thantophobia

maeve x jason

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    Maeve Winston non aveva mai voluto scappare: non da casa sua, non da Hogwarts, non da sé stessa. Non si trattava dello scricchiolare sotto il peso di responsabilità che neanche avrebbero dovuto essere sue, quanto una semplice questione di principio. Non sarebbe mai stata, s’era detta, il genere di ragazza che scappava. Non le regole ad intimorirla, non l’ignoto. Semplicemente, ed inevitabilmente, non sarebbe mai riuscita a lasciarsi alle spalle tutto quello che aveva. Tutti quelli che aveva.
    Eppure, l’aveva pensato. Più di una volta, più d’un paio di giorni; ogni notte, quando si raggomitolava sotto le lenzuola ed affondava la testa nel cuscino, Maeve sognava (pensava, immaginava) di fuggire. Di cominciare una nuova vita, dimenticando i respiri incastrati in gola degli anni della sua adolescenza; scordando il sangue, ed i morti, e quel costante quanto assordante battito che le impediva di dormire. Una Winston senza incubi, impegnata a curarsi delle proprie unghie piuttosto che della cagionevole stabilità dei propri cari, che non doveva preoccuparsi, ogni volta che serrava le palpebre, del timore di non ritrovare più la sua famiglia quando li avesse riaperti. Che non sognasse, quando infine riusciva a prendere sonno, pareti infinite di un labirinto senza via d’uscita. Una Maeve Winston senza marchio sulla nuca, ignara della Cura.
    Una ventenne normale, impegnata a vivere più che a sopravvivere. A sopravviversi.
    Ma sapeva di non poterlo avere, Mae; sapeva che la sua vita era fatta di quello - della paura che le faceva tremare le dita, della lingua incollata al palato, delle lacrime a bruciare come veleno quando premeva i palmi delle mani sugli occhi. Quella, era Maeve. Quella che, quando si svegliava al mattino, preparava la caffettiera per sé e Dakota, bussando poi gentilmente a Leaf per domandargli se volesse unirsi a loro; quella che a fine giornata cercava di ritagliarsi spazio per informarsi sulle vite altrui, per chiedere a Sharyn come andasse il lavoro, ad Isaac se avesse scattato qualche nuova foto, a Jade come procedesse la gravidanza. Quella che si assicurava che tutti mangiassero almeno un pasto decente al giorno; quella a cui il sorriso forzato, obbligato a curvare le labbra sin dall’alba, si scioglieva in una smorfia più sincera con il passare delle ore. Quella che, al tramonto, ci credeva un po’ di più. Che sperava, e si odiava per quella fallace speranza che la consumava dall’interno; quella che si ripeteva che il giorno dopo sarebbe stato migliore, che passo dopo passo sarebbero infine giunti a riportare la pace. Quella che si convinceva, osservando le sfumature arancioni del calar del sole, che sarebbe stata in grado di proteggerli.
    Quella che quando giungeva la notte, voleva semplicemente smettere d’esistere.
    Perché Maeve lo sapeva, l’aveva visto, che non sarebbe riuscita a proteggerli. Non l’aveva fatto con Isaac, con Mitchell e Daphne; non l’aveva fatto con Dakota.
    Con suo fratello.
    Non era difficile trovare un modo per odiare la Winston, davvero; non era il genere di persona che stava simpatica a pelle - e non ci provava neanche, ad esserlo. Non era nella sua indole: era un coccio di vetro ed ironia, condita da una buona dose di maniacale controllo, una vena così premurosa da risultare irritante, un’ansia sconfinata che si intersecava sulla pelle altrui senza lasciare possibilità di difendersi, e di certo non si poteva dimenticare l’arroganza presuntuosa che l’aveva contraddistinta sin dalla tenera età. Non che fosse un problema, per lei, essere odiata: nessuno sarebbe stato in grado di odiarla quanto lei odiava sé stessa. Il giudizio altrui, in circostanze simile, diveniva insignificante.
    Si preoccupava troppo, ma la sua angoscia era giustificata. Non era un mondo tranquillo, il loro – ed ella vi si era invischiata in più pantani di quanto avrebbe dovuto essere possibile.
    Lavorava al castello, e lì vedeva le giovani speranze spegnersi sotto i colpi di frusta, udiva le loro grida rimbalzare fra le pietre di Hogwarts, e spesso si ritrovava a pulire il sangue da guance paffute bisbigliando sotto voce menzogne.
    Sarebbe andato tutto bene.
    Era tutto okay.
    Non era successo nulla.
    Lavorava al Quartier Generale, cercando una cura per ciò che gli Estremisti avevano fatto ai babbani ed ai maghi; cercava un modo per riportarli alla loro vita, Maeve. Un modo per acquietare il bisbiglio continuo dei loro timori, promettendo una casa in cui tornare a vivere.
    Sarebbe andato tutto bene.
    Era tutto okay.
    Non era successo nulla.
    Partecipava alle missioni della Resistenza, e vedeva i propri compagni morire. E vedeva i propri avversari morire. E moriva un po’ anche lei, le dita sporche di sangue a convincersi che sotto tutto quel cremisi c’era, e doveva esserci, la promessa di un mondo diverso. Che lo facevano per un motivo, che non esisteva un altro modo per giungervi – ed allora, quella pace macchiata di scarlatto, sarebbe stata l’unica salvezza.
    Sarebbe andato tutto bene.
    Era tutto okay.
    Non era successo nulla.
    Vedeva, ogni maledetto giorno, che le persone attorno a lei si arrendevano un po’ di più. La luce che li aveva animati scemava, lasciando l’opaca stanchezza memore di guerre che non avrebbero dovuto combattere; vedeva le occhiaie farsi più pronunciate, le risposte più distratte.
    Perché vedeva tutti cambiare, ma il mondo non lo faceva mai: era lui, a dettare le regole.
    Era sempre stato così, e così sarebbe rimasto.
    Non sarebbe andato tutto bene.
    Non era tutto okay.
    Perché qualcosa, era già successo.
    L’ennesimo qualcosa con la capacità di spezzarla - questa volta davvero, questa volta per sempre. Aveva resistito così a lungo, così strenuamente, che l’idea di lasciarsi semplicemente spaccare le donava un senso di quieta apatia.
    Spenta.
    Vuota.
    Perché se non ci fosse stato nulla da ferire, non avrebbe percepito il proprio cuore piombarle sulla pianta dei piedi; non avrebbe percepito il sapore del sangue sulle labbra, non avrebbe avvertito le costole incrinarsi e rigirarsi nel petto per perforarle i polmoni, soffocandola laddove non esisteva cura. Quanto avrebbe potuto resistere in quelle condizioni, prima di impazzire? Poco. Un battito e mezzo, forse.
    E fu quello che si concesse, prima di scivolare nella più completa e totale indifferenza. Un istante di dolore così nauseante da costringerla a toccarsi per essere certa di avere ancora una pelle a contenere la carne ed i muscoli, così straziante da strapparle ogni cosa - il respiro, il cuore, la sanità. Così intenso da toglierle l’unica cosa che era stata certa non avrebbero potuto toglierle mai.
    Maeve Winston.

    «viso d’angelo» no. No. Lo comprese subito che qualcosa non andava; lo vide sul suo viso, nelle pozze infinite di quegli occhi che al mattino le auguravano sorridendo il buongiornissimo, nella linea dura delle labbra e nel modo in cui attorcigliava le mani fra loro. Non aggiunse altro, Dakota, prima di avvolgerla stretta nelle proprie braccia - così forte, le dita a schiacciare sulla pelle. Forse Dakota Wayne sapeva quanto sottile Maeve fosse diventata; forse sapeva che quanto stava per dirle l’avrebbe costretta ad abbandonarsi, facendola svanire come il fumo di una sigaretta in una notte d’estate.
