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banchetto nel futuro, 1 Settembre 2037

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    Aveva un che di mistico come due antisociali e misantropi fossero a capo di una delle principali scuola del mondo magico. Un mistero per molti, la forza con cui i genitori mettevano nelle mano di due psicopatici simili i propri figli. Era strano vedere entrambi come dei burocrati, così come di persone che dovevano occuparsi di chiunque che non fosse l’un l’altro o i pochi a cui, tutto sommato, tenevano. Erano passati più di dieci anni da quando i due avevano preso la decisione di cambiare le cose, di ottenere più potere, poiché ne avevano la possibilità, sì, ma soprattutto il diritto.
    Dieci anni e tre mesi da quando uno semisconosciuto vicepreside e l’ex preside di Hogwarts, Cole Baudelaire, erano stati brutalmente assassinati. Molti parlavano di un attacco in grande, organizzato da buona parte del plotone degli special, ma pochi erano a conoscenza della verità. L’importante, in fondo, era sempre quello: non lasciare testimoni. Forse giusto tre persone avrebbero potuto riconoscere un lavoro così preciso, un proiettile per bulbo oculare, provenienti da due pistole diverse. Forse quelle stesse tre persone avrebbero potuto persino immaginare la scena, simile a come era avvenuta di fronte ai loro occhi più di dieci anni prima, quando avevano mietuto insieme la loro prima vittima. «Relax, this won't hurt.» In fondo, un cambiamento che avrebbe inciso così tanto sulla loro vita e non solo, andava commemorato. Da quel giorno, infatti, il mondo magico e nello specifico la scuola di Hogwarts stessa, aveva subito una trasformazione radicale. La telepate e il “deadpool dei poveri” erano diventati i nuovi presidi della scuola, entrambi allo stesso livello e furono loro, prima ancora del Ministero vero e proprio, ad inserire i maggiori cambiamenti per evitare la discriminazione nei confronti degli special. Il tutto, principalmente, per puro egoismo.
    Special, non più differenziati in wizard e babbani, avrebbero convissuto all’interno del castello con i maghi, con tanto di partecipazione attiva alla cerimonia di smistamento, l’obbligo di lezione rimaneva anche per loro solo e unicamente fino alla maggiore età. La lista delle materie era stata ampliata, così come il corpo docenti, per quanto ora comprendesse i presidi stessi. Una buona fetta delle lezioni era condivisa tra special e maghi, in fondo era anche quello ciò che stava alla base della ritrovata uguaglianza. Combattimento Corpo a Corpo, Erbologia, Cura delle Creature Magiche e Storia della Magia erano state le prima materie ‘miste’, insieme in seguito alla ritrovata Divinazione con annessa Aritmanzia. “Arti della Guerra” era stata la nuova materia introdotta, insegnata dai presidi stessi, che comprendeva Strategia e lo studio di Armi Bianche e Armi Da Fuoco. Le uniche materie rimaste esclusivamente per maghi erano -ovviamente- Trasfigurazione, Arti Oscure, Incantesimi e Pozioni. Ovviamente, con l’aumento in quantità ed importanza di coloro che stavano quasi diventando il futuro del mondo magico, persino le lezioni per loro erano aumentate, con più lezioni in base alla tipologia stessa dei poteri. Principalmente suddivisi in Fisici, Mentali e di Manipolazione degli Elementi, i mimetici attendevano le lezioni di ogni tipologia a turno.
    Ovviamente, con due presidi del genere, non era tutto rose e fiori. Si erano appropriati totalmente di quella che un tempo era "Different Lodge", rinnovandola e migliorandola, diventata quindi ufficialmente "Jeriton Lodge" come era stata ufficiosamente per qualche anno, fino ad una ventina di anni prima. Il regime mangiamorte era ancora forte e ciò non era confermato solo dall'insegnamento di Arti Oscure o dall'esistenza della Sala delle Torture, ma anche da ciò che accanto ad essa era stato creato: l'Esilio. Si potevano contare sulle dita di una mano le persone a conoscenza di ciò che realmente accadeva all'interno di quella stanza, ma ciò che arrivava a tutti era semplice: tre errori, tre viaggi in sala torture, ed eri andato. Impossibile determinare dove, ma se qualcuno dovesse mai scomparire, non era così anormale attribuire l'avvenimento a quella misteriosa stanza. Cosa accadeva davvero? Qualcosa di simile all'Oblivion, con una semplice fiala, ma dall'effetto decisamente peggiore. Erano stato estratti e sintetizzati in laboratorio ingredienti che eliminavano ogni traccia di DNA magico dalle vene di chiunque, facendo perdere sia i poteri agli special, che la possibilità di utilizzare alla magia, ma non si trattava di una cura quanto di una vera e propria maledizione. Eliminava completamente le memorie di coloro che venivano iniettati e causava danni celebrali più o meno gravi ed in quel modo veniva utilizzato, come punizione perenne.
    Con i ribelli oramai sradicati ed i laboratori distrutti completamente, gli unici special erano figli di chi lo era stato in precedenza. Niente più torture, solo un potere alla nascita. In questo modo e senza più il rischio di essere discriminati, anche loro ricevevano una lettera per Hogwarts al compimento degli undici anni. A proposito.
    Tra le figure di tutti gli orribili ragazzini seduti ai tavoli o in fila al centro della Sala Grande, in attesa del proprio turno per avvicinarsi e venire giudicati da un vecchio cappello pieno di pidocchi, erano due gli unici volti che avevano effettivamente attirato l'attenzione dell'uomo: Jery Lowell Clayton e Thon Clayton Lowell, i due gemelli che più diversi non si poteva. Una ragazzina telecineta con i capelli più corti persino del padre, occhi del suo stesso colore, ma senza dubbio l'espressione di pura psicopatia era tutta di Jericho. Il secondo, ma nato per primo e primo in ordine alfabetico per cognome, aveva uno dei volti dalle espressioni più dolci sulla faccia della terra ed un paio di denti che dovevano ancora crescergli, dei capelli castani ricci e ed un faccino rotondo, gli occhi della madre: il viso da putto nascondeva, neanche troppo in profondità, un'odio per il mondo e una cattiveria che solo un figlio Jeriton poteva avere. Sarebbe stato strano, avere i propri figli come effettivi studenti e in fondo, chiunque si sarebbe preoccupato di eventuali favoritismi da parte sua e avevano ragione, perché li avrebbe fatti. Dovevano solo provare a lamentarsi.
    Si voltò verso Jericho, accanto a lui nella parte più rialzata del tavolo degli insegnanti. Annuì lentamente, guardando in basso e come ogni anno, poteva sentire che era giunto il momento del discorso e, di conseguenza, della più attesa partita di carta forbice sasso dell'anno. Sotto il tavolo, nascosto agli altri, fu Thad a perdere. Sbuffò, per poi alzarsi in piedi. «Benvenuti e bentornati, piccoletti e piccolette.» Detto da un uomo a cui mancavano tanti anni ai quaranta quanti centimetri al metro e settanta, non doveva sminuire poi così tanto. «Come ogni anno, ricordatevi che molti di voi sono qui grazie al nostro lavoro per migliorare questa società. Un ringraziamento sarebbe apprezzato.» Un leggero ghigno convinto sul suo volto, prima di proseguire con la parte, purtroppo, leggermente più seria. Anche se probabilmente Jericho si sarebbe potuta beccare una parte ancora più pallosa. «È sempre un piacere vedere il quantitativo di studenti aumentare e come il nuovo sistema scolastico sia palesemente migliore. Bando alle ciance, le ultime parole alla preside Lowell.» Ogni singolo primo settembre, doveva trattenersi dal chiamarla per nome. Era decisamente strano, dopo tutto ciò che avevano passato. Eccoli lì, pronti ad assistere allo smistamento di un primino dopo l'altro, non desiderando nulla se non farne fuori buona parte per poter mangiare prima.
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    La Lowell aveva sempre odiato le questioni burocratiche, ma avrebbe di gran lunga preferito firmare scartoffie tutto il giorno, piuttosto che presenziare di fronte ad un branco di inutili ritardati che, a quel mondo, non avrebbero mai portato alcun beneficio. Motivarli, poi, era al di fuori delle sue competenze.
    Eppure, era stata lei stessa a prendersi quello scranno, strappandolo dalle mani di Cole Baudelaire dieci anni prima- a suo favore, bisognava dar merito al francese che, con la sua decade di attività in qualità di preside di Hogwarts, avesse spezzato la dannazione del seggio vacante, così definito perché nessun preside, fra quelle mura, durava mai a lungo. A ventotto anni, però, Jericho aveva deciso che quel ruolo sarebbe stato suo. Avrebbe cambiato le cose, e l’avrebbe fatto a suo modo: o meglio, a loro modo.
    E così era stato.
    Il mondo magico emergeva da due delle guerre più spietate e sanguinose del secolo. La prima ebbe inizio il 28 Marzo 2021, quando un nutrito gruppo di Ribelli attaccò le sedi centrali del potere in tutti e cinque i continenti, occupando le scuole e devastando le alte sfere del Regime. Assassinarono ministri, distrussero interi reparti, cancellarono dalla faccia della terra Palazzi di Giustizia. Per due anni, la battaglia imperversò su tutti i suoli magici, mietendo vittime da ambedue le parti. Non c’era tempo per seppellire i morti, che subito altri teli accompagnavano le file di caduti al suolo, l’aria pregna di sangue e violenza. Non c’era più alcuna certezza, non esistevano amici, o famiglia: fratelli si sono trovati contro fratelli, amici contro amici; madri hanno dovuto scegliere fra la causa ed i propri figli, e le urla han dipinto per mesi un cielo cremisi. Jericho, all’epoca dei fatti, aveva compiuto da poco ventidue anni. Dopo aver conseguito il tirocinio al Ministero, era divenuta Pavor a tutti gli effetti: di conseguenza, a conti fatti, era la sua guerra. Non c’era volontà di distinguere fra mezzosangue, nati babbani, purosangue o esperimenti; tutti erano soldati, e tutti erano pronti a divenire martiri per proteggere ciò nel quale credevano.
    Il 2023, è stato l’anno della Ribellione. Jeanine Lafayette era morta in uno scontro a Parigi, ma il suo secondo in carica Bernard Dubois, si fece volto della propaganda, diventando il Ribelle; fu lui ad organizzare le spedizioni punitive verso i Mangiamorte rimanenti, giustiziando chi credeva valesse la pena uccidere ed imprigionando gli altri, mentre i fluidi rami della Resistenza si propagavano su ogni organo amministrativo del Mondo Magico. Non fu pace per nessuno, quell’anno. Si trattò semplicemente di stabilizzare un potere che, in ogni caso, non avevano; tentativi futili praticati da inetti, e la Lowell lo sapeva per esperienza personale: la tennero in una cella a Perth per otto mesi. Vide i propri compagni morire, impotente; alcuni vennero prelevati per fare nuovi Esperimenti che, a dire dei Dottori, avrebbero aperto infinite porte: volevano essere in grado di estirpare il gene magico, di qualunque tipo esso fosse. Telecinesi, manipolazione ghiaccio, maghi e streghe. Si erano resi conto che si trattava di poteri d’inestimabile valore, e per questo avevano bisogno di poterlo controllare.
    Forse, fu proprio a causa della concentrazione dedita a quello studio, che nel 2024 si ebbe la Seconda Rivolta – quella indicata, nei libri di storia, come Rivolta dei Giusti. Nessuno seppe mai dove nacque il seme che portò al degenero della situazione; esistevano varie teorie, ma nessuna che potesse essere comprovata. I prigionieri riuscirono a liberarsi, nuclei che sino a quel momento erano rimasti nell’ombra tornarono a colpire - colpire duro.
    I ribelli vennero sterminati.
    Il 25 Dicembre 2024, i superstiti furono finalmente in grado di festeggiare il Natale. Famiglie separate da anni di lotte intestine, da blocchi istituiti ai confini delle diverse regioni; intrappolati in celle lontane, troppo lontane, da casa. Bambini cresciuti senza aver visto i propri genitori, e che per la prima volta erano in grado di stringerli al proprio petto.
    Una vittoria – perlomeno, questo era quanto andavano narrando i documento. Alla Lowell, non era mai fregato un cazzo. Aveva partecipato perché era suo dovere, e perché le piaceva sporcarsi le mani: gli ideali li lasciava a chi aveva qualcosa da perdere, e ivi riponeva la propria (effimera) speranza.
    Fu una piccola parentesi quieta, quella che coprì gli anni dal 2025 al 2027; breve, vero, ma tranquilla. Non abbastanza da essere definita pace, oberata dagli strascichi delle perdite precedenti. Jericho passò quegli anni ad esercitarsi nel lancio, riprendendo la mano con le armi, imparando a guardare il mondo con occhi che non le appartenevano. Durante uno scontro, infatti, perse un occhio: da quel momento, portò una benda spessa e nera sulla parte sinistra del viso, a rendere più malevolo e meschino il ghigno sulle labbra.
    Tuttora, la Lowell, porta la benda; nessuno sa per certo s’ella mai avesse ripreso la vista, o se semplicemente lo trovasse un ottimo oggetto scenico. Neanche voi lo saprete mai, lettori: a ciascuno la propria idea.
    La seconda guerra che ha segnato e stravolto le sorti del mondo magico, ebbe luogo fra il 2027 ed il 2028; maturava da lungo tempo, sotto la superficie della più pacata diplomazia; più di dieci anni. Si sentiva la terra fremere, e non sempre in senso metaforico, attendendo solamente una scintilla che desse origine ad un incendio che avrebbe lasciato del Vecchio Mondo solo cenere. Quella scintilla fu, per Jericho Lowell e Thad Clayton, la nascita di due bambini. I loro. Una relazione di pura convenienza, ma non per questo meno sincera. Erano amici, erano compagni, erano colleghi.
    E volevano uno spremiagrumi. La gente, nel nuovo millennio, si sposava per molto meno.
    Per quanto l’assetto nel corso degli anni fosse cambiato, la situazione degli Special non era affatto migliorata; avevano ancora bisogno di Garanti, erano ancora costretti a vivere in strutture apposite – indipendentemente da quanto utili si fossero dimostrati, e lo erano stati, durante la Guerra. Sostanzialmente, la loro era ancora una schiavitù legalizzata, e la cosa cominciava a puzzare alla ventinovenne. Se l’aveva accettato durante la sua vita, era semplicemente perché non aveva mai creduto che potesse esistere un’alternativa. Ma, buon Dio, non avrebbe permesso che i suoi figli subissero lo stesso, pregiudicato, trattamento. Meritavano di più, meritavano di meglio.
    Meritavano un Nuovo Mondo.
    Nel 2027, iniziò quella che venne definita la Guerra del Ponte, dove con ponte s’indicava metaforicamente un legame fra Passato e Futuro; gli Special che in anni avevano covato rancore verso le catene che li tenevano obbligati al ruolo di animali domestici, decisero di ribellarsi –e, tutti insieme, era stato impossibile per i maghi resistere alla potenza dello Squadrone.
    Jericho e Thad avevano puntato direttamente al pezzo grosso: Cole Baudelaire, il preside di Hogwarts.
    E quando i Jeriton puntavano qualcuno, centravano sempre l’obiettivo.
    Le porte della scuola spalancate, le pistole in pugno. Abituati com’erano a lavorare insieme, erano ormai diventati un’unica e fluida entità, ombre a scivolare languide fra le pietre del castello.
    L’ufficio.
    Via la bacchetta.
    L’obiettivo.
    Il braccio teso.
    Un sorriso.
    «Relax,»
    « this won't hurt »
    Lo sparo.

    La Guerra si concluse ufficialmente nel 2028; fu meno cruenta della precedente, ma più massiccia: non avevano ragione d’esistere prigionieri, e tutti coloro che erano contro la Loro ideologia, avevano firmato la loro condanna a morte. Non esistevano Ribelli, Mangiamorte, né bandiere bianche: o si accettava il cambiamento, oppure si moriva. Semplice, lineare, privo di sfumature fra il bianco ed il nero.
    Mentre Gina Linetti saliva ufficialmente a ricoprire lo scranno del Ministro della Magia inglese, i Jeriton –che negli anni verranno chiamati proprio così dai loro studenti- si tennero ben salda la scrivania ad Hogwarts.
    I Presidi del Terrore? Forse. Di sicuro, quelli del Cambiamento.
    Il 2028 segnò ufficialmente la nascita del Nuovo Mondo, quello in cui tuttora vivevano. Gli Special erano perfettamente integrati nella società, ed i giudizi riguardo al sangue più o meno sporco venivano ritenuti un atto contro la Legge stessa –e, per quel motivo, punibili.
    Non esistevano giustizia ed uguaglianza, quando mai in un Governo avevano motivo d’esistere?, ma era certamente ciò che più vi si avvicinava.

    Lanciò uno sguardo distratto alle tavolate di fronte a sé, posando appena gli occhi su ciascuna delle testoline vuote che, anche quell’anno, avrebbero dovuto passare al setaccio eliminando il grano più duro. Il suo essere estremamente anti sociale, non era certo migliorato con l’avanzare degli anni, anzi: se possibile, era peggiorato. L’essere per seduta lì, di fronte a tutti, e in posizione sopraelevata rispetto al resto della plebe, la faceva sempre sentire infinitamente meglio.
    Ciò non rendeva più semplice quel determinato giorno dell’anno: il banchetto. Bambini che ridevano, si abbracciavano, esultavano allegri. Colleghi che si salutavano dopo mesi di lontananza, chiedendosi come fossero andate le vacanze.
    Nauseante.
    Odiava lo smistamento. Quell’anno in particolare, oltretutto, a indossare il cappello Parlante ci sarebbero stati anche Jery e Thon; la Lowell aveva già ben chiaro dove i suoi piccoli psicopatici sarebbero finiti, eppure non poteva fare a meno di sentire un vuoto d’ansia al petto. Poteva anche essere un’assassina, ma erano i suoi bambini. Non era stata certa di aver avuto un cuore, finchè Jery non le aveva stretto l’indice con la piccola mano paffuta.
    La forma d’amore più pura ch’ella avesse ami provato in vita sua; neanche si ricordava più cosa significasse amare qualcuno senza desiderare qualcosa in cambio, prima di Jery e Thon. L’avevano cambiata.
    Nascose la mano sotto al tavolo stringendo nella propria quella di Thad, più forte di quanto fosse doveroso dalla situazione. Con il sorriso che gli rivolse, avrebbe persino potuto apparire tenera.
    E invece.
    «quanti ne facciamo fuori entro la fine dell’anno? Io dico trenta» sperò intensamente che Jery e Thon non le dessero motivo di finire su quella lista, ma non poteva neanche escluderlo. Sospirò profondamente, gli occhi socchiusi.
    Era giunto il momento.
    Dio Santo, quanto odiava i discorsi.
    «morracinese» sillabò, agitando le dita sotto al tavolo senza farsi vedere dal resto degli insegnanti. Un sorriso trionfante le curvò le labbra sottili, dipinte come sempre di rosso - il sangue dei nemici, si sussurrava nei corridoi- quando Thad perse.
    Si sedette comodamente, le braccia poggiate ai braccioli ed un luccichio luminoso negli occhi blu. Non era interessata a vedere chi fosse sopravvissuto all’estate, se ci fossero o meno i suoi nipoti o i giovanotti a cui aveva fatto da madrina; sapeva chi doveva controllare, e sapeva anche chi era giustificata a sbattere nella sala delle torture senza alcun motivo apparente.
    Non male avere la telepatia quando si era Presidi, mh? Bastava un pensiero che le andasse poco a genio, e Jericho diveniva Giudice -non sempre Giuria, mai Boia se Thad non era al suo fianco.
    «Benvenuti e bentornati, piccoletti e piccolette. Come ogni anno, ricordatevi che molti di voi sono qui grazie al nostro lavoro per migliorare questa società. Un ringraziamento sarebbe apprezzato. È sempre un piacere vedere il quantitativo di studenti aumentare e come il nuovo sistema scolastico sia palesemente migliore. Bando alle ciance, le ultime parole alla preside Lowell.»
    Bastardo infame di un Clayton, le aveva lasciato la parete peggiore. Lo fulminò con un’occhiataccia, annuendo però dignitosamente, una volta sola, prima di alzarsi in piedi. I capelli scuri erano raccolti ordinatamente dietro la nuca, l’abito nero ed elegante scendeva morbido fino a nascondere le calzature – una vera fortuna, dato che indossava scarponcini. Rivolse un sorriso al suo pubblico, sentendo i palmi fremere per il bisogno di togliersi dal centro dell’attenzione. Non era nella sua indole rimanere così esposta, specialmente se doveva farlo per degli Umani di cui non poteva importarle di meno – o quasi – e che reputava utili quanto le mattonelle su una zattera.
    Il mondo l’aveva già cambiato lei, non avevano più bisogno di loro. Di certo, non di tutti.
    «grazie, preside clayton» leggi: muori male «sapete tutti, e se ancora non lo sapete lo imparerete a vostre spese, che la pazienza non è la dote preponderante, qui dentro. Dovrete comportarvi civilmente, perché la Sala delle Torture non è l’unica minaccia: se raggiungerete il famigerato terzo strike, verrete Esiliati. Così è stato deciso» Citò, in tono formale, il paragrafo con il quale si era conclusa la trattativa con Miss Linetti. «ricordate che siete tutti uguali, nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts» ed allora il sorriso si ampliò, una luce perfida quanto divertita nello sguardo.
    «sacrificabili» il più forte vinceva sul più debole.
    «un consiglio spassionato: non fateci arrabbiare» Chinò il capo, battendo seccamente le mani fra loro. «buon appetito, e buon inizio anno»
    Li guardò, ma senza osservarli realmente.
    Quanti di loro sarebbero morti, cercando d’inserirsi nel Sistema?
    Ma Jericho Karma Lowell, la sua parte, l’aveva ormai fatta.
    Toccava ai pedoni cercare di fare Scacco Matto.
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    ROLE APERTA A TUTTI, ambientata nel 2037 quindi con i BIMBI OBLIVION ♥ /spoiler/#wat anche gli Special frequentano hoggy, quindi smistateli come fossero maghi. Può partecipare davvero chiunque, anche chi non ha figli nel futuro (per ora mlml); coloro che sono già maggiorenni, potranno presenziare in qualità di assistenti/insegnanti/lavoratori ad Hogwarts.
    VI INFORMO SOLENNEMENTE CHE SI TRATTA DI UN FUTURO AU, quindi non ci saranno davvero quelle guerre nei tali anni forse. Se avete dubbi, domande, o fudks sapete dove trovarci ♥ BUON DIVERTIMENTO
     
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    Rooney Hope Hamilton, Shia and Shane's daughter
    Non le avevano mai nascosto le sue origini, sempre che di origini si potesse parlare. Non sapeva chi fossero i suoi genitori biologici, per questo era sempre stata dubbia anche la sua linea di sangue, l’unica certezza, forse, i suoi poteri, scoperti in giovanissima età. Trovata da Shia Hamilton in uno dei tanti laboratori in cui, ancora, lavorava, Roo rappresentò da subito un riscatto per sé e per Shane, una sorta di dono di pace dagli occhi smeraldo, al quale Shia si era affezionato da subito. Che Shia sapesse, nessun esperimento era stato fatto sulla bambina, era rimasta intatta, integra, ed era una strega. Venne accolta in casa con lo stupore di Shane che per alcuni giorni ancora aveva continuato a domandarsi se quel rapimento nel rapimento fosse legale, poi, però aveva smesso di domandarselo, e si era convinto che la legalità veniva messa in secondo piano dinnanzi a quella bambina, la loro bambina. Crescendo, Rooney dimostrò di essere una bambina tranquilla, ma nemmeno lei poteva essere immune ai dolori della guerra, nemmeno a tre anni. La guerra aveva spezzato gli animi di tutti, ed un po’ anche il suo.
    La sua madrina era morta nella guerra del 2024, una guerra che le era sempre appartenuta. Aveva combattuto per cambiare le cose, Hope, ma Rooney l’aveva sempre saputo che lei era una guerriera, aveva imparato a vivere sapendo che da un giorno all’altro avrebbe potuto non rivederla più, lei stessa le aveva ripetuto che, se fosse morta, Roo non avrebbe dovuto esserne triste, perché le sarebbe sempre stata vicina in un modo o nell’altro, l’avrebbe guidata, sarebbe tornata sulla terra sotto forma di colibrì per starle vicina. Felicità, amore per la vita, gioia di vivere.
    Era molto piccola, Roo, l’ultima volta che aveva visto Hope prima di quella battaglia, ma le sue parole le avrebbe ricordate sempre, meglio del suo viso.
    Con il tempo, poi, il colibrì sarebbe diventato anche il suo animale guida.
    Shane, invece, non era riuscito a superare del tutto la morte di Hope.
    Perchè papà è andato via? Ci ha abbandonati? La bambina non capiva perché suo padre Shane fosse partito per un viaggio così lungo, e temeva, aveva paura che non lo avrebbe più rivisto.
    Papà sta soffrendo, Roo, sta soffrendo tanto e ha bisogno di stare da solo.
    Sia Shia sia Roo accettarono con il tempo il fatto che Shane non sarebbe più tornato lo stesso di prima, era impossibile, senza Hope. Tre mesi dopo, comunque, Shane fece ritorno a casa dopo aver viaggiato molto. Roo amava entrambi i suoi genitori allo stesso modo, ma con Shia aveva sempre avuto un rapporto speciale: se Shane era più duro, meno flessibile, al contrario Shia con i bambini ci aveva sempre saputo fare essendo lui stesso, di testa, un bambino - parole di papà Shane, eh! - Le avventure che la legavano ai suoi genitori, con il tempo, erano diventate innumerevoli, alcune meno belle di altre. Non si domandò mai perché avesse due padri dello stesso sesso, queste erano domande ormai diventate futili, ovvie, scontate, meno scontato era, ancora, sapere che avessero entrambi dei poteri così particolari. Shia aveva la capacità di generare sostanze tossiche dal proprio corpo, e Roo l’aveva scoperto un po’ alla volta a sue spese: era capitato più volte che, durante le sessioni di gioco sul tappeto di casa, Roo ne rimanesse più stordita del normale, forse Shia non ne era consapevole, ma la ragazzina aveva la capacità di assorbire i suoi veleni nei momenti meno opportuni e più vulnerabili dell’uomo. Questo, ovviamente, faceva incazzare tremendamente Shane e gli scontri tra i due partner erano all’ordine del giorno. Quando Rooney compì dieci anni chiese ai genitori una cosa che li lasciò sorpresi – e che fece piangere Shane – Domandò di poter avere, come secondo nome, quello della sua madrina, Hope, asserendo di averla vista più volte in giardino, sotto forma di un colibrì. Inutile dire che venne accontentata il giorno stesso.

