a guardarlo impassibile, gli occhi giada apatici e distratti - perché non provava niente, Run. Non c’era niente da provare, lì dentro. Così rimase semplicemente ferma, ancora seduta sul bianco pavimento della stanza e con la schiena al vetro, sfidandolo ad abbassare lo sguardo per primo.
    «cos’è?» non lo riconosceva? Sbattè le ciglia, Heidrun, mentre alle sue spalle la conversazione continuava.
    «io sono Adelaide»
    «com’è?»
    «Posso restare un po’ con te?»
    «benvenuto all’inferno, gemes hamilton» avrebbe potuto sorridere, dando all’affermazione quel tono sardonico che rendeva l’ironia degna di essere chiamata tale, ma non lo fece.
    Chiuse ancora gli occhi, poggiando nuovamente la fronte sulle ginocchia. Non voleva vedere, e non voleva sentire, e più non lo voleva più le voci diventavano forti, e più il sapore di sangue in bocca diveniva più denso.
    Cristo, Crane, svegliati.
    «hai un sogno, run?»
    «arrivare in tempo»
    «è così difficile?»
    «per me, sì»
    «io voglio aprire uno zoo»
    Ogni tanto si convinceva di non essere mai tornata indietro, Run. Che quella fittizia vita che s’era trascinata appresso fino a metà dicembre, altro non fosse che un’altra forma di morte. Erano in momenti come quello però, quando sentiva il proprio cuore incrinarsi e strapparsi, che si rendeva conto di essersi presa per il culo: nessun tipo di morte avrebbe mai potuto far male quanto quella vita.
    Fallo smettere.
    Aveva finito il coraggio, aveva finito la voglia, aveva finito tutto. C’erano cose dalle quali non si sarebbe mai ripresa, Heidrun Ryder Crane; episodi che l’avevano segnata, e spaccata, e ch’ella aveva finto non esistessero aggiustando le crepe con patafix sotto marca: l’essere ficcata nei Laboratori perdendo la propria identità, la morte di sua madre, i quattro mesi di prigionia.
    Adelaide.
    «run?»
    «Adelaide?»
    Non poteva, non voleva. Strinse la guancia fra i denti, affondando maggiormente la testa fra le ginocchia. La speranza era una puttana insidiosa, e pur sapendo di non aver motivo di esistere, l’affogava sempre facendole credere che la volta successiva sarebbe andata meglio.
    Non lo faceva mai.
    Ma non avrebbe permesso a qualcun altro di vederlo.
    Prese il fucile sotto le proprie gambe, imbracciandolo di fronte a sé con la canna rivolta a Gemes.
    A mali estremi, estremi rimedi.
    «puoi prenderti cura di lui per me? Gli piace quando gli faccio il solletico sulla corazza, così»
    Potevano prenderle tutto, ma non i suoi ricordi - non quelli.
    Doveva svegliarsi. Doveva funzionare.
    Sapeva per esperienza che il fucile conteneva un solo proiettile, lo stesso che di solito usava per sé stessa – a volte la svegliava, altre apriva un foro scarlatto nel vestito di Adelaide. Doveva provare.
    Avrebbe potuto puntarlo al proprio petto, ma il suo era un gesto simbolico: si era già presa un proiettile al posto di Gemes, non l’avrebbe fatto di nuovo.
    E poi voleva togliersi la soddisfazione, almeno nel mondo onirico. «è ora di svegliarsi, bella addormentata» inarcò un sopracciglio, e premette il grilletto.

    Quando si svegliò, pianse.
    Quello stesso pomeriggio si fece prescrivere pastiglie per dormire – e ne prese cinque al posto di due, e le buttò giù con whisky anziché con acqua, e le mischiò a pasticche di tutt’altro genere.
    Non potevano entrare nei suoi sogni, se non aveva sogni in cui farli entrare

    31.12.16
    «Se rimanete insieme, vi sentite meglio.»


    Aveva passato più di un mese a casa di William, Niamh, e Mitchell; solamente Ian e Jeremy sapevano che si trovava a Londra, il resto del mondo era convinta fosse ancora in giro per l'America - presumibilmente in qualche soleggiata spiaggia, con un tequila sunrise stretto fra le dita, ed un surfista al proprio fianco. E invece. Era uscita di rado, e quando per esasperazione si era costretta a mettere piede fuori, aveva sempre fatto gli stessi, identici, percorsi; ed era finita sempre, irrimediabilmente, in due posti.
    Il primo, nonché il più prevedibile, era casa sua. Ian e Jeremy erano al castello, Bradley al lavoro; Run sapeva dove tenevano la chiave di scorta, quindi entrare non era un problema. Rimaneva coricata per delle ore sui letti dei Milkobitch, lasciando che il profumo delle loro stanze le permeasse sulla pelle finchè non si sentiva nuovamente sé stessa. Si perdeva così stesso, Heidrun Ryder Crane, che a volte aveva bisogno di qualcuno che le ricordasse chi fosse - di qualcuno che ricordava chi ella fosse. E quando infine lasciava la dimora dei Milkobitch, i piedi la trascinavano verso lo stesso cancello, le identiche mura grigie che osservava dall’esterno da quella che le pareva tutta una vita. Non sapeva neanche lei perché, fra tutti i posti in cui avrebbe potuto andare, finiva sempre davanti alla villa degli Hamilton. Voleva parlare con suo padre? Assicurarsi che Amos stesse bene? Vedere Gemes? Forse un po’ per tutto, e forse un po’ per niente. Si sedeva per terra, incurante della pioggia – o del sole, o delle stelle- con la testa poggiata al basso muretto d’entrata, e aspettava.
    Non sapeva cosa. Semplicemente, aspettava.
    Forse solo un po’di coraggio, forse solo di capire. Forse le bastava rimanere lì e respirare un po’ meglio, senza alcuna reale pretesa, come un ex drogato che non avesse il coraggio di cancellare il numero del proprio spacciatore, perché non si sapeva mai.
    Era tutto un forse, con Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.

    La mattina di Natale, come se nulla fosse accaduto, Run era in cucina a preparare la colazione per Jaden Beech ed Eugene Jackson.
    Così. Senza grandi entrate trionfali, senza svegliarli per mostrare loro di essere tornata; il giorno prima non c’era, e quello dopo, con il grembiule stretto in vita, era ai fornelli a preparare pancake natalizi ai suoi coinquilini quasi non se ne fosse mai andata. «è passato babbo natale» aveva sorriso, in quel modo ©Run per il quale chiunque finiva per perdonarle tutto, facendo scivolare i piatti nella loro direzione -interpretabile se parlasse del cibo, o di sé stessa.
    E non era cambiato niente, ma l’aveva fatto tutto.
    Continuava a dormire male, a mangiare poco e pensare troppo. Passava più tempo fuori casa a guardare il cielo che non sotto il proprio tetto, più ore sul fondo di una piscina che non nel proprio divano. Eppure a tutti diceva che andava bene così, con il tono persuasivo ed il sorriso brillante che ti costringeva a crederle. E voi direte, ma figuriamoci se i suoi amici non se ne sono resi conto!
    E invece vi dico che è stato così, perché Heidrun era quel genere di persona in grado di convincerti che il cielo fosse arancio – ed anche non credendole, vi avrebbe insinuato il seme del dubbio, e non sareste più riusciti a guardare il firmamento allo stesso modo.
    Era fatta così, la Crane: bugiarda.
    Non sapeva regolarsi, la mimetica. Non era stata fatta per un dosaggio, per questo aveva dato tutto ciò che aveva potuto nei vent’anni precedenti: aveva riso troppo, aveva bevuto troppo, aveva rischiato troppo. Aveva amato troppo.
    Mai aveva pensato seriamente a progetti a lungo termine, credeva di non poterselo permettere. Di quel tempo che le avanzava, che le avevano donato, non sapeva che farsene: cosa avrebbe fatto fra vent’anni? Avrebbe partecipato a due guerre mentre due pargoli la aspettavano a casa, con due cani e un cucciolo inviato da Satana alla sua primogenita? .
    Andiamo, siamo seri.
    Heidrun non era un progetto a lungo termine, aveva una scadenza.
    MA FIGURIAMOCI SE NON PARTECIPAVA AD UNA FESTA.
    In realtà, della festa di capodanno, ricordava poco. Aveva regalato biscotti drogati a qualcuno (forse Sin? Ian?); aveva sposato Tiff, era stata sbattuta di violenza contro il muro da una rossa e, you know, come rifiutare una paccata così gentilmente richiesta. Rimembrava di aver baciato qualcuno di sbagliato al momento sbagliato, ma non chi né quando.
    Dopo lo scoccare della mezzanotte, un vuoto mistico.


    02.01.17
    «se muoio io, morite anche voi.»


    «crane?» sentì un peso sul petto, ed automaticamente le dita andarono a sfiorare i sottili capelli di qualcuno. Non aprì le palpebre, le sentiva ancora esageratamente pesanti, e non si preoccupò affatto del non riconoscere la testa che andava così gentilmente carezzando. Non era la prima volta, dopotutto. «crane, stai sanguinando» ma che cazzo. Corrugò le sopracciglia, sforzandosi di aprire un occhio. Dove sono. Chi sono. Quando sono. «perché mi chiami crane?» domandò, sentendo un sapore metallico sulla lingua. Donnie era seduto alla sua scrivania, uno sguardo di sottecchi rivolto nella sua direzione. Le lanciò un fazzoletto che la mimetica utilizzò per tamponare il naso, uno sguardo distratto al piccolo braccio avvolto in vita. Per un istante, un solo istante, perse un battito.
    Era solo Tupp.
    Vedendo come Run guardava la bambina, Donnie cercò di scusarsi: «ha insistito»
    «nessun problema» mugugnò a bassa voce, guardando le macchie cremisi lasciate sul fazzoletto di carta. Erano mesi che si svegliava con l’epistassi, quindi non se ne curò più di tanto. «che ore sono?» «le dieci» «così presto?» «del due gennaio»
    What
    The
    Fuck
    Ma com’era possibile. Aveva dormito per due giorni? Rimase ad osservarlo con la bocca spalancata, incapace di richiuderla – o di respirare, per dirne una. «e comunque vado sempre in panico quando qualcuno ha due nomi, avevo il 33% delle possibilità di azzeccare» Numeri? Di primo mattino? Si stropicciò gli occhi, prendendo Tupp fra le braccia, ancora addormentata, per posarla delicatamente sul letto così da potersi alzare. Le sistemò i capelli sulla fronte, ancora confusa dalla vita – o meglio, dall’assenza di questa. «due gennaio» ripetè in automatico, annuendo fra sé.
    «cos’è successo»
    «ti ho portata qui, dopo la festa di capodanno»
    «perchè?»
    «mi hai detto, e cito testualmente, “il fatto che condividiamo la morte, non significa che dobbiamo condividere anche la vita. non voglio andare a casa, donnie”» ah, quello faceva male. L’aveva detto sul serio? Si massaggiò le spalle mordendosi il labbro superiore, gli occhi chiusi.
    «che memoria» sibilò con un’ironia quasi feroce, mentre l’Armstrong alzava i palmi in segno di resa. «e i miei fratelli? non mi dire che li ho abbandonati, ti prego» «li ho portati a casa io, in macchina» Lo sguardo di Run si addolcì, un sorriso morbido mentre stropicciava i capelli corvini del ragazzo. «grazie, will» «mi chiamo donnie» «non guardavi le witch?»

