whelve: to bury something deep; to hide

rea x orion

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    the girl has always been half goddess half hell -- deatheater, 26 y.o. | 14.02.17
    La peculiarità dei ricordi di Rea Hamilton, era che non emergevano mai in situazioni opportune, o perlomeno giustificate dalle circostanze. Non c’era un legame razionale fra ciò che la sua mente le proponeva, e quello che i suoi occhi vedevano – o le sue orecchie sentivano, o le sue dita toccavano. O meglio, non si trattava di una razionalità che un qualunque altro essere senziente avrebbe potuto comprendere: per lei, d’altro canto, nulla avveniva per caso. Sapeva che la sua mente seguiva percorsi tortuosi, ma mai aveva dubitato della propria vena logica; quello, a suo dire, era prerogativa dei folli.
    Così non si stupì affatto, quell’uggioso mattino di metà febbraio, quando osservando la glassa rosa di un cupcake si ritrovò a pensare alla morte. Solitamente prediligeva fantasticare su quella altrui, ma quel quattordici febbraio duemiladiciassette, ritenne doveroso valutare anche la propria.
    Da quando aveva compiuto sei anni, e per la gioia del proprio compleanno aveva mostrato accidentalmente di possedere la magia, Rea non era più riuscita a guardare le festività allo stesso modo; non percepiva la gioia del natale, l’entusiasmo per l’anno nuovo, né fremeva per la propria vita che s’accorciava di giorno in giorno quando questo veniva ufficializzato il trentun ottobre con una candelina in più sulla torta; trovava i coriandoli noiosi, i costumi per halloween kitsch, ed ai conigli carichi d’uova di pasqua, aveva sempre preferito quelli serviti con olio d’oliva e rosmarino.
    Ma San Valentino. San Valentino. Se possibile, la riteneva la festa più abietta ed insulsa che qualunque mago, strega, o babbano, avesse mai scelto di festeggiare. Non aveva mai compreso cosa trovassero giusto e lecito celebrare, e non riusciva a giustificare neanche chi, sentendosi outsider, decretava di star festeggiando l’arrivo della Primavera.
    Come
    Perché.
    Gli unici cuori che Rea Hamilton apprezzava, erano quelli spaccati a metà da uno stiletto; nessuna metafora, nessuno zucchero colorato chimicamente per rendere il colore un rosso più naturale: un muscolo cardiaco, preferibilmente umano, tolto dal proprio alveare per sanguinare, cremisi, sul suo zerbino. Ecco, quello avrebbe potuto apprezzarlo, gratificando chiunque fosse stato così generoso da farle un dono del genere, di una pacca sulla spalla ed un sorriso orgoglioso. Ma il resto. Quando frequentava Hogwarts, San Valentino era il giorno più atteso dai poveri (sto parlando di Eugene e Nathaniel) che non potevano permettersi di spendere i propri averi dal Red Velvet, o che decretavano di non farlo preferendo acquistare coca e mignotte, e di certo non ricevevano regali dalle proprie spasimanti. Rea si svegliava sommersa da biglietti che non leggeva, da strillettere d’amore che non ascoltava, e da cioccolatini che non mangiava; ogni anno faceva silenziosamente a gara con Elijah per vedere chi ne riceveva di più (e con silenziosamente, intendo: «ma rea, non è una competizione» «certo, come no»: poco importava che lui non la ritenesse tale, sarebbe sempre stata una gara), e chiaramente, ogni anno vinceva. Una parte di lei si era sempre domandata come fosse possibile, considerando ch’ella, al contrario del Grifondoro, viveva più sul terrore che non sulla gentilezza, ma a quanto pareva certe cose non cambiavano mai: più li calpestavi, più volevano il tacco a premere nella carne di un altro centimetro.
    E davano a lei, della sadica. Comunque, l’infinitesimale parte ancora ammorbata da una qualsivoglia morale, veniva sacrificata per il lato egocentrico e preponderante, il quale trovava scontata la vittoria e la quantità di delizie che ritrovava sul proprio comodino: si era sempre giocata bene le sue carte, Rea Hamilton, anche quando ancora non sapeva di star partecipando ad una partita.
    Purtroppo, data la compagnia che si era accidentalmente ritrovata fra i piedi, doveva sorbirsi perfino le loro smancerie – e lei che sperava di liberarsene donando loro i propri regali, confidando che qualche cioccolatino contenesse abbastanza amortentia da farli innamorare per un po’, liberandola così per qualche ora.
    «rea, questo è per te. In totale amicizia, eh» «okay, nate» «a meno che tu non voglia qualcosa di più» «no» «va bene okay, ti do il permesso di baciarmi per ringraziarmi del pensiero» «nathaniel» «ALLORA ME LI RIPRENDO»
    «è la festa dell’amore…» «non dirlo, elijah» «e io vi amo, quindi questi sono per voi» «#rea out#»
    Spesso anche lei, magnanima, si era sentita in dovere di dar loro qualcosa, in visione di quella speciale giornata: calci nei denti, ad esempio, quando non gomitate nelle costole.