    01.09.2037


    Papà...la barba, prude! Tentò invano di allontanarsi dalle braccia di Shia che l’avvolgevano come una Tentacula Velenosa – e pensandoci era l’accostamento migliore che potesse fare, complimenti Roo. Sei contento ora? Domandò nascondendo un sorriso, dopo che l’Hamilton l’ebbe sbaciucchiata a dovere. Mai. Rispose Shia.
    Roo… La ragazza guardò Shane, smise di sorridere, perché non si aspettava che le avrebbe detto qualcosa, suo padre Shane non parlava mai quando si trovavano alla fermata del binario 9¾ dell’espresso per Hogwarts, Roo sapeva che in quei momenti non riusciva ad essere sereno, pensava ad Hope, ai mille ricordi che lo legavano a lei. Quel posto era per lui speciale. Papà? Era forse brutto da dire, ma provava sempre una sorta di disagio quando Shane soffermava lo sguardo su di lei in quel modo, era diverso da Shia, non poteva ridergli in faccia o prenderlo in giro, non si sentiva abbastanza simpatica per poterci scherzare. Non si sentiva abbastanza.
    Stai attenta, okay?
    Certo. Annuì, aveva risposto troppo in fretta.
    Shane sospirò, accarezzandole la schiena sottile con una mano e la guardò allontanarsi per salire sul treno. Aveva paura, Shane, e Roo lo percepiva, viveva nel terrore di perderla da quando Hope lo aveva lasciato. Prima di salire sul treno, la ragazzina fece un passo indietro e tornò ad abbracciare Shane, forte. Vi voglio bene. Disse, ad entrambi. Tornerò con una pagella piena di E. E Shane sorrise. Onore ai Tassorosso. Posò una mano sul cuore. Perchè vivere era così difficile?

    Rooney salì sul treno, cercando con lo sguardo, tra le varie carrozze, quella in cui erano sedute le gemelle Fraser. Haven e Arden. Non avevano molto in comune con Roo, ma era questa differenza che le aveva unite sin dai primi anni di scuola. Roo non era un’amante degli sport, magari era brava a fare da mascotte, o a fare il tifo - a volte per la sua squadra, altre volte solo per Arden, ed erano quelle volte che si prendeva occhiatacce dagli altri tassorosso. Traditrice -
    Il viaggio verso Hogwarts fu lungo, ci fu il tempo per recuperare in un solo racconto tutta l’estate, durante la quale le ragazze si erano sentite tramite webcam e mai dal vivo, riuscì persino a rilassarsi un po’ ascoltando la musica dal suo ipod, sarebbe stata l’ultima volta quell’anno. Aveva sempre adorato i momenti da sola con sé stessa, in cui poteva contemplare l’universo in un mescolarsi di idee sempre diverse, e fare ipotesi su qualsiasi cosa le capitasse sotto lo sguardo, o ancora pensare a chi avrebbe rivisto al castello quell’anno. Avrebbe rivisto Jem, con il quale non è che andasse pienamente d’accordo, non quanto andava d’accordo con Heathcliff. Ci era praticamente cresciuta, con loro, ed avevano in comune molto più che essere stati cresciuti da una coppia dello stesso sesso, sapeva che anche a loro la guerra aveva portato via qualcosa: Dakota, il loro padre. Non c’era da stupirsi che Shane con il tempo avesse perso qualche rotella, comunque. Ma la casa di Shia e Shane era sempre stata aperta ad accogliere Jason Maddox ed i suoi figli. Shane aveva provato ad essere per lui un supporto, ed al tempo stesso aveva bisogno di qualcuno che stesse soffrendo le sue stesse pene, e nessuno lo avrebbe mai potuto capire come poteva fare Jason, e viceversa, d’altronde Shane era pur sempre un empatico. Avrebbe rivisto i suoi numerosi cugini, che comunque rivedeva anche durante l’estate: quel morbido zucchero filato di Davina, che non appena se ne separava già le mancava – Finn un po’ meno – Wes e River che non poteva fare a meno di vedere come adulti e come punti di riferimento, nonostante non fossero molto più grandi di lei, Levi e Eden che aveva conosciuto anni prima perché i loro genitori erano amici – Quante storie le aveva raccontato Shane su Stiles Stilinski! Così tante che alla bambina lui era già stato simpatico ancora prima di conoscerlo, era anche colui che aveva regalato al padre quel cappello morfo che cambiava forma a seconda delle situazioni. Roo ne era rimasta subito affascinata tanto da volerlo tenere in camera e dormirci insieme. Riusciva ad affezionarsi alle cose in una maniera straordinaria, ma girava voce che legarsi troppo agli oggetti materiali non fosse una bella cosa (?) - Anche Levi ed Eden avevano guadagnato da subito la sua simpatia. C’era Adelaide, che aveva conosciuto qualche estate prima, in occasione del suo ottavo compleanno. Roo, cinque anni appena, l’aveva vista parlare con qualcuno in giardino, seduta ai piedi di un grosso albero. Scoprire, poi, il motivo per il quale Ade a volte parlasse da sola, aveva reso Roo un po’ più cupa, non perché fosse spaventata o altro, ma anche lei avrebbe voluto rivedere Hope, avrebbe voluto parlare con lei ancora, ricordarsi come fosse il suo viso e la sua voce e questo per Roo rappresentava qualcosa di bello che non poteva avere. Aveva ritenuto Ade speciale, da subito. E poi c’era CJ che, al pari di una droga, rappresentava per Roo l’Odi et Amo: la spaventava, perché era imprevedibile, era sempre stato uno stronzo – non lo era mai stato con lei, però - ma al tempo stesso Roo necessitava del modo in cui riusciva a comunicare con lui senza dover parlare, era bello, a volte, avere qualcuno con cui avere silenziose conversazioni, per le quali bastava uno sguardo e poi - si odiava per questo, e Shia l’avrebbe punita per tale tradimento - la roba migliore gliela dava lui.
    Arrivata al banchetto aveva preso posto nella bancata dei tassorosso e salutato i restanti amici che davvero non aveva visto per tutta l’estate, aveva ascoltato in silenzio il discorso dei presidi che si raccomandavano di non farli arrabbiare, ma Roo sapeva che, come ogni anno, almeno un giro in sala torture le sarebbe toccato.
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    Rooney - Shane - Shia

    Edited by shane is howling - 7/2/2017, 21:56
     
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  4. don't joke with icesprite
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    weapons do not weep
    blame it on your daddy issues -- 21 | chrono | manip powers's assistant
    Antares Queen Icesprite, Damian and Anjelika's son
    Fece ondeggiare lentamente il bicchiere di cristallo che conteneva poco del vino offerto al banchetto, osservò a lungo quel liquido cremisi così denso e simile al sangue, contemplando l'ironia della sorte, l'ironia di quel momento. Il sangue, era stato questo elemento a seguirlo per tutta la vita passo dopo passo, come un'ombra malefica attaccata al culo. Si era sempre trattato di sangue, e nel sangue sarebbe finita.

    Adottato in fasce da Damian Icesprite ed Anjelika Queen, Antares era cresciuto in quella Villa sentendosi un estraneo. Per anni era sempre esistito qualcosa che valesse più di lui, qualcosa che fosse più importante, e quella cosa, cari miei, era il sangue. Lui non era un purosangue, e "sangue" fu la prima parola che Antares apprese, ancora prima di immaginare cosa volesse dire "mamma", che insieme a "papà" poi, erano le parole proibite. Crebbe sapendo di essere il diverso, colui che in famiglia non aveva un ruolo preciso, non era figlio, non era fratello, non era nipote, non sapeva come definirsi tra quelle quattro mura. I momenti di affetto erano rarissimi e venivano sempre dalle stesse persone, le stesse che non erano coloro che lo avevano adottato. Sangue, quanta importanza si da ad un liquido corporeo indispensabile a tenerti in vita, eh? Del colore del sangue, poi, era lo sciroppo che Damian gli somministrava ogni sera prima di dormire, senza dargli una spiegazione precisa di cosa fosse. Antares lo odiava, sapeva solo che fosse la cosa più amara del mondo, ma l'assumeva perché era suo padre a dargliela, e lui avrebbe voluto che lui lo amasse, non avrebbe voluto deluderlo come sembrava aver fatto dal primo giorno in cui aveva messo piede in quella villa. Non aveva mai fatto storie per lo sciroppo, ne si era domandato perché a sua sorella Asterope quello sciroppo non veniva dato. Si era fidato per tutta l'infanzia, perché loro, a conti fatti, erano i suoi genitori.

    Damian e Anjelika avevano pensato bene di fare le valigie alla soglia dell'anno 2028 e, spinti dalla ricerca di un luogo che potesse appartenergli per spirito, ideali e sangue, si erano ritirati in un piccolo paese del nord Europa, insieme ai loro figli. Damian non avrebbe potuto continuare a vivere, infatti, in un luogo che non riteneva più suo, non avrebbe potuto continuare ad esistere facendo il Vice di Gina Linetti, non scherziamo. E così aveva accettato il gentile ed asettico invito del Segretario del Governo Islandese che si trovava un po' allo sbaraglio, in lutto per la morte prematura del loro Ministro della Magia, con il quale Damian aveva sempre tenuto contatti amichevoli. L'Islanda aveva bisogno di una guida un punto di riferimento per quelle trecento mila anime, delle quali meno di un terzo rappresentavano la popolazione magica e di questi, il venti percento erano maghi purosangue che non si erano mai mescolati con i babbani del luogo. Un lusso che Damian non avrebbe mai sperato di ottenere in vita sua, una manna dal cielo in un momento in cui sembrava che tutto in Inghilterra stesse andando a rotoli. Alla fine ce l'aveva fatta, Icesprite, a costruire il suo regno di ghiaccio. E di ghiaccio lo era davvero. Importava essersene andato se poteva vivere come un Re e regnare sui suoi sudditi, invece che abbassare la testa ad un Governo in cui non credeva? Aveva fatto tombola, lui ed anche Anjelika, che aveva continuato a seguire la passione per Pozioni che l'aveva caratterizzata per anni nella loro vita inglese, ma adesso insegnava in una piccola scuola di magia privata, più piccola di Hogwarts, ma che racchiudeva i figli di purosangue che avevano deciso di non far mescolare la propria prole con i cani e porci che oramai pullulavano anche a Durmstrang. La disfatta non aveva colpito solo Hogwarts, infatti, era una macchia d'olio che andava a spandersi poco a poco, un fuoco demoniaco che andava a divorare ogni cosa lasciando, al suo passaggio, solo arbusti sterili. Damian credeva davvero in quell'ideale, era folle, e con il tempo lo era diventato ancora di più. Ma Antares era molto diverso da lui, Antares aveva sempre incoraggiato il mescolamento di sangue, era sempre stato convinto che un mondo in bianco e nero non gli potesse appartenere e non ci avrebbe voluto vivere. Per questo, infatti, era stato sempre il migliore ad attirare verso di se l'odio di suo padre.

    Entrò ad Hogwarts a tredici anni, nel 2031, fu in quell'anno, infatti, che iniziò a manifestare per la prima volta i suoi poteri, la cronocinesi. Ne rimase sorpreso, all'inizio, ma non poté non associare l'insorgere di quei poteri all'interruzione volontaria che aveva dato allo sciroppo magico di Anjelika, quello stesso sciroppo cremisi che per anni gli avevano somministrato senza una vera spiegazione, quello sciroppo che, aveva appreso, teneva bloccati i suoi poteri.
    "Lo abbiamo fatto per proteggerti, e proteggerci, eri uno sconosciuto per noi non sapevamo quale potere avessi."
    Sono vostro figlio, dannazione, e comunque non eravate obbligati a prendermi!
    Quella scusa non reggeva, loro lo sapevano bene ed Antares non li avrebbe mai perdonati. Venne praticamente sbattuto ad Hogwarts, tredicenne, almeno li sarebbe stato lontano da loro, almeno avrebbe imparato ad usare e controllare quel potere che per anni era rimasto assopito.
    Ad Hogwarts venne smistato tra i Corvonero, la casa dei saggi, ma Antares non era sicuro di essere una persona "saggia", in realtà non era sicuro di essere e basta. Erano troppi i momenti in cui non riusciva nemmeno a sentirsi, a non percepire se stesso come un persona facente parte di una comunità di suoi simili. Non era facile riuscire ad integrarsi dopo aver passato la vita come escluso, fuori da un cerchio familiare che non gli apparteneva. Tiger e Patrick erano stati gli unici che avevano provato a dargli calore in qualche modo, ma loro non erano la sua famiglia, entrambi ne avevano già una, e lui? Lui chi aveva? Persino sua sorella per anni sembrava averlo odiato per motivi che gli erano sconosciuti, aizzata dai suoi genitori. Ma poi lo aveva capito, Antares, e forse era grazie a questa riscoperta intelligenza che il cappello parlante aveva deciso di smistarlo tra i corvonero - alla buon ora, direbbe qualcuno - aveva capito alla perfezione il piano di Damian di studiarlo come si fa con una creatura in laboratorio, magari voleva solo usare il suo potere, magari era intenzionato a scoprire se reprimendo i poteri di uno special sarebbe stato in grado di creare un obscuriale ancora più potente, ma aveva sbagliato i suoi calcoli, lui non era la sua cavia. Quante volte aveva bloccato il tempo e si era ritrovato a schiaffeggiarlo fino a ritrovare la pace? Poi, lo aveva riavvolto sempre, tornando al punto di partenza, si era placato e aveva proseguito la sua vita su una linea pacifista, non solo perchè, sia di nome che di fatto, lui era contro la guerra ma soprattutto perché in fondo a quei bastardi dei suoi genitori voleva bene, perché voleva bene anche a quella stronza di sua sorella. Perché passare anni affianco ad un mostro te lo fa amare comunque. Questo significava essere umani ed Antares era più umano di quanto gli sarebbe piaciuto ammettere.
    Ma questo non era sufficiente a placare la sua rabbia fanciullesca, che lo portava a minacciare suo padre con frasi tipo In una realtà parallela sei morto e risorto in così tanti modi che nemmeno Gesù Cristo.
    Un piccolo macabro passatempo - che gioco di parole - che aveva messo in atto in maniera pericolosa solo per mettersi alla prova, un gioco malefico, "Uccidi Icesprite e riavvolgi", l'importante comunque, era riavvolgere, non voleva davvero ucciderlo, non ancora.

    Sorrise, il sangue lo riportava sempre a quei brutti ricordi, si ritrovava seduto a quel banchetto nella tavola dedicata agli insegnanti, affianco al professore del quale era diventato assistente da ormai un anno, Fox Withpotatoes. La sala iniziava ad essere gremita di studente di ogni genere, di ogni discendenza ed ogni razza, con poteri differenti e caratteri ancora più vari, e sapeva, Antares, che quello era il posto adatto a lui. Non la fredda Islanda, colma di soldati impostati e costretti a vivere secondo delle regole, ma quella scuola variopinta tanto che nemmeno un pittore sarebbe riuscito a rendere più colorata ai suoi occhi. La sua scuola che, sebbene non fosse un simbolo di giustizia ed uguaglianza era ciò che più gli si era avvicinato nell'arco di cinquant'anni e credetemi che per una creatura costretta a vivere per anni tra le mura di Icesprite, quella scuola significava molto. Persino Asterope, da bambina stronza patologica, si era convertita apparentemente a quella causa, ed aveva deciso di non vivere da reginetta dei ghiacci in Islanda, ma stargli vicino a scuola. Rimanendo seduto al banchetto, non si concentrò su qualcuno in particolare degli studenti che in silenzio, ascoltavano il discorso dei presidi, ma avrebbe avuto modo di salutare più persone dopo quel banchetto. Per il momento, però rimase concentrato sul suo vino rosso.
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    «ehi guarda, c’è quella strana!»
    «strana a chi, stronzo?»
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    Pioveva, ma a lui non importava. Il cappuccio ben calato, la testa china a proteggere la brace della sigaretta che, insolente, resisteva alle gocce d’acqua. Le luci dei lampioni parevano ignorarlo, isolandolo in un’oscurità del quale si sentiva parte e padrone.
    Sentì i passi sul selciato, il sorriso la piega perfida di un pugnale conficcato nel petto. Si inumidì le labbra, allontanandosi dal cono d’ombra nel quale s’era celato per far sì che la morbida luce del lampione potesse evidenziarne i contorni: un cappotto più grande della sua taglia, le gambe magre e le spalle strette, più alto della maggior parte dei suoi coetanei.
    Crane Junior Hamilton chiamami così e ti spacco i denti, detto C.J., si tolse il cappuccio lasciando che la pioggia disegnasse pigre strisce bagnate sulle guance, sulla fronte, sul naso dritto. «ehi, guarda» esordì con voce melensa, la pigra melodia d’un arpista folle quanto meraviglioso. La bocca una spennellata di rosa, e gli occhi, di un verde sporco e delicato quanto cristallo, a sprizzare cupa malizia: in una parola, guai. Grazie alla telepatia, il diciassettenne avrebbe potuto evitare di sporcarsi le mani; se non l’avesse fatto, però, dove sarebbe stato il divertimento? Respirò l’aria umida di Londra, passando il bastone da hockey da una mano all’altra. Il suo sguardo non lasciò neanche per un istante il ragazzo di fronte a sé, vent’anni o poco più. Dove Adelaide poteva apparire inquietante, CJ era semplicemente terrificante; difficile da crederlo, con quel fisico smilzo ed ossuto che si ritrovava. Ma bastava vederlo, sotto le nuvole di una Londra ignara, per comprendere che qualcosa non funzionava nel modo corretto, dietro quelle iridi incredibilmente chiare.
    E qualcosa, al contrario, funzionava dannatamente bene. CJ Hamilton possedeva la freddezza del padre e l’audacia della madre, gli occhi di lei ed il sorriso di lui; non si cacciava nei casini, lui li creava. Ci viveva di quell’adrenalina, masticandola fra i denti come una gomma alla fragola. «quello che sta per perdere l’uso del braccio sinistro. Dì addio alla borsa di studio per la lacrosse, coglione» si morse il labbro superiore arcuando entrambe le sopracciglia, prima di avanzare verso l’altro.
    Rapido, meschino. Arrabbiato.
    Colpì con il bastone all’altezza del collo, ed addestrato come solamente uno studente di Hogwarts poteva esserlo, non mancò il bersaglio; e continuò a colpire, CJ, mentre sentiva le ossa spezzarsi sotto l’impatto con il bastone, mentre il sangue cominciava a sporcargli le guance ed un sorriso gli curvava le labbra.
    Non avrebbe dovuto, un ragazzino come lui, saper sorridere in quel modo.
    Non avrebbe dovuto essere un sacco di cose, Crane Junior Hamilton.
    Ma era di CJ, che si parlava: e per quelli come lui, non esistevano regole.

    «bastardi» sibilò con il labbro spaccato, un occhio chiuso a causa del gonfiore alla palpebra. Non riusciva a vedere i suoi fottuti aguzzini, figuriamoci reagire alle percosse – e forse, in fondo, neanche lo voleva. Che senso aveva picchiare qualcuno se non rispondevano alla violenza con altra violenza? Che vita era, se non sentiva il proprio sangue sporcargli la lingua almeno una volta a settimana?
    Di certo, non la sua.
    Qualcuno gli prese la testa e la sbattè violentemente contro il cofano di un automobile, facendo partire l’antifurto. Assordato dall’allarme, non riuscì neanche più a sentire i movimenti dei suoi nemici: sapeva solo di essere accerchiato, il telepata. Cercò di tossire, le dita artigli contro il braccio dell’altro ragazzo mentre cercava di liberarsene. Respirava a stento, CJ – ed era obbligato ad ingoiare il proprio sangue, se voleva riuscirci almeno un minimo. La vista gli si annebbiò, una patina scura ed opaca ricca di puntini luminosi; un pugno lo colpì così violentemente allo sterno, da fargli sputare la poca aria che era riuscito ad immagazzinare. Stava perdendo conoscenza. Eppure sorrideva sempre, CJ Hamilton.
    «questo è tutto quello che sapete fare?» rise, ed una ginocchiata allo stomaco gli fece perdere l’equilibrio: il braccio di Tom era ormai l’unica cosa che lo teneva in piedi, eppure CJ continuava a fare il cazzone. Perché?
    Poteva anche essere un Hamilton – di sangue, di sorriso, di quei cugini che aveva visto crescere. Poteva anche avere l’incantevole bellezza di sua zia, e provare il sadico piacere di suo padre.
    Ma CJ era il figlio di Heidrun Ryder Crane, dopotutto. Cosa potevate aspettarvi.
    «hai rotto il braccio a ivan, fottuto ragazzino, e ora non potrà più giocare. Perderemo il torneo» che peccato. Per tutta risposta, CJ sputò un grumo di sangue in faccia a Tom, per poi passarsi la lingua sul labbro inferiore. «mezze seghe» commentò strascicando le parole, con quel poco di fiato che era riuscito a recuperare. Quel dolore, quel martellare dietro la tempia, era tutto ciò di cui CJ aveva bisogno; amava la sofferenza, e poco importava che fosse propria o altrui. Anche perché, andiamo: quando era propria, tendeva ad essere anche altrui – e di più, molto di più.
    CJ non dimenticava, figli della merda, e sicuro come l’oro non perdonava un cazzo di nessuno.
    «sei nuovo da queste parti, stronzetto. Ti facciamo capire noi come funziona» se per loro funzionava cinque contro uno, a lui andava più che bene.
    Gli avrebbe fatto rimpiangere anche il loro primo, fottuto, vagito.
    «non credo» CJ non riuscì a vedere oltre le spalle di Tom, ma non aveva bisogno di farlo per riconoscere Adelaide. Udì dei rumori di lotta, le voci improvvisamente soffocate e le grida incastrate fra palato e lingua.
    Ed il sorriso, languido orgoglio denso e dolce come miele, incurvò maggiormente le labbra sottili del telepata, gli occhi due violacee fessure d’odio e guerra.
    Tom lanciò un’occhiata alle proprie spalle, e terrorizzato lasciò la presa cu CJ, che ricadde sui propri piedi e tornò a respirare a pieni polmoni. Dio, che incantevole bellezza i fratelli Hamilton e Milkobitch, Crane a tempo perso e Quinn a convenienza.
    «ade» allegro, lui, con quel ghigno di maliziato compiacimento.
    «cj» esasperata e distratta, Adelaide Milkobitch, mentre i suoi Inferi bloccavano i cinque babbani con lunghe e cadaveriche braccia a stritolarne i toraci, e le mani a soffocare I convulsi urli laceri.
    «papà aveva detto che sarebbe stato l’ultimo trasloco»
    Non era propriamente facile avere a che fare con CJ e Adelaide, e difficilmente potevano permettersi di rimanere nella stessa casa per più d’un paio di mesi. Si infilò una sigaretta fra le labbra, Tom ancora atterrito al suolo a fissare le Creature di sua sorella, e si strinse nelle spalle.
    «gemes è un bugiardo» lungi dal ragazzo dare ai propri genitori un nome diverso rispetto a quello di battesimo – figuriamoci appellativi familiari, escludendo i mai tramontati esseri umani che hanno avuto un rapporto sessuale al fine riproduttivo per i quali si prendeva sempre coppini più o meno sentiti sulla nuca.
    Di solito, più.
    «siamo appena arrivati, cj» non era una vera ammonizione quella di sua sorella, più che altro una triste constatazione. Il ragazzo accese la sigaretta ed aspirò una boccata di tabacco, soffiando poi il fumo dalle narici - e che bruciore, santiddio.
    «possiamo sempre liberarci dei testimoni» propose con un tono conciliante e persuasivo, lanciando uno sguardo al retrogusto di liquido infiammabile a Tom.
    Sorrideva ancora, CJ. Perché Tom aveva smesso di farlo?
    «siamo qui da sole quarantotto ore» sospirò, ma non declinò del tutto l’offerta.
    Adelaide Milkobitch aveva promesso di prendersi cura di suo fratello a qualunque costo; se non fosse stata disposta a pagarne il prezzo, non avrebbe mai fatto a sé stessa un giuramento del genere.
    Nel modo sbagliato, ma un amore giusto.
    Un amore sbagliato, ma nel modo giusto.
    Malsano, tossico. Dipendente e vincolato – non solo dal sangue, ma dagli abbracci quando nessuno li guardava, dalle volte in cui CJ aveva promesso a Adelaide che avrebbe sistemato tutto, dai segreti che negli anni avevano seppellito. Insieme.
    Sempre, insieme.
    «chi cazzo siete?» I due fratelli, le cui età divergevano di solamente due anni, si voltarono contemporaneamente verso il babbano al suolo. Adelaide, gli occhi blu impenetrabili, inclinò il capo facendo scivolare i capelli neri da un lato, l’orecchio sporto ad udire conversazioni provenienti da un altro mondo; CJ, il sorriso pigro ed i ferini occhi verdi, si chinò al fianco di Tom, la sigaretta incastrata fra i denti ed una mano dalle dita lunghe e sottili a stringergli la spalla.
    Chi cazzo erano?
    Dipendeva. Per Gemes, erano una lodevole sciagura - dove lodevole stava per Ade, e sciagura per CJ. Per Heidrun, un senso di dejà vù - perché rivedeva sé stessa, e rivedeva Gemes, e rivedeva ciò che loro erano stati in tutto ciò che i figli erano e non erano.
    Per qualcuno erano la progenie di Satana, per altri ciò che di più vicino potevano trovare al Paradiso.
    Erano amici, cugini, nipoti. Erano amanti ed erano amati, erano odiati ed erano temuti.
    Erano un Tassorosso ed una Corvonero.
    Erano la ragazza che amava le stelle, e quello che le stelle preferiva provarle.
    Ma c’era un dettaglio, unico ed infinitesimale, che non cambiava mai.
    Passava il tempo, passavano le generazioni; passava il veleno come passava il nettare, i sorrisi e le risate simili a sussurri nel buio.
    Passava tutto, ma loro non passavano mai.
    «gli Hamilton, figlio di puttana» ed il pugno cozzò con forza contro il viso di Tom, le nocche di CJ ad aprirsi strisciando i denti di lui.
    Almeno loro, almeno sempre.