    Forse lo sapeva, che avrebbe potuto essere l’ultima volta in cui c’era qualcosa da abbracciare. Aveva paura di tante cose, Maeve; aveva paura del buio, e di sé stessa. Aveva paura di combattere, di non essere all’altezza.
    Ma c’era solo una cosa in grado di bloccarle il respiro in gola con tale impetuosa prepotenza, capace di sigillarle le vene senza più permettere al cuore di pompare sangue al resto dell’organismo. Di gelarla, farla cessare d’essere.
    Si lasciò stringere inerme, Maeve. Non aveva più controllo sul proprio corpo, che lieve aveva cominciato a tremare: le ginocchia, le mani, le spalle. Rimase immobile mentre Dakota le premeva la testa contro la spalla, senza riuscire a comprendere le parole che le bisbigliava alle orecchie – senza riuscire a sentire le dita a carezzarle i capelli. Non riusciva neanche a deglutire, la bocca improvvisamente secca incapace di prendere aria.
    Aveva temuto per tutta la sua vita di deludere i genitori, sapete; ogni sua azione era stata guidata dal principio di portar sempre loro orgoglio, di disegnare sulle labbra di Aaron e Wynne un sorriso sentito, sincero. Aveva lottato per anni sperando di brillare, sfregando le spalle contro i muri finché dai graffi non erano fuoriuscite scintille. Era stata abituata sin da bambina a contare solamente su sé stessa ed Aiden; era stata abituata sin dal primo compleanno a non aspettare il loro ritorno, l’amaro sapore della delusione a pungerle la lingua mentre, spegnendo la candelina, esprimeva come unico desiderio che loro potessero tornare a casa – da lei, da loro. Ricordava perfettamente il peso delle loro mani nelle sue, l’odore dolce di sua madre ad imprimersi sulla pelle e la barba di suo padre a graffiarle le guance. Svolgevano un lavoro pericoloso, che spesso li portava a sparire per giorni, settimane, ma alla fine erano sempre tornati.
    Ed era stato quello, a fregare Maeve. Ad illuderla che, in qualunque modo ed in qualunque mondo, loro sarebbero sempre tornati a casa. Che Aaron e Wynne Winston avrebbero sempre, sempre trovato il modo per tornare da lei. Quando i suoi genitori erano spariti, la bionda Corvonero aveva compreso che quella era stata una verità fallace, illusione fra polpastrelli distratti di un’eterna ottimista blasonata di ruvido cinismo. Aveva creduto di averli persi; che mai l’avrebbero vista sedere dietro una cattedra ad Hogwarts, che mai avrebbero saputo che aveva seguito il proprio cuore unendosi alla resistenza. Non avrebbero mai visto la donna che era diventata, che aveva voluto diventare: non avrebbero mai saputo, che era diventata una guerriera. Ma erano tornati. Cambiati, ammaccati, eppure erano tornati da lei. Maeve Winston, neo insegnante di Incantesimi, era tornata la bambina che, con il naso premuto sulla finestra, attendeva fiduciosa la vista dei loro profili sul vialetto di casa; s’era lasciata convincere, con la disperazione nauseabonda di chi ha bisogno di un appiglio, che non si era sbagliata. Ancora una volta, si era ingannata che le cose brutte non potessero accadere a lei, o alla sua famiglia. Che forse, forse, non le meritava.
    «mae, per favore. dì qualcosa» neanche si era accorta delle dita di Dak sulle proprie guance, ad allontanarla da sé lo stretto necessario per poterla guardare negli occhi.
    Non riesco a respirare.
    Perché sapeva, la Winston, che quel giorno c’era stata una missione organizzata dalla Resistenza; perché sapeva, sapeva che i suoi genitori si erano intestarditi a partecipare – per mostrarle che anche loro, alla fine, avevano fatto la scelta giusta. L’unica possibile. Per palesarle che, da sempre e per sempre, erano ancora gli eroi invincibili che da fanciulla ella credeva fossero. Così, li aveva sempre visti: invincibili, indistruttibili.
    Continuò a tremare, priva di una voce che potesse dare forma a quel vuoto. Era il genere di dolore che colpiva inaspettatamente, e con rapidità si scavava un proprio posto dietro le costole. Era quel tipo di far male che non lasciava spazio ad altro, che obbligava a credere che non ci fosse bisogno d’altro: poteva saziare, quel male lì. Poteva bastare per una vita intera.
    «mae, ti prego» sentì le labbra sulla fronte, i pollici a raccogliere lacrime trasparenti su guance che non ricordava di possedere. Lasciò che l’odore del Grifondoro si attaccasse insistente alle narici, un misto di medicine, zucchero e casa ormai familiare, alla Winston. Ormai famiglia, alla Winston. Sin da prima che Dak si trasferisse ufficialmente da lei, avevano sempre avuto un legame particolare, loro due. Era stato il suo scoglio, la sua mancanza, il suo conforto. Era stato un ragazzino di cui prendersi cura, un amico - il migliore. Un fratello. Ed anche di più. Eppure, neanche il suo calore riuscì a farsi strada nella fitta nebbia di gelo e ghiaccio che Maeve aveva eretto fra sé e il mondo, unico pezzo di realtà ad impedirle di andare in frammenti.
    Frammenti.
    Frammenti.
    Di ricordi, di vite, di quelle parole che Maeve Winston aveva sempre troppa paura di dire. Di quegli abbracci troppo rari, di quei sorrisi troppo sinceri. Di quei dolori in grado di spaccarti a metà, e di quelle gioie così intense da lasciarti satollo e leggero per giorni. Di quelle mani a sfiorarsi per conforto, per affetto, per il semplice sentirsi vivi sotto i polpastrelli.
    Di memorie. Quelle che bruciavano nelle vene, negli occhi, fra i denti; quelle nel sangue, e nel cervello, e nelle parole scribacchiate nervosamente su un diario. Quelle dei suoi pupazzi, dei muri della casa in Irlanda. Quelle riflesse nelle iridi cangianti di Aiden, a rimbalzare dal suo sorriso a quello di lei nel morbido legame fra fratelli che di due, faceva uno.
    Di battiti, di respiri, di mani ad incastrarsi nei capelli. Di lacrime ad inumidire la federa, di urla soffocate nel pugno, di sangue a scivolarle denso sulla lingua. Di carezze sulle guance, di favole davanti ad un camino.
    Di promesse. Quelle infrante, quelle mai fatte, quelle che neanche sapevi di dover fare.
    Di una ragazza, che un tempo si chiamava Maeve Regan Winston - ed ora non lo sa più.
    Dakota Wayne aveva bisogno di una reazione da parte di Maeve; l’eco nella voce di lui, gridava il languido bisogno di sentirla ancora presente, viva. La stretta dura sulle spalle le faceva sentire che lui, per lei, c’era sempre – e ci sarebbe stato sempre- c’era ancora – e ci sarebbe stato ancora. Ma quanto era una menzogna? Quanto, quel mondo, voleva strapparla e ricucirla?
    E strapparla
    E ricucirla
    E strapparla
    Frammenti.
    Sentì il nome di suo fratello. Sentì quello dei suoi cugini. Sentì le dita di Dakota spingerla delicatamente verso il divano, dove la sera si stringevano fra loro guardando qualche stupido film strappalacrime. Sapeva che le avrebbe avvolto una coperta nelle spalle, le avrebbe preparato una tazza di cioccolata calda con troppo zucchero, ed avrebbe chiamato Leaf perché rimanesse con lei finché non avesse aggiustato tutto.
    Il problema era che non c’era più niente da aggiustare.
    Ed era sbagliato, ed era ingiusto. Maeve non voleva mostrarsi così a loro. Voleva essere il loro punto di riferimento, il Nord della loro bussola. Voleva che potessero sentirsi sicuri, con lei; voleva poter essere il conforto che quel loro mondo gli impediva di trovare altrove, voleva essere capace di cancellare l’orrore dai loro occhi – e ridipingere le iridi con speranza, con le risate colorate a rimbalzare fra le pareti di quel piccolo appartamento. Ma non ci riusciva, Maeve.