    E questo ci riporta ad una decina di anni dopo, dove una ventiseienne con ancora la vestaglia scarlatta legata in vita, osservava i dolcetti posati cautamente sullo zerbino. Se l’era sentito, quando avevano suonato al campanello, che non avrebbe dovuto alzarsi. Avrebbe dovuto seguire quel sopito istinto di sopravvivenza che la desiderava a languire fra le lenzuola, il braccio abbandonato sopra gli occhi ed i capelli castani sciolti sul cuscino. Purtroppo, da quando Amos era stato rapito all’interno di quella stessa villa, la Hamilton non si fidava più di far fare il portiere a suo fratello; aveva mostrato chiaramente, come Rea aveva sempre sospettato, che non fosse in grado di badare a sé stesso. Questo, ovviamente, imponeva a lei di compiere il lavoro sporco: aprire la porta ai fattorini della pizza, ad esempio – senza contare che, quand’era lei ad affacciarsi oltre l’uscio, non dovevano neanche pagare il servizio.
    Essere Rea Hamilton era bello, ma averla nella propria vita, era dannatamente meglio.
    Si era infilata la vestaglia, lasciata la sera prima sulla sedia vicino allo specchio, ed avvolgendola al petto con un braccio era uscita dalla propria camera. La sua stanza era la più lontana dalla scalinata, seguita nel corridoio opposto da quella di Gemes –sì, erano agli antipodi- mentre il resto delle porte che si affacciavano sui due lunghi corridoi del secondo piano, appartenevano al resto della plebe: Xavier, il Jayson latitante, Al, Brandon (malgrado le proteste della mora che lo volevano a dormire in cortile, oh, continuava ad occupare una camera), Judas, Elsa; c’erano stanze per chi capitava da loro di tanto in tanto, come Shia e Sheridan, e poi c’erano quelle per il resto della sua famiglia. Ebbene sì, scioccante, ma Amos non dormiva in cucina, né in nessun sottoscala –checché ne dicesse l’Hamilton fotocineta. Casualmente, sia Orion che Amos erano stati ospitati nel suo stesso ramo; non perché Rea, quando tornava tardi da una qualche missione ministeriale, potesse avvicinarsi alle loro porte per assicurarsi che loro vi fossero, poggiando l’orecchio sul legno per sentirli respirare.
    Figuriamoci.
    Passava solamente lì per giungere alla propria camera, nulla di più.
    Non capiva perché, malgrado tutto e malgrado tutti, ancora non potesse accettarlo. Era semplicemente più forte di lei, parte integrante dell’istinto di sopravvivenza che spingeva l’uomo a nascondersi nel buio che conosceva, piuttosto che farlo inoltrare in una luce familiare. Razionalmente si rendeva conto di quanto poco senso avesse il fingere che neanche esistessero, come se i suoi fratelli non fossero tutto ciò che aveva; era stupido, insensato, nonché la cosa più logicamente illogica della sua vita.
    Ma era anche la sua unica certezza, l’unica che le fosse rimasta. Ogni volta che lasciava il proprio sguardo a soffermarsi sul loro profilo, si rendeva irrimediabilmente conto che il solo fatto che facessero parte di quella realtà, malata e corrotta, era colpa sua; ogni volta che, quando né Amos né Orion la guardavano, li osservava muoversi fra quella che era ormai la loro casa, si sentiva più debole.
    Perché non si poteva più giocare a scacchi, quando c’erano pedoni che non si era disposti a sacrificare.
    Perché non era più facile, come appena un paio d’anni prima, fingere di non avere nulla da perdere.
    Perché aveva dimenticato, la Hamilton, cosa significasse poter perdere qualcuno; e la odiava, quella sensazione di bruciore ogni volta che inspirava; e li odiava, così simili a lei, i suoi fratelli, da non esserlo affatto – da esserlo del tutto.
    C’era qualcosa di sbagliato, e di feroce, e di crudele, in quelle annaspanti forme d’amore che si annegavano in sé stesse, incapaci di trarre il battito ma fragili nella loro assenza. C’era qualcosa di terrificante e pavido, nella tenerezza del perdere che aveva timore di stringere la dita per trattenere.
    Ma ormai lo sapeva fin troppo bene, Rea Hamilton: l’amore rendeva deboli.
    Aveva sceso le scale senza far alcun rumore, giungendo delicata nel grande atrio in marmo dell’entrata; ovviamente, tali movenze accurate non erano date dal generoso intento di non svegliare nessuno, ma dall’egoistico bisogno di non avere intorno voci fastidiose che, sin dal primo mattino, minavano il suo già labile autocontrollo. Si sentiva così strana, Rea Hamilton. Dopo il… fattaccio di Novembre, stava ancora cercando di equilibrare sé stessa, cercando compromessi fra ciò che lei era, e ciò che la sua mente credeva di essere.
    Capitava che di notte si svegliasse con il cuore a mille, rendendosi conto che non era il proprio battito ad esigere attenzione vibrando contro le costole – non più.
    Capitava che al mattino, entrando in cucina e trovando già Amos dietro i fornelli, provasse l’impulso di stropicciargli i capelli biondi ed appiccicargli una stellina dorata sulla fronte.
    E capitava che amasse un po’ di più ed un po’ di meno, che sorridesse un po’ di più ed un po’ di meno.
    E capitava che si sentisse sempre meno sé stessa, guardandosi allo specchio, e sempre più qualcun altro.