    Il fondotinta della sorella copriva gran parte dei lividi di CJ, ma per ignorare i tagli che gli deturpavano lo zigomo ed il sopracciglio, ci sarebbe voluto ben più di un prodotto cosmetico. Mantenne lo sguardo basso mentre rotolava pigramente la posata sul piatto, privo di alcuna voglia di consumare cena insieme alla sua famiglia. Il giorno prima della partenza per Hogwarts, il Tassorosso non riusciva mai a mangiare – nervosismo, eccitazione.
    Pura e semplice paura, che mai avrebbe ammesso ad anima viva.
    «gemes, vuoi sentire una storia interessante?»
    Ci risiamo. Alzò gli occhi al cielo ma non guardò nessuno dei commensali, ignorando intenzionalmente lo sguardo di sua madre.
    «anche se ti dicessi di no, me la diresti comunque»
    The same old story all over again. I due ragazzini avevano avuto, sin dalla loro primissima infanzia, uno strano esempio della concezione di amore e famiglia; non c’era poi da stupirsi che fossero cresciuti così, trovando nell’errore il giusto e nel giusto qualcosa di scorretto.
    «ho incontrato alcuni dei nostri vicini di casa…»
    «funziona così, con il vicinato»
    «..in ospedale» continuò Run, ignorando volutamente l’intervento di Gemes.
    CJ rimase con lo sguardo puntato alla propria cena, mentre il sospiro di suo padre pareva vibrare fra le pareti della stanza. Sentiva su di sé anche gli occhi blu della sorella, ma rimase comunque imperturbabile – c’era un motivo se lui e Finn sbancavano sempre quando giocavano a poker.
    «crane»
    «dimmi»
    «tuo figlio, non te»
    Gli angoli delle labbra del ragazzo si curvarono verso l’alto, mentre ruotava pigramente gli occhi verdi verso l’Hamilton. «parte del mio corredo genetico» incalzò, rifiutandosi di chiamarlo papà. Era una legge non scritta, immotivata e del tutto irrazionale – infantile, per di più.
    «come ti sei procurato quei tagli?»
    «hai mai visto cinquanta sfumature di grigio?»
    «è colpa mia» intervenne Adelaide spezzando la tensione ed attirando l’attenzione su di sé, la schiena dritta e l’espressione serena.
    Run e Gemes si scambiarono una silenziosa occhiata d’intesa, e non c’era bisogno della telepatia per sapere a cosa stessero pensando. Quando suo padre chiuse gli occhi massaggiandosi stancamente le palpebre, Crane Junior seppe cosa sarebbe accaduto di lì a breve.
    «erano davvero in cinque?» annuì.
    «avevano qualche arma?» si strinse nelle spalle. «mazze, perlopiù. Una bottiglia rotta»
    «costole?» «ventiquattro»
    «Adelaide, confermi?» «confermo»
    Run sorrise, guardò Gemes e si picchiettò il palmo della mano. «il galeone, Hamilton» «CJ, sono profondamente deluso»
    «cosa avevate scommesso, questa volta?»
    «un emorragia interna e un omicidio»
    «ho già detto profondamente
    «quindi lo sapevate già? l’avete sempre saputo?» entrambi inarcarono le sopracciglia. «certo» «e non vi disturba?» ancora un silenzioso scambio di battute, prima che gli occhi verdi di Run incontrassero quelli chiari di CJ.
    Tutto sua madre. «avevi un buon motivo» una fuggevole occhiata ad Adelaide.
    Crane Junior Hamilton, diciassette anni, sorrise – privo di malizia, senza alcun sapore amaro sul palato o di bile fra i denti.
    Che famiglia di cazzoni, quella degli Hamilton Milkobitch, Crane a tempo perso e Quinn a convenienza.
    Solo Dio e CJ sapevano quanto fottutamente e disperatamente amasse quel branco di disadattati. Perché era la sua, famiglia.

    01.09.37


    «non ci prov-» il tentativo di evitare i saluti fallì miseramente come ogni anno; nulla poteva impedire a sua madre di stringerlo in un abbraccio, e per quanto CJ ne dicesse, non poteva fare a meno di nascondere un sorriso nella sua spalla. «crane, troppa confidenza» si scosse come un cane appena uscito dall’acqua, la sigaretta già infilata fra le labbra. Il treno sbuffò alle sue spalle, indicando che stava per partire. Voleva salire prima che il resto della famiglia riuscisse a districarsi nel labirinto di Dedalo che era il binario nove e tre quarti; poteva tollerare a stento le strette dei suoi genitori, figurarsi quelle di suo nonno, dei suoi zii, o di quelli che si fingevano tali. Ronan era stato abbastanza esaustivo sugli abbracci dei suoi papà, da aver convinto CJ ad evitare William Barrow e Jonathan Winston finchè non si trovava seduto sul vagone. «e dio grazie che io abbia la moltiplicazione» gli aveva detto sbuffando, la fronte poggiata contro il vetro. «papà non ci fa uscire, se prima non salutiamo tutti i cani»
    «cj, cerca di non uccidere nessuno» il Tasso sorrise, sghembo e distratto come la fenditura di una nuvola rattoppata male. «vedrò cosa posso fare»
    Se non ci fosse stata Adelaide, e lo sapevano entrambi, quel saluto si sarebbe risolto in un solo modo, per il puro principio di andar contro quanto ciò che gli era stato detto: omicidio di massa.

    «DOVE SONO LE MIE TROIETTE?» gridò sguaiato, lanciando la valigia sopra i sedili ed affacciandosi all’interno di ogni vagone. «che hai da guardare, ti piace la merce esposta?» domandò ad una Grifondoro (Eden), poggiandosi seducente con una spalla all’entrata della carrozza. Adelaide lo spinse in avanti, volgendo un’occhiata di scuse alla giovane. «siete qua?» posò lo sguardo arrogante sulle gemelle Fraser, per poi addolcire il sorriso quando riconobbe Roo. «zio sciaia ti ha graffiato la faccia» le fece notare, indicando i segni rossi prodotti dalla barba. Le sopracciglia arcuate, lo sguardo ferino velato di malizia ed ironia che pareva l’esatta trasposizione di quello di sua madre - la sgualdrina di sua madre -cit. – CJ proseguì il suo percorso. «yo» salutò Uran, Cash e Rude con un cenno del capo, schioccando un bacio alla Beech. Sì, sapeva che si chiamava Jackson, ma dire Beech era molto più divertente.
    Ed era l’unico modo, per CJ, di onorare la memoria di una donna che neanche aveva mai conosciuto - ma che, dio, sembrava aver da sempre, e per sempre, abitato anche la sua vita. «yoyoyo» continuò, allungando il braccio all’interno di un vagone per battere il bro cinque wat a Finn e Davina, beccandosi invece una stretta assassina da ninja dalle dita sottili di Wes. «se premo in questo punto, ti paralizzo il braccio per tre minuti. devi essere sempre pronto a difenderti, cugino. Non si sa mai quando qualcuno voglia farti il culo» il sorriso con cui lo disse, fece intendere a CJ che stava parlando di sé stessa. Dopo diciassette anni, ancora non aveva capito se gli stessero tutti sul cazzo, o se quello che provava per loro fosse semplicemente l’unica forma di affetto che conoscesse. «stronza» si abbassò in tempo per evitare il pugno di lei, e defilato proseguì la sua tratta verso le troiette di fiducia, ossia i Winston Barrow Beaumont. Non trovò neanche zio River, ma che dire: avrebbe pianto tutte le sue lacrime, per quella perdita, dopo.
    «non vieni con me?» si fermò improvvisamente quando Ade aprì un vagone deserto, spingendo la valigia di fronte a sé. Lei scosse il capo, abbassando lo sguardo sui propri piedi prima di volgerlo fuori dal finestrino, dove ancora poteva vedere i genitori intenti a salutare i pargoli in partenza – compresi, sfortunatamente, i loro. «preferisco rimanere qui» non aggiunse altro, ma non ce ne fu bisogno. CJ conosceva sua sorella meglio di quanto conoscesse sé stesso; malgrado fossero l’uno l’opposto dell’altra, erano riusciti a sintonizzarsi su una stessa lunghezza d’onda che era solo loro, dove nessun altro poteva accedere: ad Adelaide, le persone vive, non piacevano particolarmente. Da un po’, da sempre. «vai, cj. Ci vediamo a Hogwarts» chiuse la discussione prima ancora che lui potesse dirle che, fanculo, i suoi amici potevano aspettare. Si fermò sulla soglia della carrozza e, dopo essersi assicurato che non ci fosse nessuno, prese la mano di Ade fra le proprie e le posò un bacio sulla fronte. «sei così fottutamente asociale» bisbigliò con un sospiro, dai venti centimetri d’altezza che li separavano. «ti uccido nel sonno» considerando che sia lei che Run avrebbero ancora potuto comunicare con lui, non era una grande minaccia. Si strinse nelle spalle. «mancherei a papà» «l’hai chiamato papà» «ah, non era il momento diciamo cazzate? devo aver frainteso» Adelaide alzò gli occhi al cielo, lasciandosi cadere pesantemente sul sedile. «sei uno stronzo, crane»
    «non sei la prima a dirmelo»
    Almeno lui, almeno sempre.
    La osservò ancora una manciata di secondi; CJ non si sprecava neanche a preoccuparsi di (o per) sé stesso, ma lei? Era sua sorella. «se cambi idea, li mando tutti a fanculo e arrivo» Lei gli sorrise a labbra strette, le mani abbandonate in grembo. «lo so» lo sapevano sempre, CJ Hamilton e Adelaide Milkobitch.
    Disfunzionale sotto diversi punti di vista, ma pur sempre una famiglia- tutto ciò che avevano, e tutto ciò che desideravano avere.
    «alla buon ora, stronzi» biascicò, entrando nella carrozza dei gemelli + Meara come se gli appartenesse di diritto – cosa che, effettivamente, secondo lui, era. Chiuse le porte dietro di sé ed aprì il finestrino, la sigaretta già accesa a consumarsi pigra fra le labbra sottili. Da sopra la spalla, lanciò uno sguardo liquido e bruciante alla Figa D’oro, un ghigno sbilenco visibile solo alla Serpeverde. «vi sono mancato?» si umettò le labbra e soffiò il fumo in uno sbuffo lento ed allusivo, ancora girato verso Meara, prima di spostare quello stesso, perverso, sguardo, sul suo Winston preferito. Jonny trovava incredibilmente entusiasmante il fatto che suo figlio fosse il miglior amico del figlio del suo migliore amico, aka Gemes, ma CJ lo trovava solamente offensivo.

    «ricordate che siete tutti uguali, nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts. sacrificabili»
    Regole troppe strette per un corpo elastico come quello dell’Hamilton, una prigione di pietra incapace di tenerlo ancorato al fondo. Intrecciò lo sguardo a quello della preside senza battere ciglio, CJ, prima di spostare l’attenzione su Adelaide. Non farlo. Voleva urlare, il Tassorosso; voleva gridare a tutta quella stanza piena di stronzi quanto inutile fosse la loro presenza, quando non disturbante. Voleva essere sbattuto con forza contro il muro, incassare un pugno allo stomaco; voleva sanguinare, CJ Hamilton.
    E voleva replicare ad ogni colpo con un altro colpo, sentire la carne sotto le dita, macchiarsi le nocche di sangue. Voleva soffiare il fumo in faccia all’autorità, drogarsi e bere finchè non avesse più saputo il proprio nome - ed ancora gridare, con quella rabbia immotivata che ogni santissimo giorno brillava feroce negli occhi verdi.
    Le dita tremavano impercettibilmente, il respiro accelerato.
    Così sorrise, il diciassettenne, con una piega morbida e provocatoria che trovava l’ironia in sé stessa.
    Un serpente che si mordeva la coda.
    Senza alcun preavviso, prese uno dei primini dalla cravatta e gli infilò la testa nel piatto di porridge. Ritrasse le dita dopo una decina di secondi, lasciando libero il Tasso di tossire la sua cena sul tavolo di quercia della Sala grande. «perché?» Gli domandò, gli occhi resi più grandi dallo spavento.
    Perché la vita è una merda, piccoletto. Perché questo è solo un’altra scuola di merda, con gente di merda, che non ti porterà da nessuna cazzo di parte. Perché non è giusto, perché fa male senza motivo, perché a volte sono semplicemente e fottutamente incazzato senza via di fuga. Perché è meglio imparare subito con quali minchioni avrai a che fare; e mi rimpiangerai, coglioncello, quando ti strapperanno la pelle in sala delle torture.
    «perchè posso» rispose invece, il ghigno sbilenco.
    Era un Hamilton, dopotutto.

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    «CJ»

    «ADELAIDE»

    «RUN»

    «GEMES»


    Edited by selcouth - 8/2/2017, 03:04
     
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    16 y.o |Judas and Ashley's Daughter| Medium

    Primo settembre


    Mi sta bene? disse la mora facendo una piroetta su se stessa, non tanto volentieri ma sua madre sembrava così felice di vederla in quel nuovo abito che se le avesse detto che lo odiava probabilmente ci sarebbe rimasta male e l'ultima cosa che voleva era ferirla.
    Cassandra sei bellissima rispose la madre, lasciandosi andare ad un sorriso, orgogliosa di vedere la sua adorata bambina ormai sedicenne. Le brillavano gli occhi e chiamò anche il compagno Amore, vieni dai, guarda com'è bella urlò, continuando a girare intorno alla ragazzina ormai stufa di tutte quelle attenzioni, tanto che alla fine si mise a sedere davanti allo specchio. Mamma, da quando sei così gioiosa? Non è il primo anno che vado ad Hogwarts rispose Cassidy per poi notare il padre che peggio della madre gongolava per quella visione. Possibile che ogni anno dovevano fare la stessa scena? Non era così speciale andare ad Hogwarts, secondo lei, ma loro continuavano a dirle che avevano combattuto molto per far si che anche gli special avessero lo stesso diritto dei maghi; erano stati in prima linea e quello che avevano fatto era solo per il bene della loro piccola, quindi non c'era da stupirsi se erano sempre così felici di vederla frequentare la scuola, inoltre si sarebbe diplomata visto che loro al contrario non lo avevano fatto, perchè mai non dovevo essere fieri, per la loro bimba solo il meglio.
    Cassidy, smettila di essere così scontrosa, non stai andando al patibolo, dai fai vedere al papà come sei bella? Esclamò l'uomo con quel tono caldo e dolce che non resistette e lo accontentò. Sospirò e tornando in piedi si mostrò in quell'abitino rosa. Rosa. Lei odiava il rosa e loro lo sapevano Cassidy sembri una bambola dissero all'unisono e scoppiarono a ridere; che le stessero facendo uno scherzo? Alla fine ci era arrivata, la stavano schernendo. Mà...pà...dai mi stavate prendendo in giro! Me lo tolgo subito disse rossa come un peperone e scappò in bagno per mettersi i suoi amati jeans strappati e maglietta colorata sempre grinzosa. S'imbatte nel farlo in Persephone, le sorrise stavi parlando ancora con loro vero? le chiese senza però un cenno di cattiveria, ormai era solo abituata. La ragazzina annuì mi hanno fatto uno scherzo rise poi alla fine facendosi vedere in quel ridicolo abito rosa.

    Dieci anni prima


    "Seguimi...Avanti piccola, puoi farcela...vieni..."
    Non capiva, perché mai dovevano correre in quel modo, come mai stavano lasciando quel posto, non erano al sicuro?
    "Mamma aspettami, non riesco." Cassidy arrancava, aveva solo sei anni e non era in grado di correre veloce, aveva le gambe piccole, così allungò la manina per afferrare la maglietta della madre ma questa l'anticipò e la prese in collo. Fu un secondo e si ritrovarono davanti ad un portone. Quasi svenne, non era abituata a viaggiare in quel modo,la madre non lo usava mai se non in casi di emergenza, forse lo era. Ma come poteva saperlo, era piccola allora. Bussò forte e subito dopo vide il volto di una donna, era la zia Aveline.
    "Aveline ti prego apri la porta, devi teneri Cassandra, io devo andare, devo andare da lui."
    Non si dissero altro le due amiche e la piccola bimba venne presa dalla rossa, un veloce bacio e quella frase “ Torneremo, sempre”


    Primo Settembre


    Cassidy, Percy siete pronte, Andiamo? la voce di Nate arrivò dal fondo delle scale, era stanco ma felice in qualche modo, aveva la famiglia che tanto desiderava, come poteva non esserlo. Rispose prima la rossa, bella come la madre Arriviamo papà , poi si voltò verso la mora, colta in fallo mentre la fissava, abbassò lo sguardo Verranno anche loro? chiese improvvisamente e lei annuì, non andava da nessuna parte senza la sua famiglia Papà starà alla larga dal dormitorio femminile, tranquilla e mamma ha promesso di non spaventare nessun ragazzo, vero? disse quest'ultima frase rivolgendo lo sguardo proprio verso il genitore in questione che finse di non capire, mentre il compagno al suo fianco se la rideva. Cassidy scosse la testa e insieme a Percy scesero.

    Dieci anni prima


    Aveva una strana sensazione, qualcosa non andava e per una bambina di sei anni non era normale, ma in quel periodo di guerre cosa lo era? Lei non capiva bene cosa stava succedendo, ma la madre le aveva detto che era speciale, era come lei e papà una persona diversa ma con un dono ed in pericolo perché troppo preziosa.
    "Cassidy amore"
    "Mamma?"Era dubbiosa, non l'aveva sentita arrivare e non aveva neanche udito il campanello eppure era da giorni che osservava ogni mossa al di fuori della stanza.
    "Amore" intervenne il padre, ma quando era arrivato? Non importava. Sorrise e gli corse incontro ma quando fece per abbracciarli si ritrovò col viso a terra.
    "Piccola...ci dispiace...dovrai essere forte....ma la zia è con te. Noi saremo qui, sempre."



    Ehi sfigata? Dimmi fate un festino tu e i tuoi amici morti? intervenne Karl ( chi è? boh) , ah che palle, ma quanto gli costava a quello stronzo lasciarla stare? Alla fine non dava fastidio a nessuno, era sempre da sola.
    "koso", non rompermi e non sono miei amici. Sei solo invidioso perché tuo padre non lo puoi vedere, mentre io mia madre e mio padre si disse sprezzante mentre Ashley al suo fianco godeva per quelle parole, sua figlia era proprio uguale a lei, mentre Judas al contrario scuoteva la testa, non solo aveva preso il fisico e i capelli ma anche quel brutto caratteraccio. Sapeva che rischiava di prenderle ma non le importava, e infatti poco dopo vide il ragazzo stringere la mano in un pugno Senti ORTIZ, almeno mia madre è viva, e tu? disse risentito e pronto a pestarla.
    Un altro anno e sicuramente quella lite non sarebbe stata l'ultima, ma almeno sentiva qualcosa quando succedeva e se del sangue e dei lividi erano quello che doveva ricevere per sentire qualcosa che non fosse quella sensazione di vuoto perenne le stava bene. Era vero che vedeva ancora i suoi genitori e li amava davvero perché erano tornati come avevano promesso, ma sia Ashley che Judas erano morti e lei ci soffriva comunque ogni giorno, ogni dannato giorno, non poteva abbracciarli, non sentiva il loro amore e calore, erano lì sempre ma mai tangibili e per lei era una tortura, peggio che averli persi. Una volta arrivati in sala grande, si guardò intorno, tutti uguali, tutti insieme, senza alcuna distinzione,ma quanto avevano davvero voluto quello i suoi genitori? Erano morti davvero per una cosa del genere? Che fosse il meglio che potevano avere? Non era molto sicura ma andava bene così. Si sedette al proprio tavolo e fece finta di ascoltare il discorso iniziale dei due presidi.
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    I know that this love is pain
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    Haven Dallaire Fraser, Oscar and Arabells's daughter

    Avrebbe voluto rimanere tra le braccia dei suoi genitori per sempre, non staccarvisi mai. Erano il suo porto sicuro, un luogo nel quale Haven non si sentiva mai a disagio, non si sentiva timida, non si sentiva la "secca secchiona" o quella che, di solito, passava i compiti agli altri, ma si sentiva amata, solo questo. Un carattere introverso come il suo difficilmente si sarebbe potuto trovare a proprio agio in mezzo a tante persone, ed Hogwarts pullulava di persone, di ragazzini pronti a tutto per rendere la vita altrui un inferno. Certo, aveva anche delle amiche lì, ma erano poche, non perchè non trovasse le altre persone interessanti, tuttaltro, ma non riusciva ad aprirsi con loro, faceva una fatica immane.
    L'ansia di dover partire la costrinse a staccarsi dal caldo abbraccio di sua madre ed il suo sguardo triste non sfuggì alle attenzioni dei suoi.
    Stai tranquilla, andrà tutto bene.
    Lei riusciva sempre a capirla, non c'era bisogno di parlare, la conosceva come le sue tasche. Haven prese un respiro, in fondo era fortunata a non essere mai stata davvero sola tra quelle mura di pietra, aveva sempre avuto sua sorella, un carro armato pronto a far fuoco al minimo sgarbo da parte degli altri. Si era sempre sentita protetta anche vicino ad Arden, e non aveva davvero un motivo per essere agitata. Forse aveva solo bisogno di avere anche per sè un'indipendenza, aveva bisogno di riuscirci da sola contro il mondo, ma era difficile. Strinse forte anche suo padre, che si raccomandò di "Farli secchi tutti", e sapeva che era riferito ad entrambe, sebbene in ambiti diversi. Raccolse la propria polaroid dalla borda di cuoio marrone che le pendeva ad un lato della spalla, colma di libri e pergamene, era una borsa enorme e pesante che faceva pendere il suo corpo da un lato, solo di pochi centimetri. Immortalò quel momento, per portarlo con sè durante il viaggio. I suoi genitori, era l'ultima volta che li avrebbe visti in tre mesi e voleva ricordarseli così. Sorrise, sventolando la fotografia istantanea ed osservandola, erano così belli. Lasciò ad Arden il tempo di salutarli, prima di salire sul treno espresso per Hogwarts, e quasi subito si attaccò con due dita alla giacca della sorella, per paura di perderla in mezzo al via vai delle persone nel corridoio del vagone.
    Trovarono posto in una cabina vuota, ed Haven continuò ad osservare la foto appena scattata, senza mai distolgere lo sguardo da loro. Erano così belli.
    Essere figlia di uno sportivo, conosciuto a livello internazionale, non era facile per lei che non era esattamente un amante degli sport, ma rimaneva la fan numero uno di suo padre – o meglio, condivideva questo primo posto con altre due donne della famiglia – (OSC: SI SPERA EH) Ma lei era davvero così negata per gli sport? Andiamo, bastava guardarla per capire che fosse più a suo agio su un libro che su una scopa, e poi qualcuno avrebbe detto che Haven, in gioco, avrebbe potuto spezzarsi più facilmente di altri, persino a scuola nessun allenatore l'avrebbe potuta prendere nella squadra con il fisico esile che si ritrovava. Non aveva la muscolatura di sua sorella, ed era molto lontana da considerarsi "in carne". Il rapporto con il cibo era sempre stato complicato ma Haven, sin da quando era molto piccola, lo aveva sempre visto come qualcosa di più simile ad un nemico che a qualcosa di buono. Questa visione distorta le aveva causato non pochi problemi, ed anche se i genitori avevano provato davvero di tutto per risolvere questa difficoltà, la situazione si era fatta più acuta nell'adolescenza. Oscar ed Arabells erano i migliori genitori che un bambino potesse volere, ed il rapporto con loro era sempre stato idilliaco, costellato da poche zone d'ombra, quelle volte in cui decideva di seguire i piani folli di Arden. Pensandoci...era sempre stato a causa di Arden che era finita in punizione, consciamente lo sapeva, ma non era mai stato nel suo carattere fare la spia, questo non le aveva mai sfiorato il cervello, in particolare se qualcosa riguardava sua sorella, anzi, la colpa la dividevano sempre, nonostante tutto. Haven era una bambina tranquilla, aveva un mondo dentro di sè che era solita esprimere attraverso la fotografia. Lei fotografava tutto ciò che di bello potesse esserci – ed era anche la fotografa non ufficiale alle partite di suo padre! - per catturare il momento e farlo suo per sempre, era avida di quei momenti, li voleva per sè, temeva di vederli fuggire dalle sue mani e non riuscire più a rivivere determinate emozioni, non aveva mai accettato il distacco, ed era restia ai cambiamenti. Per questo era solita portare la propria polaroid ovunque, non solo ad Inverness ma anche, e soprattutto, ad Hogwarts. Inutile dire che avesse dei soggetti preferiti rispetto ad altri, tra questi rientravano senza dubbio sua sorella, Rooney e...CJ Hamilton.
    CJ era il ragazzo per il quale aveva una cotta da almeno due anni, ed al quale non era mai riuscita nemmeno a rivolgere un saluto. Chiunque avrebbe potuto dire che CJ non era certo il tipo adatto a lei, ma Haven non sperava davvero di parlarci un giorno, le piaceva ammirarlo da lontano, conscia del fatto che lui avesse altri interessi. A lei bastava scattargli qualche foto, rimanere ad osservare quella stessa foto come sè stesse osservando davvero lui – cosa che, diciamolo, era impossibile, dato che non riusciva a mantenere lo sguardo su di lui per più di cinque secondi – Aveva un album realizzato negli anni e questo racchiudeva foto di vari momenti della vita di CJ, Haven ne era molto gelosa ma condivideva i suoi pensieri con sua sorella e amiche fidate – molto poche.
    Trovate!
    La voce di Rooney la distolse dai suoi pensieri, ed Haven si alzò in piedi per salutarla ed abbracciarla insieme ad Arden, rischiando di soffocare la nuova arrivata.
    Iniziarono a raccontarsi tutto ciò che era avvenuto quell'estate, dato che non avevano avuto la possibilità di vedersi, un po' perchè la lontananza che le separava era tanta, un po' per i vari impegni da guaritrice di Arabells e per le partite di Oscar, ed un po' perchè ogni estate Rooney viaggiava con i suoi genitori alla scoperta di luoghi sempre diversi, Kenya, Tanzania, Cambogia e quell'anno era toccato all'isola Phi Phi in Thailandia. Era così bello ritrovarsi dopo mesi che erano sembrati un'infinità. Haven ci tenne ad aprire un taccuino in cui era presente l'ultima foto che aveva scattato a Rooney - molto meno abbronzata di adesso - prima di salutarla alla fine dell'anno scolastico passato, e decise di regalargliela, adesso che l'aveva ritrovata poteva farlo.