    Una doccia, una felpa non sua, ed un paio di pancake sorridenti (rubati a Khai) dopo, Heidrun uscì da casa Armstrong per dirigersi alla propria dimora. Due gennaio… succedeva qualcosa, il due gennaio. Era il compleanno di qualcuno? Era il suo, compleanno? Indovinate chi comincia ad avere sonno ma non può andare a dormire perché fra un’ora deve portare fuori Satana? Doveva partire per l’Australia? Doveva accompagnare Jeremy dal dottore? Doveva portare Thad al consultorio per la pillola del giorno dopo? wat
    Due gennaio.
    Così distratta dai filosofici pensieri sulla vita, da non accorgersi immediatamente che c’era qualcosa di strano - ma nel momento in cui si infilò un pancake fra i denti, lo sentì: all’interno di casa REB, non percepiva solamente la manipolazione della luce di Jade, ma anche la telecinesi – che fosse Skandar? No, impossibile. AHAHA, IMPOSSIBILE. AH.AH.AH. Dubitava sinceramente fosse Jayson, il che gli lasciava solamente una possibilità.
    «BUONGIORNO VERO» spalancò la porta con una spinta, un dito accusatorio puntato contro i suoi inquilini - , tutti e tre ormai. «ecco, lo sapevo» quante volte aveva già spiegato a Gemes che il divano era suo? C’era un equilibrio specifico nella vita dei REB, ossia: Jade aveva la poltrona, T-Jade la vasca, Euge il pavimento. Ma il divano? Era suo di diritto, di nascita. Poco importava che se ne fosse andata per mesi: chi andava a Roma perdeva la poltrona, ma nessuno aveva parlato di divano. «hamilton, te l’ho già detto: portati la poltrona da casa. JADE, DIGLIELO ANCHE TU» infame, la Crane, a cercare il supporto della Beech, ma ehi: il Jackson aveva già venduto la sua anima al diavolo (più o meno metaforicamente), non poteva più contare su di lui per le questioni importanti. «amore, ti ho portato la colazione» Bipolare, ma per una buona causa. T-Jade si era offesa mortalmente dall’arrivo di Breuge e P-Gemes, ed il fatto che Heidrun continuasse a sparire, aveva minato il loro rapporto privilegiato. Run cercava ogni giorno di riconquistare il tricheco, e portargli i pancake appena cotti erano il modo migliore per arrivare al suo cuore (dopo la droga, ma al mattino le sembrava esagerato). Le diede il dolce e grattò dietro le orecchie (ma ce l’hanno, le orecchie?) la foca con le zanne (?), per poi avvicinarsi a Jade e stamparle un bacio sulla fronte. «perché ci vuoi così male da far cucinare euge?» le domandò, salutando un felice Jackson ai fornelli.
    Quella cosa del GRL POWER LE DONNE NON CUCINANO di Jade, prima o poi, li avrebbe fatti tutti morire di intossicazione. «dov’è owen?» domandò, inciampando nel peluche a forma di tartaruga che aveva regalato al suddetto quand’era tornata da Miami – sì, aveva preso un pupazzo a tutti; sì, a T-Jade aveva preso una bambola gonfiabile anziché un pupazzo, fatele causa.
    Una macchia glitterata color arcobaleno.
    Un sospiro.
    «… jakie, breuge ha di nuovo scritto sassy bitch sul carapace di owen» quel bradipo era Satana. Lo amava e lo odiava in egual misura. In cucina si appropriò di una tazza di caffè grande quanto l’empire state building, per poi posare gentilmente un bacio sulla spalla del Pavor. «cosa succede il due gennaio? Non è il compleanno di britney» poteva cancellare una cosa dalla sua lista di impegniwat; e poi aveva una sola certezza nella vita: la data di nascita della Spears. Diamo per scontato che Gemes si sia tolto slash le abbia lasciato spazio, ma anche se così non fosse si lanciò sul divano, il caffè magicamente trattenuto all’interno della tazza da Morgan in persona, con le sopracciglia ancora corrugate nel suo massimo di espressione concentrata. Ovviamente non le era passato neanche per l’anticamera del cervello di spiegare dove fosse stata per quei due giorni, o chiedere scusa per l’ennesima sparizione improvvisa.
    Un vuoto al petto, un bruciore sui polpastrelli. Pirocinesi. «euge, quanti cani ha tua sorella?» «non ne ha?» «allora abbiamo un problema»
    Ma quando il problema si chiamava Jonathan HoLaDroga Winston, a lei andava più che bene – cani compresi. Vedere la marasma di pelo e bava entrare con l’impeto dei Mongoli alle porte della Cina, le riempì il cuore di gioia.
    What a time to be alive.
    Nella sua testa la scena accadde a rallentatore, ed anche ai posteri l’avrebbe raccontata in quel modo: il sacchetto di cocaina volteggiava nell’aria come una falena, il contenuto si spostava all’interno della plastica seguendo la gravità e la forza centrifuga; il coro degli angeli in sottofondo, una luce miracolosa alle spalle del futuro marito di Will (EH, non era colpa di Run, William gliel’aveva presentato così #wat). Nevicava, perfino!
    O forse era solo il sacchetto bucato che perdeva contenuto sulla miriade di cani di Jon, tutti con la lingua a penzoloni per bearsi di quella farina di cocco fuori stagione. MA RUN NON CI FECE CASO, concentrata com’era ad accogliere il sacchetto fra le braccia come il figliol prodigo a lungo mancato. «Ma io mi sono già presentato? Sì, no? SONO JON, yo, sempre disponibile per tutte le migliori materie prime.» per tutte le materie prime? Con un occhiolino nella sua direzione? Eh vabbè, ma Jon gliele serviva su un piatto d’argento. «jonny ma che fai, flirti? sono debole» avvisò alzando entrambe le sopracciglia allusiva, un sorriso sornione a curvare gli angoli delle labbra.
    «Uh, chi è che deve arrivare? Ed è vero che avete un tricheco?»
    «ci sei seduto sopra»
    «Ma voi le sapete fare le ombre cinesi a forma di pene?»
    «anche un’orgia, ma agli adulti non responsabili non è permesso vederlo»
    «Vi amo già tutti. Avete dell'alcool? Qualcuno vuole mica paccare?»
    «I VOLUNTEER. Levati euge, sono arrivata prima io» rotolò sopra il Winston, il gomito poggiato sopra la spalla di lui. «in realtà volevo l’alcool, ma una paccata non si rifiuta mai. GION, FA CALDO» *dramatic pause*
    *più pause che dramatic*
    «…credo sia giunto il momento di aprire la bottiglia delle grandi occasioni» esordì in tono serio. Rotolò ancora su Jon, appoggiandosi poi sul gomito opposto; indicò un punto imprecisato della sala, le palpebre socchiuse (per rendere il tutto più solenne, mica perché era fatta come un pangolino……). «è ora: FRAGOLINO, SCELGO TE!»
    What alive to be a time.
    wat

    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by #epicWin - 13/2/2017, 10:24
     