    Poteva essere disposta a condividere la morte, con Nathaniel ed Elijah, ma a quello non sarebbe mai stata pronta. Era come averli costantemente con sé, quasi ne percepisse le voci alle orecchio a suggerirle come muoversi - ringrazia Brandon per aver preparato il pranzo; lancia una frecciatina ad Aladino per la sua nuova fiamma, come “quanto ci metterai ad uccidere anche questa?”; abbraccia Amos; inarca il sopracciglio meglio di Xav. Era snervante, e frustrante.
    E sbagliato.
    Sacrificio. Condivisione.
    Siete disposti a perdere un po’ di voi stessi, per farli tornare indietro? No, eppure l’aveva fatto.
    La cosa peggiore, era che l’avrebbe rifatto ancora.
    Chiuse gli occhi, la spalla poggiata allo stipite e le dita a massaggiare le palpebre. Non ebbe bisogno di chinarsi e leggere il biglietto posato affianco al vassoio per conoscere l'artefice dei dolci, così com’era certa di non dover riconoscere il nome del mittente nelle cartoline attaccate con un filo di scotch alla porta per sapere chi le aveva mandate. «raine» un sospiro, in quel semplice nome bestemmiato fra i denti. Raine Hamilton era, per sua fortuna, la cugina di Gemes e Charmion. Ringraziava ogni giorno il cielo di avere Shia, Thalia e Kendall, piuttosto che la piccola pasticcera bionda - e con piccola, voglio intendere che non raggiungeva neanche il metro e sessanta. Rea non concepiva come ancora, dopo tutto quel tempo, si intestardisse a cucinare dolci per loro, né per quale motivo avesse ritenuto legittimo fare dei tortini a forma di cuore con tanto di glassa rosa. Voleva piangere, davvero.
    Ed anche un po’ morire, e qui si ritorna al nostro discorso d’apertura.
    Le cartoline, invece, portavano un’altra firma. Poteva dedurlo da due fattori: il primo, la quantità; il secondo, i glitter. Avrebbe voluto domandarsi perché Heidrun Crane, la mattina, non avesse niente di meglio da fare che non lasciare loro delle cartoline di buongiornissimi, ma la verità era che non voleva davvero saperlo. Le bastò guardare il primo biglietto, indirizzato ad Al, per decretare che quella giornata sarebbe stato un crescendo di peggioramenti.
    Non sapeva se ridere, piangere, o tornare al piano di sopra e soffocare Gemes nel sonno. Le sarebbe mancato, così come Eugene, ma a mali estremi, estremi rimedi. Poggiò anche la fronte sulla porta, mentre strappava i biglietti dalla superficie in legno con un movimento secco e calibrato, un respiro insidioso ed esasperato a premere sulla lingua. Era sinceramente tentata di gettare tutti quei i regali di cattivo gusto (e con un pessimo senso dell’umorismo) nel primo cestino dell’immondizia; allora perché, chiudendo gli occhi onde evitare un attacco epilettico, con la mano destra strinse i biglietti e con la sinistra si chinò per prendere il piatto di cupcake lasciato da Raine?
    Perché sapeva che ad Amos avrebbero fatto piacere.
    Che vita greve.
    Chiuse la porta d’ingresso alle proprie spalle con un calcio, ed odiò ogni passo che, a malincuore, la trascinò fino alla cucina, dove sul tavolo fece cadere i pacchi quasi che nel tragitto l’avessero ustionata. Rimase immobile al centro della stanza per un tempo eccessivo, le labbra strette fra i denti e le sopracciglia corrugate.
    Compromessi.
    Alla fine si decise a mettere su l’ebollitore per prepararsi un tè caldo, il preferito di Nate, ma si ribellò alla convenzione sociale che la vedeva obbligata a versare tale bevanda in una tazza: prese un calice di vetro, di quelli da vino, e quando il tè fu pronto, lo versò al suo interno. Una vittoria infinitesimale, ma abbastanza soddisfacente da reprimere il più consono ed appropriato primario istinto della Hamilton: sentirsi un’idiota. Le sembrava di essere tornata all’Halloween in cui s’era travestita da Eugene, ed aveva finto per tutta la sera di trovare esilaranti battute che non facevano affatto ridere – senza contare la quantità di frasi prive di senso che aveva lasciato veleggiare fra le proprie labbra, sillabate fra una birra e l’altra.
    Purtroppo, quel mattino, non stava fingendo. E non era divertente.
    Si appoggiò ai fornelli e rimase ad osservare corrugata il piatto di cupcake, così concentrata sulla morbida piega del frosting da (quasi) non accorgersi dei passi nel corridoio. Alzò gli occhi scuri sulle iridi fosche di Orion, suo fratello; erano di un blu così torbido da apparire più simili ai propri che non a quelli di Amos, trasparenti quanto l’animo stesso del più piccolo fra gli Hamilton.
    Perfino nello sguardo, loro, riuscivano ad essere emblematici. Il nero, il bianco, ed il grigio.
    «prego, serviti pure» esordì ironica con un cipiglio serio, mentre alzava il calice (di tè) in un silenzioso brindisi, ed indicava con la mano libera la piramide di torte a forma di cuore.
    Come la sua esistenza fosse giunta ad un tale livello di assurdità, non le era dato saperlo.
    Se quello era il Karma, dannazione!, avrebbe potuto portarle il conto anni ed anni prima: quello sì che sarebbe stato un ottimo deterrente, quando fosse stata in dubbio fra togliere una vita o risparmiarla.
    goddamn rea hamilton
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia




    In caso foste interessati ai bigliettini:

    Al

    source


    Xav

    fuoco%20di%20passione


    Judas

    03_14febbraiosanvalentino


    Brandon


    Amos

    rp-ita-byoriza-amore2-valentino


    Gemes (proprio letteralmente ihihihih)

    il_mio_cuore_tuo_san_valentino

    Orion

    Io+e+Joy+blingee


    Shia

    sanvalentino1


    Rea

    san_valentino_coniglietti


    Elsa

    4137088_4052d



    Edited by #epicWin - 14/2/2017, 04:21
     
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  2. loop.
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    ORION EFRAM HAMILTON
    «Nobody said it was easy, no one ever said it would be this hard.
    Oh, let's go back to the start!»
    pavor ✕ big bro ✕ fire and blood ✕ 29 y.o. ✕ 14.02.2016
    Scricchiolii. Scricchiolii ovunque.
    Sentiva quegli insistenti e ripetitivi rumori dappertutto e in ogni momento, perfino quando in casa si poteva dire che non ci fosse quasi nessuno.
    Il ritmo dei passi che venivano percorsi gli era entrato così bene nella testa da essere ormai perfettamente in grado di associare un determinato orario ad una certa andatura, e viceversa. Non essendo abituato da diversi anni a condividere i propri spazi con altre forme di vita (umana e non), valutava particolarmente importanti gli istanti di privacy di cui godeva quando era rinchiuso nella sua stanza - certo a meno che questa non fosse occupata da ospiti indesiderati, ma questa è un'altra storia. Così come rappresentava un caso a parte la tolleranza di cui dava sfoggio a lavoro, semplicemente perchè si trattava di una forzatura necessaria a sopravvivere in un mondo sociale. Un mondo che lui avrebbe tranquillamente rinnegato, se solo non ci fossero stati due validi motivi a trattenerlo lì.
    I suoi fratellini, ritrovati solo da poco più di un anno, rappresentavano quasi esclusivamente la sua unica fonte di gioia e la sola idea di doversi separare una seconda volta da loro, gli infondeva una dose così cospicua di ansia e preoccupazione da bastargli ad accantonare simili prospettive per molto molto tempo.
    Quel mattino fu l'annuncio di qualcuno all'ingresso che lo risvegliò dal sonno agitato in cui era immerso, e il successivo fruscio del passaggio di Rea dinanzi alla sua porta a tenerlo con gli occhi aperti, fissi contro le assi di legno esposte del soffitto, in attesa che qualcosa accadesse.
    Quel "qualcosa", nello specifico, doveva essere il flebile vociare proveniente dal basso, conseguente all'apertura della porta e all'incontro con il disturbatore mattutino. Questo, oppure l'eventuale ritorno di sua sorella in camera.
    Dal momento in cui nessuna delle suddette cose avvenne, un'espressione pensosa si dipinse sul volto di Orion. Tese le orecchie in un tentativo mal predisposto di scoprire cosa stesse accadendo, ma considerato il silenzio che calò drasticamente sulla villa, la sua curiosità non fu soddisfatta.
    Con un rapido gesto, sollevò le coperte e scivolò giù dal letto, mettendosi in piedi e coprendo i pochi passi che lo separavano dalla soglia della sua camera senza neanche preoccuparsi di infilare un paio di pantofole. Tesa la mano verso la maniglia, la abbassò con molta cautela e con altrettanta lentezza aprì uno spiraglio abbastanza grande da poter gettare un occhio sul corridoio. Attraverso gli spazi tra le colonnine di legno della ringhiera riuscì a intravedere l'atrio e per un breve attimo gli parve di scorgere un lembo d'abito che spariva dalla sua vista proprio lì dove iniziava la cucina.
    Spinto dalla consapevolezza quasi certa che non potesse trattarsi altri che di Rea, si decise ad uscire dal suo antro oscuro e affrontare il mondo esterno, quantomai ricco di pericoli e rischi, quale rappresentava l'abitazione in cui viveva già da poco più di un anno. Per tutta la durata del tragitto che lo avrebbe condotto in cucina, si guardò ripetutamente intorno, teso e all'erta come un animale che tenta di sfuggire al proprio carnefice. Era pronto a veder spuntare da un momento all'altro qualche altro inquilino, venendo colto sul fatto mentre sgattaiolava silenziosamente in quello che già di per sè rappresentava un luogo rischioso, in quanto ambiente comune per tutti.
    Non ci sono parole per esprimere l'incredulità che lo pervase quando, poggiate le dita sul soffice tessuto del tappeto, non incontrò nessuno. Nessuno capite? Arrivare fino a lì, senza aver incrociato anima viva per lui non era solo un ottimo buongiorno, ma una vera e propria vittoria.
    Non che lui odiasse le persone di quella casa, anzi. Ce n'erano alcune con cui ci si potrebbe azzardare a dire che avesse addirittura stretto un buon rapporto, per quanto buono possa essere quando si parla di un tipo come Orion.
    L'ostilità era più che altro rivolta verso l'estraneità che ancora sentiva su di sè, nonostante fosse trascorso abbondante tempo dal suo arrivo lì.
    Il fatto era che lui proprio non sapeva approcciarsi alle persone. E di conseguenza, di fronte a simili difficoltà, fuggiva a gambe levate, rinnegando ogni contatto semplicemente ignorando gli altri.
    Gli era infatti capitato più di una volta di passare dinanzi a qualcuno che gli rivolgeva più di un saluto, un tentativo di conversazione piuttosto scialbo sul tempo che faceva, e di aver prontamente rinunciato allo sforzo di rispondere, solo facendo finta di non aver sentito e passando oltre, verso un luogo sicuro, che era più o meno rappresentato da ogni angolo in cui non c'erano umani o animali. Perchè, e ci tengo a ricordarlo, anche gli animali in quella casa rappresentavano un grosso problema.