    Siete qua?
    Quella voce spezzò l'aria, rendendo l'ambiente un po' più gelido ma non il cuore di Haven. Per un attimo ebbe il coraggio di soffermare il proprio sguardo su quello arrogante di CJ, ogni volta che la guardava così lei si sentiva morire, ed era quasi certa che le si leggesse in faccia che fosse ad un passo dal trapasso #wat tanto che si costrinse a guardare fuori dal finestrino, attraverso il quale poteva comunque vedere il suo riflesso. "Conigli che saltano, conigli che saltano" Pensava che in questo modo avrebbe potuto nascondere il suo disagio. Durò poco. Quando lui richiuse, con poco garbo, lo sportello della carrozza, Haven sobbalzò. Aveva davvero sperato che rimanesse lì con loro? Ma si, lo aveva fatto davvero, tanto c'era Arden a tenere vive le conversazioni, quando stava con lei si sentiva sicura. Ma quell'incontro le aveva lasciato l'amaro in bocca.
    Guardò di sottecchi Rooney, seduta dinnanzi a lei e pacatamente domandò.
    Ma...tu lo conosci? La domanda era sorta spontanea, non aveva mai visto il sorriso di CJ addolcirsi quando guardava lei, tanto meno quando guardava Arden.
    Rooney, in quel momento, si sentì punta sul vivo e, cosa ve lo dico a fare? Non era certo la migliore nello sparare bugie. Avrebbe potuto dirle che si, i loro genitori erano amici e che lo aveva incontrato spesso alle feste di famiglia, ma in quel momento il suo unico pensiero era portato a ciò che stava nascondendo alle sue amiche, un segreto che, per lei, era terribile. Il disagio provato dalla bionda in quel momento Haven poteva percepirlo come un filo sottile ed affilato come un rasoio.
    Chi non lo conosce? Rispose, infine arricciando il naso come faceva ogni volta che si sentiva a disagio, come se fosse allergica a quel tipo di situazioni, quelle in cui non puoi dire ad un'amica la verità...
    Ma perché zio Sciaia?
    I nostri genitori sono amici quindi...ma noi non parliamo quasi mai a voce. È...complicato.
    E come parlate? Parlate??
    Rooney aveva fatto cadere il discorso e non si era capito quasi niente, alla fine, se non che Haven era un po' sconfortata dalla situazione, ma lo era sempre quando si parlava di CJ, certo era che non avrebbe mai trovato il coraggio di parlargli.

    Scesi dal treno, poi, Haven rischiò quasi l'assideramento, si era anche preventivata di portare con sè una giacca, ma nemmeno quella era abbastanza, il freddo era pungente pur essendo ancora estate.
    Ed eccolo il momento più difficile della serata, separarsi tra le varie bancate, salutare Arden e Roo. Fece passare la sua polaroid da un mano all'altra, con nervosismo, mentre attendeva che il suo Caposcuola li guidasse. Ci vediamo più tardi. Disse ad entrambe, e sorrise.
    Dopotutto avrebbe dovuto essere felice, quell'estate aveva saputo che avrebbe passato il suo primo anno da Prefetta! Ed era in trepidante attesa per la spilla che avrebbe appuntato sul suo petto, e per la responsabilità che quella stessa spilla avrebbe portato con sè.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by shane is howling - 9/2/2017, 15:19
     
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    A sea of dreams trapped in a span of pressed pages -- 21 Y.O | HEALING FACTOR | LIBRARIAN
    Aveva lasciato il nido da alcuni anni ormai, un giorno era tornato a casa ed aveva detto esternato ai genitori il desiderio di voler vivere per conto suo benchè fosse il piccolo di casa. Era l'ultimo rimasto in casa Lowell-Carlyle ma mentre il fratello avevo messo su famiglia insieme ad una strega di buona famiglia, rendendo i genitori orgogliosi, la sorella si era trasferita in un piccolo appartamento e si era offerta di ospitarlo purchè pagasse la sua parte di affitto. E quella era stata la decisione peggiore della sua vita.
    Vivere insieme a Catarina, senza i genitori, era un incubo. La ragazza nonostante l'età matura si comportava alla stregua di una ragazzina di quindici anni, non le importava di far arrabbiare persone, non le importavano le conseguenze. Viveva come lo spirito libero che era sempre stata ed adattarsi al suo stilo di vita era tutt'altro che semplice. Catarina aveva seguito le orme dei genitori entrando a far parte dei Ribelli, la più potente forza opposta ai Mangiamorte. Eppure i secondi erano riusciti a prevalere, il Male aveva vinto la sua battaglia contro il Bene ed i Ribelli conosciuti erano morti durante lo scontro, chi non aveva partecipato direttamente alla battaglia, chi si era tenuto lontano dalla Rivolta, aveva perso comunque la vita, braccato ed ucciso da un gruppo di Mangiamorte. Quando ancora frequentava Hogwarts, al sicuro nella struttura che ospitava i wizard come lui, gli era giunta notizia della scomparsa dei genitori, erano stati dati per morti e lui si era ritrovato a piangerli ogni notte, almeno fino a quando tornando a casa dalla nonna aveva scoperto che avevano inscenato la loro morte e questo aveva permesso alla famiglia di uscire dai radar dei Mangiamorte. Avrebbero potuto dare la caccia anche ai figli, ma erano stati abbastanza intelligenti da non farsi passare per Ribelli, anche se Catarina faceva sempre di testa sua. Quante volte aveva dovuto inventarsi che si era ubriacata ed i suoi erano solo vaneggiamenti senza senso, vaneggiamenti di una pazza squilibrata che odiava tutto ciò che i Mangiamorte avevano preso con la forza. Monty era invidioso della sorella, lei era così piena di vita, ribelli in ogni poro del proprio corpo e non temeva il giudizio altrui, certo impiegava un po' di tempo ad aprirsi ma quando lo faceva era la persona più simpatica e lui cos'era? Un ragazzino che aveva paura di vivere, paura dell'ignoto, delle persone. Vivere con Catarina gli avrebbe permesso di crescere e di staccarsi dai genitori anche se la connessione che sentiva con loro era qualcosa che on poteva ignorare.
    Da quel giorno erano trascorsi due anni e Monty lavorava ad Hogwarts mentre la sorella impiegava il suo tempo studiando creature magiche, se sconosciute ancora meglio. Non era insolito trovarsi qualche strana creatura in giro per casa, magari nel cassetto della biancheria «CATARINA!» urlò il ragazzo in preda all'isteria ritrovandosi un batuffolo rosa tra le mutande -nel cassetto maniaci, nel cassetto- «quante volte ti ho detto di tenere quelle bestie lontane da camera mia?» la ragazza in questione entrò sbuffando in camera del fratello fermandosi sullo stipite, guardando divertita il minore alle prese con una puffola pigmea trovata in uno dei suoi viaggi in India la scorsa settimana «non fare il melodrammatico, non ti mangia mica» commentò la ragazza prendendo la creatura dal cassetto del fratello. «Dovresti ringraziare che qualcosa sia entrato nelle tue mutande» uscì di corsa ed il ragazzo riuscì a malapena a tirarle un paio di mutande addosso prima che quella riuscisse a darsela a gambe levate.
    Catarina si era offerta di accompagnarlo a King's Cross. La prima volta che aveva messo piede sulla banchina del binario 9¾ era nervoso ed il sentimento non era cambiato minimamente. Ricordava quando era stato costretto a lasciare la famiglia per seguire i suoi studi nella scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, l'esatto momento in cui aveva abbracciato i genitori ed i fratelli, lasciandosi alle spalle una vita dura. Alec ed Alaric lo avevano salvato quando era appena un folletto di due anni, strappandolo ad una madre che lo aveva reso ciò che era, un mostro per i babbani ed un mostro per i maghi. Quando la tua stessa madre decide che amare il proprio lavoro è più importante di sangue del suo sangue, non dovrebbe sorprenderti di finire imprigionato in un laboratorio pieno zeppo di estremisti ribelli, questo era successo a lui prima di essere salvato. Una dottoressa dei laboratori aveva partorito un figlio e lo aveva reso uno dei suoi migliori esperimenti, in fin dei conti lui e Catarina condividevano un passato molto simile tranne per il fatto che lei era la figlia biologica di Alec e che non le avevano torto un solo capello prima di essere salvata, alla fine anche lui era stato salvato ma il latte era stato versato.
    Erano quasi le undici del primo settembre duemilatrentasette, il treno era in partenza e Monty armato di bagaglio a mano indugiava ancora, preso in contropiede dalla moltitudine di studenti che ogni anno si presentava al binario per raggiungere la scuola. «Ricordati di scrivermi nanerottolo. Attento a non far cadere nessun libro dai tuoi preziosi scaffali» scherzò la sorella abbracciandolo stretto, non era da loro lasciarsi andare ad effusioni in pubblico, ma c'era una prima volta per tutto e quella era l'eccezione che confermava la regola. «Staccati, non respiro... soffoco!» riuscì a staccarsi dalla sorella sbuffando prima di lasciarle un bacio sulla guancia «non sto andando in guerra, tornerò a casa per Natale, chi resta a scuola a Natale per consultare i libri in fondo?» salutò la sorella un'ultima volta salendo sul treno che lo avrebbe riportato in quella scuola che lo aveva accolto a stento la prima volta, che la seconda volta lo aveva relegato in biblioteca e lo avrebbe fatto per gli anni a venire.
    Il treno partì alle undici in punto lasciandosi alle spalle il binario.
    Un nuovo anno era cominciato.
    Il viaggio aveva inizio.

    Le successive ore furono particolarmente noiose, aveva condiviso la cabina con un paio di studenti non avendo trovato altro posto in cui sedere, alla fine il pensiero di dover restare in piedi in uno stretto corridoio aveva prevalso e lui aveva deciso di sedersi in una cabina semivuota. Aveva abilmente schivato domande come «Che lavoro fai?» «Oh ma tu sei il bibliotecario del castello!» «Cosa leggi? Ho ho già letto il libro, sai che alla fine...» «no, non mi interessa come finisce, se volevo saperlo avrei saltato le cinquecento pagine prima, ti pare?» se c'era una cosa che Montague Lowell-Carlyle non era riuscito a fare nel corso degli anni, quella era sicuramente diventare compassionevole e meno burbero. In realtà si comportava così anche in famiglia, i genitori lo ignoravano quando era di malumore ed erano piuttosto bravi a capire quando aveva bisogno di stare da solo, i fratelli erano un'altra storia, lo punzecchiavano di continuo ma loro erano famiglia, poteva sopportarlo.
    Più o meno.
    Più meno che più ma dettagli!
    La sera era calata e con essa era giunto il termine del viaggio in treno.
    Ritrovarsi nuovamente tra le mura del castello era strano, la pelle pizzicava come un vampiro esposto al sole. Era un pizzicore non esattamente piacevole, Hogwarts non era casa sua e mai lo era stata, casa era a Londra non in Scozia, ma il suo lavoro, le sue passioni lo avevano condotto in quel castello ancora una volta. Erano stati gentili ad offrirgli un lavoro proprio ad Hogwarts, un luogo a lui conosciuto. Non aveva molto di cui lamentarsi, tutto ciò che doveva fare era starsene chiuso in biblioteca ed assicurarsi che gli studenti rimanessero in silenzio, non facessero rumore e non tentassero di intrufolarsi nella sezione proibita. Era il suo habitat naturale.
    La biblioteca.
    Quando si trattava di andarsene in giro per i corridoi aveva ancora qualche problema, non amava particolarmente trascorrere il tempo attorniato da una miriade di ragazzini, uno più crudele dell'altro. I ragazzini non gli piacevano.
    Aveva camminato fino alla Sala Grande quasi trascinando ogni passo, l'unica nota positiva in tutto il castello era senz'altro il cibo. «Non si corre nei corridoi» dov'era il custode quando serviva? Era la regola basilare quella di non correre.
    La Sala Grande era esattamente come la ricordava. Grande, così grande da ospitare centinaia tra studenti e personale scolastico. Illuminata e piena di vita senza ombra di dubbio. Le quattro tavolate riportavano i colori delle casate, Monty aveva invidiato ogni singolo studente che poteva sedersi a quelle tavolate senza sentirsi un appestato. Lui era stato relegato in quel tavolo circolare relegato nell'angolo, il tavolo degli indesiderati. Se volevano farli sentire ben accetti in quella scuola, di sicuro avevano fallito.
    Per il secondo anno di fila percorse lo stretto corridoio tra la tavolata di Grifondoro e quella di Corvonero e raggiunse il lungo tavolo degli insegnanti dove il personale scolastico sedeva agli estremi lasciando i posto d'onore a chi era più in alto nella gerarchia, tipo insegnanti e preside.
    Il consueto discorso di inizio anno, il discorso di incoraggiamento che avrebbe dovuto spronare gli studenti a darsi da fare, a comprendere le regole della scuola e sopratutto a vincere la coppa delle case, quella per cui ogni studente si batteva senza esclusione di colpi. «Bentornato ad Hogwarts Monty... l'Inferno ha aperto i battenti» sussurrò bevendoci su, niente di alcolico sfortunatamente ma sapeva dov'erano le cucine, qualcuno disposto a fargli bere qualcosa di gustoso lo avrebbe trovato. Forse.
    Siete tutti sacrificabili.
    Non era carino da dire a degli studenti ma la paura faceva fare cose strane alle persone più improbabili, il ragazzo pieno di sé diventava un agnellino indifeso, il ragazzino mingherlino e senza spina dorsale diventava il grosso lupo nero che si pappava cappuccetto rosso in un sol boccone.
    Se volevate vivere agiatamente dovevate andare ad Azkaban.
    Hogwarts is the new Azkaban.
    Goodbye freedom.
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  9. silvercain
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    feel nothing
    19 | Weather Manipulation | referee | medical student
    Axel Rowan Cash, Cain and Diana's son
    Papà, perché tu e mamma avete lo stesso cognome?
    Axel aveva sempre avuto la capacità di far saltare le staffe a tutta la famiglia, eccetto Alec, Alec non le perdeva mai. Tanto che Cain aveva sempre pensato che durante la sua “morte inscenata” nella guerra, avesse invece passato giorni interi a praticare corsi di yoga e di autocontrollo per diventare un BUDDHA. Nemmeno la forza dell’esasperazione a cui il giovane Axel era solito spingere gli altri aveva effetto su di lui, e convivere con Axel era sempre stato davvero, davvero complicato. Sin da piccolo era sempre stato il classico bambino senza peli sulla lingua, di quelli che, per natura, sono portati a mettere in imbarazzo chiunque si trovi sfortunatamente ad intralciargli la strada.
    Non importava che si trovasse in un luogo pubblico, o da solo, lui non aveva contenzioni in quella piccola testa bruna. “Zio Alaric, hai una caccola nel naso” e tutti intorno a Zio Alaric si voltavano per osservarlo un attimo, perché si sa che la gente è impicciona, ma poi come se niente fosse, si rivoltavano facendo finta di non aver sentito, da brave persone con una morale solida e giusti valori (?).
    Zio Alec perché stanotte avevi i tacchi?
    "Ma quali tacchi, Axel, non dire sciocchezze."
    “Ma ti ho visto”
    ...
    “Mamma, perché hai le gambe pelose?”
    “CAZZI MIEI, AXEL”
    ...
    “Chi ha scoreggiato?”
    Silenzio.
    “Nonna, hai un coso verde tra i denti”
    Silenzio.
    “Papà, ma quindi possono venirti le mestruazioni?"
    No.
    E invece sì. E i suoi cugini erano stati i primi a saperlo, Axel si sentiva portatore di una grande verità che non poteva tenere per sé, non poteva davvero.
    Lo aveva detto a Catarina, prima degli altri. Sai che mio padre di notte ha...la patata!!!
    "Forse anche mio padre." SCIOCCANTE.
    Quando spifferava quei segreti, abbassava il tono di voce, Axel, perché in fondo non dovevano saperlo proprio tutti.
    Ehi Tim, lo sai che di notte ho due mamme?
    "Interessante."
    Monty, vuoi vedere il reggiseno di mio padre?
    "Mh.......ok."
    Cain più volte si era chiesto se figliare con Diana avrebbe portato danni genetici alla sua prole, e tutte le risposte positive si erano concretizzate nel suo figlio maschio, Axel Rowan Cash.
    Quando poi lo lasciavano alla scuola materna, lui non voleva mai rimanerci, odiava gli altri bambini, gli erano tutti antipatici. Erano rare le volte in cui si ritrovava a mescolarsi con quelli che dovevano rappresentare i suoi compagni, ma che per Axel rappresentavano un gruppo di strani mocciosi lacrimanti. Lui non piangeva mai, era troppo anomalo per farlo. E poi il mondo era pieno di tante cose belle da scoprire, e la sua curiosità sempre viva difficilmente lo portava a provare tristezza. Aveva l’innocenza di un bambino, mescolata alla più feroce istintività animale.
    Con il tempo, quella domanda, perché avete lo stesso cognome, aveva iniziato a diventare per lui un chiodo fisso, Cain guardava Diana, Diana guardava Cain di rimando. “Fatti gli affaracci tuoi non sono domande da fare“ Rispondeva prontamente sua mamma, ma quella risposta, ogni volta, non faceva altro che acuire i già di per sé fondati sospetti. Dopotutto, se suo padre di notte aveva la vagina, non sarebbe stato nemmeno poi così assurdo sapere che loro, in realtà, fossero fratello e sorella. E poi aveva passato interi giorni a prendere appunti su ciò che fisicamente i due avevano in comune. Magari potevano apparire molto diversi ad un primo sguardo, ma un figlio sa cose che voi umani non potete nemmeno immaginare, e Axel la vedeva, quella somiglianza sottile che li legava. E voleva punirli, per non averglielo detto prima, non tanto perché “aveva il diritto di sapere essendo loro figlio”, quanto perché era troppo divertente vederli in difficoltà, lo era davvero.
    Axel, mi passi il sale?
    Chiedilo a tua sorella.
    No, lo chiedo a te .
    Cain e Diana facevano finta di niente, sempre, ma alla fine il tanto agognato momento era dovuto arrivare per forza ed i Cash avevano dovuto vuotare il sacco, semplificando la storia: sì, erano fratello e sorella. La storia dei laboratori, dei geni di Cain da cui era stata riprodotta Diana era surclassata, nessuno dei Cash ci pensava più ormai. Ma rimaneva ancora un quesito che Axel doveva scoprire. Ed ora credo sia arrivato il momento di dirmi perché di notte hai la vagina.
    Non c’era speranza, non esisteva salvezza per i Cash, non finché Axel avrebbe continuato ad avere un cervello pensante.
    Non lo so, non lo so perché ho la vagina, Axel. E oggi sei in punizione.
    Non fraintendetemi, eh, Axel adorava Silver, ci andava d’amore e d’accordo, ed avevano anche troppe cose in comune, la vedeva come una zia, però era così strano, aveva in testa troppe domande. Ma dove era suo padre di notte? E perché Silver di giorno non c’era? Gli sembrava tanto di vivere in “Lisa e Seya, un solo cuore per lo stesso segreto”, quell’anime di cui Nora era patita e l’aveva costretto a guardarlo dal primo episodio all’ultimo. Suo padre, ovviamente, era Lisa. Ma a lui non piaceva questo accostamento, lo irritava. Comunque, nonostante Axel fosse portato a far perdere le staffe altrui, era al contrario un tipo paziente, solo una cosa riusciva a renderlo sofferente, come un toro impazzito che non riesce ad incornare quel maledetto panno rosso: il canto di sua sorella.
    Non che lei cantasse male, o altro, eh, anzi, in alcuni momenti sentirla cantare era persino piacevole, aveva una bella voce, ma quanto si era allenata per arrivare a quei risultati? Quanto aveva dovuto alzare il volume del suo ipod, rischiando la sordità, per coprire la voce di lei?
    Alla fine, però, era diventata brava, brava davvero ed Axel era un suo fan segreto, ma non glielo avrebbe mai confessato, lei era già fin troppo piena di sé.
    Crescendo, il carattere di Axel aveva iniziato a mutare, come una sorta di camaleonte, che si fosse sviluppato in lui quello che Freud chiama Super io non era dato sapere a nessuno, fatto stava che Axel rimaneva tanto curioso del mondo, quanto era diventato silenzioso e pacato, persino GENTILE con il prossimo, o meglio, gentile il giusto. Aveva grandi ambizioni, aveva portato la sua curiosità verso l’ambito medico iniziando a studiare per diventare un chirurgo, seguendo le ombre magiche di suo padre. Aveva anche altri hobby, e questi riguardavano in particolare lo sport. Non era uno sportivo, certo che no, era troppo pigro per esserlo, ma amava seguire le partite in prima linea, amava gestire quelle stesse partite ed arbitrarle. Che fosse Quidditch, o Hockey sul ghiaccio, non importava, amava entrambi gli sport, conosceva le regole come se ne avesse ingoiato il manuale e questa, diciamo, era la sua carta di accesso ad Hogwarts.
    Era lì che arbitrava le partite, sul campo da Quidditch e sul lago nero che, ghiacciato, forniva un ottima pista da gioco per l’Hockey. Avendo il potere di manipolare gli agenti atmosferici era persino in grado di evitare la pioggia durante le partite ufficiali ed importanti della scuola. Per gli allenamenti, però, non garantiva, anzi, l’allenatore pensava che fosse utile far allenare gli studenti anche con le tempeste, perché questo rafforzava i loro riflessi.

    Si era recato al binario nove e tre quarti con sua sorella, perdendo di vista i suoi genitori quasi subito e salendo sul treno con a seguito la sua valigia. Non amava particolarmente il contatto fisico, e lo evitava, ecco perché aspettava sempre che tutti salissero sul treno e si sistemassero, prima di salire a sua volta, così da non trovare caos nel vagone, oppure, al contrario, arrivava in anticipo per salire per primo. Ma non era quello il giorno. Vado a cercare posto. Annunciò a sua sorella avanzando sul vagone ed aprendo la cabina sbagliata.
    CASH, DURANTE L’ESTATE LE HAI LIMATE LE CORNA?
    Grande fan di suo padre eh, e pensava che anche lei avesse del potenziale, ma no. No. No.
    Ah! Ecco l’altra cosa che riusciva a fargli perdere la pazienza in grande stile, in tempi recenti: Arden Fraser.
    Alzò gli occhi al cielo, richiudendo la cabina ed osservando la ragazza da oltre il vetro, facendole ciao con la mano. Doveva allontanarsi da lì, subito.
    Trovò posto in una cabina in cui era presente solo Adelaide Milkobitch e, come raramente gli accadeva, si sentì in imbarazzo perchè in quella cabina c'era solo lei. Disturbo?
    No.
    Conosceva la ragazza dall'anno precedente, ma non avevano mai avuto occasione di parlare davvero, soffermandosi a scambiare solo poche parole durante le pause pranzo. Prese posto nel divano dinnanzi a lei, poggiando la valigia ai propri piedi.
    Senti freddo? Perchè ti sei seduto su mio zio.
    Sbattè due volte le palpebre, voltandosi istintivamente indietro, verso la poltrona e poi riguardando Adelaide. Axel era la classica persona che se non vedeva e non toccava, difficilmente ci credeva.
    E' la cosa più raccapricciante di sempre, ma è anche divertente. Aveva così tante domande in merito: il fantasma sentiva il suo peso? E se ci era seduto sopra lo aveva trapassato? Ed avrebbe dovuto provare freddo? Ma non voleva annoiare la ragazza con le sue domande in merito ai cadaveri, decise di avere rispetto. Allora...chiedigli se mi fa un massaggio. Nuove esperienze di vita. In quel caso, lo avrebbe sentito? E perchè alcuni fantasmi erano visibili a tutti, come al castello, ed altri no? Pensare di essersi seduto più volte sui morti rendeva la sua vita più cupa, cercò di non pensarci.
    Poco dopo arrivò in cabina anche River Crane, ragazzo con il quale, dall’anno prima, aveva legato come legano due persone normali (?) come? Io non lo so, però confido che gli altri lo sappiano. Crane! Lo salutò con una stretta di mano.
    Arrivato al castello decise di sorpassare tutti gli studenti per togliersi dai piedi quella folla di marmocchi urlanti ed andò a prendere posto nel banco degli insegnanti, assistenti, collaboratori e feccia di Hogwarts. Attendeva si il discorso dei presidi, ma non quanto attendeva le cosce di pollo fritte.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by shane is howling - 12/2/2017, 17:19
     
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    La Milkobitch non temeva la morte; aveva paura dei rumori troppo forti, dei silenzi assordanti, degli spazi chiusi, dei corvi, di sé stessa, ma non della morte. Sin da bambina era stata parte integrante della sua vita, una seconda lente attraverso la quale indagare il mondo - le sussurravano parole sulla nuca, cercavano di stringerle le caviglie, la supplicavano di portare messaggi. La perdita, però, era qualcosa di ben diverso dalla morte; era sentire la mancanza di qualcuno in maniera profonda e viscerale, un vuoto che si allargava sempre più ad ogni boccata d’aria ingerita. Era una fitta secca, improvvisa, pompata nel sangue ad ogni battito di cuore.
    CJ era troppo piccolo per ricordare cosa si provasse, a essere soli al mondo. Suo fratello s’era convinto di esserlo, si era rotolato nel vacuo buio della sua sottile sanità leccando ogni ferita con cianuro e veleno, ma non lo era mai stato. Non da neonato, non da bambino, non da adolescente. Credeva di essere solo, solamente perché non sapeva cosa si provasse ad esserlo realmente – quel sapore di sangue e bile sulla lingua, lo sguardo apatico a fissare punti nulli di fronte a sé.
    Adelaide, invece, lo riviveva ogni notte. Ed era reale. L’Hamilton non poteva sapere cosa si provasse a perdere qualcosa, perché non aveva mai avuto niente da perdere: come si soleva dire, era uno dei tanti bambini di Sangue, nati (più o meno metaforicamente) sui campi di battaglia; e glielo si leggeva in faccia, che era l’eredità di una guerra, il seme di caos e distruzione. Che era un sopravvissuto, uno di quelli che avevano vinto. Innocente nella sua colpevolezza, non era a conoscenza dell’esistenza di un’altra vita. Anche lei, in verità, non ne possedeva ricordi nitidi - solamente sensazioni, alle quali si aggrappava con la tenace disperazione di un naufrago: le dita di sua madre fra i capelli, gli scacchi colorati delle camicie di suo zio Todd, l’odore dolce amaro delle felpe di zio Jeremy, le labbra morbide di suo padre sulla fronte, le guance irsute di Eugene, i buffetti sulle guance di Jade, il profumo di sigaretta sui vestiti di suo nonno. Le risate a brillarle sulla pelle, mentre veniva passata da un paio di braccia all’altro. La radicata sensazione di essere a casa, al sicuro. Amata.
    La medium non si sentiva più al sicuro da anni. Anche a guerre passate continuava a svegliarsi di soprassalto nel cuore della notte, i piedi a sfiorare delicati il pavimento per trascinarla all’esterno delle stanze di CJ e i suoi genitori; poteva rimanere delle ore intere seduta in corridoio con la testa poggiata al muro, Adelaide Milkobitch, solo per assicurarsi che tutti fossero ancora salvi. Dormiva poco, e le ore in cui ci riusciva, lo faceva male.
    CJ Hamilton non poteva sapere cosa significasse essere abbandonati. Adelaide Milkobitch, al contrario, raramente riusciva a pensare ad altro.