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    Eugene 'jake' jackson
    «Sono incinta.»
    Fettine panate. Riusciva a pensare solo alle fettine panate, Eugene Jackson. Al modo in cui ogni boccone gli si era sciolto in bocca, frizzando appena sulla punta della lingua. Le luci apparivano più vivide, colorate, insistenti, quasi dotate di vita propria. Ovunque il pavor guardasse, piccoli puntini rossi e blu lampeggiavano allegramente nel suo campo visivo, riportando la mente alle notti di capodanno trascorse sdraiato sull'erba umida di un prato quand'era bambino, stelline e scintille a brillare nel cielo rischiarato da fuochi d'artificio, risate ad infrangersi sullo specchio d'acqua del laghetto artificiale in Credance Street.
    Se solo Jon non avesse lasciato in giro quel panetto di polvere bianca; se solo zampe malevoli non l'avessero sostituita alla farina; se solo il volume della musica non fosse stato così elevato da trapanargli il cervello; se solo. «VUOI UNA PINTA? SUBITO, PRINCIPESSA!» Se solo Eugene non fosse stato così stupido, o strafatto. O entrambi, il mix peggiore in assoluto. Le iridi del giovane, di un azzurro intenso quanto limpido nonostante la massiccia dose di stimolanti, accarezzarono il viso di Jade, ponendo maggiore attenzione ad un piccolo solco formatolesi tra le sopracciglia: poteva essere concentrazione, perplessità, forse semplice espressione esterna di un disagio trattenuto a stento. Non poteva saperlo, il venticinquenne, quale delle tre fosse causa dell'ombra che rendeva più intenso e scuro il verde dei suoi occhi, o della linea dura creata dalle labbra sottili premute una contro l'altra. Nello stato in cui si trovava, poteva benissimo convincersi che l'attuale condizione emotiva della Beech fosse dovuta alla mancanza di un gentleman capace di portarle alla svelta un bicchiere di birra, cosa alla quale era pronto a rimediare.
    Avrebbe fatto qualunque cosa, Eugene Jackson, se lei gliel'avesse chiesto, convinto in cuor suo di avere ancora qualcosa da farsi perdonare.
    Prese lo slancio per roteare su se stesso come un’aggraziata ballerina, mentre alle sue spalle qualche disadattato sociale ormai apparentemente privo di una propria dimora (Gemes) approfittava del bordello generale per palpargli la natica destra, ma la mano di Jaden si mosse più celere, bloccando il braccio del pavor prima che questi potesse compiere una piroetta completa. Ah, quelle gelide, piccole dita! Era uno dei tanti misteri della vita, come le mani della bionda potessero essere sempre così gelide, al pari solo dei ghiaccioli (comunemente chiamati piedi) con cui gli sfiorava le gambe durante la notte, prima di intrecciarvi le proprie. Forse era lui ad esagerare, il torso nudo nonostante fosse pieno inverno, la pelle calda al punto da sembrare quasi febbricitante; piú probabile, si trattava della droga. «Ti sembro una leonessa?» Fu il suo turno di rimanere perplesso, la fronte corrugata di fronte ad una richiesta a suo parere assurda. Portarle da bere era un conto, sebbene al pavor toccasse fare lo slalom tra i cani di Jon liberamente sparpagliati per casa, rischiando poi di incappare nelle gelose grinfie degli animali che lui stesso aveva adottato e che ormai facevano parte della famiglia (T-Jade, Breuge e, ovviamente, Gemes), ma non aveva alcuna voglia di tornare in cucina e mettersi ai fornelli. «No, senti, non te la cucino la platessa.» Legit.
    Qualcuno, dalla parte opposta del salone gremito di persone e animali (nella vecchia fattoria, iah iah oh), osservava la scena con malcelato interesse, piccoli occhi porcini socchiusi a fessura e orecchie tese a cogliere ogni parola sovrastata dalle note incalzanti di Dentro una scatola, un gomito peloso poggiato al ripiano sul quale si ergeva l'impianto hi-fi dell'anteguerra. Attendeva il momento propizio, l'infame; possedeva un udito sopraffino, lo stronzo; conosceva i suoi polli, quel figlio di Satana.
    «Cosa c'entra adesso mio cugino Odessa? Ho detto che sono incinta, Jackson!» E la vena continuava a pulsare, sempre più in evidenza appena sotto la superficie livida della pelle, in aggiunta ad un'inquietante ringhio gutturale proveniente dalla gola di Jade, che per grazia divina il pavor non poteva sentire. In realtà sarebbe stato meglio, così da evitare la figura di merda in agguato, ma che ve lo dico a fare. Si voltò completamente, poggiando entrambe le mani sulle spalle della bionda, tirandola leggermente a sé, sulle labbra dipinto un sorriso quasi paterno, di quelli che tanto spesso avrebbe tirato fuori come ultima risorsa per averla vinta sui figli negli anni a venire. «Quante volte devo raccontartela la storia della cincia, Jade? È una festa questa, prova a divertirti!» Già.
    Eugene Jackson non aveva capito niente, ma per Breuge il bradipo il quadro era fin troppo chiaro.
    Non potete nemmeno immaginare il numero di idioti che gli fossero passati davanti agli occhi, prima del pavor, e a quanti di questi l'animale avesse fatto rimpiangere di essere nati; in fondo l'ex serpeverde gli piaceva, con quella sua stupida convinzione di essere contraccambiato nell'affetto appiccicoso e inopportuno che gli riservava, e solo per questo motivo Breuge evitava di di spingerlo eccessivamente vicino all'orlo di una crisi psicotica, ma ciò non gli impediva affatto di divertirsi un po' alle spalle del suo nuovo schiavetto personale. Per non parlare del fatto che in quel modo prendeva - letteralmente - due piccioni con una sola fava: anche la Beech meritava del sano disagio pubblico, sbandierato ai quattro venti, per il solo fatto di essere tanto nazista quando si trattava di pulire i suoi bisogni in giro per casa, o comprare vestiti nuovi per compensare a quelli che il bradipo le faceva trovare quotidianamente ridotti in brandelli. Immobile come una statua, l'artiglio centrale della zampa destra ad un centimetro di distanza dal tasto stop dell'impianto hi-fi, Breuge (letto Brugshh) osservò il volto di Jade contrarsi in una smorfia di esasperazione, spasmi muscolari ad accartocciarle i lineamenti in un segnale di pericolo imminente che Euge non era in grado di riconoscere, forse persino vedere. Così impari a mangiarti la coca, cretino. Un pensiero così puro da tendere la bocca dell'animale in un ghigno, mentre l'unghia appuntita premeva il tasto designato, inebriandolo di torbido piacere (?). «HO DETTO CHE ASPETTO UN BAMBINO, COGLIONE!»

    27 ore prima, 1 gennaio 2017


    «Mmmh-hm.» Poteva essere mattina, pomeriggio, sera inoltrata: per Eugene non avrebbe fatto alcuna differenza. Era già tanto essere sopravvissuto a quell'assurda festa di capodanno, cosa comunque ancora da accertare, per preoccuparsi anche dell'ora. Di sicuro si trovava ancora a letto, con il lenzuolo sollevato fin sopra la testa, le guance ruvide a sfregare contro la superificie morbida e liscia del cuscino. Si trattava del suo? Ehw, si accettano scommesse. Il pavor, noto amante dell'azzardo, decise che sì, si trovava nel letto da tempo ormai condiviso quasi ogni notte con Jade e Run, sebbene la presenza quest'ultima si fosse dimostrata alquanto altalenante dal fatidico ritorno nel mondo dei vivi. Era stato un duro colpo, per tutti loro, ma per quanto l'ex serpeverde continuasse a ripetersi che la Crane aveva solo bisogno di tempo, ne sentiva profondamente la mancanza. Come può mancare la luce del sole, di un profumo, o di qualunque altra cosa impossibile da possedere realmente.
    Tastó piano il materasso alla sua destra, lí dove solitamente dormiva Jade, senza trovarla; avrebbe potuto aprire gli occhi e accertarsi della situazione, ma in tal caso sarebbe venuto meno alla reputazione di pesaculo costruita con fatica bel corso degli anni: se la bionda si era alzata prima di lui, cosa molto probabile, il corpo disteso alla sua sinistra doveva per forza appartenere ad Heidrun Crane. Inutile sottolineare quanto poco l'ex serpeverde ricordasse della sera precedente, l'ormai celebre notte di capodanno, a parte forse l'essersi scambiato di abiti con sua sorella e di averle inevitabilmente rovinato un vestito, oltre che al suo stesso amor proprio. No, scherzo, lo sapete tutti che Eugene non possiede amor proprio, o dignità, o senso del pudore in generale, dai. «Mmhh, Heidi.. da quando non ti depili le gambe?» Solo un borbottio affondato nel cuscino, il corpo raggomitolato contro quello della mora, decisamente più muscoloso di quanto ricordasse. Un singulto strozzato e non meglio identificato, proveniente da qualche parte sopra la sua testa, lo costrinse a sollevare finalmente le palpebre nella penombra, il volto a pochi centimetri da quello di Gemes Hamilton, l'espressione granitica del ragazzo a scontrarsi con lo scoppio di ridarella che fece tremare l'amaca appesa sopra le loro teste, ciuffi di capelli biondi a rendere chiara l'identità della loro spettatrice. «da quando sono nato, Jackson.» Sempre più lecito. «Beech, se non la smetti di ridere la paghi.»
    E così fu.

    8 ore prima, 2 gennaio 2017


    «Gemes, seriamente, non puoi andare a dormire in un'altra camera?»
    «No. Ieri sera il tuo tricheco ha tentato di violentarmi.»
    «È così che esprime il suo affetto, dovresti esserne contento.»
    «Non ti sembro contento?»
    «Mi sembri nudo»
    «A me sembrate due idioti.»
    «Effetto #eumes.»
    Capita, quando prendi la decisione - nemmeno troppo oculata - di intrecciare per sempre la tua anima con quella di un perfetto sconosciuto, finendo per condividere sogni, speranze (quali), desideri. Purtroppo per il telecineta, la furia dell'uragano eurun aveva surclassato la sua indole spaccagioia spazzandola via come un'ombra di gesso sulla lavagna, aumentando i livelli di biondaggine invece che diminuire quelli del Jackson, o di Run. Ancora qualche settimana di allenamento e anche Gemes avrebbe raggiunto il loro livello, con tanto di insulto personalizzato by Beech. «Breuge ti ha scritto "fottiti" sulla fronte.» «Jade, non è bello dare la colpa agli animali, vergognati.» Soffió un bacio dalla punta delle dita diretto al bradipo, la cui testa spuntava oltre lo stipite della porta, le iridi vuote puntate su quella faccia pirla che si era ritrovato come padrone. «Credo di aver capito che tenterà di ucciderti nel sonno questa notte.» «Aww, non è tenero?» Non lo era, ma al pavor andava bene così. Lui li amava tutti i suoi pupilli (bestie pelose e biondi dentro/fuori su due zampe), che loro decidessero di dimostrargli altrettanto o meno: in poche parole, una condanna a vita.
    Difficile dire cosa lo spinse, un'oretta più tardi, ad osservare con più attenzione il mucchietto di posta proprio di fronte alla porta, anziché buttarlo in un angolo come suo solito, sta di fatto che in un momento indefinito della mattinata Eugene Jackson si ritrovò con un simpatico cartoncino ripiegato tra le mani. Il sorriso smagliante con cui si presentò nuovamente a Jade e Gemes, già spalmato sul divano a distanza di sicurezza da T, non presagiva niente di buono. Meglio, niente di rassicurante. «SONO INVITI PER UNA FESTA! Dai, che figo, ci andiamo?» Come se non si fossero spaccati a bestia solo 36 ore prima, minuto più minuto meno. «Chi li manda?» «Non ne ho idea.» «Dove sarebbe 'sta festa?» «Mhh.. a casa nostra.»«Sei un cretino, Jackson.» Come sempre la bionda non aveva torto, ma il bello di vivere con lei era che ti dava sempre la possibilità di andarle contro, punzecchiarla nel vivo finché non perdeva le staffe e decideva di passare alle maniere forti: Eugene adorava quel momento, quando alla frustrazione seguiva una gomitata allo stomaco e poi un bacio, e un insulto, dita a stringersi convulse tra i capelli. Si erano aggrappati l'un l'altra per non affondare, quando l'assenza di Heidrun Crane sembrava pesare come un macigno sul cuore in grado di trascinarli entrambi nel dolore e nell'attesa, e in un modo che il pavor non riusciva ancora a spiegarsi - forse perché rifiutava categoricamente di soffermarvi la mente - qualche forza mistica li aveva tenuti insieme, cambiando le carte in tavola. «Con tutti questi complimenti ti sei guadagnata la colazione. Cucino io? Sì, ok, cucino io.»