    Con un leggero sentore di aroma dolce che gli permeava le narici, Orion mosse alcuni passi verso l'ingresso della cucina, affrontando in silenzio il freddo del pavimento a contatto con i suoi piedi nudi.
    La prima cosa su cui posò gli occhi fu il viso di sua sorella. Sebbene vivessero nello stesso posto, doveva ammettere che non era così frequente riuscirsi ad incontrare di prima mattina (dove "prima" sta per "lasso di tempo indefinito che segue il risveglio" e non certo per "early in the morning"). Ecco perchè nutriva ancora un certo stupore quando i loro sguardi si incontravano e, inevitabilmente, il fratello maggiore non sapeva mai come comportarsi.
    «prego, serviti pure» Le avrebbe probabilmente dato il buongiorno se lei non lo avesse preceduto con quella frase. Quando la sua attenzione si spostò sul tavolo, gli fu orribilmente chiaro ciò che Rea intendeva.
    Osservò con un misto di disappunto e ripudio quanto troneggiava sulla superficie piana, cercando di catturare alla vista rapidamente tutto quel che c'era da vedere. Per primi adocchiò i dolcetti. Allungò una mano e fece per sollevare il piatto, forse segretamente sperando che scivolassero uno dopo l'altro sul tavolo e quella disposizione ordinatamente perfetta venisse infranta. Alla fine, lo rimise al suo posto e afferrò uno dei tanti bigliettini lì presenti.
    «Ma cosa...?» Gli scappò in un sussurro, incerto sulla natura di quei pezzi di carta ma, ancor di più, sul perchè fosse successo tutto quello. Perchè? PERCHE'?
    San Valentino. Aveva dimenticato (ma poi perchè avrebbe dovuto ricordarselo? Lui, che ha vissuto come il Re della Giungla per così tanto tempo) che era San Valentino.
    Un grugnito gli fuoriuscì dalla bocca e inevitabilmente il labbro superiore si incrinò verso l'alto, in un'espressione degna delle migliori donnicciole nauseate.
    «Ah ci sono anch'io.» Constatò, con tono funereo. Quando fu colto dallo sbrulliccichio del biglietto che gli era stato indirizzato, dopo averlo aperto, strinse impercettibilmente la presa su di esso.
    C'era un cane che suonava e aveva gli occhiali da sole.
    C'erano brillantini ovunque.
    C'era un orribile scritta che galleggiava e cambiava colore.
    Niente, niente aveva senso.
    Se solo avesse preso la persona che glielo aveva mandato, se solo su quel dannato biglietto ci fosse stato il mittente, gli avrebbe fatto vedere cosa significava per lui essere "best friends".
    Volendo trattenere la propria irritazione, strinse le labbra che scomparvero quindi intrappolate fra i denti, e scosse la testa, mollando la cartolina. Quando tornò a guardare sua sorella, si accorse del calice che aveva in una mano. «Preferisco il salato, per colazione.» Disse di punto in bianco, declinando il suo invito a servirsi dei cupcakes. «Ma anche in generale.» Quella precisazione non era stata richiesta da nessuno ma, se con tutti gli altri scansava ogni possibile occasione di socializzare, neppure si rendeva conto che a Rea ed Amos riservava un trattamento speciale. Con loro voleva parlare. Di ogni cosa, dalla più stupida alla più importante. Voleva sapere, colmare le lacune che erano andate moltiplicandosi ogni anno che erano stati lontani.
    Con l'intento di cucinare qualcosa, si avvicinò ai fornelli, aprì qualche cassetto qui e lì alla ricerca di una padella e, quando finalmente ne trovò una, si mise all'opera per preparare delle uova alla benedict.
    «Per caso vuoi?» Disse all'altra, sollevando un uovo perchè le fosse chiaro di cosa stesse parlando. A chiunque fosse capitato di ritrovarsi più volte in quella cucina in compagnia del ragazzo, sarebbe stata chiara ed evidente la sua predilezione per la cucina, così come la cura che impiegava nel preparare ogni pietanza.
    Assorto dai suoi compiti, lasciò trascorrere alcuni secondi in silenzio, fin che non si rese conto della cosa e provò a porvi rimedio, soprattutto perchè c'era una domanda - o per meglio dire "molte" - che avrebbe voluto fare alla sorellina.
    «Quindi, questi biglietti... ti piacciono?» La buttò lì, fingendo noncuranza, mentre si spostava sul ripiano più vicino per tagliare delle fettine di pancetta. Qualcosa gli diceva che Rea non avrebbe potuto mai apprezzarli, nello stesso modo in cui lui se ne sentiva quasi minacciato. E quel qualcosa era lo stesso sangue che scorreva nelle loro vene, il punto però era che guardando Amos, Orion si era accorto già da tempo che i fratelli possono essere davvero diversi tra loro.
    «Ce ne sono anche per te, no?» Stava pian piano arrivando al nocciolo della questione, ma ritenne necessario muoversi con discrezione.
    Sollevò gli affettati e li ripose nella padella dall'olio bollente, prima di continuare.
    «Suppongo anche da parte del biondo...» Con una forchetta, diede loro una giratina.«Qual era il suo nome?» Finse, come se non ci fosse un domani. Il suo nome lo conosceva alla perfezione e sapeva di già anche molte altre cose sul conto del ragazzo. Da bravo stalker, aveva fatto le sue ricerche, perchè aveva trovato le persone giuste a cui chiedere.
    - rule #1 never be #2 - code by ms. atelophobia
     