    29 Marzo 2021



    «dobbiamo andare»
    «lo so»
    «non voglio»
    «neanche io»
    «dobbiamo proprio?»
    «no, ma lo faremo comunque»
    «suona tanto di déjà-vu»
    «perchè è la stessa cosa che abbiamo detto di adelaide»
    «cosa facciamo, gemes?»
    «quello che ci viene meglio…»
    «apprezzo l’offerta ma al momento non mi sembra il ca-»
    «…sopravviviamo, heidrun. sopravviviamo»
    «era la mia seconda ipotesi»

    Due borse, pochi abiti, e qualche pupazzo. Erano tutti convinti che si sarebbe trattato di una guerra breve, il tempo di riprendere il controllo di ciò che i ribelli, con la forza, avevano preso: le sedi del potere, quelle della conoscenza, di giustizia. Chi avrebbe potuto immaginare che si sarebbe protratta per tre anni? Chi avrebbe potuto credere all’ammontare di perdite da ambedue le parti, alle catene nuovamente strette ai polsi e alle caviglie quasi fossero stati animali, alle ferite lasciate sanguinare finché il cuore non si stancava di pompare a vuoto? Con il senno di poi, probabilmente, era prevedibile.
    All’epoca, nessuno voleva crederci. Di certo non Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.

    Ricordava poco di quella sera; di aver sentito il tonfo sordo dei borsoni lasciati cadere pesantemente sul parquet, di avere la piccola mano pallida allacciata a quella di suo padre; ricordava gli occhi nocciola di Wes, di come si fosse sentita estranea, e troppo piccola, davanti a Elijah e Rea – o forse, semplicemente, si era convinta di ricordarlo. Era difficile che una bambina di tre anni potesse davvero rimembrare dettagli della propria vita, ma Adelaide si era sempre convinta di esserne in grado.
    E forse aveva immaginato, forse era stato solo un sogno.
    Ricordava della spinta delicata con il quale l’avevano obbligata ad avvicinarsi a Rea; ricordava di aver visto sua madre lasciare un fagotto piccolo, dal quale spuntavano un paio di piedini, fra le braccia di Elijah - aveva solo otto mesi.
    «sarà solo per qualche giorno» parole che non erano state dirette a lei, solamente una bambina che non avrebbe potuto comprendere la portata di quella menzogna. «figurati, più invitati per i pigiama party di elijah» ma Adelaide non aveva seguito la conversazione, lo sguardo blu fisso sulla porta dal quale erano arrivati. Non capiva perché, nel cuore della notte, dovessero lasciare casa loro; non era la prima volta che andavano dagli zii, ma solitamente il sole era già sorto – e con il buio, quella casa, aveva un retrogusto tutto sbagliato.
    Un buffetto sulla guancia, un bacio soffiato fra i capelli corvini.
    Nient’altro, mentre Adelaide Milkobitch guardava i suoi genitori uscire da villa Hamilton.
    Solo per qualche giorno. Ma quando si portò le mani alle guance, si accorse di aver pianto.

    24 novembre 2022


    Passava tutte le sue giornate raggomitolata dalla finestra, le ginocchia strette al petto ed il triste sguardo cobalto a indagare il nulla – un po’ le nuvole, un po’ il prato imbiancato dalla neve. Stringeva fra le mani il pupazzo di una tartaruga, sfregandoci di tanto in tanto le guance; alzava gli occhi solamente quando la chiamavano per andare a mangiare, o quando zio Eli saliva in camera sua per raccontarle qualcosa che la bambina fingeva di ascoltare, ma del quale non aveva mai udito una parola: si lasciava cullare dal tono di voce tranquillo, dalla cadenza ritmata, il timbro alto e basso che le indicavano quando sorridere e quando corrugare le sopracciglia. Zia Rea si rifugiava in camera sua quando i gemelli la esasperavano, e rimanevano a guardare il panorama fuori senza nulla da dire, nulla da sentire, nulla da fare. Wes, probabilmente spinta dai suoi genitori, di tanto in tanto bussava alla sua porta e le chiedeva di giocare – con scarsi risultati.
    Ma la notte, era il momento peggiore. Da quella finestra Adelaide Milkobitch guardava il sole tramontare e sorgere, il cielo incupirsi e farsi nuovamente sereno; e c’erano momenti in cui faceva davvero freddo, ed il silenzio era incrinato da pigri sussurri di spiragli di vento e frusciare di lenzuola. Usciva dalla sua camera, e con delicatezza muoveva qualche morbido passo all’esterno: si fermava di fronte alla porta di Washington, i piedi nudi e le mani strette convulsamente fra loro; proseguiva nel lungo corridoio fino ad arrivare di fronte alla stanza di Elijah e Rea, e si sedeva per terra per minuti che scorrevano come ore. Forse piangeva, o forse credeva solo di farlo. Quando finalmente si alzava, raggiungeva la camera dei gemelli e CJ; si affacciava sulla culla di Finn e Davina, fitte al petto nel rimembrarli svegli fra le braccia dei loro genitori, e mordendosi con forza l’interno della guancia, guardava infine suo fratello. Aveva imparato a camminare, e non c’era pace per nessuno all’interno di quella casa; perfino Adelaide arrivava ad odiarlo, quando si intestardiva a correre senza porsi un freno, finendo per schiantarsi contro ogni muro. Ma lo odiava anche per altro, Ade.

    «mama?»
    «non esageriamo, bambino»
    E lo osservava, i piccoli pugni stretti ai fianchi ed il labbro morso fra i denti; lei sapeva che non erano i suoi genitori, ma di giorno in giorno sfumava il ricordo che aveva di loro – di cosa profumavano, se avevano mani morbide. Non ricordava la loro voce, non capiva perché ancora non fossero tornati. Sfogliava libri illustrati e, guardando le immagini, cercava il loro sguardo in ogni disegno. Non capiva perché le bruciassero gli occhi, perché ogni volta le dita tremassero flebilmente sopra le pagine patinate. Mancanza, ma era troppo piccola per dare forma a quel bisogno istintivo e primitivo in qualcosa di sensato e comprensibile, razionale. Non sapeva neanche cosa stesse aspettando, o perché si sentisse così… esclusa.
    Stava dimenticando cosa si provasse ad essere Adelaide Milkobitch, ma non poteva saperlo.

    Ed ogni notte si infilava nel lettino di CJ, protetto da sbarre di legno che gli impedivano di fuggire, facendosi piccola piccola al suo fianco; prendeva una mano di lui fra le proprie, attenta a non svegliarlo, e gli si acciambellava vicino usando il suo palmo come cuscino.
    Era tutto ciò che aveva.

    15 gennaio 2023


    «vuoi vedere una cosa fortissima?» aveva cominciato a sciogliersi un po’, la bambina; usciva più volentieri dalla sua camera, rimaneva con il resto della famiglia più a lungo, tratteneva CJ quando si scagliava con la violenza di un bimbo di appena due anni e mezzo contro Finn, colpendolo con qualsiasi oggetto trovasse a portata di mano. Rideva quando Davina faceva la bolle con la saliva, e quando Wes toglieva la sedia da sotto le gambe di suo fratello, facendolo ruzzolare al suolo. Lentamente stava ricominciando a vivere, appropriandosi di quell’identità che neanche sapeva di aver perso - di quella vita che le era capitata.
    Solo raramente si ritrovava a pensare che ci fosse qualcosa di sbagliato, che quel gioco stesse durando troppo a lungo; il più delle volte, però, tendeva a non farci caso. Cominciò perfino a strimpellare sul grande pianoforte in sala, emozionandosi per ogni nota differente a seconda del tasto, ed a considerare quella la sua famiglia.
    Hanno un odore diverso, si ritrovava a pensare – ma non era abbastanza, capite? Però c’erano giornate in cui diveniva un chiodo fisso, un mistero da risolvere finché le stelle non lasciavano il posto alla timida luce del sole. Quello, era uno di quei giorni.
    Con il mento incastrato fra le ginocchia, guardò Wes e ricambiando il sorriso annuì, contagiata dalla luce vivace negli occhi nocciola. La Hamilton alzò il viso verso il cielo, scrutandolo con una tale concentrazione da convincere Ade che ci fosse qualcosa da osservare fra gli spiragli violacei delle nuvole. «mamma non vuole» sbuffò allusiva in tono basso, facendo rizzare la schiena ad Adelaide: era ligia alle regole, ma non avrebbe mai tradito la fiducia di Wes. «non le dirò nulla» non accadde nulla per così tanto tempo, da far temere alla Milkobitch di non aver colto una battuta; aguzzò la vista mentre Washington stringeva i denti e i pugni, così forte che aveva cominciato a tremare come un diapason. «wes…?» «SHHHHH» e dal nulla, un fulmine squarciò il cielo colpendo un albero poco distante, facendo trattenere il respiro a entrambe. «sei stata tu?» con le sopracciglia orgogliosamente inarcate e le guance inverosimilmente pallide, Wes annuì. L’albero prese infine fuoco, strappando un gridolino ad entrambe – terrorizzato da parte di Ade, ed eccitato da parte della Hamilton. Quest’ultima battè le mani fra loro, osservando come le fiamme stessero mangiando la corteccia della quercia. «non lo dovrà sapere nessuno» le intimò quindi, una rapida occhiata verso di lei.
    Dopo tre anni, Adelaide Milkobitch si sentì finalmente parte di qualcosa – un calore familiare a danzarle nel petto, laddove credeva non sarebbe giunto nulla. «sarà il nostro segreto»

    23 dicembre 2024


    Furono i rumori a svegliare Adelaide, troppo sbagliati per la tarda ora della notte in cui si trovavano. Si alzò a sedere stringendo le coperte al petto, un’occhiata smarrita verso Wes che, con la bocca aperta, dormiva ancora profondamente al suo fianco. «wes? Wes!» allontanò la mano di Ade con un gesto secco, voltandosi dall’altra parte e soffocando un grugnito nel cuscino. La Milkobitch, il cuore a martellare nel petto, inspirò profondamente convincendosi ad uscire dalla stanza, i piedi nudi a rabbrividire a contatto con il marmo freddo del pavimento. In corridoio trovò CJ, le iridi verdi offuscate da una patina di sonno comatoso; la bambina gli strinse la mano, più per infondere coraggio a sé stessa che non a lui. «ho sonno» «shh» lo trascinò con sè sulle scale, dove si affacciarono cautamente dalle sbarre. Non si riusciva a vedere nulla, ma le voci, rimbalzando nel silenzio della villa, arrivavano chiare alle orecchie dei due.
    «dovreste svegliarli»
    «dubito che una notte possa cambiare le cose» una risata amara, fisica, densa. Il cuore di Ade perse un battito, gli occhi blu a cercare quelli verdi di suo fratello.
    «gli siete mancati, run»
    Senza essersene resa conto, Ade aveva sceso gli scalini fino a trovarsi nell’atrio della villa, CJ ancora saldamente stretto al proprio fianco. Alzò lo sguardo lentamente, la bocca secca e le sopracciglia corvine corrugate. Nessuno si mosse per minuti durati decadi, nei quali Adelaide rimase immobile a studiare i due adulti al centro della stanza.
    Ed i ricordi sorsero tutti insieme, subissati da una coscienza che aveva cercato di darle un lieto fine - i loro respiri sulla pelle, il calore dei corpi sotto le coperte, le dita strette nel piccolo pugno. Il profumo di bucato, e di sigarette, e di quelle notti estive nelle quali non avresti più voluto tornare a casa.
    «ehi» una voce incrinata a rompere un silenzio pesante. Quando sua madre avanzò di un passo nella sua direzione, Ade rimase dov’era, ma CJ? CJ si allontanò rapido, nascondendosi dietro la gamba di Elijah.
    Probabilmente fu quello il momento che cambiò tutto, segnando le sorti della sua famiglia. Il guizzo di dolore nello sguardo di Heidrun fu così angosciato da stringerle la gola in una morsa, gli occhi già lucidi. «è tutto okay, cj» si avvicinò gentilmente al fratello, appoggiando un braccio sulle sue spalle magre. Vibrava di un emozione così viva da sentire le vertigini, le guance arrossate ed il fiato corto. Era vero? Inspirò, le dita a torturarsi nervosamente fra loro. «siete qui?» sputò infine, di getto, sentendo la prima lacrima scivolare sulla guancia. «siete voi?» Per tutto questo tempo, erano stati loro? Aveva visto le foto, Adelaide; aveva provato a cercare di ricordare la loro voce, la consistenza della pelle, ma si era sempre trattato di pura e semplice fantasia.
    Così piccola, con quei sei anni e mezzo a pesarle sulle spalle, il pigiama blu a sfiorare il pavimento. Né lei né il fratello si ritrassero quando Gemes si avvicinò a loro, chinandosi per asciugare una goccia dallo zigomo della bambina. «te l’avevamo detto che saremmo tornati, e un hamilton mantiene sempre le sue promesse» ed il grumo si sciolse in brevi singhiozzi, soffocati nella giacca scura del padre mentre le braccia di Run, caute, si chiudevano su lei e CJ, ancora irrigidito al suo fianco. Non capì una parola dei bisbigli sussurrati fra i capelli, ma non ne aveva alcun bisogno.
    «è tutto okay,cj» ripetè incessantemente Adelaide. «mamma e papà ci riportano a casa»

    2025-2027


    Furono i due anni e mezzo più belli della sua vita. Ci volle un po’ per riabituarsi ai nuovi ritmi, per tornare a riconoscere le mani dei suo genitori come faceva un tempo, quand’era per lei la cosa più naturale del mondo. Bastarono un paio di mesi ai due bambini per integrarsi in quella nuova famiglia, la loro, riconoscendo nella risata della madre i ghigni capricciosi di CJ e nel temperamento quieto di Adelaide la calma del padre. Sicuramente una famiglia atipica, ma Ade non ricordava di essere mai stata così felice.

    «ieri sera adelaide è uscita»
    «di nuovo?»
    «ha detto che doveva giocare con il cane dei vicini»
    «ma è morto due mesi fa»
    «appunto»

    […]


    «cristo»
    «in realtà, si chiama elvis»
    «HEIDRUN»
    «gemes?»
    «NOSTRA FIGLIA SI STA FACENDO SPINGERE SULL’ALTALENA DA UN INFERO»
    «si, beh, io dovevo preparare la cena. Aw guarda, ci stanno salutando»
    «cristo»
    «no, è sempre elvis»

    […]


    «SGUALDRINA»
    «heidrun…»
    «gemes?»
    «hai di nuovo lasciato cj con shia?»
    «…forse»
    «MAMMA SGUALDRINA»
    «cristo»
    «ignoralo, smetterà»
    «SGUAL-»
    «crane»
    «DRI-»
    «junior»
    «NA!»
    «mi rifiuto di chiamarti hamilton»

    […]


    «posso andare al parco con Jimmy?»
    «no»
    «perché?»
    «perchè è morto tre secoli fa»

    […]


    «crane……..»
    «è in sala»
    «tu, non tuo figlio»
    «ah. hamilton?»
    «lo sai cosa stanno facendo?»
    «giocano?»
    «se secondo te far ballare un infero sul tavolo della sala a ritmo delle spice girls è giocare, allora sì, GIOCANO»
    «dai, chi non l’hai mai fatto»
    «…nessuno? »

    […]


    «run»
    «gemes»
    «adelaide?»
    «SGUALDRINE»

    […]


    «sai che tuo figlio sta spacciando metanfetamine ai vicini?»
    «MA HA SOLO SETTE ANNI!»
    «lo so»
    «com’è precoce. sono così fiera di lui»

    […]


    «possiamo tenerlo?»
    «no ade, non possiamo tenere il gatto»
    «perché?»
    «PERCHÈ È MORTO»

    17 marzo 2028


    Mamma e papà sono di nuovo andati via. Ci hanno detto di rimanere con zio Eli e zia Rea, “perché stanno succedendo cose brutte”; ci hanno di nuovo promesso che torneranno, e li ho sentiti parlare, prima che ci accompagnassero alla villa:
    «lo facciamo per loro»
    «lo so»
    «non deve andare come l’ultima volta»
    «non andrà come l’ultima volta»
    «prometti che se la situazione si farà critica, tornerai a casa»
    «fottiti, crane»
    «dico sul serio, gemes»
    «anche io»
    È passato un anno, e loro non sono ancora tornati: ho deciso che se non sarebbero tornati loro, saremmo andati noi a casa.
    Non abitiamo lontano dagli zii, ma abbiamo dovuto comunque prendere i mezzi; siamo arrivati davanti a casa nostra senza altri problemi, ed io mi sono sentita ottimista. Avevo chiesto anche a Wes e Davina se volevano venire con noi, ma non hanno voluto. Siamo solo io e CJ.
    Allora di chi sono i passi al piano di sotto?

    C’era un motivo se Rea ed Elijah impedivano ai bambini di rimanere fuori troppo a lungo: era un periodo difficile, quello a cavallo fra 27-28, estremamente delicato; se gli Special combattevano per avere eguali diritti, i maghi lo facevano per mantenere la propria supremazia. Come farlo? Semplice. Abbattendo la nuova specie. Tutta, la nuova specie.
    Questo, Adelaide Milkobitch, non poteva saperlo.
    I rumori al piano di sotto continuarono, ed al piano di sopra, dentro quella che era stata la sua camera, Adelaide si irrigidì e strattonò a sé il fratello. Gli mise un dito sulle labbra, supplicandolo con lo sguardo di tacere, prima di spingerlo dentro l’armadio a muro. Si schiacciarono fra i vestiti, il respiro affannato ed un principio di panico negli occhi blu di Adelaide.
    Dovevano solo rimanere in silenzio, e tutto sarebbe andato bene.
    «ade, qualcosa non va» gemette CJ, stringendosi la testa fra le mani. «falli smettere» «CJ, zitto» «FALLI SMETTERE» «CJ!» il fratello era impallidito, ma Ade non capiva quale fosse il problema – all’epoca, ancora non si sapeva che fosse un telepata. Le urla dei bambini attirarono l’attenzione dei loro ospiti, e malgrado Ade tenesse la mano premuta sulla bocca del fratello, questo non poteva fare a meno di lasciarsi sfuggire suoni lamentosi, disperati. “Ti prego, falli smettere” continuava a sibilare sul suo palmo, inumidendolo di saliva.
    Adelaide non aveva mai provato tanta paura quanto in quel momento. Ricordava perfettamente il terrore aumentare esponenzialmente mentre i piedi calpestavano le scale, facendo scricchiolare il legno; ricordava il sapore della propria bile sulla lingua, le orecchie assordate dal battito frenetico del proprio cuore, la schiena madida di sudore. «sono venuti a prenderci» un sussurro a rimbalzare sulle pareti dell’armadio, doloroso quanto veleno iniettato nel sistema.
    I passi di fronte a loro, l’ombra di due uomini.
    Il cuore a mille, la gola secca, una stretta dolorosa allo stomaco.
    Le braccia ad avvolgere CJ, una preghiera nei disperatamente occhi blu di Adelaide.
    Il sudore freddo. L’aria che mancava.
    Era colpa sua. «sistemerò tutto», sillabato con le labbra. «lo giuro. Non ti faranno niente»
    Un gemito di CJ, la porta dell’armadio che si apriva.
    Il nulla.

    Sbattè le palpebre, mettendo lentamente a fuoco la stanza. CJ la stava abbracciando così forte da far male, stritolandole le esili ossa già doloranti con le braccia magre. Le accarezzava i capelli con le mani umide, le teneva la testa contro il proprio petto, le diceva che non li sentiva più, che erano salvi, che non era successo niente. Ma Adelaide Milkobitch non poteva fare a meno di guardare l’infero di fronte a lei, immobile come solo i morti sapevano esserlo, ed i due corpi riversi al suolo sotto i suoi piedi, la testa piegata in una posizione innaturale.
    Non sentiva niente, Adelaide Milkobitch. Niente.
    Guardò il fratello, un sorriso dolce sulle labbra sottili mentre gli occhi, irrazionalmente, continuavano a far scivolare lacrime lungo le guance bianche come il latte. CJ teneva nascosto il mento nella sua spalla, respirava troppo velocemente – ed il suo cuore, contro l’orecchio di Ade, tremava come la più sottile delle foglie in autunno. «ade?» chiuse gli occhi. Un sospiro. Non avrebbero mai detto a nessuno, i due fratelli, cosa accadde realmente quel giorno. «ho promesso che ti avrei protetto, cj» le braccia a ricambiare la stretta, disperate. «e un hamilton mantiene sempre le sue promesse»

    4 giugno 2028


    «papà?» gli occhi blu spalancati, uno sguardo di sottecchi concentrato a separare illusione da realtà. C’era qualcosa di strano nell’espressione di Gemes Hamilton, una stanchezza che non aveva nulla a che vedere con il tepore del sole che, all’esterno, andava scemando. Con il sospiro forzato che vibrò nella stanza, Adelaide si sentì più triste senza alcun motivo specifico. «dov’è cj?» le domandò, stringendola fra le braccia. La Milkobitch serrò le palpebre obbligandosi a non piangere, mentre si lasciava cullare da quel calore che non smetteva mai di mancare, il piccolo corpo in preda a brevi fremiti. «in giro» e lo strinse un po’ di più, perché era stanca, Adelaide Milkobitch, che se andasse sempre. «dov’è mamma?» fu il turno di suo padre di stringerla più forte, un soffio caldo fra i sottili capelli ebano. «in giro»

    7 giugno 2028


    «ti hanno mai raccontato della volta in cui ho quasi ucciso jeremy?» Adelaide rise, le gambe strette al petto ed il mento poggiato sulle ginocchia. «quale delle tante, zio todd?» Ian Milkobitch abbassò gli occhi grigi con un sorriso imbarazzato, le dita a grattare la nuca. «quella del tacchino» ammise sotto voce, lanciandole uno sguardo d’intesa che fece ridere Adelaide ancora di più, le mani premute sulla bocca. Mamma le raccontava quella storia ogni anno, e non riusciva mai ad arrivare alla fine del racconto senza scoppiare in una di quelle risate calde e contagiose che facevano ridere tutti malgrado la storia, in sé, non fosse poi così divertente. «JEREMY, LA CENA È PRONTA» imitò, muovendo il braccio per mostrare la parabola disegnata dall’aria dalla forchetta che, accidentalmente, Ian aveva scagliato contro Jeremy. Quando smisero di ridere, Ian si sedette al suo fianco, improvvisamente serio. «lo sai che ti voglio bene, vero?» Ade annuì, il sorriso ancora a brillare nelle iridi blu come il cielo dopo il tramonto. «ed anche a mamma e zio jeremy» continuò ad annuire, Adelaide Milkobitch. «glielo dirai?»
    «ade, con chi stai parlando?»

    […]


    La porta d’entrata si spalancò, facendo schizzare in piedi sia Gemes che Adelaide – immobili di fronte al divano, mentre CJ rimase seduto con gli occhi verdi fissi sul camino. L’odore di sangue era così forte da far arricciare il naso alla bambina, le braccia abbandonate lungo i fianchi. «non è mio» sembrava avesse letto la domanda nella sua mente, e forse l’aveva fatto. Non ricordava di aver mai udito, Adelaide, una voce più atona e priva di inflessioni di quella di sua madre quel giorno. Sembrava provenire da una stanza diversa, una vita diversa. Non guardò nessuno di loro mentre, arrancando e con un braccio stretto attorno alla vita di Jeremy, lo portava sul divano, le palpebre di lui chiuse ma il respiro regolare. CJ si spostò abbastanza da lasciar posto allo zio addormentato, mentre Run deglutiva febbrilmente e toglieva capelli umidi di sudore, sangue e polvere dalla fronte di suo fratello. Nessuno disse niente per un tempo che parve infinito, dilatato ed esasperato dal silenzio asciutto dell’esterno.
    «mi dispiace» Ade strinse i pugni. «non l’avevano visto arrivare, ed io… non potevo… lo rifarei mille volte» ed ancora nessuno disse nulla, nessuno si mosse. Zio Todd le bisbigliò poche parole all’orecchio, indicandole con il cenno del capo Run. «domandaglielo per me, per favore» Adelaide, i capelli scuri sciolti ordinatamente attorno al viso di perla, guardò sua madre. «chiede zio todd se possiamo tenerlo con noi» CJ alzò gli occhi, la mandibola serrata; rimase ad osservare Heidrun con uno sguardo opaco ma attento, le iridi così verdi da sembrare il riflesso su vetro di quelli di lei. Vide qualcosa passare fra i due, c’era sempre qualcosa a passare fra i due, ma lei era esclusa da quella conversazione, spettatrice silenziosa; avevano sempre avuto un modo particolare per capirsi, CJ e Run, anche prima che suo fratello sviluppasse la telepatia.
    Fu la prima volta nella vita di Adelaide Milkobitch in cui vide Crane Junior Hamilton abbracciare qualcuno che non fosse lei. Il bambino si alzò e, senza aggiungere altro, avvolse le braccia sottili attorno ai fianchi della madre, lo sguardo triste e le labbra strette fra loro.
    «non è colpa sua»
    Abbassò lo sguardo sulla punta dei propri piedi, un’occhiata di sbieco a zio Todd.
    «sì, invece» a volte dimenticava che sua madre era in grado, come lei, di vederli, di sentire. La voce soffocata, le ginocchia deboli. Adelaide guardò suo padre in una muta domanda, a cui lui rispose con un cenno del capo. Tentennante, si avvicinò anche lei a Run, la mano allungata per stringere la sua - così fredda, così rigida. Ci volle almeno un minuto prima che ricambiasse la stretta, lasciandosi cadere con le ginocchia a terra; mamma la tirò a sé, avvicinandola maggiormente a CJ, ed infine li abbracciò entrambi, incuneando la testa fra i loro petti, flebili singhiozzi esasperati mentre loro, inermi, non potevano far altro che aspettare.
    «sì, invece»

    1 settembre 2029


    «perché non può venire con me?» domandò Adelaide, lanciando un’occhiata a CJ. Erano cresciuti in simbiosi, e l’idea di lasciarlo da solo la turbava, cosa che non aveva celato sin da quando le era giunta la lettera. «è piccolo» «NON SONO PICCOLO, SGUALDRINA» «cristo sciaia quanto ti uccido male» Ade si morse il labbro inferiore, stropicciando la divisa che sentiva troppo stretta. Si guardò attorno, le mani nervosamente strette fra loro. C’erano troppe persone, ed il fatto che li conoscesse non aiutava affatto la Milkobitch a sentirsi maggiormente a suo agio. «ADE MUOVITI» il grido di Wes le giunse ben chiaro, sovrastando il rumore della folla. Aveva già un piede sul treno, e dalla gamba ancora a terra cercava di scrollarsi Davina; River prese la bambina e la accompagnò da Elijah, lanciando poi uno sguardo preoccupato ad Adelaide che, chiaramente, stava per iperventilare. Troppe persone, e loro non potevano vederle. Sovrapposte a quelle reali, Ade era in grado di vedere anche quelli morti, giunti fino a lì per vedere la propria famiglia. «tutto okay?» annuì verso River, abbassando lo sguardo sui propri piedi. «non sarà così male» Uran si strinse nelle spalle, tirandole una delicata gomitata sul fianco. «DAI ADE» si lasciò sfuggire un gridolino mentre Cash la afferrava dalla vita e se la caricava in spalla, salutando poi affabile il resto della famiglia. «aspetta!» gridò, serrando le palpebre. Invocò un Infero che, obbediente, prese la valigia abbandonata ancora ai piedi sei suoi genitori e la caricò sul treno. I bambini rimasero a fissarlo senza battere ciglio, facendo cadere Adelaide in un imbarazzante silenzio finchè Wes, appoggiata con la spalla alla carrozza, non ruppe la tensione con un: «sa fare anche i compiti?»