    now, 2 gennaio 2017


    Run era tornata a casa, giusto in tempo per la festa; Jade gli aveva permesso di destreggiarsi ai fornelli, indossando un delizioso grembiule a fiori per nascondere in parte la pelle nuda del torace; il loro meraviglioso tricheco era finalmente riuscito ad instaurare un rapporto con Gemes, spiaggiandosi sulle ginocchia di quest'ultimo prima che la Crane potesse fare altrettanto, permettendo ad un sentimento antico e mai dimenticato di sbocciare nuovamente nel cuore del pavor. Breve parentesi: ci fosse stato chiunque altro al posto dell'Hamilton, il lieve frizzicore sotto la lingua avrebbe avuto il sapore tipico della gelosia, un'emozione complessa e difficile da elaborare, soprattutto per un giovane che raramente nella vita si è trovato a doverci fare i conti, ma si trattava delle due terzi della sua anima. Riusciva ad avvertire la tensione palpabile sfiorargli la pelle come energia statica, frammenti di desiderio nascosto inconsciamente in ogni parola, ogni occhiata torva, in ogni singolo gesto. Chissà se Nate provava la stessa sensazione, ormai legato indissolubilmente all'essenza stessa della relijah; ma, soprattutto, cosa non avrebbe dato qualunque shipper seriale per trovarsi al suo posto, così in intimità con la propria otp, letteralmente cuore a cuore. Chiusa parentesi. Run era tornata a casa, Jade non lo aveva ancora picchiato, Gemes e il tricheco avevano fatto amicizia, Jon e la sua intera muta di cani avevano fatto il suo ingresso trionfale nella magione REB con tanto di cocaina e offerta di paccate, la musica bombava a palla. Andava tutto bene. Andava tutto-
    «HO DETTO CHE ASPETTO UN BAMBINO, COGLIONE!»
    -bene.
    Quanto meno, finalmente aveva sentito giusto. Lui, i presenti al festino e chiunque abitasse nel raggio di un paio di chilometri, ivi compresi i jeriton, sua sorella, Fox e un'altra decina di persone più o meno conosciute. Lasciò scivolare lo sguardo per puro istinto lungo l'intera figura della Beech, sorvolando dalle gote diventate ormai purpuree al lieve rigonfiamento poco sotto il seno, lì dove il tessuto della maglia si tendeva in una curva morbida che fino a quel momento Eugene non aveva minimamente notato. Non chiedetevi come fosse possibile, ormai lo conoscete. Aveva dato per scontato che Jade avesse messo su qualche chilo, dettaglio per lui assolutamente trascurabile, e certo non gliene aveva fatto parola: poteva anche essere un idiota, il Jackson, ma salvo situazioni estreme preferiva preservare la propria vita, soprattutto da quando gli toccava condividerla. Aprì e richiuse immediatamente la bocca, un pesce fuor d'acqua con il cervello troppo imbottito di stupefacenti per pensare a qualcosa di intelligente da dire, forse persino per realizzare la situazione; le iridi grigio azzurre, infatti, guizzarono improvvisamente alla ricerca di Run, soffermandosi in quelle acquamarina di lei, quasi potesse leggervi attraverso la risposta giusta. Per la cronaca, non ne esisteva una.
    «WHAT. IS. HAPPENING.»
    La voce di Amos, colma di innocente stupore, quasi gli fece sfuggire il bicchiere di plastica dalle mani, con quel goccio di rum e coca sopravvissuto, riuscendo comunque a strappare uno strillo poco virile nel bel mezzo del silenzio generale. «Cristo, Brodino! Da dove.. » fu a quel punto che lo osservò con più attenzione, il costume da cameriera sexy indossato sopra i pantaloni della tuta, la crestina tra i capelli biondi, il mocio stretto saldamente sotto l'ascella (?), e si rese conto di essersi dimenticato della presenza del tenero pasticcino, chiamato quella mattina stessa per dare una pulita alla casa in vista del festino a sorpresa organizzato da non si sa ancora bene chi. Possibile che fosse rimasto chiuso nella camera del pavor tutto quel tempo? Forse non avrebbe dovuto permettere a TJade di occuparla come fosse la sua tana personale, a a quel punto ormai il danno era fatto. «Beh, c'è una festa. E Jade ci sforna un bambino!» Si era voltato a metà frase, ruotando il busto finché lo sguardo evidentemente poco lucido aveva finito per incrociarsi nuovamente a quello della ribelle. Ti amo. Vi amo. E' mio? Non può essere mio. Vorrei che fosse mio. Non sono un adulto responsabile. Lo voglio. Non posso. Devo bere, ho bisogno di bere. «Pausa cool. Chi fa pausa cool? Tu no, sei incinta, fa male.»
    E avrebbe potuto chiedere di chi è?, ma non lo fece. Avrebbe potuto chiedere cosa facciamo?, ma non lo fece; chiamatelo intuito, chiamatela droga, chiamatela come vi pare.
    Sollevó entrambe le mani, chiudendo a pugno le dita tranne i pollici, rivolgendo a Run, intenta nel frattempo a cavalcare uno dei cani di Jon, un sorriso smagliante e allucinato: ben tornata a casa Heidi .
    deatheater
    25 y.o
    fucked up
    02.01.2017
    sheet|pensive|pint.
    and that, kids, is how i banged your mother ©
     
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    C’erano tante frasi di sette parole che era solita udire fra quelle mura, ma anche fuori, e che avevano il potere di privarla del sorriso come un distratto artista che, annoiato dalla sua nuova tela, lo cancellasse con una spennellata di bianco.
    Dio santo, Crane, sei di nuovo ubriaca.
    Heidrun, ora devi prenderti le tue responsabilità.
    Run, smettila di portare gente a casa.
    No, non possiamo adottare una fottuta giraffa.
    Puoi evitare di spacciare sul nostro portico?
    Mi dispiace Run, è finito il vino.
    Non sei più la mia sgualdrina preferita.
    La bottiglia di Fragolino si è rotta.
    Sei tornata per rimanere, o vai via?
    Ma quella? Quella era nuova, ed indubbiamente da aggiungere alla lista.
    «HO DETTO CHE ASPETTO UN BAMBINO, COGLIONE!»

    Heidrun Ryder Crane, le gambe avvolte attorno ad una spessa coperta di patchwork con la faccia di Amos Hamilton, socchiuse le labbra corrugando le sopracciglia. «perché l’hai invitato?» fu il suo primo, spontaneo, pensiero. Neanche lei ed Eugene avevano invitato minorenni, e dire che erano quelli meno responsabili!, quindi mai si sarebbe aspettata una tale pecca da parte della Beech.
    Di fatti.
    Seguì lo sguardo di Euge, che morbido come una carezza andò a posarsi sull’addome della fotocineta. Vorrei potervi dire che, annebbiata da alcool e droghe, non comprese. Vorrei potervi dire che, nel momento in cui quella consapevolezza giunse alla sinapsi, Run non dovette abbassare lo sguardo sul proprio petto, cercando la fonte di quella stilettata in una ferita esterna. Per un istante, le parve che il suo (era ancora suo?) cuore avesse deciso spontaneamente che battere sarebbe stato troppo mainstream; che meritava anche lui una vacanza, sapete – magari incastrato in gola, insieme al respiro che non ne voleva sapere di andare giù.
    Ed evitò l’occhiata di Eugene Jackson, Run, il capo ancora chino ed uno sghembo sorriso improvvisamente sobrio ed amaro a curvarle le labbra. Si mordicchiò il labbro inferiore, immobile; si fece rapidamente un paio di calcoli, le palpebre assottigliate. Per esserne così certa da averne fatto parola con Euge, doveva essere passato almeno un mese. Perché se ne notasse già il cambiamento fisico, cosa al quale la Crane non aveva fatto inizialmente caso, almeno tre.
    Tre mesi.
    Ottobre?
    Non udì le parole del Pavor, e se ne sbattè egoisticamente le palle di quanto quella notizia potesse pesare o meno sulla sua fragile indole – o di quanto Jade, in quei mesi, avesse sentito gravare quel segreto solo su di sé.
    Tre mesi, ottobre.
    Era stupido, presuntuoso, infantile – era terribilmente Run, quell’atteggiamento di pensosa chiusura. Era fastidiosamente Heidrun, quel nucleo bollente che le era rimasto appiccicato sulla pelle anche quando avevano provato a strapparle tutto. Non era gelosia, e non era neanche rabbia, che diritto ne avrebbe avuto?
    Era peggio: delusione. Non ne aveva alcun motivo, era stata lei quella ad andarsene; non aveva ragione d’esistere quell’astio che, come un macigno, le comprimeva i polmoni facendo accelerare il battito, la testa pesante.
    Ma lei era morta, e loro andati avanti. Era quello che le persone facevano, eppure non riuscì a liberarsi di quel seccante senso di irritazione. Aveva creduto di volerlo, sapete; nelle lunghe notti passate nel capanno, i polsi tagliati dalle corde troppo strette, Run aveva creduto di desiderare esattamente quello per loro.
    Cazzate. La verità era che, in fondo, aveva sempre voluto che la trovassero. Avrebbe potuto comprendere, ma era troppo egocentrica per farlo – e l’unica cosa a cui riusciva a pensare, era che mentre lei moriva, loro continuavano a vivere.
    Non vuol dire che non ti abbiano cercata. Un’infinitesimale parte che ancora vantava un minimo di raziocinio, cercò di sussurrarglielo; Run, però, non era certo famosa per la sua ragione.
    Una mentalità ristretta, raggomitolata su sé stessa – una mentalità alla ricerca di qualunque capro espiatorio sul quale riversare la propria cieca rabbia, e dolore, e quell’incomprensione che si portava appresso da più anni di quanti avrebbe dovuto viverne.
    Poteva quasi riuscire a vederli, mentre cercavano conforto - cuccioli, loro, abbandonati a sé stessi. Non potevano aspettare un paio di mesi? Non potevano farlo prima? Li avrebbe ritenuti due coglioni, ma avrebbe cominciato ad armarsi di lana e fili per riempire il bimbo eubeech di calze che buon dio run, ha dieci dita, non tredici; avrebbe preparato diete apposta per la Beech, e comprato manuali stupidi per Eugene. Avrebbe rapito quella piccola creatura, quando fosse venuta al mondo, solamente per convincere almeno quella ad amarla nel modo giusto – in quello che sarebbe riuscita a meritarsi, per una volta.
    Tamburellò le dita sulla coperta, ampliando il sorriso. Una crepa dura, l’azzurra fenditura del primo fulmine a spaccare le nuvole.
    Era ora che anche lei andasse avanti.
    «sposami» così, improvvisa. Apparentemente dal nulla, lo sguardo opaco e le parole strascicate a causa delle sostanze (più o meno) stupefacenti con le quali era entrata in contatto. «sono seria» sembrava una cazzata, ma più ci pensava, più per lei acquistava senso. Come aveva fatto a non pensarci prima? Era la soluzione a tutti i suoi i problemi! Allungò le mani per stringere il viso di Amos fra i propri palmi, gli occhi chiusi e le sopracciglia corrugate. «il matrimonio, idealmente, è l’unione di due persone che si amano, e si rispettano. Non sarebbe così terribile svegliarmi ogni mattina al tuo fianco, o sapere che quando tornerò a casa, tu sarai lì ad aspettarmi. Possiamo cucinare insieme, e farci qualche abbonamento stupido alla tv, ed il governo, in qualità di giovani sposi, ci aiuterebbe. Avremmo un sacco di regali, e potrei fare la torta. Ovviamente tu prendi il cognome Crane, mi rifiuto di farmi chiamare Hamilton – anche se, lo ammetto, sarebbe esilarante: HRH, SEMBRA PURE UNA FACCINA» disegnò le lettere sul braccio, il capo inclinato. «e poi ci sarebbe un sacco di alcool, come a tutti i matrimoni che si rispettano. Dai, dimmi di sì. Non potrei mai farti del male, sei una delle cose più belle di questa assurda vita. ti porterei sempre la colazione a letto, e ti farei i massaggi quando sei stanco, e quando fa freddo potremmo raggomitolarci sotto le coperte – e poi ti chiederei di spazzolarmi i capelli, prima di dormire, e io ti racconterei sempre una storia diversa. Potremmo entrare nei locali e fingere che io sia incinta per avere il dolce gratis, e ogni giorno ti preparerei il pranzo per il lavoro – ossia ti lascerei un biglietto con scritto i tried, tanto tu sei più bravo di me. possiamo cambiare vita, insieme. Non sarebbe male, no? ma ti immagini, tutte le sere una maratona diversa – e quando non avrò sbatti di uscire, anziché apparire asociale, potrò dire “scusate non posso, io e mio marito abbiamo dei programmi”. DAI, SPOSAMI» e con programmi, intendeva netflix. Figurarsi! Si parlava di Amos Hamilton, e la cosa meno casta che poteva immaginare di fare con lui, era giocare a twister. Per il sesso esistevano gli amanti, no? Non si poteva mica lasciarli senza lavoro #wat. L’amore era amore in ogni sua forma, ed i rapporti sessuali non erano importanti ai fini di un legame come il matrimonio – il quale, per Run, celebrava semplicemente un unione. Posò la testa sul petto di lui, continuando imperterrita il suo monologo – un po’ per la droga, un po’ per lo shock, un po’ perché era inevitabilmente Run. «profumi già di casa, e come sei caldo e morbido» sospirò sfregando la guancia contro la spalla di Amos, lasciando che le braccia si allacciassero alle sue spalle.
    C’era qualcosa che non andava. C’era qualcosa di… strano.
    MA CERTO.
    «hai ragione, hai ragione» continuò a sproloquiare, sbattendo le ciglia con indignazione. «manca il pezzo forte» Attingendo al potere di Amos (perché aveva deciso di ignorare l’ingombrante, e doppia!, presenza di Jade), Run creò un bellissimo anello nuziale; cosa? Se si era ispirata a sailor moon? Ovviamente. Dopotutto, lei era Luna e Amos il suo biondo Bunny. Erano una squadra vincente, o almeno così dicevano i loro followerz sui social (certo, avevano un sacco di bacheche in comune su pinterest, un profilo tumblr dove scambiarsi gif reaction, e un canale su youtube), perché non ufficializzarlo? Era il suo cucciolo d’uomo, la confortante coppetta del Nonno che tutti agognavano nelle afose notti d’estate. «vuoi tu… gesù» aveva preso la mano di Amos fra le proprie cercando di infilargli l’anello per concretizzare la sua proposta, eppure non potè impedirsi di far sfuggire quell’imprecazione a fior di labbra. «amos, ma sei deforme? Ti voglio bene eh, però» scrollò la mano davanti ai propri occhi, corrugando le sopracciglia, quindi la tenne a palmo aperto contro la propria. «dai, è perfino più grande della mia!»
    «ma che dici, Run»
    Una mano, proveniente da una zona imprecisata alle proprie spalle, si posò sopra la sua, mostrando di essere effettivamente più piccola.
    Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, rimase interdetta ad osservare le dita nelle quali aveva cercato di infilare la fede. Risalì lentamente lungo il braccio, arrampicandosi sopra la coperta, fino a giungere alla linea del collo e della mascella, la piega delle labbra. Inclinò il capo, come se cambiare prospettiva potesse cambiare la situazione. «da quanto tempo non sei amos» accusò Gemes, scioccata e ferita nel profondo, stringendo nuovamente nel palmo l’anello. «non eri gemes, prima» impossibile, se ne sarebbe accorta – DA QUANDO GEMES PROFUMAVA DI CASA. Era tutto sbagliato, mentre la Crane lo squadrava con le sopracciglia confusamente corrugate, Paris Hilton davanti ad una divisione in colonna. «AMOS DOVE SEI» si voltò alla ricerca del Pasticcino, trovandolo seduto dietro di sé – la testa bavosa di T-Jade a pungolarlo con occhi a cuoricino. «mi sposi lo stesso? Possiamo partire ora, subito. Un viaggetto da niente e siamo a Las Vegas. Guarda, abbiamo già due testimoni» indicò con un cenno Jon e Gemes, alzando poi le dita – o forse lo immaginò solamente – in segno di approvazione. «dai, io mi prendo l’hamilton e ti lascio jonny bravo. Gemgem, vuoi lanciare i petali prima del mio passaggio? no? sei sicuro? Ti ci vedrei tantissimo. dai, ormai è cosa fatta » si alzò repentinamente in piedi (aka rimbalzò da una parte all’altra della stanza in equilibrio poco stabile), trascinando con sé anche Amos, Jon e Gemes. «scusate eubeech, ci piacerebbe rimanere , ma dobbiamo proprio andare. Eh, quando il matrimonio chiama, run risponde» si rattristò valutando quante persone avrebbe dovuto photoshoppare nell’album di foto, sicuramente almeno Murphy, Al e i Milkobitch, ma si consolò pensando che al ritorno avrebbero potuto festeggiare come Morgan comandava. «si è fatto proprio tardi. Dai ragazzi, non rimanete lì impalati. Amos, non fare il reticente – cosa ti costa dire di sì? Non ti spezzerò mai il cuore. Sono un ottimo partito. VABBÈ OH S’È FATTA UNA CERTA, al massimo decidiamo a L.A. chi sposa chi, sarà l’atmosfera ad ispirarci» li spinse in avanti, verso la porta d’entrata.
    Ma quando la spalancò per uscire.
    …Palloncini?
    «PREGNAAAAAAAAAAAAANT»