    Forse, non c’era mai riuscita.
    Il tempo non aveva alcuno spessore, per lei. Le parole che era riuscita a distinguere nel fitto parlato di Dak, continuavano a scavare buchi di sangue e cenere nella sua mente, consumando tutto ciò che trovavano sul loro cammino. Se lo mangiavano, quel poco di buono che c’era. Se lo rubavano.
    Non voleva essere lì, Maeve. Non voleva essere Maeve, lì.
    Perché i suoi genitori non sarebbero più tornati a casa. Non avrebbero mai partecipato alle cene del Ringraziamento dove la Winston invitava tutti i suoi ragazzi, non avrebbero mai visto quanto quei sorrisi l’avessero fatta divenire la donna che loro meritavano ella fosse. Non l’avrebbero mai vista vincere. Non avrebbero mai conosciuto i suoi figli, o quelli di Aiden. Suo padre non l’avrebbe accompagnata all’altare, e sua madre non le avrebbe dato qualcosa di blu, di vecchio, di nuovo, di prestato. Non le avrebbero mai detto che erano orgogliosi di chi era diventata.
    Perché i suoi genitori, quel giorno, erano morti.
    Così. Prima c’erano, e poi non c’erano più. Così, nel tempo di un respiro – forse sprecato ad osservare vecchie fotografie, forse soffocato in uno sbadiglio. Non poteva saperlo, quand’era successo. Li stava pensando? Loro stavano pensando a lei?
    Aiden.
    Aiden aveva bisogno di lei.
    Lei aveva bisogno di Aiden.
    Ma non ci riusciva. Continuava a pensare, ed a non farlo affatto. Continuava a vivere, ed a non farlo affatto.
    Continua a.
    «maeve…» si schiarì la voce, atona e sbagliata alle sue stesse orecchie. Distorta e distrutta, il suono primordiale di una pietra che si schiantasse sul fondo buio di una grotta senza dar buona speranza riguardo cosa ci fosse da colpire. «maeve…» perché la gola bruciava in quel modo? Perché non riusciva a respirare, a parlare, a reagire? Aveva perso la sensibilità di sé stessa. Coprì il volto con le mani, scattando in piedi. Non cercò di allontanarsi da Dakota, aveva bisogno di sentirlo vicino.
    Perché lo sapevano entrambi, ormai, che avrebbe potuto essere l’ultima volta.
    «maeve regan winston» completò in un sussurro spezzato, sputo di parole fra le falangi. Non aveva mai rivelato il suo secondo nome a nessuno, ed in quel momento le parve la cosa più sensata da dire.
    L’unica che avesse importanza.
    C’era un mi dispiace, lì dentro. C’era un ti voglio bene, lì dentro. C’era un non lasciarmi.
    Una promessa, una richiesta, un bisogno per il quale non esistevano termini.
    C’era una guerra, lì dentro, che Maeve non riusciva più a combattere.
    Non era abbastanza forte. Aveva finto, ma non lo era mai stata: con i suoi stessi frammenti, s’era tagliata – ed aveva sanguinato, ed aveva riso di quel sangue.
    E quella, era la fine.
    Ti prego, perdonami.

    Non indossava neanche la giacca.
    Non aveva pensato, non aveva ragionato - perché non c’era più nessuno, in quel momento, in grado di poterlo fare. Ogni respiro era puro dolore fra le costole, una spina a ficcarsi più in profondità nella membrana cardiaca. Avrebbe potuto morirci, di quel pressante dolore.
    Sempre che non l’avesse già fatto.
    Pioveva, ma alla ragazza non importava. Non sentiva freddo, non sentiva l’acqua mischiarsi alle lacrime. Non sentiva neanche i propri piedi a calpestare il cemento dell’asfalto, o i suoni delle macchine che le sfrecciavano affianco.
    Irrazionalmente, irrazionale non lo era stata affatto. Lucidamente cinica in quel suo avventurarsi per la Londra babbana, indifferentemente codarda in quell’azzardarsi ad esistere pur non facendolo affatto.
    Egoista, soprattutto, nell’infine bussare all’unica porta dell’unico ragazzo che con lei –per lei, di lei- non c’entrava nulla. A malapena si parlavano, Maeve Winston e Jason Maddox. Ed era quello di cui aveva bisogno: non voleva qualcuno che l’amasse abbastanza da trattenerla, ma qualcuno che non lo facesse e la lasciasse andare.
    Un consiglio, un battito che non suonasse troppo affine al proprio – e che per quello, avrebbe rischiato d’incrinarsi quanto il suo. Aveva bisogno dell’apatia di uno sguardo oggettivo, qualcuno che la conoscesse - e sapesse chi ella fosse- ma non la giudicasse.
    Non la giudicasse.
    Non voleva conforto, Maeve. Voleva aiuto. Voleva uno specchio diametralmente opposto a ciò ch’ella era, a mostrarle cosa fosse giusto fare.
    Per lei, per una volta. Non per Aiden, non per Dakota, non per Mitch, non per Daphne, Sharyn, o Marcus; non per Leaf, o Isaac, Amalie, Eleanor, Kendall, o Tiffany. Non per Alaric, o Jade.
    Per sé stessa.
    Mai, anni prima, avrebbe immaginato di poter aver bisogno di Maddox. Ed invece, con il cuore ad assordarle le orecchie ed a rimbalzarle fra lingua e palato, sentiva che era l’unico che avrebbe capito.
    Deglutì, forse – o forse lo immaginò.
    Picchiò il pugno contro la porta di legno del suo appartamento, forse – o forse lo immaginò.
    «non sapevo dove altro andare» con una voce irriconoscibile, gli occhi ormai asciutti e la pioggia a scavarle la pelle, gocciolando sullo zerbino.
    Forse, o forse lo immaginò.

    Maeve Winston non aveva mai voluto scappare: non da casa sua, non da Hogwarts, non da sé stessa.
    Codarda - coraggiosa.
    Egoista - generosa.
    Forte - fragile.
    Frammenti di quel ch’era, di quel che voleva essere. Frammenti di una fuga mai voluta, e di un’esistenza che le era stata strappata.
    Ma voleva vivere, Maeve Winston - lo voleva davvero, lo voleva sempre. E quella, non era vita.
    Quella, non era vita.
    Fuggendo, forse, lo sarebbe stata.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by #epicWin - 24/3/2017, 03:47
     
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    Jason Maddox

    Casa dolce casa. Jason entrò nel suo monolocale dopo una giornata a ripulire il Fiend, non bastava il lavoro come assistente per Damian e il barista durante il fine settimana, doveva anche fare il cenerentolo della situazione; ma alla fine pur di guadagnare qualcosa e continuare a vivere in quel posto andava più che bene. Ormai da qualche mese viveva in una strana routine, nella quale era compreso Dakota; il rosso era tornato nella sua vita e dopo aver rischiato di perderlo non una ma ben due volte aveva deciso di non farlo più andare via, si era anche ripromesso che se questo non lo avesse voluto sarebbe stato comunque presente nella sua vita e lo avrebbe riconquistato per sempre; ma alla fine anche il rosso sembrava essere perso senza Jason erano così tornati insieme. Lo amava, non poteva più negarlo a se stesso anche se glielo aveva detto solo in quell'occasione («Dimmelo» - «che cosa? » - «Lo sai. Dimmelo» - «Mi piace il tuo culo» - «Me lo dirai di nuovo quando sarò in fin di vita come l'altra volta? » - «Forse...»). Già era stata la prima volta che gli aveva detto che lo amava, in quel capanno, tra le sue braccia; probabilmente se avesse saputo che sarebbero sopravvissuti lo avrebbe fatto in modo diverso ma quello che provava era vero e da quando aveva capito e soprattutto lo aveva accettato non avrebbe mai rinnegato che lo amava, ma dirlo con così tanta facilità non gli riusciva ancora così bene. (« Anche se non te lo dico, te lo dimostro. Non ti basta? » - «Sei sempre onesto con chiunque, dici sempre quello che pensi. Allora dillo anche a me ») . Il suo rosso, stavano insieme praticamente da tre anni, anche se da quel bacio in armeria avevano fatto davvero tanta strada, quasi tutta in salita ma erano cresciuti insieme e solo da qualche mese si erano decisi a definirsi una coppia di fatto e la cosa più strana era che, Jason, non rabbrividiva all'idea di essere fedele ad una persona, certo che era cambiato davvero molto. Era sempre stato convinto di non essere fatto per l'amore e di non essere il tipo da amare, in fondo era un Maddox ma Dakota la pensava diversamente e finalmente ci credeva anche lui, nonostante fosse ancora uno spacciatore a tempo perso e che ogni tanto si faceva, ma era comunque cresciuto e non era sempre fatto, ma smettere dopo anni di abuso significava per lui avere un crollo fisico e mentale.