    Il periodo di Hogwarts fu strano, per Adelaide Milkobitch – non necessariamente uno strano bello. Fu smistata nei Corvonero, e come ogni Corvonero che si rispettasse, passò la maggior parte del suo tempo con gli occhi blu nascosti dietro un libro; era difficile trovarla simpatica, quando le sue giornate tipo erano:
    «wes, conoscevi Adam?»
    «sì?»
    «è morto»

    «ade, quando mi porti a conoscere la tua amica?»
    «dipende river, quale livello di decomposizione preferisci?»

    «credo che il mio gatto non stia bene»
    «ma come, cash? ha dormito con me stanotte»
    «no, è stato nella sua cuccia tutto il tempo»
    «… era un bravo gatto»

    Conobbe Antares, con il quale la notte sgattaiolava alla Torre di Astronomia per guardare le stelle – e mentre lui rifletteva sul senso della vita, lei gli raccontava la storia degli astri; conobbe Cassidy, con i quali finalmente poteva dividere il peso di comunicare con i morti, e Percy, la protettiva migliore amica di lei. Lentamente, anno dopo anno, anche il resto della sua famiglia la raggiunse fra le mura di Hogwarts: CJ, i gemelli, Rude, Rooney. Volere bene ad Adelaide Milkobitch non era difficile; era strana, ma in quel senso buono che spingeva gli altri a cercare sempre di proteggerla, di rimanerle vicino per assicurarsi che non si facesse male - così delicata, Ade, da non avere apparentemente nulla dei suoi genitori.
    Poi si conosceva CJ, e si capiva perché Adelaide fosse così adorabile: qualcuno doveva compensare la testa di cazzo di suo fratello. Lui era esagitato, lei tranquilla; lui menefreghista, lei preoccupata; lui spacciava armi e droghe, lei alzava gli occhi al cielo.

    «ADELAIDE, TUO FRATELLO»
    «lo so»
    «ma non ho detto cos’ha fatto»
    «hai un taglio al fianco, posso immaginarlo»

    «ade, ho fatto una cazzata»
    «…quale»
    «potrei, ipoteticamente parlando, aver avvelenato il nuovo assistente di erbologia»
    «cj…»
    «dovevo testare una nuova droga. Fortuna che Davina era impegnata, altrimenti sarebbe lei il cadavere»
    «CJ!»

    «Adelaide, sai che tuo fratello spaccia…»
    «sì»
    «…armi da fuoco?»
    «…quando gli ho detto di ampliare il suo marketing, non mi riferivo a quello »

    «cj, ho un regalo per te»
    «ma è un gufo»
    «sì»
    «morto»
    «sì»
    «perchè?»
    «ti ho risparmiato tempo, tanto l’avresti ucciso comunque»

    1 settembre 2037


    Adelaide Milkobitch non avrebbe voluto tornare a Hogwarts, e CJ lo sapeva perfettamente. Il solo motivo che l’aveva spinta a chiedere il posto da assistente di storia della magia, era la possibilità di rimanere al fianco di suo fratello, così da impedirgli di fare cazzate – o, almeno, coprirlo quando inevitabilmente finiva per farle. Non poteva permettere che finisse nella stanza dell’Esilio, era il suo ultimo anno. Tutti in famiglia temevano che a Crane Junior potesse toccare quella sorte, eppure il Tassorosso sembrava non essere minimamente interessato alla questione.
    Bugiardo.
    «se fa qualche idiozia…» «uccidilo» sospirò. «sì, lo so papà» sorrise inarcando le sopracciglia, mentre sua madre istruiva CJ sui luoghi dove spacciare senza essere notato, e su come uccidere un uomo con una matita. Quelle lezioni, Adelaide, le aveva sentite allo sfinimento («perché dovrei uccidere qualcuno?» «la domanda giusta, ade, è…perché no?»). Abbracciò ancora una volta i suoi genitori, seguendo poi Uragano Hamilton sopra l’espresso per Hogwarts; a volte era difficile capire quanto fosse fatto come un cocco, e quanto dipendesse dalla sua indole di naturale rompi coglioni. Si imbarazzò per lui ad ogni cabina nella quale faceva capolino con la rasata testa scura, e desiderò di morire ogni qual volta il fratello se ne usciva con frecciatine allusive a sfondo sessuale. Al contrario di Crane, lei, aveva un senso del pudore.
    E di amor proprio.
    E di tante altre cose che, purtroppo, parevano carenti nel fratello minore. Ma lo amava così.
    Fu lesta ad infilarsi in una carrozza deserta, un sospiro trattenuto nei polmoni a veleggiare libero fra i sedili; come già detto e ripetuto allo sfinimento, le persone la confondevano, la turbavano, e la privavano dell’aria di cui ella aveva bisogno. Non che fosse una patita della solitudine, ma quando mai una medium era da sola? Quando riuscì a liberarsi di CJ, rivolse un sorriso sghembo a zio Todd, comodamente seduto nel sedile di fronte a lei. «anche io mi sedevo sempre da solo» si grattò il mento, lasciandosi ricadere sul sedile. «o meglio, con mickey» «me lo ripeti ogni anno» sorrise distratta, lo sguardo a perdersi oltre il finestrino. «l’hai portata la chitarra?» Adelaide aveva imparato a suonare ogni genere di strumento (merito dei fantasmi, erano insegnanti molto pazienti: avevano tutta la morte, davanti), ma la chitarra rimaneva il suo preferito; difficilmente si spostava senza portarsela appresso, quindi rispose alla domanda di Todd limitandosi ad inarcare un sopracciglio. Per chi l’aveva presa? Un ragazzo si affacciò sulla sua carrozza, strappandola dalla conversazione con suo zio. Se disturbava? Scosse il capo con un lieve sorriso, spostando il borsone per permettergli di sedersi. «no, figurati» solo quando fu seduto, simpatica come solo un Hamilton sapeva esserlo, inclinò il capo allargando il sorriso: «se senti freddo, è perché sei seduto su mio zio» ed ecco spiegato perché Adelaide Milkobitch, Hamilton d’indole, Crane a tempo perso e Quinn a convenienza, non avesse amici.

    «smettila di fissarmi» sibilò, seduta a tavola, lanciando un’occhiata di sbieco all’uomo al proprio fianco. «no. TUO FRATELLO MI HA UCCISO» Alzò gli occhi al cielo infilandosi un pezzo di pane fra i denti. «smollala, sono passati… due anni» scosse il capo cercando di ignorare gli insulti di Teddy, l’ex assistente di erbologia, masticando lentamente la cena. «e poi quello lì chi è? MA L’HAI VISTO? COM’È VESTITO» di nuovo. Bevve un sorso di succo di zucca, richiamando l’attenzione di Cash. «teddy ce l’ha di nuovo con te. Dice che sei vestito male» come ogni anno, d’altronde.
    Non era particolarmente brava a fare conversazione, ma in caso non si fosse notato, vi lancio una perla su come, Adelaide Milkobitch, ritenne opportuno spezzare la tensione con i suoi colleghi – dio grazie che la metà erano suoi parenti. «lo sapete che gli inferi sono molto snodati? Trovo incredibile la loro capacità di inclinarsi senza perdere l’equilibrio, nel Limbo sono imbattibili»
    Sì, aveva dei passatempi davvero peculiari. «ah, wes. Tara ha di nuovo messo le zampe nel tuo piatto» commentò distaccata, mentre il fantasma di quello che era stato il suo gatto decideva di farsi una nuotata nella zuppa di Washington Hamilton-Dallaire.
    What a time to be alive.
    Più o meno.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    «ADE»

    «CJ»

    «RUN»

    «GEMES»


    Edited by arabell(ie)s - 17/2/2017, 00:04
     
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    Restò per qualche istante fermo, le braccia abbandonate lungo i fianchi, mentre con lo sguardo percorreva sconsolato la propria immagine riflessa allo specchio. Ogni anno, ogni fottuto anno, sempre la stessa storia. Nemmeno si prese la briga, quella mattina, di spenderci un po' di tempo in più: non che fosse uno arrendevole, Heathcliff Wayne-Maddox, ma quella era una battaglia che non poteva vincere. Lo sapeva lui, lo sapeva suo fratello, lo sapeva suo padre. E di certo, lo sapeva anche lei. Sfiorò con i polpastrelli il tessuto verde-argento, lasciandosi uscire poche parole a fior di labbra, le iridi chiare ancora ferme davanti a sé. ringrazio iddio che questo è l'ultimo anno che dovrò indossarti, maledetta la fece volare a terra, stanco di tutto quello e guardò quella foto sul comodino, un sorriso amaro apparve sul suo volto, gli mancava terribilmente. Spesso sperava di vederlo sulla porta, nei suoi occhiali che nascondevano gli occhi stanchi ma sempre dolci, non avrebbe detto niente ma si sarebbe avvicinato a lui e gli avrebbe fatto quel maledetto nodo alla cravatta, magari facendogli vedere anche come si faceva, perché suo padre Dakota era sempre stato così, pieno d'amore e sapeva anche darlo senza mai pretenderne in cambio. Aveva un vago ricordo di lui che rubava una cravatta del padre J, voleva essere lui, grande e figo, inutile dire che proprio mentre cercava di mettersela Dakota comparve in camera dicendogli:
    «Vieni te la faccio io.»
    «E sarò come te e papà?»
    «Meglio,..ecco, fatti vedere da papà come ti sta bene» e lo fece aveva corso per la casa con la cravatta più lunga di lui, che strusciava a terra, era così felice, credeva di aver imparato a farla, peccato che non veva mai visto il procedimento, si era distratto e ora non era in grado di fare un semplice nodo. Sbuffò, a volte essere un semplice mago era negativo, avrebbe voluto tanto avere suo padre morto al suo fianco, come i Medium, sembrava così di moda avere un parente defunto con cui parlare, si poteva dire che era la normalità.
    «Toc Toc...Terra chiama Cliff, tutto bene?» Jason apparve, stanco e invecchiato, sicuramente la perdita del marito aveva inciso molto, non era più come prima, era spento vuoto e molto spesso distaccato con i suoi due figli. E lui lo comprendeva quel dolore, lui aveva perso suo padre la seconda persona che più amava sulla terra, non era riuscito a goderselo, sicuramente più di Jem, ma non era stato abbastanza e gli mancava. Scusa papà è che non riesco proprio a farmi il nodo alla cravatta disse prendendola da terra e mettendosela al collo, tornò a guardarsi allo specchio, era davvero un disastro.
    Ancora non sei capace? Sorrise debolmente. Non lo faceva spesso, ma era sempre bello vedere quel viso sorridere, lo riportava in dietro nel tempo quando ancora erano famiglia unita e felice. Sai per molto tempo anche a me la faceva tuo padre, spesso mi incantavo a guardarlo mentre me la sistemava lo vide perdersi nel ricordo mentre passava le mani sul tessuto, ecco di nuovo lo stava lasciando. Aveva paura quando gli occhi di suo padre diventavano vuoti, voleva dire che stava per cadere nella depressione, non gli piaceva perché aveva passato gli ultimi dieci anni a raccogliere e incollare i cocci di quella famiglia. Spesso aveva trovato Jason ubriaco in casa che piangeva sulla foto di suo marito morto, lo aveva preso di peso e portato sotto la doccia mentre quello si lamentava del suo amore perduto, aveva ascoltato più storie della coppia da suo padre ubriaco o strafatto che sfogliando gli album di famiglia, sempre che lo avessero avuto. Papà? provò a scuoterlo delicatamente, chissà a che stava pensando, cioè poteva saperlo in realtà, tutto riconduceva sempre a lui, il suo rosso. Jason sembrò tornare in sé, gli sistemò la cravatta Sei un uomo ormai, quando è successo? Mi sono perso tutto. Mi dispiace disse triste, ecco che passava all'autocommiserazione, si sentiva in colpa perché era diventato come suo padre a parare suo, tra l'altro lui manco lo aveva mai conosciuto suo nonno visto che suo padre non aveva mai voluto, sapeva solo bere e non li aveva cresciuti come aveva promesso a Dakota. Papà, tranquillo. Noi stiamo bene. Hai fatto un buon lavoro. Vedi siamo sani e stiamo andando ad Hogwarts come tu e papà. Io mi diplomo quest'anno. disse per tranquillizzarlo, magari doveva essere più duro e rimproverarlo per avergli fatto passare le notti ad aspettarlo invece di dormire come i bambini normali, ma se non ci pensava lui chi altro? Jem era troppo piccolo per capire. Lo vide annuire Di a tuo fratello di muoversi tra poco parte il treno disse per poi rammaricato uscire dalla stanza. Si sentiva un uomo davvero terribile, non era riuscito a mantenere la promessa fatta a Dakota, non era riuscito a crescere i figli come volevano, aveva passato praticamente il primo anno dopo la morte del rosso a bere e a drogarsi, tornava a casa solo per dormire, spesso si era ritrovato nel letto solo perché Cliff era riuscito a trascinarcelo. Ci era voluto un anno per rimettersi in piedi e tornare a lavoro, se si poteva dire così, aveva lasciato tutto e si era ritrovato a fare l'operaio come suo padre, in una fabbrica babbana, se non era morto era solo per i suoi figli, anche se non sempre riusciva a tenere bene. Ad ogni anniversario, compleanno di Wayne e giorno della sua scomparsa Jason crollava, inesorabilmente moriva una piccola parte di lui. Ecco perché si era accollato sulle spalle tutto Cliff, non riusciva a vedere le persone che amava star male, non che lui stesse meglio, amava suo padre e teneva stretto ogni suo ricordo da quella volta in cui si era presentato davanti a lui con un finto termometro «papà stai male. Io sarò te» aveva detto e avrebbe mantenuto la promessa, anche se all'epoca il padre aveva riso ma sapeva che se Cliff voleva fare una cosa l'avrebbe fatta. E poi c'era Jem, suo fratello, non sembrava averla presa bene la morte di loro padre, ma non lo dava mai a vedere e spesso vedeva nei suoi occhi la tristezza perché a differenza sua non aveva vissuto Dakota. Bussò alla sua porta ma questo non aprì, così alla fine lo chiamò Jem, sei pronto? Andiamo disse spalancando la porta una cuscinata come risposta Fanculo Cliff, mi hai spaventato e non mi rompere le palle, arrivo. disse e si mise le cuffiette per estraniarsi di nuovo dal contesto, lo faceva sempre, non voleva sapere , sentire e preferiva vivere nel suo mondo. Cliff sospirò e lo lascio stare, sapeva che lo avrebbe raggiunto e che mettergli ansia non serviva.
    Arrivati alla stazione, vide molti volti familiare, come i suoi compagni di casa tra cui Finn, si poteva definire un bullo ma Cliff gli voleva comunque bene.
    Sei come tuo padre. Anche lui vedeva il buono in tutti, persino in me. disse Jason, poggiando una mano sulla spalla del giovane Maddox, chissà perché aveva fatto quel pensiero, probabilmente tutto gli ricordava Dakota e ogni tanto doveva esternarlo.
    Sei solo un perdente Cliff intervenne acido Jem, quasi offeso per quell'attenzione o forse voleva solo fare lo stronzo. Jem. Smettila...sei fin troppo simile a me te intervenne il padre, forse voleva fargli un complimento ma ovviamente il corvonero non la prese bene Fanculo.... concluse così il loro bellissimo momento familiare e se ne andò sul treno insieme agli altri suoi amici. Jason sospirò e poggiò una mano sulla sua spalla di Cliff Prenditi cura di lui disse e dopo un breve abbraccio con tanti di pacca sulle spalle i due si salutarono.
    Salì sul treno, diretto verso il gruppo di amici Ehi Ronan com'è ? chiese mentre si sedeva poi accanto a Finn, si permise anche di fare un cenno a Roo, erano praticamente cugini o quasi, visto che spesso andavano a casa sua, Shane e suo padre Jason sembravano essere molto amici o forse condividevano solo il dolore della perdita, quelle battaglie avevano portato via molte persone, come Maeve, era sua zia e anche se aveva un vago ricordo di lei ricordava quanto fosse speciale. Poi posò gli occhi su Meara, era un anno più piccola di lui ma la trovava interessante, forse si era anche preso una cotta.
    Seguì con lo sguardo Jem, sempre così asociale, gli sembrò quasi vederlo accendersi una sigaretta, che voglia di prenderlo a pugni, aveva iniziato da qualche anno e non era servita nessuna minaccia per farlo desistere, avrebbe voluto essere più forte, se ci fosse stato loro padre Dakota magari lo avrebbe anche convinto a non farlo. Quanto gli mancava suo padre, sospirò per poi distrarsi con i compagni, era meglio pensare ad altro.
    Quando arrivarono ad Hogwarts, si diressero verso la sala grande, prese posto al proprio per ascoltare i due presidi parlare, un altro anno di lezioni, di torture e paura. Spesso si domandava se anche quando i suoi padri lo frequentavano era così, ma Jazz non parlava molto preferiva la musica o bere, quindi non poteva immaginare come poteva essere prima di quelle guerre. E buon inizio anno a noi disse Finn dandogli una spallata quasi da farlo cadere, non era il massimo a mostrare il proprio affetto, ma a Cliff stava bene così, in fondo in qualche modo anche l'Hamilton gli aveva dimostrato di essere amico suo ( e questo cos'è? - Un procione mortoAh grazie (?) - Prego amico ) .


    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia




    Dopo il posto di Ade il mio non è così wow y.y
    Jem
    Jason
    Cliff
     
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    givemeabreak
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    15 y.o. | gryffindor | hockey player | kick ass
    Spingere con il piede destro, spostare il peso a sinistra; il vento gelido a far lacrimare gli occhi, le guance pallide colorate di un tenue rosa, il fiato a condensarsi in nuvolette ad ogni respiro. Le palpebre assottigliate a focalizzare lo sguardo sulla porta avversaria, le iridi rese più cupe dalla concentrazione. Cangianti, così venivano minimizzati i peculiari occhi di Arden Dallaire Fraser; lei l’aveva sempre trovata una definizione quasi offensiva, per quel colore che pareva mutare seguendo leale il suo umore – grigio acciaio, azzurro ghiaccio, verde giada. Le chiamavano sfumature, ma Arden era troppo Arden per concentrarsi su simili sottigliezze: per quanto la riguardava, erano semplicemente magici. Non capiva il bisogno di giustificare ogni cosa che affliggeva sin dall’inizio dei tempi il genere umano: “è il riflesso della luce”, “dipende da cosa stai guardando”, “parole scientifiche che ad Arden non interessano e quindi non saprebbe ripeterle neanche volendo”. Poteva rimanere ore ad ascoltare leggende secondo la quale gli occhi cangianti dipendevano da personalità sopite nella sua mente (o da defunti che, perché no, la usavano come tramite per esprimere il loro antico disappunto; o, ancora, antenati che emergevano nei momenti meno utili, ad esempio non di certo per aiutarla nelle verifiche di storia della magia), ma nell’istante in cui qualcuno cercava di farle un discorso sensato, mostrandole fatti evidentemente comprovati, il suo cervello si spegneva. Così, bum: un attimo prima ti guardava ed ascoltava, quello dopo si domandava se avrebbe dovuto proporre alle cheerleader di farle un coro personalizzato.
    Così, bum. Non lo faceva con cattiveria, aveva semplicemente seri problemi di attenzione ed egocentrismo. Per questo preferiva gli sport, e lasciava volentieri alla sorella il ruolo di salvare il mondo - o conquistarlo costringendo tutti gli esseri umani a divenire suoi schiavi, perché no: probabilmente Haven non l’avrebbe mai fatto, ma la Grifondoro era certa che, se avesse voluto, avrebbe potuto farlo. Arden era, e sempre sarebbe stata, la spalla di sua sorella, le grida di supporto dagli spalti e le braccia che la lanciavano verso la meta.
    O i pugni che avrebbe dovuto tirare, ed invece teneva per sé; non si faceva problemi, la bionda delle gemelle Fraser, a tirar fuori l’artiglieria pesante per proteggere sua sorella (o anche solo per divertimento, okay). Le piaceva credere di esserne la bodyguard, mentre Haven era il suo angelo custode.
    Piegare la schiena, flettere i muscoli delle braccia.
    «arden»
    Riusciva già ad assaporare la vittoria, Arden Fraser; la sentiva dolce sulla punta della lingua, eccitante ed inebriante nel sistema. Non c’era nulla di paragonabile alla sensazione di trionfo del puck che colpiva la rete avversaria, o dell’allarme tonante che segnava un punto alla propria squadra: quei numeri rossi, Arden, li aveva impressi nella retina.
    «arden dallaire»
    Il dischetto volò preciso e rapido verso l’obiettivo, ed il portiere non sarebbe mai riuscito a respingerlo; lo sapeva perfettamente, lei, dato che aveva giocato in ogni ruolo – ma niente di simile alla gioia provata nell’essere attaccante, la parte di campo alla quale ella realmente apparteneva. Non era una che difendeva, Arden Fraser; non recuperava le palle, non faceva passaggini.
    Lei andava in porta, sempre.
    «arden dallaire fraser»
    Che goduria. Sollevò gli angoli delle labbra in un sorriso, un grido muto ad accendere le iridi cristalline – in quel momento, dello stesso colore del ghiaccio. Lanciò uno sguardo ad Axel Cash, il dito medio ben visibile sollevato sopra il bastone da hockey: come al solito, si era dimostrato UNA MALEDETTA TALPA, e li aveva ammoniti per un fallo che ASSOLUTAMENTE, lei, non aveva fatto. Sempre detto che come arbitro avrebbero dovuto avere un cronocineta, così che potesse tornare indietro ed osservare la scena dal vivo. INVECE NO, la sua petizione era rimasta inascoltata; così si ritrovava, ogni partita, invischiata con quel cornuto di un Cash, che prima o poi si sarebbe beccato uno di quei cagotti fulminanti per i quali neanche la Pampers era preparata. Era già pronta a spaccare Pearl, il suo fidato bastone da hockey, sui denti di suo cugino Finn, sbandierando con onore e gloria la bandiera dei Grifondoro per tutta la landa ghiacciata, quando…
    «arden dallaire fraser, SEI MORTA?»
    Si alzò a sedere così rapidamente da rischiare di perdere l’equilibrio, gli occhi spalancati e la mascella dolorante. «ABBIAMO VINTO?» strillò, prima ancora di rendersi conto di essere esattamente dove si trovava mezz’ora prima: seduta sul gabinetto, con le mutande tirate giù in quella che doveva essere una rapida pipì dato che, come al solito, era in ritardo. Aveva perfino ancora la bocca impiastricciata di dentifricio, e ne aveva lasciato una lunga scia bavosa fino al pavimento.
    Merda, si era di nuovo addormentata con la testa sulla lavatrice. «se esci da quel bagno, , abbiamo tutti vinto» il tono di sua madre aveva raggiunto il glaciale livello di esasperazione a cui nessuno, in casa Dallaire Fraser, era mai pronto. Quando usava LA voce, significava che lei (o suo padre) erano in guai davvero molto, molto grossi: una vera fortuna che sia Arden che Oscar possedessero la miglior arma con il quale combattere quella guerra.
    Il sorriso.
    Si affrettò a tirare la catena ( ma guardò incerta l’acqua, dato che non ricordava se avesse o meno fatto i propri bisogni), e mentre con una mano tirava su le mutandine nere, con l’altra già spalancava la porta, un sorriso radioso sulle labbra sottili. «mamma? Che coincidenza, cercavo proprio te» Arabells aggrottò le sopracciglia, quindi chiuse gli occhi. Quando veloce allungò una mano verso il suo viso, Arden non pensò neanche per un momento di spostarsi: sua madre non l’aveva mai schiaffeggiata, ed era (abbastanza?) certa che non l’avrebbe fatto neanche in quel momento. Di fatti, la ex Corvonero, si limitò ad asciugarle il dentifricio dal mento con gesti stizziti e meticolosi, sospiri a bruciare fra i denti. «ovviamente» sottolineò ironica, umettandosi le labbra. «mi cercavi dentro il wc? lusinghiero» quello era un subdolo trucchetto da blu bronzo, Den lo sapeva. Fu il suo turno di aggrottare le sopracciglia, le palpebre ridotte a fessura mentre studiava l’espressione impenetrabile di sua madre: c’era una risposta giusta? Una sbagliata? doveva tacere? Annuire? Improvvisare una danza caraibica? Era una logica troppo dedalica e complessa per la semplice mente di Arden Fraser perfino quand’era nel pieno delle sue forze (mai), figuriamoci quando si era appena svegliata. Alla fine optò per: «beh, il nostro wc ha un deodorante molto buono» così, sapete; un sorriso sghembo, le spalle strette fra loro, il palmo poggiato con non curanza sulla cornice della porta. Una di quelle risposte che fungeva un po’ da jolly, interpretabile a piacimento. «siamo in ritardo» Arden sbuffò, sputacchiando altro dentifricio. «ma figurati, sono le…» guardò l’orologio, Arden Fraser. E soffrì. Serrò le palpebre e chiuse i pugni, il naso arricciato. «vediamola così: non è il ritardo per il binario nove e tre quarti, esso stesso il binario nove e tre quarti?» «…no?» «senza contare che, secondo i miei calcoli, siamo in anticipo per il nostro sesto anno» «vero. Però siete ancora al quinto, ragazzina» «credo che dovremmo ribellarci alle convenzioni sociali: voglio dire, perché non possiamo frequentare prima il sesto, e poi, non so, il primo «arden» «bel nome, vero? Bisogna ringraziare la mamma, MAI VISTA UNA MAMMA COSì BELLA» si lanciò di getto verso Bells, stringendole le braccia alle spalle e soffocando le sue proteste con antiche litanie in (lingue inventate) latino che, a suo parere, elogiavano il ruolo materno della donna (o parlavano di pinguini, chi poteva saperlo? Non Arden). Cominciò perfino a cantare, improvvisando giravolte ed alzando il tono ogni qual volta sua mamma cercava di prendere parola.
    Quello che accadde dopo, però, non se lo aspettava. «aguamenti» dalla bacchetta di Arabells, un fiotto d’acqua gelido andò a marcire il magro, ed ancora semi nudo, corpo della figlia. Quando superò il trauma termico, la bocca spalancata ed i capelli umidi e pesanti spaghetti intorno al viso, potè finalmente lanciare un’occhiata sconsolata e tradita alla donna che l’aveva messa al mondo. «madre, come hai potuto. io mi fidavo di te» «fila a farti la doccia di tua spontanea volontà, prima che decida di usare flipendo e colpirti con ogni saponetta che abbiamo» «lo faresti davvero?» «tre…» «e se mi colpissi a una spalla? Non potrei più giocare» «due…» «ce n’è una piuttosto grossa in bagno, senza contare tutte quelle che abbiamo nei cassetti…» «uno» «arrivo fra due minuti»
    Mi piacerebbe dirvi che quella mattina fu un eccezione nella vita di Arden, ma sarebbe una menzogna: si trattava di una giornata ordinaria a casa Dallaire Fraser, perfino una delle più fortunate, a dire il vero. Solitamente, mentre sua madre e Haven avevano già finito colazione e li attendevano sulla soglia della porta, lei e suo padre si stavano ancora litigando il bagno («oggi sono magnanima, ti lascio scegliere la sfida» «braccio di ferro» «MA PAPÀ! Non vale!» «e invece vale cercare di rubare il bagno a un importantissimo e famosissimo giocatore di quidditch? Cedimi il posto, e non dovrò umiliarti» «MAI!» «allora preparati a perdere»). Quel giorno, Oscar Fraser, era già pronto.
    Male.
    Come aveva appreso da zio Arci, ogni cosa che usciva fuori dall’ordinario, era un chiaro simbolo di qualcosa di nefasto – spesso, secondo la Vista di Leroy, si concludeva tutto con la morte prematura e giovane di Arden, ma almeno in quello cercava di rimanere ottimista; al resto, credeva ciecamente.
    Quando scese in cucina, lavata e profumata come un petalo di ortensia, baciò sulla guancia entrambi i suoi genitori, per poi fiondarsi emozionata al fianco di sua sorella. «me lo sento, quest’anno fottiamo la coppa a quegli stronzi dei blu bronzo» «arden…» «tu non conti» scosse la mano nell’aria, il naso arricciato ed un’occhiata distratta ad Haven. Arden non aveva alcun pregiudizio sulle altre casate, davvero. Anzi, il suo odio si divideva equamente fra tutte e tre le avversarie – ma solo quando si trattava di hockey, altrimenti, per quanto la riguardava, le cravatte dei suoi amici avrebbero anche potuto essere color arcobaleno.
    Quando aveva cominciato a frequentare Hogwarts, aveva fatto specie ch’ella non fosse interessata al quidditch; non solo entrambi i suoi genitori ne erano stati capitani, ai loro tempi, ma suo padre, Oscar Fraser, era conosciuto in tutto il mondo magico proprio in qualità di giocatore professionista di tale sport. Se avessero conosciuto un minimo la bionda Grifondoro, non avrebbero mai avuto motivo di porsi quella domanda: perché da Arabells ed Oscar, Arden, non aveva ereditato solamente gli occhi chiari e la passione per lo sport. Nelle sue vene, come le diceva spesso Haven, scorreva competitività - in maniera a tratti malsana ed ossessiva, come le aveva fatto notare (con molta più gentilezza e delicatezza) Rooney, quando Arden, un giorno, s’era lasciata sfuggire di essere pronta a sacrificare un bambino per vincere la Coppa («e se non fosse un bambino ma…l’arbitro?» «è sempre un no, arden» «neanche ti piace, cash…» «ARDEN!»). Non poteva permettersi di gareggiare con l’antica fama dei suoi genitori, e non voleva essere sempre paragonata al Grande Fraser: voleva essere semplicemente Arden, non Dallaire e non Fraser. L’hockey era il suo gioco; non poteva, la rosso oro, vivere nell’ombra di suo padre e sua madre. Così, senza pensarci due volte, si era iscritta alla squadra di hockey su ghiaccio.
    Ed era schifosamente brava.
    Incapace a scegliere perfino nelle questioni più banali, mischiò due tipi di cereali differenti nella tazza della colazione, condendo il tutto con un ingente dose di latte freddo. «vuoi anche del burro, dentro quei cereali?» ironia? cos'era? «no grazie mamma, sono a posto» biascicò con la bocca piena, sorridendo e lasciandosi sfuggire briciole dalle labbra dischiuse. «mangia una banana, è tutto potassio. ne avrai bisogno» «l’uvetta ne ha di più» «ma la banana e più buona» annuì indicando con il pollice suo padre per dimostrarsi d’accordo, alzando poi la mano per schiacciargli il cinque. «avete preso tutto?» domandò Bells alle gemelle, poggiando le mani sul tavolo.
    Pur essendosi seduta al tavolo con un discreto ritardo rispetto alla sorella, Arden fu la prima a concludere la colazione, aspirapolvere umano che non era altro. C’erano mattine in cui, aprendo gli occhi, si convinceva che non sarebbe riuscita a tollerare la giornata se non avesse mangiato un cheesburger a colazione: e sì, diveniva così insistente che i suoi erano costretti a trascinarla al Mc Donald’s, dove nelle giornate particolarmente negative prendeva anche un sacchetto di patatine grandi.
    Quel pagliaccio doveva solamente ringraziarla: metà della sua villa alle Bahamas, praticamente, era pagata da Arden. Sulla soglia della porta, quando si stavano accingendo a partire per King’s Cross, sua madre le fermò per l’ultimo, necessario, inventario: «libri? Vestiti? Divisa? Pearl? bacchetta?» mentre Haven si ritrovò ad annuire ad ogni domanda, il sorriso gentile sulle labbra sottili, Arden dovette mordersi l’interno della guancia all’incirca ad ogni interrogativo – eccetto Pearl, la sua unica certezza. «devo solo… torno fra un attimo eh… ho scordato i fazzoletti di sopra» leggasi: non ho realmente fatto la valigia.
    Ma le volevano bene così.