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    deatheater, 26 y.o. | huntress, illusionist | 14.02.17
    C’era qualcosa di profondamente sbagliato – in quella vita, in quella stanza, in Rea Hamilton. Reggeva il calice fra indice e pollice, il mignolo a picchiettare nervosamente sulla base di vetro del bicchiere, interrogandosi distrattamente su quanto affetto provassero Gemes, Jay e Charmion nei suoi confronti, e se tale illibato sentimento avesse potuto andar scemando nella non troppo ipotetica situazione in cui ella si fosse trovata le mani sporche del sangue di Raine.
    Accidentalmente, si intende. Avvenivano sempre strani incidenti, quando si aveva a che fare con gli Hamilton: nascondere l’arma e far ricadere la colpa sul Fato, pareva una legge di sopravvivenza insita in tutti loro, indipendentemente dal ramo familiare al quale appartenevano. Teoricamente, Raine – quanto Shia e Kendall – era intoccabile, ma andiamo: loro, al contrario della bionda, non istigavano all’omicidio un giorno sì e l’altro pure.
    Rea sarebbe stata perfettamente giustificata. Avrebbero capito, con il tempo, che aveva fatto loro un favore. Perfino Amos se ne sarebbe fatto una ragione, trovando qualche altra amica fra uno scaffale di detersivi e l’altro. Chiuse gli occhi, l’ombra di un sorriso a curvarle le labbra. Quando, appena aperti gli occhi, si intratteneva concependo un delitto, era sempre un buongiornissimo.
    «Ma cosa...?» Tenne le palpebre serrate, lasciando che la piega macabra del sorriso parlasse da sé riguardo la sua opinione in merito all’intera, nefasta, situazione. Neanche lo spirito di Elijah e Nathaniel riuscivano a combattere la repulsione della Hamilton riguardo la meno Hamilton in circolazione; era più forte di lei, quel disappunto. Se lo trascinava appresso sin dai tempi di Hogwarts, quando troppo felice ciondolava nei pressi di Charmion, Elijah, Nate. Non era il suo tipo, e s’era sempre sentita intimamente imbarazzata dal fatto che lei, al contrario suo, vantasse nel proprio cognome una linea di sangue che obbligava gli altri a rispettarla - mentre Rea, quel rispetto, aveva dovuto guadagnarselo all’interno della sala delle torture. Sperava di essersene liberata una volta diplomata, ma tant’era la quantità di mainagioia, doveva per forza essere la cuginetta perduta del suo compagno di cella.
    Dio Lillo, perché tutti a lei. Aveva decisamente raggiunto il suo limite di biondi – in quella settimana, in quel mese, quell’anno e quella vita-, non aveva bisogno di una Raine o dei suoi maledetti dolcetti a forma di cuore. «Ah ci sono anch'io.» Soffiò pacata sopra il suo tè, alzando languidamente lo sguardo su Orion. Dopo un anno che viveva con loro, che era tornato da loro, avrebbe dovuto saperlo che gli Hamilton si trascinavano vicendevolmente nel baratro: le sfortune di uno, toccavano inevitabilmente anche le vite degli altri.
    Talvolta, in senso letterale. «ovviamente» commentò appena, cercando le iridi chiare con un velato ghigno a fior di labbra. Malgrado vivessero sotto lo stesso tetto, non era facile per i fratelli Hamilton trovare momenti per restare insieme da soli - e quando qualcun altro capitava per caso fra loro, Orion non attendeva neanche la fine del saluto prima di trovare una scusa qualsiasi per defilarsi. Dal canto suo, Rea non ci provava neanche, a cercar intimità con ciò che era rimasto della propria famiglia. Era fatta così, lei: schiva, distratta, apaticamente interessata. Non riusciva a guardare i suoi fratelli senza rivedere la loro infanzia, quel poco che avevano avuto, sentendo sullo stomaco il peso degli anni che i loro genitori gli avevano strappato. Non riusciva a non sentire la propria risata cristallina rimbalzare dai loro visi – e le promesse sussurrate nel buio ed infrante sotto il sole, e le lacrime a inumidire la federa del cuscino mentre i segni sui polsi divenivano permanenti.
    Non riusciva ad evitare di pensare che un tempo era stata diversa, normale; che avrebbe potuto rimanere diversa, normale - ed avere la famiglia che le spettava.
    Abominevole creatura. Quello il marchio del quale non riusciva a liberarsi, ogni volta che incrociava lo sguardo di Amos od Orion; mostro, a riflettersi da una parete all’altra dei suoi ricordi come un macabro ping pong, strizzandola nella vacua consapevolezza che lo fosse diventata davvero.
    E per i suoi fratelli, Rea Hamilton, avrebbe voluto non esserlo. Solo per loro, solo per poco. Eppure, per i suoi fratelli, doveva esserlo: li avevano distrutti, e spezzati, e buon Dio!, perfino rapiti. Non poteva permettere che accadesse di nuovo, ed era disposta a sostenere qualunque costo.
    Il disprezzo di Amos, era compreso nel pegno. L’aveva accettato, ormai; neanche quando a Novembre l’aveva ritrovato, e le aveva detto che non lo pensava davvero, era riuscita a credergli. Sapeva che Amos avrebbe voluto non pensarlo, ma non poteva cancellare la verità dietro una falsa speranza.