    Ma parlando di droga, Jason prese uno spinello e si mise sul davanzale interno aprendo la finestra. Era stranamente solo, di solito c'era Dakota che gironzolava nel monolocale, ma quella sera aveva preferito stare a casa con Maeve, la ragazza era sotto shock per la morte dei genitori e il rosso aveva deciso di starle accanto per un periodo. («Mi dispiace per Maeve» - « Per un po' non verrò » -« non farmi venire, ti prego» - « Se cambiassi idea lo sai che ci e le farebbe piacere») Ma davvero non voleva andare, non se la sentiva di andare a casa Makota, non poteva aiutare Maeve non sapeva cosa volesse dire perdere i genitori, e non perché li aveva ma per lui era come se non fossero mai esistiti alla fine. Così era lì, da solo e chissà per quante settimane sarebbe stato così, si accese la sigaretta e inspirò, sentendo così la gola l'aroma, perché continuassero a dire che faceva male non lo capiva visto che era decisamente meglio che respirare lo smog di Londra. Odiava stare solo, da quando? Beh, da quando aveva Dakota nella sua vita, aveva anche quasi pensato di chiedergli di vivere insieme ( « Perché non inizi a portare qualcosa qui? » - « vuoi convivere? » - «...NO..» - « e allora cosa? » - « Niente » ) ah stava diventando l'ombra di se stesso, maledetto amore. Era persino geloso di Dakota come non lo era mai stato di nessuno, se non erano insieme doveva assolutamente sapere dove fosse, andava di matto, spesso litigavano ( « Dove cazzo sei? » - « Fuori con i miei colleghi » - « ok. Divertiti » - « Sai che potevi venire, mi farebbe piacere se ogni tanto uscissi con me e loro. Te li vorrei presentare » - « Non mi piacciono i tuoi colleghi.» ) , doveva proprio smetterla ma non ci riusciva, Dakota era suo.
    Improvvisamente sentì bussare, ma chi cazzo era? Non Dakota, sapeva per certo che era con Maeve. «non sapevo dove altro andare» Ma era lei alla porta? Andò ad aprirla e la vide, fradicia per la pioggia, distrutta e confusa, sembrava quasi che si fosse drogata, ma non l'aveva presa da lui la droga. Male Maeve.
    Cosa cazzo ci fai qui? disse con poco tatto, sapeva quello che la bionda stava passando e forse doveva essere più delicato ma davvero non si aspettava una visita del genere, non da lei. Perché tutti i pg di Sara quando sono disperati vanno dai miei? fra tutte le persone che aveva intorno la corvonero era andata lì? Non ci credeva che non aveva altri posti, figuriamoci se quello era il miglior luogo dove nascondersi. Volevo dire, entra... disse cercando di capire cosa fare. Non era pronto a sostenerla, come si consolava una bionda che aveva perso i genitori? Non c'era nel manuale delle istruzioni che gli avevano dato alla nascita e non aveva imparato strada facendo, non aveva ascoltato, no. Le lanciò un asciugamano e si avvicinò alla cucina ( era praticamente nella stessa stanza ma shh) Spero ti piaccia il caffè corretto al Jack Daniels purtroppo ho finito il latte ma ti riscalderà prima, te lo assicuro disse sempre fingendo serenità, ma la realtà è che aveva paura di farla scappare perché Maeve in quel momento sembrava sotto shock come uno cerbiatto in mezzo alla strada e Jason era l'autista, doveva capire come fare per non farlo correre via. Prese una tazza e ci mise il liquore senza nient'altro, in realtà non aveva neanche il caffè, Dakota non si c'era da giorni e lui era rimasto senza qualcuno che lo aiutasse con la lista della spesa. (« Jason, hai il frigorifero con questi fogli che si scrivono anche da soli. Usali » - « Ma cosa me ne faccio quando ho te...» - « paraculo» ).
    Cercando di capire come fare a muoverla, le passò prima la tazza e poi le fece il gesto di mettersi seduta dove voleva: sul letto, sulle sedie, aveva anche uno sgabello e un divano; ne aveva di scelta. Lui intanto tornò alla finestra, prese lo spinello e fece un tiro, ne aveva davvero bisogno per sostenere Maeve. Era così diversa, quasi la preferiva in versione saccente e seccante( uhh l'anagramma) che metteva i puntini su ogni singola i, che si preoccupava di ogni fottuto umano sulla faccia della terra, anche chi non se lo meritava. Ma quella non era presente al momento, davanti a lui aveva solo la fragile e delicata Winston, distrutta dalla perdita, gli dispiaceva vederla così, anche se non capiva fino in fondo quel tipo di dolore, o forse si, lui aveva perso metà della propria vita quando aveva prima saputo del rapimento di Dakota e stava per morire definitivamente quando lo aveva trovato in quello stato nel capanno.
    Dopo un lungo minuto di silenzio e aver fatto almeno altri due/tre tiri di canna, decise di parlare per primo Cosa vuoi che faccia? Rude? Forse, insomma non si era neanche dispiaciuto per o con lei per la perdita, nessun abbraccio, nessuna frase di circostanza ma perché girarci intorno? Non aveva senso, se la bionda era lì di certo non era perché aveva bisogno di un amico, finto per lo più. Loro non erano amici, si sopportavano e quasi si stavano piacendo ma amici era davvero una definizione esagerata per loro due invece esiste la Maeddox , quindi se era da lui invece che con Dakota voleva qualcosa di diverso dall'amore, ma cosa? Vuoi la droga? chiese poi stupito, che volesse iniziare a drogarsi, magari sarebbero diventati molto amici grazie a quello.
    ✖ schema role by psìche


    ovviamente quello in rosso è Dakota u.u
     
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    La pioggia le aveva appiccicato i capelli biondi, una sfumatura d’oro simile al grano d’estate, alla fronte ed alle guance, appiattendoli lisci attorno al viso sottile. Se non si fosse sentita così vuota, sbagliata, avrebbe trovato quella situazione altresì ironica: era lei, d’altronde, che sempre si preoccupava che gli altri si coprissero quando il cielo minacciava temporale; era lei, d’altronde, quella ad aspettarli sulla soglia di casa con un asciugamano pulito fra le mani, occhiatacce allusive ma silenziose mentre metodica si applicava ad asciugarli - i suoi pulcini bagnati. Era sempre Maeve, Maeve Regan Winston, che si preoccupava per gli altri. Sarebbe una menzogna dire che gli altri non ricambiassero, che se ne infischiassero: era la ex Corvonero, a non volere quelle attenzioni. Le riteneva superflue, un obbligo che non dovevano assecondare. Perché, secondo Maeve, il mondo riserbava loro già abbastanza pressione senza che si sentissero in dovere di occuparsi di lei – mentre lei, di buono, aveva solo loro: prendersene cura era necessario alla sua sopravvivenza, come lo spruzzino per un asmatico. Aveva bisogno di sentirsi utile - per quanto poteva, per come poteva.