    «so quanto ci tieni alla coppa» sentiva già il ma aleggiare nell’aria, e non era pronta ad affrontare l’argomento – quale incoerenza, poi, dalla donna che aveva fatto ammalare metà delle squadre avversarie per assicurarsela. «e lo comprendo, ma ci sono dei limiti» malgrado le mani poggiate sulle spalle la costringessero a rimanere dov’era, alzò gli occhi al cielo per evitare lo sguardo di sua madre, il labbro inferiore morso fra i denti. «ma’, scherzavo quando ho detto che avrei ucciso finn…» «arden» «al massimo gli spezzo una gamba» «arden» «un braccio?» «arden» «OKAY, okay. Lassativo nel succo di zucca?» compromessi. «ricorda cosa ti ho sempre detto» «devi umiliarli, non mutilarli» ripetè, sconsolata, in uno sbuffo. Vi direi che mai avesse realmente pensato di far del male a suo cugino, ma sarebbe una menzogna – e non per questo gli voleva meno bene, anzi: Arden Dallaire Fraser amava i figli di zio Eli come fossero fratelli, MA L’HOCKEY. L’hockey. Ricambiò l’abbraccio di sua mamma stringendola forte a sé, inspirando il profumo di buono e casa della sua pelle; saltò poi, all’incirca letteralmente, fra le braccia di papà, facendosi cullare senza pudore dal Grande Fraser. «da grande diventerò come te» «no, sarai meglio» Arden amava Hogwarts, e mai s’era preoccupata, da quando la frequentava, della violenza delle materie: per lei, d’altronde, era quotidiana amministrazione, perché avrebbe dovuto trovarci qualcosa di sbagliato? Era capitato che finisse in Sala delle Torture più di una volta, ma non trovava nulla di strano nell’esistenza di quella stanza – se volevi evitarla, seguivi le regole. Ciò non significava che lasciare casa propria fosse semplice. Ingoiò le lacrime con una risata cristallina, scivolando nuovamente al suolo per andare a salutare gli zii. «CIAO MI SIETE MANCATI» Stritolò Elijah e Rea in un unico abbraccio, beccandosi pat pat sulla testa da parte della mora che, porella, ancora ci provava a liberarsi di lei.
    Stolta. Arden Fraser era presumibilmente la creatura più testarda e priva di pudore sulla faccia della terra, e più tempo necessitava a conquistare l’amore di qualcuno, più diveniva profondo e sentito. Quanti secchi no, levati, sorridi troppo, ti muovi troppo, allontanati si era dovuta sorbire da parte di Washington, prima di convincerla inevitabilmente a far parte della sua vita? Tanti, ma ne era valsa la pena. Arden aveva sempre guardato a Wes come ad una saggia Guru, dove saggia stava per so dove nascondere l’alcool e guru per so come tirare un calcio nelle palle e castrare a vita: il suo più sincero spirito guida. Con Finn era sempre andata d’accordo, eludendo sulle parti inquietanti nelle quali andavano ad esplorare il bosco quale, e mentre lei tornava con piume e pietre particolari, lui portava a casa pettirossi morti: poteva non sembrare, tipo su ogni punto di vista, ma in realtà erano più simili di quanto apparisse. E poi c’era Davina. Davina.
    La guardavi, e le volevi già bene. Blonde power. Stritolò quindi anche i cugini in calorosi abbracci, ignorando volutamente le proteste e traducendole, nella propria testa, come dichiarazioni d’amore fraterno nei suoi confronti: «lo so, lo so» cosa sapeva?
    Niente.

    «ROO» quello di Arden, fu un assalto in pieno stile. Strinse l’amica con forza, minacciando di soffocarla ogni volta che, con la delicatezza di un triceratopo, le premeva la testa contro il petto. «CI SEI MANCATA TANTO, DIGLIELO HAVEN! DOBBIAMO RACCONTARTI UN SACCO DI COSE» cosa? Sicuramente, della sua Quasi Anima Gemella. Di nuovo, direte voi? Sempre. Anche quell’estate, come ogni estate, Arden aveva incontrato un ragazzo – bellissimo, intelligente, simpatico. Quasi troppo meraviglioso per essere vero. Raccontò ogni dettaglio alla Tassorosso, sventolandosi di tanto in tanto per indicare il livello di calienza. «e com’è finita?» «con un naso rotto» concluse Haven al suo posto. Arden sospirò, ricadendo melodrammaticamente sul sedile. «tifava per i wasps» se per lei, quella dichiarazione, legittimava il setto nasale deviato? Ovviamente sì.
    «siete qua?» Inspirò, Arden, gli occhi ridotti ad una fessura mentre osservavano il profilo smunto di CJ Hamilton. Non ebbe bisogno di guardare la sorella per vedere che era improvvisamente impallidita, e ciò la fece incazzare ancor di più; se si fosse trattato di qualcun altro, avrebbe fatto carte false per farlo rimanere, così che Haven potesse sfogare la sua vena da fangirl. MA CJ HAMILTON? «no» rispose secca, mentre lui se ne andava.
    E non fu neanche l’incontro più spiacevole. Sentì un brivido lungo la schiena, e prima ancora di vederlo, comprese chi stava arrivando – aveva sviluppato un certo radar, ormai.
    L’anticristo.
    Satana.
    Hanna Montana.
    In poche parole: « CASH, DURANTE L’ESTATE LE HAI LIMATE LE CORNA?» scattò in piedi, un cipiglio pronunciato e le mani sui fianchi. Quando lui richiuse la porta salutandola poi dall’esterno, si lanciò contro il vetro per schiacciare un dito medio sulla superficie che li separava, mimando drasticamente un i’m watchin you con le labbra.
    Quell’anno, se Axel non si fosse comprato un paio di occhiali come si doveva al suo ruolo, avrebbe trovato il modo per incollargliene un paio permanentemente: ARBITRO VENDUTO.

    Si stiracchiò sulla panca dei Grifondoro, poggiando (molesta) il braccio sulla spalla del vicino. Un sorriso storto a curvare le labbra sottili, accompagnato da una scintilla di folle divertimento negli occhi chiari. «offro un bacio in fronte a chiunque riesca a colpire la testa di ronan winston con una polpetta» gridò per farsi udire da tutti, indicando il tavolo dei Tassorosso, con una forchettata di arrosto già in bocca. Perché lui, direte voi? A caso Andiamo: c’era sempre un buon motivo per rompere le palle a Ronan.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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    disclaimer: linguaggio forte in alcune parti smack ♥


    is that a lil bitch I hear?
    With poison on your lips -- belzebù | slytherin | 15 y.o. | death eater | shameless
    Ogni anno la stessa fottuta storia. Per quanto Meara cercasse di sottrarsi a quel disgustoso round di saluti, non ci riusciva mai, sempre placcata davanti alla porta del treno da uno dei suoi due padri e almeno la metà dei cani che possedevano. E fidatevi quando vi dico che erano tanti. «No pa’, togliti» i palmi delle mani fermamente premuti sul petto di Jonathan, il busto portato quanto più indietro potesse, dovevano essere uno spettacolo divertente in quel momento. E Jesoo se le dava fastidio. «Ma non ti devi vergognare, dai che non ti vede nessuno» ma non era quello il punto, era lei quella sbagliata, che riusciva a trovare in quei gesti così intimi qualcosa di disgustoso. Scosse la testa premendo più forte le labbra tra loro, non poteva costringerla ad abbracciarlo se non lo voleva «pa’, digli qualcosa» rivolse uno sguardo quasi supplicante a William, che la salvasse da quella cozza di suo padre, che almeno ci provasse. Non era un segreto che tra di due preferisse il biondo, o almeno, al momento, tendeva a cambiare bandiera in fretta. E come padre preferito aveva un dovere nei suoi confronti, non poteva lasciare che finisse soffocata da Jonathan. William alzò le mani in segno di resa «sai qual è l’ unico modo per liberarti di lui» bastardo, mai una volta che le desse ragione. Ed era per questo che –ops- aveva fatto sparire tutti i suoi pacchetti di sigarette, sapeva che sarebbe successo. E l’ avrebbe pagata, oh, se si sarebbe divertito a dover alzare il culo dal divano. «Tu es comme une poche de pantalon cône trousse gratter les boules» e il terzo dito a Will, non lo toglieva nessuno «aw guarda ake, ha detto che mi vuole bene» «qualsiasi cosa ti faccia dormire la notte, william» e a quel punto Meara distolse l’ attenzione dalla coppia, non aveva bisogno che le bloccassero la crescita. Ancora una volta. Smise di fare pressione sul petto del padre, lasciando che le sue braccia la soffocassero in un abbraccio, inspirò il profumo che le ricordava così tanto casa e che, nonostante tutto, le sarebbe mancato. Il nodo allo stomaco incominciò a farsi sentire sempre di più, un’ ondata di ansia e panico a pervaderla: lei non voleva tornare ad Hogwarts. Li odiava tutti, odiava le loro occhiate di sottecchi, i ghigni celati dietro a una sigaretta. E così si strinse un po’ di più a suo padre, pregando che quel momento non finisse più, che una bomba gli cadesse sopra la testa. «Non farti mettere i piedi in testa» la ragazza accennò a un sorriso, lo sguardo ad assottigliarsi, se solo avesse saputo la metà delle cose che succedeva a chi osava lanciarle un’ occhiata sbagliata, non avrebbe parlato così «ma se mi amano tutti» bugia, avevano solo paura di finire di finire all’ ospedale. Figli della merda, ecco cos’erano gli studenti di Hogwarts. Non fece in tempo a staccarsi dall’ uomo che subito un altro paio di braccia la avvolsero, William sapeva bene che non avrebbe ammesso altri abbracci, quindi se l’ era preso. Infido bastardo, aveva appena perso il suo posto come padre preferito. Percepì qualcosa posarsi sulla sua testa, e poi ancora. E un’ altra volta. «No pa’, dai, i baci no» cercò di scrollarsi di dosso il biondo, di sottrarsi alla sua stretta prima che potesse cospargerla di bava e germi. E fallì miseramente, una missione già persa in partenza. «dimmi che ti manch-» «no» «dai, lo so c-» «come ti pare, basta che non scopiate nella mia stanza» parole che aveva ripetuto più volte, le uniche che puntualmente riuscivano a farlo smettere.
    Uno.
    Due.
    Tre.
    «MEARA ALISÉE WINSTON-BARROW-BEAUMONT» aveva poco da essere sorpreso, il Barrow. Al contrario dei suoi fratelli, lei certe cose preferiva affrontarle, che fosse per aver accidentalmente dato fuoco a Jonny (il cane) o per i rumori molesti che era costretta a sorbirsi. A quindici anni, certe cose non riusciva più a ignorarle, musica sparata a tutto volume o meno. «Sì, so come mi chiamo» fece un passo indietro offrendo un sorriso impertinente al padre, sul volto stampata un’ espressione angelica che non le apparteneva, una così simile a quella di sua madre che Willy (non il cane) le avrebbe potuto perdonare ogni cosa. Non che qualcuno sano di mente avesse mai definito Akelei Beaumont come un angelo, ma sappiamo tutti che le due componenti maschili dell’ improbabile throple non lo erano mai stati. C’era però una cosa di cui Meara era a conoscenza, sua madre non apparteneva a nessun paradiso.
    Poteva ancora sentire ancora sentire il gelido metallo contro lo sterno, lo sguardo incollato al liquido cremisi che stava incominciando a colare in mezzo ai seni, sanguinava e ad Akelei non importava, tremava ma Akelei continuava ad applicare pressione sulla pelle «e a questo punto, Meara, sei fottuta» se la linea sottile delle labbra non era abbastanza, lo sguardo affilato della madre le fece torcere lo stomaco, lo stesso senso di impotenza di sempre a penetrare nelle ossa, nella carne.
    Non era mai abbastanza, per la donna. Ogni singola, fottuta, volta, avrebbe potuto fare meglio, colpire più forte. Allenarsi con sua madre non era un piacere, ma un martirio. Non doveva finire come lei, le ripeteva, come se non avesse sentito abbastanza volte quelle parole. Se Akelei voleva una copia di se stessa, che si prendesse Ronan, ne sarebbe stato più che entusiasta.
    Stronzo di merda, lui e il suo ego che aveva costantemente bisogno di venire alimentato.
    Cosa la madre volesse dire con quelle parole, era chiaro a chiunque posasse lo sguardo sul cicatrice che le scorreva lungo la guancia, impossibile da nascondere, impossibile da non notare. Ma non era quello il vero problema, per quanto l' ex cacciatrice cercasse di celarlo agli occhi della famiglia, il peso morto con cui era costretta a vivere al posto del braccio le faceva desiderare ogni giorno di essere morta. Quella spada avrebbe dovuto trapassarle il petto, lo sibilava a denti stretti ogni volta che le scivolava un piatto da mano, quando quelle dita si allungavano incerte tra i capelli di William.
    Non era stato clemente con lei, l’ anno 2023.
    La piega sulle labbra di Meara tradiva la serietà che si stava cercando di mantenere, Papi non doveva aver apprezzato il suo riferimento a delle attività che –teoricamente- non avrebbe dovuto conoscere. Poteva capire che le sue orecchie da padre non erano pronte per affrontare determinati discorsi, ma non rendeva lo stuzzicarlo meno divertente «ho capito» alzò gli occhi al cielo a vedere lo sguardo piccato del biondo, era una tale drama queen a volte che non riusciva davvero a prenderlo sul serio «ma non mi mancherai comunque» gli stampò un bacio umidiccio sulla guancia, scappando da lui prima che potesse intrappolarla in un altro abbraccio soffocante. Almeno con Akelei non si doveva preoccupare di quelle cose, era l’ unica che capiva quanto fosse disturbante tutto quell’ affetto, quanto se fosse soffocata. In quel momento a Meara bastavano le dita della madre strette intorno alla spalla, la piega delle labbra a rendere ancora più grottesca la cicatrice, ma quello non glielo disse. Non voleva ricevere l’ ennesimo scappellotto da Jonathan. «Questa volta cerca di non uccidere nessuno» il divertimento nella voce della madre era palpabile, come ogni volta cui andavano a toccare il discorso omicidi, perché per Akelei Beaumont, sicario di professione, l’ uccidere il prossimo non era niente più che un passatempo «non l’ ho uccisa» «mon dieu, meara, non ti ho insegnato niente?» «…mamma» tipiche conversazioni madre-figlia, insomma, non c’era da stupirsi che Meara fosse cresciuta in quel modo. Akelei voleva una copia di se stessa, chissà che in alcuni anni non sarebbe stata accontentata.

    C’era una cosa che a Meara era stato inculcato nella testa fin da bambina: ogni luogo aveva una propria gerarchia, e lei doveva -non importava come- trovarsi in cima ad essa. Solo così avrebbe potuto sperare di sopravvivere. Sopravvivere a cosa, si era chiesta più volte, senza mai trovare una risposta che la soddisfacesse davvero. Jesoo, era impossibile cercare di dare un senso alle parole di sua madre, se non aveva idea di cosa stesse parlando.
    La serpeverde non aveva mai avuto bisogno di usare la violenza, aveva la sua lingua velenosa ad assicurare un giusto posto in quella che era la scala gerarchica di Hogwarts. Per i lavori sporchi c’erano pur sempre Ronan e CJ, perché sporcarsi le mani quando poteva farlo fare a qualcun altro? Non vedeva il divertimento nel pestare qualcuno, non quando le bastava aprire bocca e lasciare che ogni parola intrisa di veleno corrodesse l’ autostima della persona, ogni sicurezza che pensava di avere crollare sotto gli attacchi della bionda.
    Aveva sempre preferito la violenza psicologica, almeno fino a quel momento.
    Normalmente non ci avrebbe neanche fatto caso, ma quei sussurri –o quelli che avrebbero dovuto essere tali- erano così alti che non poté fare a meno di sentirli.
    Si irrigidì di colpo, le nocche bianche dalla forza con cui stringeva i libri al petto, poteva quasi percepire la cattiveria di quelle parole scorrerle sulla pelle, cercando di entrare nella sua testa «is that a lil bitch I hear?» si fermò in mezzo al corridoio, portando lo sguardo in quello di Ronan. Percepiva la sua esitazione nell’ aria, era sempre stato così tra di loro, lei sentiva qualcosa che non le piaceva e mandava il fratello a fare il lavoro sporco. La mente e il braccio, un meccanismo che aveva sempre funzionato perfettamente. Meara annuì lentamente il capo, dando istruzione al tasso di proseguire, poco importava che fossero delle ragazze, lei, dopotutto, era per le pari opportunità. «Gesù, e la madre era troia quanto lei» va bene, poteva ancora accettare che si parlasse male di sé, non che comunque gliene fregasse qualcosa, ma non sua madre. Non la conoscevano neanche, le stronze.
    Le avrebbe potute aprire in due ancora prima che se ne accorgessero.
    Non sapevano proprio un cazzo.
    «Figurati se la Beaumont non ha preso da lei, entrambe con più cazzi in bocca che altro»
    «Beh, vivono praticamente in un harem»
    And she lost it.
    «Che hai detto?» era quasi un ringhio, quello che uscì dalla bocca della bionda, la rabbia che trasudava da ogni poro, a fatica contenuta in quelle poche parole. Quella di lasciare le cagne come lei libere di buttare merda sulla sua famiglia, non era mai stata una sua qualità.
    Lei ci camminava su persone del genere. Letteralmente.
    La tassorosso non vide neanche arrivare la sua mano, neanche se ne accorse quando attorcigliò i capelli attorno al pungo, tirando l’ intero viso a sé «penso tu abbia capito» Morgan, quanto le diede fastidio quel tono pungente, come se fosse migliore di lei.
    E non dubitava che lo fosse.
    La spinse nel bagno più vicino lasciando che Ronan si occupasse dell’ altra, per quanto amasse la Sala delle torture, quella stronza non ne valeva la pena. La mora si scagliò addosso a Meara, sbattendola al muro con una tale forza da toglierle il fiato, ma di che era fatta? «Hulk, sei tu?» curvò le labbra in un sorriso velenoso mentre la presa che la ragazza esercitava sui suoi vestiti sembrò venir meno. La Beaumont neanche lo vide arrivare quel pugno, una bestemmia levò le sue labbra quando la nuca sbatté contro le piastrelle, il labbro ormai a sanguinare. E capì che se non si fosse spostata da lì, non sarebbe finita bene. Osò sputare il liquido cremisi in faccia alla stronza, il ginocchio che ora colpiva lo stomaco della stessa, il corpo della tassa che finalmente si piegava su se stesso, lasciando tempo a Meara di sgusciare via dal muro. La spinse per terra, dove meritava di stare, osservando con una scintilla perversa negli occhi la scena, quello era l’ ambiente della serpeverde: dove poteva controllare cosa accadeva, dove era sovrana «prova ancora a buttare merda su mia madre, stronza» lasciò che il piede si scontrasse con forza sul viso della ragazza, incurante dei danni che avrebbe potuto causare, disinteressata alle conseguenze. Dopotutto quella non era la sua faccia. Percepì uno spostamento di aria dietro a sé, il brusio del corridoio per un momento a riempire il silenzio della stanza «dimmi che ne hai lasciata un po’ per me» «sempre» perché la progenie di Satana cacciava in gruppo, spalla contro spalla contro tutti, se dovevano prenderle lo facevano insieme.
    Se dovevano dettare la loro legge lo facevano insieme.
    E non dite che non vi avevano avvertito, stronzi.

    Non ci sono aggettivi abbastanza deprimenti per descrivere un giorno di scuola, quel primo settembre non faceva eccezione. Meara aveva sempre pensato che con il passare degli anni le sarebbe passata, che prima o poi avrebbe incominciato ad aspettare con trepidazione il ritorno ad Hogwarts, e invece no. Tutte le volte si impuntava sulla porta e incominciava a sporgere il labbro in fuori, a sbattere le ciglia nella speranza che che Jonny (il padre, non il cane) le risparmiasse quella tortura. O che le facesse cambiare scuola. Perché non poteva andare a Beauxbatons? come la madre? Dannazione, parlava pure francese! «Vedo he non sono in morti in molti durante l' estate. Peccato» scivolò con lo sguardo sui volti dei ragazzi, la maggior parte dei quali rideva sguaiatamente, l' unica cosa che copriva le risate gli insulti lanciati da una parte all' altra del vagone. Rumorosi, con troppa voglia di vivere e felici. Ah, Jesoo caro, ma cosa toccavano? Cos'era quella cosa che le aveva rivolto la parola? «Vi fanno ancora schifo i poveri o...?» «sempre» «sempre» risposero contemporaneamente i due fratelli, storcendo il naso al solo pensiero di dover condividere il proprio tempo e spazio con delle scimmie quali erano i loro coetanei. «Morgan, siete i soliti scassa palle» l’ occhiata che gli rivolse Meara avrebbe potuto polverizzare chiunque, ma non Lynch, che sin da piccolo era stato abituato al suo pessimo carattere. «Basta che ti muovi» lo spinse verso l’ altra carrozza, dove aveva già adocchiato una cabina, senza curarsi delle proteste che uscivano dalla sua bocca, non che qualcuno lo facesse nella famiglia B&B.
    Alla buon ora, stronzi» la bionda alzò gli occhi verso il fottuto animale che aveva osato entrare nella loro carrozza, desiderando un momento dopo di non averlo mai fatto. Se c’era una cosa che non le era mancata, era la presenza molesta di Crane Junior Hamilton, per gli amici Belzebù. E con amici intendo Meara. Osservò i suoi movimenti mentre la sigaretta stretta tra le labbra veniva accesa, le dita della bionda presero immediatamente a fremere dalla voglia di strappargli la cicca di mano, prendergliela per il solo gusto di fare un paio di tiri. Gliel'avrebbe potuto chiedere, ma non era ancora così disperata.
    Ora, vorrei potervi dire che si perse il ghigno stampato sulle labbra del tassorosso, quello sguardo che conosceva fin troppo bene «vi sono mancato?» qualcosa di lui le era mancato, ma non certo la sua splendida personalità, quanto più le stesse labbra da cui uscivano sbuffi di fumo, le mani che in quel momento avrebbe preferito vedere altrove, sentire sulla sua pelle. «Come un calcio nelle palle» si aggiustò impercettibilmente sulla sedia (ha senso? Chi lo sa), pregando che i suoi fratelli non avessero colto il precedente scambio di sguardi tra i due, non avevano bisogno di sapere che la loro sorellina non fosse così casta come pensavano.
    Menomale che erano troppo bruciati dalle droghe per accorgersene.