    Non era così, che funzionava.
    Non era certa di poter accettare anche lo svilimento di Orion, e quello, più di tutto il resto, l’aveva spinta ad evitare di rimanere sola con lui. Quand’erano bambini, il fratello maggiore era sempre stato il suo punto di riferimento, colui che serbava le risposte alle domande più disparate; era a lui che guardava, una giovane Rea, quando aveva bisogno di una direzione. E potevano essere passati gli anni, cambiate le vite, ma le vecchie abitudini erano difficili da dimenticare.
    Perfino quelle che facevano più male.
    «Preferisco il salato, per colazione. Ma anche in generale.» Un punto sul quale non si erano mai trovati d’accordo. Fosse stato per la Hamilton, ella avrebbe vissuto di confetti ed amarene per il resto della sua (probabilmente breve) vita, ignorando il resto del cibo in favore del vino o dell’aria. In ogni caso, né cucinare né mangiare erano mai rientrati fra le sue attività preferite, ed erano sempre state considerate alla stregua di mera sopravvivenza. Si strinse nelle spalle, un’occhiata al vassoio con i dolci. «io preferisco vivere» commentò arricciando il naso, allungando pigramente una mano per allontanare maggiormente da sé quella fonte di diabete – in senso metaforico, ma anche letterale. Osservò Orion spostarsi nella cucina, le dita a stringersi al manico di padelle che Rea riusciva a vedere solamente come armi contundenti, e non certo come mezzo per preparare una colazione che meritasse di essere definita tale – dopotutto, per quello aveva Amos ed Orion. «Per caso vuoi?» Una domanda così semplice, dai risvolti così particolari per una mente sottile quanto quella di Rea; sapeva che l’uomo si riferiva alla colazione, eppure non poteva fare a meno di spingere quell’interrogativo a coprire una vasta gamma di situazioni: vuoi rimanere qui? vuoi ancora essere una famiglia? vuoi provarci? Lui, dal canto suo, ci stava provando. Non era molto socievole, né particolarmente espansivo, eppure non nascondeva i tentativi di mantenere una conversazione; Rea aveva sempre trovato quel genere di chiacchiere troppo futili, pratiche solamente a riempire un tempo immobile di vuoto vociare, e tendeva ad evitarle perfino con la sua famiglia. Se quella domanda le fosse stata rivolta qualche mese prima, si sarebbe limitata a scuotere il capo ed a lasciare Orion alla sua cucina, chiudendosi invece in camera dove avrebbe potuto evitare ulteriori dimostrazioni imbarazzanti di quella blasfema giornata. Ma la storia era cambiata: lei, era cambiata. Si sistemò più comodamente sulla sedia, sorseggiando piano il tè caldo. «ritengo la colazione uno spreco di energie» ribattè, guardando affascinata come il fratello si destreggiasse fra le pietanze. Il fatto ch’ella non fosse interessata alla cucina, non significava che non sapesse apprezzare le capacità altrui. «quindi no,» abbozzò un sorriso, piega priva di malizia ad arcuare le labbra. «grazie» masticò quella parola fra i denti, saggiandola come un bambino avrebbe fatto con una liquirizia. Magari, pensò, avrebbe potuto tenere qualcosa da parte per Amos. Perché avrebbe dovuto? Il fratello minore era perfettamente in grado di cucinarsi una colazione da solo, ed avrebbe così risposto anche alle esigenze di Cash. Perché mi fa piacere, si rese conto in una terrificante epifania.
    Le faceva piacere compiere un gesto disinteressato di pura e semplice gentilezza nei confronti di Amos Hamilton. Se pensava che l’influenza di Nathaniel sullo shipping compulsivo e le battute di pessimo gusto fosse il fondo del baratro, era solo perché aveva cercato di soffocare il più possibile l’istinto pacato e gentile di Elijah Dallaire. Lo sentiva così… estraneo, ed al contempo troppo personale perché potesse realmente prendersela. Inutile girarci attorno, ormai faceva parte di lei in maniera così profonda e intima, che era impossibile scinderlo da ciò che ella era stata fino a prima di Novembre (stiamo parlando del legame con Elijah, ma in realtà anche di Eli) come parte a sé stante. Sbuffò piano, intrecciando tutte e dieci le dita attorno allo stelo del calice. «farai anche tu le uova a cuoricino?» domandò ironica, pur conoscendo perfettamente la risposta. Il sorriso si ampliò divertito sulle labbra di Rea, le palpebre socchiuse nel guardare il triste piatto ancora innanzi a lei. «Quindi, questi biglietti... ti piacciono?» Sì che era cambiata, ma non così tanto. Inarcò entrambe le sopracciglia facendo slittare lo sguardo dai tortini a suo fratello, le ciglia a sbattere languidamente e con intenzione in attesa ch’egli ricambiasse l’occhiata, così che potesse rendersi conto da solo di quanto superflua fosse stata quella domanda. Quando non lo fece, continuando a cucinare come se nulla fosse, poggiò la schiena al sedile inspirando dal