    Raymond Holt aveva numerose qualità, e la pazienza era una di quelle. Aveva atteso anni quel momento, masticandoselo fra le labbra serrate ogni notte prima di andare a dormire – dopo il cruciverba, chiaramente, perché aveva certo delle priorità. Gli occhiali dalla montatura dorata spinti sulla radice del naso, il ricordo del sorriso dentato di un Cheddar tremulo impresso a fuoco nella sua mente.
    Vendetta.
    Holt sapeva – cosa? Tutto, che domande. Da questa sua onniscienza, aveva elaborato un piano a lungo raggio, una vendetta che s’era protratta negli anni e di cui, quel giorno, avrebbe finalmente gustato il dolce sapore.
    Il primo passo l’aveva compiuto a Natale. Il secondo, con gli inviti.
    Il terzo, era da vedere.
    Aveva organizzato una… come la chiamano i giovani, oggi? Festicciola, proprio a casa loro, per rompere tutte le uova nel paniere che tanto dolcemente avevano covato, come le chiocce senza piume ch’erano. Impettito nel suo cappotto nero (nero come la sua pelle anima), la schiena dritta e lo sguardo fisso sul civico REB, Raymond Holt sorrise. Un sorriso spontaneo, di quelli per cui spesso riceveva domande come ”signore, sta avendo un ictus?”; di quelli che rompevano l’equilibrio granitico della sua serietà donandogli l’aria ilare che, ah, tanto gli ricordava la gioventù, quando faceva follie come giocare a dama con le pedine bianche sulle caselle bianche, così da confondere gli avversari. Che badass motherfucker - ma non dite a suo marito che pensava in termini così volgari, l’avrebbe redarguito immediatamente. Il trambusto all’interno gli rese chiaro che Adalberto, il bradipo che aveva mandato in missione, aveva compiuto il suo dovere.
    Poggiò i palmi sulla cornice della porta, serrando le dita da pianista attorno al legno – ed attese, Raymond Holt.
    Non avrebbe mai perdonato Eugene Jackson per il periodo passato al castello - era colpa sua, se Cheddar si era drogato. LO SENTIVA.; figurarsi se questo, poi, conviveva con lei. Il suo tarlo personale, la sua delusione più grande, una spina nel fianco quasi quanto Peralta o miss Linetti.
    La.
    «HO DETTO CHE ASPETTO UN BAMBINO, COGLIONE!»
    «what did you say?» gridò dalla porta chiusa con un voce in farsetto, le palpebre assottigliate e le ginocchia lievemente piegate sotto il peso di quell’affermazione. Grazie, Adalberto.
    Quando la porta si aprì, si ritrovò ad osservare l’interno della casa; immediatamente, i suoi sottili occhi da falco, saltarono la folla all’entrata per cercare la chioma bionda della Beech, guizzando solo distrattamente e con malcelato disappunto sulla figura di Eugene Jackson.
    «HOW.
    DARE.
    YOU»
    Assottigliò minaccioso le palpebre, la voce appena un sibilo di puro furore.
    «JADEN BEECH» un passo all’interno della casa fece indietreggiare I presenti, a cui ancora non rivolse un’occhiata. Si trascinò appresso l’arco di palloncini grigi che s’era portato dietro per l’occasione. «I’M YOUR
    SUPERIOR
    OFFICER»
    Inspirò gonfiando il petto di puro orgoglio virile, serrando le mani attorno alle braccia di chi gli fosse capitato a tiro.
    «PREGNANT????» sbraitò, forse trionfante – o forse arrabbiato, o forse felice, o forse soddisfatto. «PREGNAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAANT?!?!!!!!!» continuò, piegandosi sulle ginocchia per rimbalzare sulle gambe, enfatizzando quel termine così che tutti a New Hovel potessero udirlo.
    Attese qualche secondo, il silenzio a ronzargli nelle orecchie. Quando qualcuno fece per parlare, tornò all’attacco. «PREGNAAAAAAAAAAAAANT?!?!?!?!?!!!!!!!» E di nuovo il silenzio gravò pesante nella stanza, appiccicandosi nervoso sui corti capelli grigi. Come se nulla fosse accaduto, si rialzò in piedi e si spolverò il bavero del cappotto.
    Improvviso come il Fragolino che si schiantò sul marciapiede di Pistoia, ed altrettanto sbalorditivo, Raymond Holt sorrise – ossia, mostrò quanti più denti possibile.
    «un vero piacere conoscerla, davvero, ma noi stavamo giusto andando ad un matrimonio – il nostro, per intenderci» Rapido come una gazzella, Holt sbattè la porta alle proprie spalle chiudendola di fronte alla ragazza; lasciò vagare distrattamente, ma con tacita soddisfazione, lo sguardo sulla stanza, soffermandosi sulle decine di cani in trance e sul solitario Adalberto, cui rivolse un rispettoso cenno del capo. «nessuno uscirà da questa casa» chiarì, definitivo, tornando a guardare la giovane di fronte a sé – sempre col sorriso, gli occhi seri a scandagliarla. «ma dobbiamo sposarci» con sguardo di sfida, aprì il cappotto con un gesto secco, afferrando al volo un foglio color crema che le piazzò sotto al naso. «how
    Dare
    you»
    iniziò nuovamente, le palpebre minacciosamente strette mentre il sorriso ilare e gioviale che l’aveva reso, indubbiamente, piacevole alla sua platea, abbandonava le labbra. «cacciatrice crane» ed allora fece ancora per chinarsi, rimarcando la gravità della situazione. «presumere che io non abbia un CERTIFICATO? I’M YOUR SUPERIOR UFFICIANTE» allungò le braccia per stringere i lembi del suo perfettamente simmetrico arco di palloncini, quindi cominciò a rimbalzare su sé stesso. «MARRIAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAGE» e così dicendo, tornato serio (o forse felice? O forse emozionato?) estrasse una penna dal taschino della stirata camicia bianca che indossava, e con le sopracciglia corrugate ma gli occhi ben spalancati, POOF.
    Ed il primo palloncino, esplose.
    «evviva gli sposi» un tono apatico – o forse rallegrato? O forse triste? Orgoglioso?
    Chi poteva dirlo; di certo, non gli invitati di quel party.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia



    DO IT: Ti convinci improvvisamente di doverti sposare, e diventa un urgente necessità – forse ne va della tua vita? [run + amos]
     
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    Non sembrava sconvolta, Jaden, perchè era sempre stata brava a dimostrarsi sicura anche quando il mondo intorno a lei stava crollando, anche quando era lei stessa che stava accendendo la miccia per farlo esplodere. Aveva l'autocontrollo di chi vive di bugie, la capacità di non muovere un muscolo facciale quando in verità nella sua testa vorticavano i peggiori pensieri.
    Si inumidì le labbra. Un respiro soppesato, lento, come se potesse bastare la calma di quel gesto a bilanciare il cuore che accelerava di secondo in secondo, man mano che la consapevolezza di faceva strada a forza nella sua testa. Una parte di lei cercava in ogni modo di fermarla, di negare l'evidenza e trovare una qualche scappatoia. "Non è vero. Non è possibile. Cioè... è tecnicamente possibile, ma no. No."
    Aveva un foglio fra le mani, la prova del nove, e non era sicura che le sue dita sarebbero riuscite a reggerlo ancora a lungo. Mai un semplice pezzo di carta, stampato e compilato a penna blu in modo frettoloso, le era sembrato così spaventoso, così pesante. Così tutto, così troppo.
    "Non sta succedendo davvero".
    Sinclair si sporse verso di lei, forse confuso per come la ragazza si era bloccata a metà discorso appena un altro dottore le aveva passato una busta con certi esiti di un esame, di per sè niente di strano al Quartier Generale dei ribelli, nel laboratorio allestito ad hoc per aiutare gli special (ironico come la metà dei volontari che lì lavoravano, fossero le persone che in primo luogo avevano svolto gli esperimenti), e forse proprio per questo l'uomo si prese la libertà di sbirciare i risultati che Jade aveva tirato fuori dalla cartellina, prima che lei potesse anche solo pensare di nasconderli. A che pro, poi? Presto l'avrebbero saputo tutti in ogni caso, inevitabilmente.
    «Uh! Leggo Beta HCG! Chi è la fortunata?»
    Lei. Lei era la fortunata.
    Jaden Beech era fottutamente incinta.

    qualche giorno prima

    Si svegliò per prima, infreddolita. Occhi chiusi per ingannarsi il più a lungo possibile che la luce che l'aveva infastidita appartenesse ancora ai lampioni notturni, cercò di scacciare il fresco inevitabile di novembre avvicinandosi di più al corpo dell'uomo usato come cuscino, la guancia appoggiata al suo petto tiepido, la mano a cingergli meglio il corpo caldo e le gambe nude intrecciate alle sue. Per un po' non si mosse, restando a respirare il profumo di Eugene concedendosi il lusso di quella posizione più a lungo di quanto la se stessa sveglia e vigile le avrebbe concesso, così come si permise di rimanere immobile mentre le dita dell'uomo iniziavono a muoversi lentamente sulla sua schiena nuda, facendola rabbrividire di piacere.
    «Sei sveglia?»
    Jaden non rispose, mentendo il proprio respiro calmo mentre fingeva di dormire e ascoltava il battito calmo e regolare del cuore del pavor. Era troppo orgogliosa per ammettere di essere felice, per ammettere che era fiera del Jackson e di come avesse riportato sana e salva Run nel mondo magico dopo tutti quei mesi. Lo odiava per averla tenuta fuori dalla missione, per non averle detto nulla al riguardo prima di partire... ma in quel momento gli sembravano lamentele infantili, in confronto a Run. Andava tutto bene, Run stava bene. Finchè stava zitta zitta accoccolata a lui, tutto sembrava perfetto; se avesse aperto bocca, ne sarebbero uscite lamentele inevitabili, ne era sicura.
    Quando sentì Eugene muoversi leggermente, le sue dita a spostarle i capelli dal viso dietro l'orecchio, pensò ingenuamente che si sarebbe chinato su di lei per baciarla. Avrebbe dovuto aspettarsi invece il fastidiosissimo soffio nell'orecchio.
    Jade sobbalzò alzandosi di scatto, lo sguardo omicida finalmente da vera Beech. Perchè doveva essere così un cazzone? Era così bello quando stava zitto e fermo. «Ti odio», sputò fuori dalle labbra rendendosi conto che la voce non più impastata dal sonno l'avrebbe tradita sul da quanto fosse realmente sveglia, ma non le importava abbastanza. Ignorando qualsiasi risposta del mago nonchè la sua risata lo buttò giù dal letto con uno spintone, incurante di quanto avrebbe potuto fargli male la botta col pavimento, e afferrò le coperte aggrovigliate al fondo del letto per coprirsi, girandosi dopo per dare al Jackson la schiena. «Vedi di farti una doccia e lavarti i denti, cazzone. Puzzi». Non la poteva vedere, ma Jade, con un'alzata di occhi al cielo che avrebbe reso Rea fiera, sorrideva.
    Era il primo giorno dopo la notizia che Run stava bene, e la giornata apparentemente non andò tanto diversamente dal solito: Jaden brontolava, rispondeva in modo scurrile e antipatico anche quando non ce n'era bisogno, ma sarebbe stato chiaro ad un occhio un po' più attento che non fosse la stessa ragazza di qualche giorno prima. Era felice, come forse non lo era quasi più stata da mesi. Saltellava per la casa, più che camminare, e Eugene si era preso più sorrisi di quanti ne avesse avuti in un anno di convivenza. Persino con T-Jade la bionda aveva avuto una conversazione gentile, e aveva riso alla sua battuta terribilmente volgare e terribilmente esplicita su come le sarebbe piaciuto avere un rapporto più profondo con il mago.
    Jade guardava verso la porta distrattamente di tanto in tanto, ma sapeva che finalmente poteva rilassarsi un po'; non doveva perdersi a pensare al peggio, a fare piani, a cercare contatti. Run apparentemente aveva deciso di non tornare subito a casa REB, ma Jade poteva accettarlo, sebbene quando il postino suonò il campanello, per poco non gli saltò addosso sperando in una messinscena della special.
    Il secondo giorno lo passò seduta sul divano. Un minuto a guardare la televisione, uno la soglia di casa; dentro di sè, la gioia e la trepidazione infantile del bambino che aspetta il 25 Dicembre nascosto sulle scale che Babbo Natale arrivi e mangi i biscotti che ha preparato per lui.
    Dopo quasi una settimana così, di trepidazione e aspettativa, la magia iniziò a rompersi.
    «Credi che Run tornerà presto?», mormorò una sera, le ginocchia strette al petto seduta sulla poltrona.
    Non le piaceva ammettere che ci tenesse, ma poco importava ormai: aveva bisogno di certezze, di controllo, e Heidrun Crane era sempre stata una persona che mal sottostava alla supervisione della Beech, perchè troppo imprevedibile, troppo Run. Jade aveva bisogno di certezze, di controllo, ma soprattutto di lei. Questo il motivo per cui Jade aveva ammesso a Eugene, con quella minuscola frase detta con leggerezza, quanto in realtà stesse male.
    Perchè non vieni? Dove sei? Torna a casa.
    «Presto è relativo, principessa»
    E si rivelò anche un tempo incredibilmente lungo. Jade dovette fare ricorso a tutta la forza che aveva per ricordare che Run era stata rinchiusa sola per mesi, e avrebbe avuto bisogno di tempo prima che le cose in lei tornassero a funzionare normalmente, prima che si sentisse pronta per tornare da solo... solo che non poteva evitarsi, in qualche maniera, di sentirsi ferita per non essere stata scelta con Euge come sostegno in quel momento difficile. Voleva concederle il suo tempo, essere quello di cui aveva bisogno, qualunque cosa fosse, ma era anche abbastanza egoista per volerla accanto a sè come una volta.
    Per migliorare il tutto, fu giusto in quei giorni che scoprì che non stava ingrassando per colpa della pizza.
    Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova.
    Fece il test di gravidanza comprato in farmacia più per scherzo che per altro, per puro scrupolo, sicura che la nausea, il ritardo, la stanchezza, le battute di Brodino eccetera fossero solo coincidenze. Al terzo test fai da te positivo, tuttavia, aveva optato con non poco panico per un'esame più sicuro, che non lasciasse dubbi su problemi di confezionamento, sfruttando il laboratorio del Quartier Generale.
    Incinta. Decisamente incinta. Molto incinta.
    «Uh! Leggo Beta HCG! Chi è la fortunata?»
    Aspettava un bambino. Un mini essere umano. E stava crescendo dentro di lei. Nella sua pancia.
    «...Jade? Tutto bene?»
    La bionda si riscosse sentendosi chiamare, mettendo su uno sguardo annoiato e indifferente (o almeno provandoci). «Mh sì. Sì certo. Ho un attimo... vorrai scusarmi»
    Corse in bagnò. Notando che c'erano delle ragazze nello spazio comune ruggì un: «TUTTE FUORI. ADESSO.» che non poterono fingere di non aver sentito e chiuse a chiave la porta alle loro spalle, prima di affrettarsi verso lo specchio e guardarsi. Apparentemente, nulla di strano.
    Eppure era appena cambiato tutto.
    Mani tremanti, si alzò la maglietta, guardando il proprio riflesso, mettendosi di profilo. La pancia era leggermente gonfia, come già aveva notato i giorni prima scrutandosi allo stesso modo, ma nulla di così eccezionale. Nulla che facesse presupporre che ci fosse qualcosa dentro.
    Allora come poteva essere vero?
    Ma non c'erano errori, quella volta. Era impossibile che anche quel test fosse sbagliato. Per quanto potesse cercare di negare l'evidenza, mentire a sè il più a lungo possibile, era ora di mettersi in testa l'inevitabilità di quanto appena confermato dall'esame del sangue.
    Aspettava un bambino.
    Il conato di vomito gli sopraggiunse improvviso, e si affretto a chinarsi sopra una tazza del water, per poi andare a lavarsi la bocca con lentezza esaustiva; non era sicura che fosse una semplice nausea da gravidanza, o il panico che le aveva attanagliato il petto. Guardò nuovamente il foglio, leggendo meglio i valori del beta htc e cercando di fare i calcoli, sebbene già sapesse la risposta alla propria domanda. Ricordava la notte di sesso (amore? Sfogo?) con Eugene, il suoi e il proprio sguardo bramoso, i corpi avviluppati con disperazione, mentre cercavano di sopperire alla mancanza di Run. Forse la gente non avrebbe capito cosa li aveva portati ad andare a letto insieme quella sera, forse la gente avrebbe pensato che non fosse niente di eccezionale, considerando che vivevano insieme da mesi... ma a Jade non era importato il giudizio o il consenso della gente. Ricordava solo di non aver dato peso alle precauzioni, mentre cercava di non pensare al dopo, a Run, a come stava male e si sentisse sola. Ricordava di essere stata stupida.
    Guardò in basso verso la pancia. Non poteva tenere un figlio. Non poteva portare avanti quella gravidanza. Non lei. Forse Lienne sarebbe stata capace (era irresponsabile, ma avrebbe amato il bambino), forse Mae, ma Jade? Non sapeva badare neanche a se stessa, non aveva mai neanche tenuto un animaletto a cui badare da sola. Era giovane, era stupida, irrequieta. Avrebbe fatto esplodere in aria l'intero edificio con tutti, lei compresa, dentro, se avesse pensato potesse aiutare nella lotta contro il governo. E l'avrebbe fatto forse ancora più felicemente, pensando di poter risparmiare ad una possibile nuova vita il dolore di vivere in un mondo sotto la dittatura dei mangiamorte.
    Come aveva potuto permettere che una cosa del genere accadesse?