    Trattenne a fatica l’ ennesimo sbadiglio, la voglia di far cadere la testa nel piatto e dormire più forte che mai, il discorso da tagliarsi le vene aggiunto alle poche ore di sonno erano un mix fenomenale, tanto che stava già per crollare. Magari il cibo l’ avrebbe svegliata. Quello, e altro (a voi immaginare cosa). Poggiò i gomiti sul tavolo, sporgendo abbastanza il busto da avvicinare il viso a quello di Finn e Cliff, i suoi due amiki preferiti «e anche quest' anno si aprono le scommesse su chi scomparirà per primo» con un cenno del capo indicò uno dei primini che si era appena seduto al tavolo dei Tassorosso, un compagno di Ronan che presto sarebbe andato a farsi un bagno a Tahiti. Puntare sugli undicenni era fin troppo facile, ancora troppo poco maturi per comprendere come giravano le cose ad Hogwarts, sboroni abbastanza da provarle tutte per farsi conoscere «quaranta galeoni che quello non dura tre mesi» sopracciglia entrambe inarcate, curvò le labbra in un sorriso tagliente , ogni traccia di stanchezza sparita. Aw, scommettere su vite umane era una cosa che riusciva sempre a svegliarla, soprattutto se avevano un' ampia scelta di carne fresca.
    Poteva anche non essere politicamente corretto, ma non ci si poteva aspettare niente di meno dalla figlia di Akelei Beaumont.
    E non dite che non vi aveva avvertito, stronzi.

    meara Alisée beaumont
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    CURIOSITY KILLED THE CAT -- 11 Y.O | GRYFFINDOR | TELEPATHY
    Joelle Elizabeth Wellington non aveva niente in comune con i genitori, certo ne aveva acquisito i tratti fisici ma quando al carattere, era l'esatto opposto. Era una ragazza solare, il sorriso era il miglior accessorio che potesse indossare di giorno e di notte, illuminava la stanza in cui metteva piede. Le piaceva trascorrere le giornate fuori casa all'aperto magari giocando con i vicini di casa a nascondino, un gioco babbano davvero niente male, adorava nascondersi perchè era piccolina quindi riusciva a trovare nascondigli efficienti. Aveva anche scoperto l'utilizzo di un televisore babbano, come faceva i maghi a vivere senza tecnologia rimaneva un mistero! Era ossessionata dalle serie tv che mandavano in onda in quella scatola, sembrava che delle persone vi vivessero davvero al suo interno, ed ancora doveva ammettere di non comprendere la magia che permetteva a quella scatola nera di funzionare ma era un mistero che le piaceva, in fin dei conti aveva trovato un ottimo passatempo. I genitori la rimproveravano spesso di passare troppe ore dinnanzi allo schermo della televisione ma lei era più scaltra di loro, poteva anche avere undici anni ma la spigliatezza non l'aveva certamente acquisita dai genitori che di fronte alle se battute restavano senza parole, la madre principalmente. Nathan in fin dei conti aveva poco da ridire, le faceva passare fin troppo tempo in compagnia della zia -acquisita- nonché madrina, Erin. Era la migliore amica di suo padre, una sorta di sorella per lui e se doveva essere sincera a volte la considerava lei stessa come una sorella maggiore, era più forte di lei. L'altra ragazza le assomigliava molto, chiacchieravano di tutto e di più, e sopratutto non aveva paura di parlare alle persone, sua madre era tutto l'opposto. Le voleva molto bene ma a volte la sua timidezza le impediva di avere una conversazione con chi non fosse nella cerchia di persone fidate e semplicemente Joelle aveva bisogno di esplorare nuovi orizzonti. Ripiegare su Erin era stato facile.
    La donna le aveva addirittura insegnato a truccarsi, giusto un filo di matita ma se suo padre lo avesse scoperto l'avrebbe chiusa in camera fino al trentesimo compleanno se non peggio, per non parlare di quello che avrebbe fatto alla zia Erin. In fondo però la colpa era sua, aveva portato lui quella donna nelle loro vite, quindi non poteva lamentarsi di ciò che facevano insieme. Era la sua madrina quindi il compito di proteggerla ed istruirla spettava a lei, sopratutto quando i genitori lavoravano o erano considerati morti dal Mondo Magico o entrambe le cose. Dura la vita di una figlia di Ribelli della peggior specie, genitori normali no eh?! Se lo domandava a volte ma poi pensare che non avrebbe potuto prenderli in giro per le loro stranezze le sarebbe mancato quindi fingeva di lamentarsi ma in realtà adorava che fossero loro ad averla messa al mondo, e poi era troppo divertente prenderli in giro. Non erano stupidi ma non erano neanche così acuti, sua madre sì ma era così ingenua da lasciarsi sopraffare dalla situazione quanto suo padre. Si erano proprio trovati quei due! Eris le aveva raccontato la storia d'amore dei genitori e ne era rimasta affascinata perchè nessuno dei due si era dato per vinto nonostante le difficoltà e nonostante fossero due timidoni di prima categoria, avevano messo da parte le insicurezze ed erano finito per baciarsi teneramente. Neanche le peggiori commedie romantiche cominciavano così, chissà forse un giorno avrebbe scritto un libro su di loro oppure avrebbe realizzato la sceneggiatura per un film. Ci poteva saperlo.
    Ma Joelle nei suoi undici anni di vita aveva ben altro a cui pensare. Alcuni mesi prima le era stata recapitata una lettera per frequentare la scuola di magia e stregoneria di Hogwarts, una scuola prestigiosa che anche i genitori avevano frequentato. Erano stati anni difficili ma si erano incontrati proprio lì la prima volta e forse anche lei un giorno avrebbe incontrato qualcuno di speciale, ma per il momento le importava solamente trovare tanti amici. E poi doveva ammettere che era intrigata dalle casate! Le piacevano i Corvonero e si sentiva un po' Tassorosso dentro, ma anche i Serpeverde non erano mali, sicuramente aveva qualche affinità con tutte le casate e questo rendeva più difficile capire dove sarebbe stata asmistata alla cerimonia dello smistamento. Da quando aveva ricevuto la lettere non era riuscita a togliersi dalla mente l'immagine di lei stessa seduta su uno scomodo sgabello i legno, tutti gli occhi puntati addosso ed un cappello parlante in testa. Sognava spesso quel momento, il problema era che non riusciva mai a sapere in cosa veniva smistata, maledetta sveglia!
    Quella mattina la sveglia suonò prima del solito, lasciandola con l'amaro in bocca per il sogno appena interrotto. Aprendo gli occhi si scontrò con il sole che illuminava la stanza, troppo sole. Troppa luce.

    «PAPÀ! É troppo presto, spegni la luce!»
    «La prossima volta vai a letto prima»
    «Non sei divertente, è troppo presto per vivere, sono un vampiro io!»
    «Stai prendendo fuoco?»
    «No perchè?»
    «Se fossi stata un vampiro ora saresti cenere»
    «Ti ritroverai cenere nel caffè, ricordalo!»
    «Era una creatura tanto innocente, quando è diventata così?»
    «Avresti dovuto immaginare che sarebbe successo»

    Joelle da grande appassionata di serie televisive qual era, trascorreva la maggior parte delle notti piazzata davanti allo schermo della televisione, abbracciata al cuscino del divano che sfruttava a seconda dell'umore, per proteggersi in caso di scene paurose, da stringere in caso di momenti di ansia o stupore, da prendere a pugno in preda alla rabbia o per nascondere calde lacrime che sgorgavano dagli occhi cerulei fin sulle guance, tutta colpa delle scene commoventi che non mancavano mai. Più volta era stata scoperta dai genitori che preoccupati avevano cercato di farle un discorsetto riguardo la finzione di ciò cui assisteva, ma nulla, le emozioni che provava erano tanto forti da essere riuscita a coinvolgere perfino la madre, la donna che una volta non sapeva neanche dell'esistenza di un televisore babbano. Si poteva dire he le regole in casa Wellington fosse state redatte da Joelle su misura per Joelle e che i genitori dovessero solamente attenersi a ciò che lei aveva deciso senza interpellarli, ogni qual volta tentavano di dire qualcosa, venivano prontamente zittiti dalle risposte della figlia. Sapeva il fatto suo, questo era certo, sopratutto non aveva peli sulla lingua.
    A colazione si sbizzarriva come meglio poteva, dando sfogo a tutta la sua creatività.

    «Joe mi passi lo zucchero, per favore?»
    «Certo papà, tieni»
    «Il caffè ha qualcosa di strano, sembra quasi...?»
    «...»
    «...»
    «... ops! Credo di averti dato il sale, per sbaglio»
    «Ha ha ha davvero divertente»

    Sarebbero trascorsi mesi prima del ritorno a casa, ed in quei giorni aveva fatto di tutto per esasperare i genitori tanto da portarli a pregare per un'apertura anticipata della scuola, ma in realtà voleva che non sentissero troppo la sua mancanza. Erano i suoi genitori, si era presi cura di lei per undici lunghi anni e l'avevano amata e protetta. Era il suo turno di proteggerli come meglio poteva. Certamente avrebbe sentito la loro mancanza ma sapeva che erano forti e che da soli se la sarebbero cavata. In alternativa avrebbero avuto Dean e Sam a far loro compagnia, il padre era segretamente un loro fan accanito.
    Lasciarsi alle spalle quella casa era più difficile di quanto avesse mai potuto pensare ma la sola idea di frequentare Hogwarts era sufficiente a farle dimenticare le paure che provava, l'ansia che minacciava di stenderla ancora prima di permetterle di salire sull'Hogwarts Express. Ad Hogwarts avrebbe avuto al possibilità di studiare in un'ambiente adeguato alla sua età ed alle sue capacità, non che i genitori fossero ignoranti ed incapaci di insegnarle le basi della magia, ma la scuola le piaceva tutto sommato. Avrebbe frequentato le lezioni insieme ad altri ragazzi e ragazze della medesima età, avrebbero lottato per la Coppa delle Case ed avrebbe reso orgogliosa la casata che quella sera stessa avrebbe scoperto, quella era la cosa che la emozionava più di tutte.
    Solamente, sperava di non rimanere delusa dal risultato.

    «Eccoci arrivati, mancano pochi minuti alla partenza»
    «Ancora non riesco a credere che tu stia per partire»
    «La mia bambina»
    «Papà staccati!»
    «Hai preso tutto?»
    «La testa è attaccata al collo?»
    «Hai ricordato i libri?»
    «La bacchetta! Dov'è la tua bacchetta?»
    «Non ha una bacchetta tesoro»
    «Come si difenderà dai ragazzi? Come?!»
    «...»
    «Tranquillo, li hai già fatti scappare tutti»
    «Fai buon viaggio piccola, mandaci un gufo appena vieni smistata»
    «Porta sempre con te una caccabomba, ti aiuteranno!»
    «Speriamo tu venga smistata a Corvonero»
    «Tassorosso, tu sarai una Tassa!»
    «Mi raccomando, porta a casa un bel ragazzo da far conoscere alla zia»
    «Oh com'è tardi! Il treno sta partendo, vi voglio bene addio!»
    «Tassorosso, non dimenticarlo!»

    Il treno di per sé non era enorme, certo conteneva molti vagoni che gli studenti più grandi avevano già occupato, ma il corridoio era relativamente stretto tanto che due persone che non sarebbero mai riuscite a passare insieme. Però il carrello dei dolci compensava il poco spazio che avevano per sgranchirsi le gambe nel corso del viaggio che durava dalle undici del mattino fino all'ora di cena. Il paesaggio che passava velocemente era qualcosa di sublime ma Joelle aveva prestato ben poca attenzione a ciò che accadeva all'esterno, troppo impegnata a chiacchierare con un gruppo di ragazzini del primo anno che le avevano proposto di sedersi con loro, e chi era lei per rifiutare un posto a sedere. Il viaggio era trascorso velocemente tra una chiacchierata e l'altra. Ad un certo punto avevano davvero svaligiato il carrello dei dolci ed erano rimasti nello scompartimento a scambiarsi le figurine doppie delle cioccorane, non c'era anima viva che non facesse la collezione di figurine! Alcuni di loro si erano dilettati con qualche trucco di magia, qualche incantesimo imparato leggendo i libri di magia e Joelle aveva mostrato loro il suo potere. Era stato divertente condividere quel viaggio con studenti che come lei andavano incontro allo stesso destino. Aveva parlato del più e del meno soffermandosi sulle casate di Hogwarts, era cresciuta senza pregiudizi riguardo le casate ma dei Serpeverde si parlava davvero molto, era la casata degli astuti e degli ambiziosi ma anche dei maghi che avevano dominato il Mondo Magico, c'era chi ne parlava male e chi bene. Era una casata che non sentiva propria, certo era ambiziosa ed anche un pizzico astuta, così le piaceva pensare e sperare, ma non era abbastanza per una casata tanto importante. Aveva cercato di capire dove avrebbe potuto essere smistata, ci aveva provato davvero, in realtà avevano tentato tutti di indovinare ma quelle erano solo le fantasie di una banda di ragazzini.
    Quando il treno si fermò, per un momento soltanto lo fece anche il fiato in gola.

    Avevano camminato per un pezzo di strada e poi i bambini del primo anno era stati fatti salire su delle barche. Aveva temuto di cadere nel Lago Nero, così lo aveva chiamato gli studenti più grandi, ma la barca era trainata dalla magia ed in men che non si dica era scesa con gambe tremanti, poggiando i piedi sulla terra ferma. Il castello era proprio dinnanzi ai suoi occhi e si stagliava imponente sopra le loro teste.
    Un sorriso a trentadue denti le era apparso in volto.
    Aveva ribattezzato il percorso, dalla porta d'ingresso della Sala Grande allo sgabello dove il Cappello parlante attendeva di smistare i nuovi studenti, la camminata della vergogna. Troppi occhi addosso anche per una che se ne fregava altamente della gente, di una che rideva e scherzava con chiunque le capitasse a tiro. Solo, non gradiva essere al centro dell'attenzione quando non era lei a richiederlo.

    «Mmm... vediamo»
    «Cosa?»
    «Sarà Corvonero la tua casata?»
    «Non lo so, tu devi saperlo!»
    «Oppure Grifondo, la casa dei coraggiosi?»
    «Scegli in fretta, ho fame»
    «Mmm scelta ardua... ma credo di saperlo»
    «GRIFONDORO!»

    Raggiunse la tavolata dei Grifondoro tra un applauso e l'altro, e con il sorriso sulle labbra si sedette tra quelli che sarebbero stati i suoi compagni di scuola, la sua famiglia per i successivi sette anni. Avrebbe condiviso con loro momenti di gioia e di tristezza, ma aveva compreso l'importanza della casata dai racconti dei genitori. Oh adoro le guerre con il cibo, sono divertentissime ridacchiò riempiendosi il piatto, sperando di non finire colpita dalle polpette volanti che un certo Winston avrebbe lanciato per vendetta.
    La vendetta è un piatto che va servito freddo, ma lì le pietanze erano piuttosto calde.
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    DIGNITY, ALWAYS DIGNITY -- 19 Y.O | PAOUNMORT | FAMOUS IN HOGWARTS
    Un giorno farò la cantante... aveva detto Nora Cash quando ancora indossava vestiti troppo grandi per lei, le scarpe rubate al padre dove il suo piedino si perdeva ed i capelli tanto corti ed ordinati da far invidia al gemello. Erano trascorsi anni, innumerevoli anni, eppure in casa si respirava la solita aria di sempre. Nora voleva essere una cantante. Aveva trascorso anni ad allenarsi senza mai fermarsi, si allenava davanti alla televisione guardando uno di quei programmi babbani di muscia, un paio di volte aveva pensato di partecipare a The Voice o X Factor giusto per farsi conoscere nel mondo babbano e dare così la possibilità alla sua voce di essere conosciuta. Avrebbe potuto diventare famosa, ma era il Mondo Magico il palcoscenico al quale aspirava, ma ciò non l'aveva davvero fermata. Aveva cominciato a studiare canto in solitaria, sotto la doccia, ignorando le proteste dei familiari che la imploravano di smettere e di uscire dal bagno perchè avevano anche loro dei bisogni da soddisfare e lei non poteva occupare il bagno per ore. Cantava prima di andare a dormire, poi di nuovo a colazione. La famiglia si era adattata presto alla nuova routine, o così pensava e sperava, ma non tutte le ciambelle escono con il buco #wat.
    Sua madre era indubbiamente la sua più grande fan, mentre Axel aveva trascorso anni a fare la guerra ai genitori perchè secondo lui nascondeva chissà quale segreto -ed ammettiamolo, il segreto c'era eccome- Nora aveva si era concentrata interamente su sé stessa ignorando qualunque cosa potesse distrarla dagli obiettivi prefissati. Secondo alcuni era solamente il desiderio insano, quel desiderio che tutti i bambini hanno: voglio essere una popstar, voglio essere fare l'astronauta, sarà un calciatore famoso. Ma lei sapeva che non erano solamente i capricci di una bambini e crescendo aveva dimostrato che lei credeva davvero in ciò che faceva ed in ciò che voleva.

    «Abbiamo un problema!»
    «Il trucco non è a posto? Ommioddio dammi lo specchio!»
    «Non importa a nessuno se sembri un pagliaccio»
    «...»
    «Quei due nascondono qualcosa»
    «Mamma e papà? Ma non avevi lasciato perdere?»
    «MAI! Li smaschererò, metterò a nudo i loro segreti»
    «...»
    «Okay. Puoi vestirti ora? Mi fai senso»

    Lei ed Axel erano gemelli, eppure non potevano essere più diversi di così. Non solo Axel si atteggiava da fratello maggiore, perchè ovviamente nascere un paio di minuti prima di lei lo rendeva un grande uomo vissuto, ma pensava di essere davvero più intelligente, il fratello intelligente. Peccato che come donna vinceva su tutta la linea. Erano diversi anche caratterialmente, era indubbiamente più aperta dell'altro, aveva un animo più liberto tanto che spesso e volentieri Silver l'aveva paragonata alla madre. Aveva impiegato anni prima di riuscire davvero a scoprire cosa nascondessero Cain e Silver. Quando era presente uno, l'altro spariva misteriosamente. Non aveva davvero capito ma dopo aver sentito Axel parlare ai cugini, e continuare a blaterare cose senso, si era decisa ad ascoltarlo e le parole mio padre ha la vagina l'avevano tormentata. Ancora oggi soffriva di incubi, incubi in cui il fratello mormorava quella parole e diciamo solo che Nora ha un'immaginazione molto vivida.
    Axel era il ragazzo non la testa sulle spalle, quello che non sognava in grande come lei, a volte la prendevano in giro per questo suo desiderio di diventare famosa, di essere conosciuta dal mondo intero, il gemello a differenza sua aveva i piedi per terra, lui volava basso, lei aveva spiccato il volo nel vuoto. Due erano gli scenari possibili. Poteva spiegare le ali e volare sempre più in alto oppure poteva prendere velocità mentre cadeva sfracellandosi al suolo. Ma la vita era stata davvero imprevedibile.

    «Rosso o blu?»
    «Rosso, ti dona decisamente»
    «Riesci a credere che sto per apparire in una televisione babbana?»
    «Farai un figurone, e ho intenzione di accompagnarti»
    «Oh grazie Cat, temevo di doverlo chiedere ad Axi»
    «Sì, grazie Cat. Ora possiamo tornare a casa?»
    «Dobbiamo ancora comprare le scarpe»
    «Ed andare dal parrucchiere»
    «Se ci sei Signore Oscuro, ti imploro di portarmi via!»
    «Melodrammatico!» «Melodrammatico!»

    Si era informata prima di partecipare alle audizioni di quel programma babbano di cui non conosceva i retroscena. Quello che non si aspettava erano tutti quegli aspiranti cantanti che erano in lista insieme a lei, ma Nora era una ragazza confidente nelle proprie abilità e non si era lasciata mettere i piedi in testa da nessuno. La presenza di Catarina l'aveva tranquillizzata perchè si sa che tra donne c'è un'intesa migliore e le due cugine erano cresciute insieme, questo aveva permesso loro di sviluppare un rapporto migliore. D'accordo non proprio insieme, Catarina aveva pur sempre sette anni più di lei, e lei era comunque la più piccola, più piccola addirittura di Monry #suchashame ma tra le due l'intesa era comunque molto forte, forse perchè erano diventate amiche fin da subito. Non che i cugini non le piacessero, ma erano maschi e non capivano i bisogno di una donna. Ricordava ancora i pigiama party insieme alla cugina, alla madre e Silver. Erano le serate che preferiva, potere alle donne!
    Per cui sì, in realtà sua madre non avrebbe potuto lamentarsi troppo del fatto che era andata da sola in mezzo ai babbani per partecipare ad un programma televisivo, era con un'adulta, e sapeva che avrebbe compreso il suo bisogno di tentare quella strada. Il problema era solamente il padre, oh caro buon vecchio Cain. Forse avrebbe potuto accennare la cosa alla presenza di Silver, giusto per smorzare gli animi.
    Le audizioni erano andate piuttosto bene e quello era stato il momento in cui Nora aveva davvero sperato di potersi liberare della scuola per poter partecipare al programma, ma dal momento che le registrazioni venivano fatte nei weekend beh era stata abbastanza sveglia da svignarsela nel momento del bisogno, sempre con la complicità della famiglia, per lo meno Axel non le aveva messo i bastoni tra le ruote.

    Non ho vinto
    Ha vinto il cappellone?! Beh era fant- assolutamente orribile
    Stavi per dire fantastico?
    ... no?
    Sei il peggior fratello di sempre
    Ma sono un ottimo cugino!
    Ancora con questa storia?
    Sempre! Hanno mentito per tutti questi anni
    Ti comporti come un bambino a cui hanno tolto una caramella
    Ti copro le spalle con i bugiardi
    Sei il miglior cugino/gemello del mondo

    La fortuna non era stata dalla sua parte, i babbani non l'avevano resa famosa, nessuno conosceva il suo nome. Era una perfetta estranea. La consapevolezza di aver fallito le aveva fatto mettere da parte il canto in favore dello studio, niente più sveglia cantando, niente più ore trascorse sotto l'acqua con il soffione della doccia in mano. In quel momento il mondo intero aveva capito che Nora Renee Cash era in crisi. Nessuno era riuscita a risollevarle il morale, non ce l'avevano fatta sua madre o Silver, e non ci era riuscita neanche Catarina. Anche il tentativo di Alaric era andato a vuoto, per lo meno quell'esperienza l'aveva avvicinata al padre che l'aveva confortata come quando era piccola e le braccia del suo papà erano il luogo più sicuro dell'intero universo.
    La ragazza aveva deciso di concentrarsi sulla carriera scolastica e questo aveva inciso positivamente sui voti ma non di certo sul suo umore, si sentiva sempre a terra, svogliata. Eppure non poteva lamentarsi troppo della propria vita, aveva pur sempre una famiglia che amava, degli amici e quell'orribile divisa azzurra che le faceva desiderare di nascondersi sotto le coperte senza più uscirne. La svolta arrivò il giorno in cui un ragazzo dell'ultimo anno le chiese di cantare alla festa organizzata dalla sua casata, quello era stato l'inizio di qualcosa. Nora sospettava che dietro quella richiesta si nascondesse in gemello, ma non lo aveva ringraziato, semplicemente gli aveva regalato una performance sotto la doccia. Una performance canora.

    Erano trascorsi circa tre anni da quella festa e Nora aveva preso coscienza di cosa significassero davvero cantare davanti ad un pubblico ma era ciò che al rendeva felice e quella era una sfida che avrebbe voluto vincere, sempre. La vita di Nora era migliorata a vista d'occhio ed ora non è così insolito vederla esibirsi nei locali londinesi, patria nella quale è tornata al termine degli studi. Ma arriviamo al primo settembre del duemilatrentasette, un giorno come un altro ma non per chi come lei doveva recarsi ad Hogwarts. Il fratello aveva ottenuto un incarico nella scuola come allenatore, pertanto sarebbe andata insieme a lui, ma Nora si sarebbe fermata per quella serata, un'attrazione per rendere più piacevole il primo giorno di rientro dalle vacanze, niente male no?
    Arrivati al binario 9¾ avevano salutato i genitori, perchè sì, erano adulti e vaccinati ma i genitori non si sarebbero mai persi il primo giorno di scuola, che poi non stavano andando a scuola per frequentare lezioni ma per lavorare. Dettagli. Mai contraddire Diana Cash. Vi voglio bene, ci vediamo presto salutò i genitori seguendo il fratello che nel frattempo era andato a cercare un vagone libero dove potersi accomodare. Il treno era più piccolo di quanto si sarebbe aspettata ma almeno era pieno di vagoni in grado di ospitare l'intero corpo studentesco. Monty! Sembrano passati secoli dall'ultima volta che ci siamo visti, dovresti raggiungerci in cabina! salutò il cugino mettendosi alla ricerca del fratello che trovò non molto tempo dopo in un vagone. Il viaggio verso Hogwarts era appena cominciato.

    Era la prima volta che metteva piede nel castello, avendo frequentato Beauxbatons non si era mai preoccupata di fare un salto a vedere le altre scuole. Beauxbatons era raffinata ma Hogwarts era antica, come i classici castello inglesi, un'architettura particolare, magica e sopratutto invidiata in tutto il mondo. Riuscì a raggiungere il tavolo insegnanti rischiando di inciampare un paio di volte durante il tragitto. Sapeva di dover cantare dopo il discorso del re preside, nel frattempo poteva approfittare dell'ospitalità e gustare quelle prelibatezze di cui aveva tanto sentito parlare.
    Hogwarts, la patria del buon cibo.
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    NORA
    AXEL
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