naso. «no, fortunatamente non ho mai subito danni cerebrali tali che potessero giustificare un qualsivoglia gradimento verso le cartoline di san valentino.» Ne prese distrattamente una fra le dita, uno sbuffo stizzito a mescolarsi con qualcosa di più denso e sincero. Sapeva perfettamente che chiunque le avesse portate (Run) era conscio del fatto ch’ella non le tollerasse, e proprio per quel motivo gliene aveva fatta trovare una: irritare il genere umano, era una dote intrinseca nel genoma Crane – Quinn, o quel che gli pareva. A vivere con Al, perfino Orion ormai avrebbe dovuto capirlo. «ma apprezzo il pensiero» ammise sarcastica, facendo scattare un sopracciglio verso l’alto e lasciando che il sorriso si facesse più duro, un angolo solo curvato. L’unica cosa che apprezzava, e che di certo di primo mattino non aveva alcuna voglia di ammettere ad alta voce –né fra sé, né con Orion- era che ci fosse ancora la possibilità di ricevere cartoline stupide, e di trovare il bidone della spazzatura pieno di lattine di birra vuote, e sapere che se non fosse riuscita a dormire, avrebbe sempre potuto chiamare Elijah. Inconcepibile quanto cose che avrebbe trovato intolleranti, erano divenute preziose per il semplice fatto che ancora potessero esistere.
    Perché, malgrado tutto e malgrado tutti, non erano morti. Tre mesi, ed ancora la Hamilton non si capacitava di ciò che era accaduto - ancora non ci credeva, né voleva crederci. Scosse il capo, tornando a prestare attenzione alla voce di Orion.
    Avrebbe preferito non farlo.
    «Suppongo anche da parte del biondo…Qual era il suo nome?» Rea abbassò lo sguardo sulle proprie mani, concentrandosi sul calice di tè come il fratello si stava focalizzando sul contenuto della padella, ed uccise un sorriso stringendo il labbro inferiore fra i denti. Davvero, Orion? Davvero? Una parte di Rea, la buona e vecchia Hamilton, trovò la domanda fastidiosa ed irritante; l’altra, la giovane ed ancora bambina Hamilton, riusciva solamente a udire il tono preoccupato con il quale Orion era solito prendersi cura di lei. Perché era certa che sapesse perfettamente il nome, Rea, così come sapeva che ogni notte egli si assicurava che tornasse a casa sana e salva.
    Lo sapevano entrambi, e nessuno diceva niente in proposito. Era così che si prendevano cura l’uno dell’altro, i fratelli Hamilton: era così, che avevano sempre fatto.
    «parli di nostro fratello? si chiama amos, per inciso. E talvolta anche io fingo di non ricordarmi il suo nome» schernì, con uno sguardo serio ed impenetrabile. «o forse Al? Vive con noi, è piuttosto maleducato non sapere ancora il suo nome» continuò a punzecchiarlo, inclinando debolmente il capo verso destra. Se voleva giocarsi il ruolo di fratellone, doveva beccarsi la falsa innocenza della sorella minore. «oppure intendi… elijah sbattè le ciglia, cercando le iridi chiare di Orion per potervi leggere la reazione al nome del Dallaire. Avrebbe potuto rassicurarlo dicendogli che non era nulla più che un ex compagno di scuola, parte di un gruppo che aveva abbandonato dopo il diploma. Che un tempo erano stati amici, ma le loro strade avevano finito inevitabilmente per separarsi, portandoli a vite troppo diverse.
    Ma non sarebbe stato vero, e lo sapevano entrambi. Da quando Elijah era morto e Rea, insieme a Nathaniel, l’avevano riportato a casa, sarebbe anche stato stupido continuare a negare l’evidenza. Oltre ad una bugiarda, l’avrebbe resa patetica - e quello non rientrava fra gli aggettivi poco garbati che le si potevano affibbiare.
    Non poterlo negare, in ogni caso, non implicava che non potesse ometterlo. «in tutti i casi sopracitati, sanno perfettamente cosa ne penso delle feste, ed ho insegnato loro a comportarsi bene» Insegnato aka ammonito poco gentilmente Amos, e terrorizzato psicologicamente un giovane MocioVileda!Elijah. Si scosse ancora nelle spalle, bevendo altro tè. «quindi, spero per lui di no» Sorrise, ma le iridi cioccolato rimasero posate, riflessive, affatto toccate da quello sbuffo divertito, mentre implicitamente ammetteva di aver compreso sin da principio a chi il fratello si stesse riferendo. «interessato ad eli? Posso darti il suo numero, se vuoi.» biascicò innocentemente, tamburellando le dita sulla coscia. «potreste scambiarvi consigli sulla cucina» non sapeva neanche lei se stesse tastando il territorio per cercare l’approvazione di Orion, facendo fare loro amicizia, oppure se stesse semplicemente cercando di sbolognare il Dallaire ad un altro Hamilton – dopotutto, di Efram non si era mai informata riguardo l’orientamento sessuale; magari Eli era davvero il suo tipo.
    Sai che colpaccio di scena.
    goddamn rea hamilton
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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2 replies since 14/2/2017, 03:49   246 views
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