    Voleva liberarsene. Voleva farla finita, togliersi quella cosa dalla pancia, impedirgli di crescergli dentro, di rovinarle la vita. Con un gesto secco della mano rovesciò d'improvviso tutto quello che trovò sul lavandino per terra, per pura rabbia, per puro capriccio. Uno sfogo inutile, che non risolse niente. Che non cambiava niente.
    L'idea improvvisa che qualcuno potesse scoprirlo le costò una fitta al petto. "Pensa lucidamente. Non lasciarti trasportare"
    Ma non ce la faceva. Scivolò a terra, le mani a nascondere la faccia, il respiro che accelerava ancora, iniziando quasi a trasformarsi in una risata isterica.
    Quella cosa iniziava già a rovinarle la vita.
    Immaginò sua madre, lo sguardo di disapprovazione per una figlia appena ventenne che non conosceva più, che in realtà non aveva mai conosciuto, il suo secco «Te l'avevo detto che stare con gente simile avrebbe portato solo guai».
    Suo padre, la delusione dipinta in faccia. Aveva sempre sognato Jaden diventasse una strega di successo, e la bionda sapeva quanto avesse già sofferto a vederla diventare una wizard, un mostro... ma incinta quando non aveva neanche una casa propria, o un compagno di vita?
    Eugene, il suo rifiuto ad accettare una responsabilità simile, il rifiuto in caso di aborto ad accettare Jade.
    Run.
    Run non l'avrebbe presa bene
    Ma Run se n'era andata.
    Run si sarebbe sentita tradita.
    Ma Run se n'era andata.
    Fatti due conti, la mimetica si sarebbe accorta quando Jade e Eugene erano stati a letto insieme. Mentre loro curavano il loro dolore col calore dell'altro, Run forse era già in fin di vita.
    Ma Run se n'era andata.
    Fece una piccola risata nervosa, per quel pensiero che la tormentava. Run se n'era andata per prima. Li aveva abbandonati per prima, a giugno, senza un ciao o una spegazione. E a novembre, non era tornata a casa. Non era ancora tornata a casa.
    Era una consolazione assai minima, pensare che nel rapporto REB non ci fosse niente di giusto, niente di normale, e ricordare che Heidrun era stata la prima -probabilmente con le sue buone ragioni- a tagliarli fuori, non aiutava davvero nella causa.
    Chiuse gli occhi cercando di darsi una calmata, di non prendersela con Heidrun solo per cercare di non prendersela con se stessa quando era chiaramente colpa sua se era in quel casino. Sua e di quell'idiota del Jackson.
    "Non lo saprà mai nessuno, o quasi. Posso chiedere a Lena... no, meglio, prenderò un pullman fino a Brighton, cercherò un consultorio babbano. Fanno questo genere di cose, no? Sono grande e vaccinata, non ho certo bisogno di permessi speciali".
    Poteva farlo. Poteva sbarazzarsi del feto in segreto, non era così grave. C'erano un sacco di aborti ogni anno... l'importante era che nessuno lo venisse a sapere. Anche chi più l'amava, anche Lienne, probabilmente avrebbe cercato di convincerla a continuare la gravidanza, e quando non fossero riusciti a convincerla perchè era una sua decisione l'avrebbero giudicata. Avrebbero pensato che era senza cuore a togliere la possibilità al figlio di Eugene di venire al mondo.
    Prese un grosso respiro e si alzò.
    Per due giorni, fece finta di nulla.
    Non disse a nessuno della scoperta, nascose il foglio del test in fondo al portafoglio evitando di buttarlo solo perchè sapeva gli sarebbe servito in ospedale per l'interruzione volontaria di gravidanza.
    Poi andò da Maeve.
    Lo sguardo basso come non ricordava di aver mai tenuto nei riguardi di nessuno negli ultimi anni, la voce in un sussurro mentre le chiedeva di accompagnarla Brighton. Non era forte abbastanza da andarci da sola in pullman, convinta che senza supporto avrebbe cambiato idea a metà strada. Fu la prima a cui disse della gravidanza, perchè sapeva che la bionda non l'avrebbe condannata (non apertamente, almeno), perchè non era una sua parente e con quell'aborto non le avrebbe tolto nessun familiare mai nato, perchè le voleva bene, e aveva bisogno di lei.
    Partirono una mattina piovosa. Arrivarono senza troppi problemi a destinazione, ma Jade davanti alla clinica esitò prima di riuscire anche solo ad entrare, portando istintivamente una mano alla pancia. Non sapeva neanche lei perchè, cosa fosse improvvisamente cambiato durante il viaggio di un'ora (forse la vista di quella bambina con la mamma?). Non era ancora pronta, non voleva ancora fare quel salto nel vuoto. Cazzo, lei li odiava pure i bambini. "Potrei darlo in adozione. Potrei soffrire questi novi mesi, sopportare le limitazioni, le occhiataccie, il rimprovero, ma lasciare che qualche brava famiglia abbia il figlio o la figlia che merita".
    «Non sei costretta a farlo», mormorò Mae al suo fianco «Hai ancora un po' di tempo per pensarci», e Jade riuscì a non piangere soltanto ricordandosi che sarebbe stato inutile. «Torniamo a casa»
    Segnò sul cellulare la data ultima di un aborto assistito legale, appuntandosi in un angolo della sua testa che finchè lo sapeva solo Maeve, avrebbe potuto interrompere la gravidanza in qualsiasi momento. E per l'adozione, avrebbe potuto pensarci per altri sette mesi.
    Forse la sua vita sarebbe stata del tutto diversa se un pomeriggio, invece che tornare a casa con la paura di incrociare Eugene e non sapere come affrontarlo, non fosse restata al Quartier Generale dei ribelli a leggere sula poltrona.
    «D-A-I. Dove l'hai trovato?»
    Jade ci mise qualche secondo a capire che il ragazzo stava parlando a lei. «Come?»
    «Il numero di Deadpool pre censura! So che ne hanno fatto pochissime copie, prima di ritirarlo dal mercato perchè troppo cruento... Io non sono riuscito a prenderne una»
    Lei sorrise, le sopracciglia un po' aggrottate verso il biondino e il suo entusiasmo. «Se vuoi te lo presto quando l'ho finito. E' un po' esplicito, ma-»
    «Davvero?!»
    Jade rise vedendo che non la stava più ascoltando, gli occhi illuminati. «Ma sì, tranquillo... però poi mi dici cosa ne pensi. Ho bisogno di parlarne con qualcuno. Disperatamente»
    Il ragazzo si mostrò disponibilissimo a concederle tutto il tempo che voleva, e si misero a chiacchierare su altri fumetti, altre passioni del mondo nerd, abbastanza a lungo da far dimenticare a Jade per un po' tutto il casino della gravidanza. Fu solo quando si rese conto che era ora di tornare a casa e affrontare il coinquilino, ormai alzatasi dalla poltrone e pronta a salutare, che si rese con un pensiero improvviso e inaspettato di come i tratti del ribelle di fronte a lui gli ricordassero quelli di Eugene (ecco chi gli aveva sempre ricordato), e che forse il bambino che aveva in grembo, se mai fosse nato e se mai fosse cresciuto, sarebbe potuto assomigliare a lui. Un ragazzo biondo dagli occhi chiari, un sorriso dolce, l'aria un po' imbranata del nerd nascosta sotto il viso bello. In qualche modo, Jade pensò che non sarebbe stato così male avere un figlio, se fosse stato come lui. Tntò di scacciare subito quel pensiero, ma questo restò lì, sospeso a mezz'aria.
    «Per caso sei parente dei gemelli Jackson?»