    Sempre poco, e mai abbastanza.
    Gocciolò sullo zerbino, il capo chino e lo sguardo assente. Sapeva perfettamente perché, fra tutte le persone da cui avrebbe potuto recarsi, avesse scelto Jason Maddox – eppure non lo rendeva più facile, mentre il cuore pompava sangue denso, sempre più denso, dentro le vene. Così inadeguata, Mae: con quel sorriso leggero e quegli occhi limpidi come il cielo in primavera, pareva la ragazza perfetta – quella da copertina, quella cui chiedere lo zucchero senza sentirsene intimoriti; e dire che lei, di perfetto, non aveva nulla.
    La sua famiglia era morta.
    Mitchell era morto, un anno prima. Aiden era morto, mesi prima. Il fatto che avessero trovato il modo per tornare, non rendeva la situazione meno tragica: respirare non era affatto più facile, sapendo che, nel tempo di un sospiro, li aveva persi. Ed i suoi genitori.
    Ed i suoi genitori.
    Cosa non andava, in Maeve Winston? Ci aveva provato così tanto, ad essere una persona migliore. Si era unita ai ribelli sperando di cambiare le cose, di salvare il salvabile; aveva cercato di dare una via di fuga, la possibilità di tornare a respirare, a tutti coloro che ne avevano avuto bisogno: e li aveva amati, Maeve, e li amava ancora, con la disperazione di chi, fra i disperati, aveva trovato una solida ancora che riportasse a casa. Dakota, ed Isaac, e Leaf. Ed Amalie, Eleanor, Kendall. Todd.
    Avevano sbagliato, a fidarsi di lei – non la meritava, quella fiducia. Non era realmente in grado di offrire loro nulla, se non friabile speranza ch’appassiva come i petali di un fiore in piena estate. Non duravano, le tacite promesse di Maeve Winston.
    Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto che non fosse così. Abbastanza da far male – ogni secondo, minuto, ora e giorno. Ma ecco cosa succedeva, quando ci si fidava di Mae. Perché per quanto ci provasse, non era mai, mai abbastanza.
    Non poteva continuare così.
    Un respiro – o forse un singhiozzo, o forse un ansito – sfuggì dalla bocca dischiusa, la lingua a scivolare sulle labbra umide. Qualunque movimento sembrava essere costretto a sgusciare fra creta ancora morbida, risultando complesso e dannatamente pesante. Non era neanche certa di come, malgrado tutto e malgrado tutti, fosse ancora in piedi: inerzia, supponeva. Le gambe, neanche le sentiva più – o il petto, o i battiti ritmati che le scuotevano debolmente le spalle.
    «Cosa cazzo ci fai qui?» Neanche aveva sentito la porta aprirsi. Sollevò il capo verso Jason, studiandolo con apatica disattenzione. Un friabile, fiacco sorriso le curvò pigro un angolo delle labbra, grondante d’ironia e privo di menzogna. «linguaggio.» rispose secca, in automatico, ammonendolo per il turpiloquio. Eppure anche quella risposta, istintiva quanto il portarsi la mano di fronte agli occhi in una giornata di sole, suonò errata - come se provenisse, quella richiesta, da una vita diversa. Uno strascico di ricordo, più che un sincero intento a redarguire l’ex Serpeverde.
    E quella sincerità smozzicata in un linguaggio scurrile, era tutto ciò di cui Maeve aveva bisogno. L’esatto motivo che, fra tutte le porte che avrebbe potuto preferire, l’aveva spinta a scegliere lui, Jason Maddox. Non voleva tatto, Mae; non voleva compassione, e sapeva con certezza di non poter gestire affetto: aveva bisogno di un Maddox - al quale di Maeve Regan Winston, non poteva interessare di meno.
    Un fronte oggettivo, impersonale.
    «Volevo dire, entra...» strinse le labbra fra loro, lo sguardo distante a posarsi leggero sull’assistente di Arti Oscure; chinò il capo senza neanche provarci, ad abbozzare un sorriso. Si limitò a seguirlo all’interno dell’appartamento, cieca al luogo nel quale Jaz viveva: perché non le importava, di dove vivesse, o se in giro avesse ancora bustine di cocaina – o di quel che più lo aggradava. «spero ti piaccia il caffè corretto al Jack Daniels purtroppo ho finito il latte ma ti riscalderà prima, te lo assicuro» Maeve non lo stava guardando. La sua attenzione era ancora per l’asciugamano che il ragazzo le aveva lanciato: la Winston aveva sempre peccato di prontezza di riflessi, ma in quelle condizioni era, se possibile, peggiorata – un vero caso umano. Si era lasciata colpire non senza una certa sorpresa, quindi i suoi occhi erano saettati sull’oggetto in questione. Chissà se era così che si sentiva, chi era fatto di LSD. Si chinò per raccoglierlo, stringendolo poi al petto come avrebbe fatto con un cuscino. «grazie» ed il fatto che non avesse commentato l’aggiunta dell’alcolico, avrebbe dovuto dirvela lunga, su come si sentiva. Non era avvezza all’alcool, Maeve Winston, da tanti, tanti anni: erano ricordi lasciati nella gioventù, quelli di una bionda con le labbra attaccate al collo della bottiglia – a ricercare nel calore del whisky incendiario il sorriso che, altrimenti, non sarebbe riuscita a fingere.
    Era cresciuta così in fretta, Maeve, che anziché parerle un paio d’anni prima, le sembrava un’esistenza precedente. Cosa non andava, in lei.
    Non si sedette. Rimase in piedi, l’asciugamano stretto fra il braccio ed il petto, e la tazza di caffè fra le mani. Rimase in silenzio mentre Jason si posizionava vicino alla finestra per fumare qualcosa che, in altri momenti, avrebbe fatto scattare l’interruttore badger e l’avrebbe fatta partire in quarta con le lamentele ed i consigli (non richiesti) di vita: lo guardò solamente, Maeve, mentre soffiava distratta sulla tazza di caffè. Il fumo era così denso, da dare l’idea di poterlo attorcigliare fra le dita.
    Non aveva mai fumato una canna.
    Aggrottò le sopracciglia, la testa ora reclinata. «Cosa vuoi che faccia?» Riportali indietro. Dimmi che è una menzogna. Dimmi che andrà tutto bene. Dimmi che passerà.
    Dimmi che non è colpa mia.
    Bevve un sorso della bevanda, il naso a storcersi nel riconoscere l’acre sapore del whisky. «nulla.» ed era vero. Aveva solamente bisogno che fosse sé stesso - per una volta - senza finta cortesia, senza pacche sulle spalle che avrebbero messo entrambi in imbarazzo. Un respiro tremulo le scivolò sulla lingua, e la Winston drizzò tenacemente la schiena, le iridi di duro zaffiro a posarsi su Jason Maddox. Non era lì per fare la vittima – almeno quello, lo doveva a sé stessa. «vuoi la droga?» Sbattè le ciglia, Maeve Regan Winston. Ed una parte di lei, vi dirò, fu tentata di dire di sì. Perché no, insomma? Come brava ragazza era assai deludente, ma come tossica ed alcolizzata, forse, avrebbe potuto segnare qualche punto in più. Magari sarebbe stata una persona migliore, con un po’ di droga in corpo.
    Ma allora non sarebbe stata Maeve Winston. «la droga non aiuterebbe. È stupido credere che ovattare i propri sensi con sostanze stupefacenti, possa aiutare – alleviare il dolore significa solo procrastinarlo: di conseguenza, non è una soluzione» la buona, vecchia, Maeve Winston in azione. Riuscì perfino a sorridere, tagliente ironia a sporcarle la bocca. «un giorno, forse» scosse le spalle, tornando a bere il suo caffè. «per provare, ma non così» non così.