    Negli occhi del biondino passò qualcosa che Jade non avrebbe saputo leggere, prima che scrollasse le spalle. «Non che io sappia» Nel suo sguardo c'era una domanda non fatta.
    «Semplice curiosità... buon Natale, Skandar»
    L'arrivo di Run le fece quasi dimenticare della gravidanza.
    «è passato babbo natale»
    Jade pensava che l'avrebbe odiata, per averli fatti aspettare così a lungo, ma era troppo autodistruttiva per non accettare di nuovo Run nella propria vita come se nulla fosse cambiato, per non prendere un pacco da sotto l'albero e lanciarglielo come se fosse una semplicissima mattina di Natale, e Run non le avesse appena fatto il miglior regalo del mondo essendo lì, con loro.
    Come non lo aveva detto a Eugene, ancora, non le disse neanche a Run di aspettare un bambino. In qualche modo non le sembrava mai il momento il momento giusto (avevano mesi da recuperare insieme, e non voleva rischiare di rovinare tutto con quella notizia, o peggio, che alla fine avrebbero potuto parlare solo di quello), e furono i cinque giorni più belli che potesse ricordare. Capiva in qualche modo che c'era qualcosa che non andava, in Run, o almeno pensava in Run nei loro confronti, ma se due anni di lavoro nei laboratori le aveva insegnato qualcosa è che non puoi pensare di ritrovare una persona uguale a come l'hai lasciata, dopo un'esperienza simile. Non le precisò che, se mai avesse voluto parlare di Brecon, Jade sarebbe stata pronta ad ascoltare, ad ascoltare qualsiasi cosa, perchè non avevano mai avuto quel tipo di rapporto, ma sperava comunque che lo potesse capire.
    Il duemilaesedici finì in fretta, e mentre il duemilaediciassette arrivava fra gare con tagliapizze e leccate di Akelei (#mlmlml #jadenondimentica) Jade decise che la sua pancia sarebbe iniziata a gonfiarsi troppo perchè la gente non lo notasse. Perchè Eugene non lo notasse. Era un problema suo, certo, e non era così bramosa di condividerlo con chiunque, nè si sentiva in colpa per non aver reso partecipe il Jackson, ma allo stesso tempo si rendeva conto che ormai avrebbe dovuto pensare a come e quando parlargli. Non era ancora sicura al mille per mille di cosa fare dela propria vita, ma temeva di sapere che fosse giunto il momento di dire, almeno alle persone a lei più vicine, perchè era improvvisamente diventata quasi astemia, da spugna che era. E a proposito di spugne, perchè Run non era tornata a casa REB? Mistero. Jade si preoccupò di informarsi che fosse viva dopo l'avvincente capodanno, commentato da niente meno di Polgy, e aspetto tranquilla che tornasse a casa, sperando che non si prendesse un'altra pausa sabbatica di un mese.
    Per fortuna tornò dopo solo due giorni, proprio il giorno della festa organizzata non si sapeva da chi, mettendo in riga subito Gemes (che dopo Brecon passava a casa REB più tempo di quanto Jade potesse concepire, ma era ugualmente felice: essendo due terzi eumes, lo amava a modo suo #wat) riguardo ai posti prestabiliti da Dio riguardo poltronadivanovascapavimento (dove dio erano le donne reb). Sembrava il quadretto familiare perfetto (?)...
    Poi droga e cani happened.
    Jon entrò in casa Beech portandosi dietro dei cani che DIOS MIOS, ringraziate che Jade si sentiva magnanima perchè dopo cinque secondi voleva già ucciderli tutti. YO YO COCA E MIGNOTTE TUTTA LA NOTTE, tutti ubriachi o strafatti o troppo felici per essere davvero normali al 100% (ma al festino reb in effetti erano tutti special, dai), a Jade venne un'idea improvvisa.
    Non aveva pensato di dirlo così, inizialmente, in una casa piena di gente, con uno sconosciuto e tre amici (amanti?) di Run, mentre gli eurun erano mezzi strafatti, un po' brilli di loro, un po' ubriachi di gioia in quella specie di secondo capodanno... ma poi le era sembrata un'idea intelligente.
    "Domani se ne dimenticherà", pensò semplicemente Jade sistemando i bicchieri sul tavolo, guardando Eugene alla fine della stanza. Doveva approfittare del suo stato, e parlargli. "E' solo una prova per vedere la sua reazione. A fine nottata sarà talmente fuori gioco che potrei fingere che l'è inventato".
    Si avvicinò a lui mentre gli altri erano distratto. Lo afferrò per il braccio facendolo voltare perchè la guardasse, mollando subito la presa appena pensò di poter avere la sua - per quanto labile - attenzione. Pensò a cosa dire, ma l'unica cosa che le venne in mente fu un secco: «Sono incinta»
    Boom. Bomba sganciata (CIAO CASTAPANNO)
    Lo sguardo di eugene sembrò inizialmente vuoto, del tutto diverso da quello che Jade si sarebbe aspettata. E poi... accondiscendente? Non era sicura. "Poco male?" Poco male, se nella testa del pavor non ci fosse stata invece di una scimmietta che batteva i piatti un cervello.
    «VUOI UNA PINTA? SUBITO, PRINCIPESSA!»
    Oh madre de dios aiutami tu. Perchè ora citava i leoni?
    Il Jackson fece per partire verso il bar, ma la mano della Beech fu più rapida a fermare la sua piroetta, cercando di riattirare l'attenzione su di sè.
    «Ti sembro una leonessa?»
    Si mostrò più confuso di lei, come fosse stata una gara.
    «No, senti, non te la cucino la platessa.»
    «Cosa c'entra adesso mio cugino Odessa?» Jade scosse la testa «Ho detto che sono incinta, Jackson!»
    Sembrava davvero il talent show per trovare il più pirla. Senza neanche a dirlo, Eugene stava vincendo.
    «Quante volte devo raccontartela la storia della cincia, Jade? È una festa questa, prova a divertirti!»

    Non era possibile. Jade prese quanto più fiato riuscì, gonfiandosi il petto per urlare e farsi, finalmente, sentire sopra la musica e sopra l'effetto della coca o qualsiasi cosa avesse annebbiato più del solito il cervello del pavor: «HO DETTO CHE ASPETTO UN BAMBINO, COGLIONE!»
    Si accorse solo mentre riprendeva fiato soddisfatta del silenzio che era caduto, come solo nei film capita. Era lei diventata sorda, o la musica si era davvero spenta al suo grido? Voltò lo sguardo verso le casse, dove quel fottutissimo bradipo sembrava sfotterla. Cazzo.
    «...sorpresa?»
    Si sentì subito a disagio per lo sguardo indagatore dell'uomo, che forse cercava segni di gravidanza (?). Non ebbe il coraggio di muoversi mentre lui apriva e chiudeva la bocca. Voleva dire qualcosa, qualsiasi cosa.
    Sei un coglione, Jackson. Avresti dovuto capirlo prima. La prossima volta impari a usare anche tu i cazzi di preservativi. Ma non c'era niente che in quel momento potesse dire. Avevano sentito tutti, non solo uno Eugene strafatto e ubriaco. Entro poche ore, l'avrebbe saputo tutta Londra.
    Non aveva neanche il coraggio di voltarsi verso di Run, per vedere la sua reazione.
    «WHAT. IS. HAPPENING.»
    Per fortuna Brodino salvò la situazione. Jade colse la distrazione del Jackson verso il baby lampadario per incorciare le braccia sul petto, come se avesse potuto nasconderla.
    Bh dai, poteva andare peggio.

    «Cristo, Brodino! Da dove... Beh, c'è una festa. E Jade ci sforna un bambino!»

    Di nuovo sentì lo sguardo su di sè del pavor, e mantenne lo sguardo. Non sapeva cosa i suoi occhi gli stessero domandando, nè sapeva se era pronta a rispondere. Alzò leggermente il mento, cercando di mantenere uno sguardo sicuro, ma per un attimo questo vacillò. Non sapeva se Eugene fosse stato in grado di cogliere la paura, il terrore, le mille domande che tartassavano Jade da settimane, ma non era il momento di dirle a voce, di mostrarsi debole.
    Che idea del cazzo uscire la notizia durante la festa, solo per paura, solo perchè nel caso di una reazione negativa non avrebbe avuto difficoltà a sgattaiolare via, solo perchè Eugene o nessun altro avrebbe avuto la forza di chiederle di parlare, spiegarsi. Probabilmente un po' di fumo passivo era arrivato anche a lei (?).
    «Pausa cool. Chi fa pausa cool? Tu no, sei incinta, fa male.»
    Cercò di evitarsi di seguirlo con lo sguardo mentre se ne andava, mentre la lasciava, e voltò la testa verso Run, invece. Per fortuna (purtroppo?) non incrociò il suo sguardo. Non sarebbe stato in grado di reggerlo, di vederci dentro forse la rabbia, forse il disprezzo. Forse, peggio, l'indifferenza.
    Come non era il grado di vedere quel sorriso affilato sulla sua bocca.
    Jade strinse di più le braccia sotto il seno, mordendosi le labbra e distogliendo gli occhi dal monologo della Crane. Monologo chiaramente non rivolto a lei.
    Per fortuna, una distrazione arrivò in fretta, con la porta che si spalancava senza pietà. Jade spalancò gli occhi, mentre quelli enormi di lui si fissavano su di lei. «Professor Holt?»
    «HOW.
    DARE.
    YOU
    JADEN BEECH»

    Cosa? Si era persa un pezzo. Che aveva fatto per farlo incazzare?? Era strafatto anche lui, il suo eroe dei tempi della scuola??
    «I’M YOUR
    SUPERIOR
    OFFICER»

    Restò immobile, cercando di capire. «PREGNANT????»
    Oh, cazzo.
    «PREGNAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAANT?!?!!!!!! PREGNAAAAAAAAAAAAANT?!?!?!?!?!!!!!!!»

    Bene, nel caso qualcuno del quartiere si fosse perso il grido di Jade, Holt aveva rimediato. Probabilmente persino dalla luna avevano sentito, persino Ego da Hogwarts.
    «già già già. Pregnant» Si indicò la pancia, nel caso qualcuno se lo fosse perso. Roteò gli occhi, e decise che quella festa non faceva decisamente più per lei. Forse avrebbe scoperto entro la mattina che quella casa non faceva più per lei, se gli eurun (euremes? Non capiva il contributo di Gemes a casa REB «Dovremmo iniziare a fargli pagare i costi, visto che è sempre qui» «Non paga il governo le nostre spese?» «Beh, lui non lo sa»).
    Afferrò la giacca di pelle e fece appena in tempo ad avvicinarsi alla porta, prima di udire il «nessuno uscirà da questa casa».
    Oh. Eddaje.
    Non ebbe neanche il tempo di chiedere "Oppure?" con tono di sfida, che Holt già aveva sposato due invitati.
    Perchè.
    Come.
    Quando.
    Che cazzo stava succedendo.
    Non sapendo trovare risposta a quelle domande, andò a buttarsi sulla sua poltrona, affondando e sperando di sparirci almeno per qualche ora, giurando suddio che se un cane gli avesse marcato il territorio attorno, gli avrebbe messo il muso nella pipì per fargli capire chi era l'alfa, gravida o meno .
    Jaden fucking beech
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia




    vorrei dire che ho riletto attentamente
    Mentirei. E' così palloso come post che neanche io ne ho trovato la forza. Però meh, dai, leggete i dialoghi così vi fate un'idea (?????)

    Quasi tutto il post, anzi, tutto il post, è sul fatto che jade sia incinta e bubu complessi che in realtà non sapevo davvero descrivere, quindi ho tagliato ma neanche troppo e sono vaneggi lunghi e noiosissimi che non auguro neanche alla mia prof di storia del cristianesimo, temendo che possa suicidarsi. Vorrei dire "leggete dalla fine che c'è il festino!" ma in realtà è inutile, perchè non fa niente di più di quello già scritto da Euge. In più si siede solo sulla poltrona (?)


    sembrerà che ignora tutti (infatti lo fa) ma solo perchè io non capisco niente e non sapevo davvero che farle fare visto che meh, non è che possa proprio sbocciare o farsi un tiro credo (???) boh ska dicci tu se nel futuro uran ha problemi perchè sua madre era una cocainomane
     
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4 replies since 18/1/2017, 21:01   324 views
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