    Mai, così.
    Deglutì, la saliva incastrata da qualche parte nella trachea ad impedirle di respirare. Abbassò gli occhi sulla propria tazza, le dita a cercare di assorbire il calore dalla ceramica. Cosa voleva, Maeve Winston, da Jason Maddox?
    Qualcosa che solamente lui, avrebbe potuto darle: «verità.» esordì, nel nulla e dal nulla. Si schiarì la voce, le iridi blu ancora fisse sul liquido marrone che, seguendo il tremolio delle mani, si piegava e distorceva in decine di piccole onde. «qualcosa non va nella mia vita, jaz» ed era assai raro ch’ella utilizzasse il nomignolo di Jason, preferendo usualmente un più piccato ed informale Maddox. «sai più di quanto dovresti, su di me» sapeva che era l’ultima ad essere giunta nel Labirinto. Sapeva che era una ribelle. «comincio a credere che…» che…? Passò la lingua sulle labbra, lo sguardo alzato al cielo in una muta supplica alle stelle. «che il problema, a conti fatti, sia io. Quindi, forse… forse posso aggiustarmi.» sbattè le ciglia. «posso?» aprì la bocca, la richiuse. «sto pensando di andarmene» appena un sussurro, flebile e sottile quanto un filo d’agrodolce caramello.
    Fisicamente, mentalmente. Andarsene e basta.
    Le bastò dirlo ad alta voce, perché le mani smettessero di tremare. Sempre vuota, sempre sbagliata, ma non una ragazzina a pianger miseria da un Jason Maddox qualsiasi: a suo modo, Maeve, si era affezionata a quel ragazzo. «comprenderai perchè non potessi parlarne con nessun altro» cauta, nel misurare ogni parola.
    Ogni respiro.
    Ogni battito.
    Ogni Maeve.

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    «linguaggio.» ma come poteva fare la rompipalle in una situazione del genere? Non cambiava mai la bionda, ed era in quei momenti che aveva voglia di mandarla a fanculo, se fosse stato un altro contesto lo avrebbe anche fatto, ma si limitò a fare una smorfia e lasciò cadere così il discorso, per il bene di entrambi. E poi non ditemi che Jason non era cambiato o diventato più maturo, era da ammirare la pazienza del ragazzo, dato che in passato non ne aveva mai avuta e di certo non si sarebbe riguardato dal dire quello che pensava, anche se poteva sembrare stronzo.
    «la droga non aiuterebbe. È stupido credere che ovattare i propri sensi con sostanze stupefacenti, possa aiutare – alleviare il dolore significa solo procrastinarlo: di conseguenza, non è una soluzione» no davvero, perché doveva essere così Maeve? Alzò gli occhi al cielo, decisamente non erano compatibili i due ragazzi, ancora si chiedeva come avrebbero potuto affrontare il resto del tempo senza discutere o tirarsi qualcosa dietro. Nonostante dopo il labirinto si fossero chiariti e che facessero buon gioco a cattiva sorte con Dakota, non erano decisamente due anime affine, era agli apposti che si attraggono. . Bionda,sei venuta qui per farmi la paternale? disse e in si accese pure una sigaretta ( o magari già stava fumando? Nel caso continua).
    «un giorno, forse» si certo,Va bene bionda. Sono sempre qui per te disse sarcastico, scosse la testa e rimase a fissarla mentre questa cercava le parole giuste per dirgli qualcosa. Era una faccenda molto seria allora, si stava davvero incuriosendo, ma conosceva bene la ragazza e sicuramente aveva prima da fare un gran giro di parole, come piaceva a lei. A scuola, per dare una semplice definizione doveva partire dal tempo di Merlino, anzi prima. Dopo il diploma la casa dei Corvonero avevano perso il loro punto forte, si poteva dire, anche perché quel nanetto ( ma anche no) di un rossino porta sfiga o la ragazzina suscettibile e drogata non avrebbero mai tenuto così in alto la casa come aveva fatto ai suoi tempi la Winston. Ma rimaneva il fatto che non voleva la droga e oltre a quello lui non era bravo a consolare e non sembrava volere compassione, quindi non capiva dove volesse arrivare.
    «qualcosa non va nella mia vita, jaz» Jaz? Da quando erano in tale confidenza? Loro si chiamavano con altri tipi di nomignoli tipo “rompipalle”, “drogato”. Insomma era un amore il loro <s> la Maeddox esiste complicato.
    «sai più di quanto dovresti, su di me» Davvero? Per un secondo pensò di scuoterla per farla riprendere. Loro non era così intimi, avevano trascorso un Natale insieme per amore del rosso, ma tutto si limitava a quello; chissà forse tra qualche anno sarebbero diventati amici, ma non era ancora arrivato quel giorno. Sul serio? poi ecco il lampo; ma che idiota, stava parlando della resistenza. Probabilmente era lui quello che aveva bisogno di un promemoria. Come aveva potuto dimenticare di Maeve nella ribellione. Non era stata una sorpresa, ma nonostante quello non l'aveva denunciata e mai lo avrebbe fatto. Dopo che aveva ritrovato Dakota, il regime e le idee al riguardo erano passate in secondo piano; non avrebbe più permesso che al rosso succedesse qualcosa e sarebbe andato anche contro il regime. Non aveva neanche intenzione di denunciare la bionda, in primis perché era già troppo tardi e rischiava di risultare un traditore comunque e poi per amore del rosso, gli aveva promesso di non farlo e, anche se è difficile da credere, non voleva che il ragazzo perdesse una persona così importante come la bionda ( e terzo, che mai lo ammetterà era che in fondo gli piaceva Maeve).
    «comincio a credere che…che il problema, a conti fatti, sia io. Quindi, forse… forse posso aggiustarmi.» voleva essere aggiustata? Jason la guardò strana, che favore stava per chiedergli? «sto pensando di andarmene» il ragazzo era allibito, ma che cazzo le prendeva, non poteva assolutamente aver udito quelle parole, non era da Maeve. «comprenderai perché non potessi parlarne con nessun altro».
    Cazzo Maeve. E non provare a dire linguaggio, ho tutto il diritto di lamentarmi in questo modo. L'ammonì immediatamente, non poteva riguardarsi dopo una notizia del genere. Era quasi meglio se avesse iniziato a piangere, nel disagio sarebbe stato zitto e dopo qualche pacca sulla spalla se ne sarebbe andata. Non avrebbe cambiato la situazione ma cazzo se era meglio di quello. La sua mente andò immediatamente all'ex grifondoro, sapeva quanto ci tenesse alla Winston, era la sua famiglia e non l'avrebbe mai lasciata andare, ed ecco perché capiva la presenza in casa sua della donna. Sei sicura di voler lasciare Dakota? Si alzò grattandosi la testa, cercando di riordinare le idee, aveva i mezzi per aiutarla ma poteva farlo davvero? Probabilmente se glielo avesse chiesto qualche anni prima l'avrebbe aiutata, dietro pagamento, ma non gli sarebbe importato niente di lei o delle persone che la bionda voleva lasciarsi alle spalle. Ma non era più così.
    Se Dakota sapesse quello che mi stai chiedendo e soprattutto, se sapesse che ti ho dato una mano io, mi ucciderebbe. Lo sai? Sei la sua famiglia, Maeve non puoi lasciarlo ripetè serio, e quanto era dolce in quel momento già. Ma allo stesso tempo vedeva negli occhi della ragazza la disperazione, la voglia di sparire e di lasciare dietro tutto quel dolore, come poteva non capirla, lui spesso aveva usato la droga e l'alcool per poter sopravvivere alla vita. Rimase in silenzio per qualche istante, cercando di capire cosa fare, certo che essere una brava persona era davvero difficile, avere degli scrupoli, pensare agli altri era davvero arduo, ma come vivevano certe persone, compreso il suo ragazzo e la bionda.
    Esattamente cosa vuoi che faccia? disse esasperato, si sarebbe pentito di quella domanda e di tutto quello che sarebbe successo dopo, già lo sapeva. Ti chiedo solo una cosa, non farmi odiare da Dakota. non era in grado di gestire una discussione o l'odio del rosso nei suoi confronti solo perché aveva fatto sparire, ancora non sapeva in quale modo, la donna.
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    Bussare alla porta di Jason Maddox era stata un’idea terribile - santo cielo, perché l’aveva fatto? L’unica cosa che avevano in comune era Dakota, ed era esattamente una delle persone alle quali in quel momento non voleva pensare. Non voleva pensare e basta, Maeve Winston: forse avrebbe dovuto accettare la droga, e lasciare che i sensi le venissero ovattati da sostanze chimiche di dubbia provenienza. Forse avrebbe aiutato davvero. Sospirò, chino il capo raccogliendo il mento fra le mani, le dita a scivolare fra le ciocche umide sulle tempie.
    Chiuse gli occhi.
    «Sei sicura di voler lasciare Dakota?» Digrignò i denti, le unghie a grattare piano il cuoio capelluto alla ricerca di un appiglio. Mai. Come poteva anche solo pensare di farle una domanda del genere? Gli pareva forse che fosse sicura di qualcosa – di qualunque, cosa? Lasciare Dakota, poi. Non rise solamente perché, se avesse cominciato, avrebbe finito per sciogliersi in singhiozzi. Se ne fosse stata sicura, di certo non sarebbe andata da lui, con le migliaia di persone che abitavano a Londra; se ne fosse stata sicura, avrebbe chiesto ad un perfetto sconosciuto qualunque – avrebbe fermato un passante per strada, avrebbe pagato un mercenario. Non trovava via d’uscita, la bionda. Si sentiva intrappolata in sé stessa, in una vita che in troppo poco le aveva tolto troppo tutto. Non riusciva a ridere allo stesso modo, a parlare allo stesso modo, a dormire allo stesso modo. Era cambiata, e non sarebbe stata in grado di definire quando fosse successo.
    Era cambiata e basta, ed il mondo cambiava e basta, e lei era semplicemente troppo stanca per fingere che non le importasse. Troppo giovane, Maeve Winston, per quel peso a stritolarle le costole. Non avrebbe dovuto essere così difficile – respirare, mangiare, camminare. Non avrebbe dovuto aver paura ad ogni battito di cuore di perdere qualcuno a cui teneva; non avrebbe dovuto imporsi di proteggere i suoi bambini, quando consapevole di non essere in grado di proteggere neanche sé stessa.
    Non avrebbe dovuto essere orfana – di nuovo. Non avrebbe dovuto essere sola – di nuovo. Perché Dakota amava lei, ma non conosceva la sua famiglia; Dakota soffriva per lei, ma non era in lutto per Wynne ed Aaron: quello era un dolore solo suo, uno di quelli che avrebbe potuto condividere solo con Aiden.
    Anche Aiden, non c’era. E lo sapeva, razionalmente lo sapeva, che il fratello non era l’unica famiglia che avesse – che nel tempo, se n’era costruita una nuova, una sola sua. Eppure, d’istinto, non poteva fare a meno di tremare ad ogni respiro. Di sentirsi troppo piccola, troppo impotente per quel mondo.
    Per quella guerra, per quelle persone. Per quel sogno di cambiare il mondo a sbriciolarsi fra le dita.
    « Se Dakota sapesse quello che mi stai chiedendo e soprattutto, se sapesse che ti ho dato una mano io, mi ucciderebbe. Lo sai? Sei la sua famiglia, Maeve non puoi lasciarlo» Forse era stata troppo drammatica, forse avrebbe dovuto spiegarsi. Aprì la bocca per ribattere, non ho alcuna intenzione di andarmene, ma non sarebbe stato vero. Perché sarebbe stata lì, fisicamente lì, ma avrebbe rimosso ogni memoria della ragazza che la rendevano Viso d’Angelo - non avrebbe capito le battute, non avrebbe compreso il carillon sul comodino, non avrebbe colto gli sguardi d’intesa di Byron e Leaf quando avrebbero ordinato una pizza al triplo formaggio. Ogni magia aveva il suo prezzo: avrebbe scambiato il proprio dolore con la sua memoria.
    Una piccola morte, per una piccola Maeve.
    «non lo farebbe» rispose, senza sollevare lo sguardo. Dakota avrebbe capito.
    Era quello, a frenarla. Dakota avrebbe capito, e le avrebbe comunque voluto bene. Le avrebbe comunque portato la colazione a letto, malgrado lei l’avrebbe guardato come un perfetto sconosciuto – le avrebbe detto come preferiva il caffè, quale fosse il suo libro preferito. Avrebbe preferito, di gran lunga preferito, se avesse semplicemente potuto odiarla.
    L’amore più difficile da accettare, era quello che si riceveva più facilmente.
    «Ti chiedo solo una cosa, non farmi odiare da Dakota» Inspirò, espirò. Sapeva che Jason Maddox non le doveva nulla – anzi, era indubbiamente il contrario. Non erano neanche mai andati d’accordo, quindi, da una parte, sapeva che si stava mostrando fin troppo gentile, cauto, nei suoi confronti. E se da un lato avrebbe voluto ringraziarlo, un sorriso sbilenco a sopracciglia inarcate a rimembrargli quel momento durante le future cene di natale, dall’altro non potè che trovare terribile quel continuo sottolineare che avrebbe potuto rovinare il suo rapporto con Dakota.
    Anche perché.
    Si disse che avrebbe dovuto trattenersi, che neanche Jason Maddox meritava quel trattamento. Che non era in sé - eppure alzò comunque il capo, un’occhiata tagliente verso di lui. «io non dovrei farti odiare da dakota? Se avesse voluto farlo, non avrebbe avuto bisogno di me - gli hai dato più di un motivo per farlo anche senza il mio aiuto» sollevò un dito. «la droga» un secondo dito. «essere uno stronzo che non lo merita» e chi fra i due, lo meritava. Si umettò le labbra. «combattere contro tutto ciò in cui crede.» una pausa.
    Era stata davvero un’idea terribile, andare da lui – eppure, dopo aver cominciato a parlare, non riuscì a fermarsi. «ti odia? ti ha mai odiato? - oh, non mi rispondere, so la risposta a questa domanda» no, non l’aveva mai fatto. Anche nei periodi più critici, anche quando aveva smesso di tingersi i capelli di scarlatto, non l’aveva mai fatto. «non ti odierebbe per aver aiutato me, maddox» sibilò in una risata roca, sorridendo al soffitto. «ma se hai tanto timore che possa odiarti, forse il motivo è un altro» inarcò un biondo sopracciglio, la schiena dritta.
    Respirare, fu un poco più facile. Essere razionale, fu un poco più facile.
    «volevo mi aiutassi a perdere la memoria,» concluse, gli occhi sulle proprie mani. Perché se ne vergognava, Maeve - Dio, se ne vergognava: le bastò ammetterlo ad alta voce per sentire le guance in fiamme, le palpitazioni dietro le costole. «ma…» Ma. Deglutì, scosse la testa.
    La verità era che non c’era alcun ma.
    La verità era che i ma, li sapevano entrambi. Perché erano diversi, Jason Maddox e Maeve Winston, ma entrambi possedevano la beffarda incapacità di ricambiare in modo adeguato le attenzioni altrui. Sbagliati, anche se in modi – in mondi- differenti.
    Di colpo arricciò il naso, lo infilò dentro la tazza.
    «questo non è caffè» si rese conto tardi, troppo tardi. Una pausa, le sopracciglia corrugate. «…» ancora una pausa, la guancia stretta fra i denti. «ce n’è ancora?»
    Dai, l’alcool non valeva come droga. Poteva ancora fingere di essere una ragazza coerente.
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    Aprire la porta era stato il gesto più sbagliato che avesse potuto fare, e lui di errori ne aveva fatti davvero tanti; poteva in pratica aggiungere pure quello visto la piega che aveva preso quell'incontro tra lui e la bionda. Se in un primo momento, la Winston sembrava disperata, pronta al suicidio o qualcosa di simile, ora sembrava invece essere completamente in sé, quindi una rompiscatole numero uno; non erano mai andati d'accordo i due proprio per questo motivo, lei era una perfettina e a parere suo era sempre pronta a giudicare chiunque non rispettasse chissà quale morale del cazzo; al contrario Jason era uno che le regole non sapeva neanche dove stavano di casa. Eppure quella donna era lì, con lui che non solo chiedeva il suo aiuto, ma continuava a rimbeccarlo per tutto quello che le diceva. «io non dovrei farti odiare da dakota? Se avesse voluto farlo, non avrebbe avuto bisogno di me - gli hai dato più di un motivo per farlo anche senza il mio aiuto» sollevò un dito. «la droga» un secondo dito. «essere uno stronzo che non lo merita» . Rimase a fissarla con la bocca aperta incredulo; come poteva fargli la ramanzina in un momento del genere? Lui l'aveva accolta in casa, stava per aiutarla in una cosa che a parere suo era molto stupida e non da Maeve, ma lo avrebbe fatto se quello voleva dire aiutarla; eppure lei continuava a fracassargli le palle. Maeve Winston. non aggiunse altro perché non gli dette occasione di aprire bocca perchè quella donna era davvero una locomotiva quando si trattava di fare la mamma (?)
    «ti odia? ti ha mai odiato? - oh, non mi rispondere, so la risposta a questa domanda» beh che dire, aveva ragione anche se Jason questo non glielo avrebbe mai detto. Peggio che sentirla nelle orecchie, era il vedere sul suo volto l'espressione “lo so che ho ragione”, che lo mandava fuori controllo. Quell'espressione la odiava da morire anche quando lo faceva Dakota e lui lo amava quindi tollerava, ma su di lei proprio non poteva sopportarlo. Che poi, a pensarci avevano anche la stessa espressione, tanto che immaginò per un secondo il rosso dirgli le stesse parole, erano proprio una famiglia loro due, anche se non di sangue erano più legati che di due veri parenti. «ma se hai tanto timore che possa odiarti, forse il motivo è un altro»
    Non si picchiano le donne... bisbigliò, massaggiandosi le tempie e chiudendo per qualche secondo gli occhi; Ma tutte le donne sono così? Non rispondere so già la risposta disse scuotendo la testa, era un caso perso, perché sapeva che quasi sicuramente il problema era proprio Maeve. Lei era unica, in ogni senso ed era felice di essere bisessuale, in particolare era felice di essere innamorato di un ragazzo che richiedeva meno impegno o forse no, insomma Dakota le somigliava davvero sotto molti aspetti.
    Sul serio Maeve, sto perdendo la pazienza. Sei venuta qui per farti aiutare e se sapevo che mi avresti fatto la predica ti avrei lasciato sotto la pioggia. Quindi dimmi cosa vuoi fissò la donna in modo serio, si era stancato e se inizialmente voleva essere delicato per il lutto che stava affrontando, dopo quasi un'ora ( non aveva davvero idea di quanto fosse passato) quel monolocale era diventato stretto per entrambi.
    «volevo mi aiutassi a perdere la memoria,» cosa aveva appena sentito? Ma era vero quello che la bionda aveva detto o erano le canne che aveva definitavemente distrutto quei pochi neuroni che aveva? Aveva davvero udito quella parole dalla bionda? Vuoi perdere la memoria? era sotto forma di domanda ma era più una conferma per se stesso, perché davvero non ci credeva.
    «ma…» silenzio imbarazzante calò tra di loro, in attesa che dopo quel ma ci fosse un ripensamento da parte della bionda, anche se sapeva che non ci sarebbe stato; era decisa ad andare avanti e anche se non lo fosse stata, sapeva fingere come lui. Un punto per Maeve.
    «questo non è caffè» fu così dolce nel dirlo che Jason scoppiò a ridere, in fondo e ripeto, tanto infondo non era male la ragazza, tra l'altro doveva farci l'abitudine, visto che avrebbero passato molto tempo insieme in futuro, o forse no? sei proprio una ex corvonero disse per poi prendere la tazza e versarci dell'altro alcool. Va bene, lo farò. Ma prima alzò la propria birra per allungarsi verso Maeve facciamo un ultimo brindisi chissà magari farla ubriacare l'avrebbe fatta svagare abbastanza per farle dimenticare di fare quell'incantesimo. Sperava in cuor suo che la bionda evitasse di arrivare a farsi fare una cosa del genere, i ricordi anche se dolori erano importanti per la storia di una persona; lui ne sapeva qualcosa di quelle cose ed era ancora lì che sopravviveva. Non voleva davvero esaudire quella richiesta quindi in quel preciso istante aveva deciso di passare al piano b: farla sbronzare; poteva essere una buona opzione prima di fare davvero quello che gli stava richiedendo. E si trattava di far bere era dannatamente bravo. Dai quanto poteva reggere l'alcool, la bionda? Non sembrava essere astemia ma neanche una dal bicchierino facile. Tentare non nuoce, ci avrebbe provato si.

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    Non era affatto semplice, avere a che fare con Maeve Winston – ne era consapevole. Troppo sincera in un mondo che della sincerità non se ne faceva nulla, troppo costruita per una realtà che voleva imporsi come spontanea e spontanea non la era mai. Era una ragazza frigida sotto troppi punti di vista, per poter andare d’accordo con il resto della popolazione umana: Maeve era quel genere di ragazza che piaceva da lontano, ma che non si desiderava avere nella propria vita, se era possibile evitarlo.
    Superflua. Passava nelle vite degli altri come l’ennesimo ninnolo dimenticato sulla mensola a prendere polvere, e quando invece ci si imponeva diventava il regalo di natale che per cortesia non si gettava, ma si relegava nell’angolo più lontano della stanza. Chiaramente, non era mai stato un problema per la bionda: non era interessata a far nuove profonde conoscenze (aveva già, tipo, cinque amici: bastavano, dai) e quando si intestardiva ad obbligare gli altri nella propria esistenza, si trattava solo di un motivo di trama - fosse la ribellione, fosse il corpo docenti.
    Poi c’erano i rari, rarissimi casi in cui la convivenza semi civile diventava necessaria. William Barrow, ad esempio: Maeve non era libera di andare a trovare i suoi cugini senza ritrovarselo a braccia incrociate, nudo, all’uscio della porta – eh vabbè, si sopportava. Niamh Barrow – Lynch, ad esempio: era la migliore amica di Dakota, nonché anche lei convivente dei suoi cugini, quindi la Winston tollerava anche lei – la quale, ad essere sinceri, aveva acquistato un sacco di punti da quando aveva troncato l’insana relazione con quel malvivente criminale di un Italie.
    Ed infine, Jason Maddox. Dire che incarnasse tutto ciò che Maeve Regan Winston odiasse nel mondo, sarebbe stato un eufemismo; era impossibile che potessero andare d’accordo, loro due… o almeno, così credeva. Poi, sempre Dakota Wayne happened, e l’ex Serpeverde era entrato, suo malgrado, a far parte della vita di Maeve. E viceversa, per l’immensa gioia del Maddox. «Ma tutte le donne sono così? Non rispondere so già la risposta» Capite perché non riuscissero a trovare un terreno comune all’infuori di Dak? Fortuna che lui bastava - sempre – ad evitare spiacevoli conflitti.
    Per inciso, con spiacevoli conflitti, intendevo la morte dell’uno o dell’altro.
    La verità, poi, era che in quel frangente comprendeva perfettamente la reazione di Jaz – dannazione, aveva ragione. Lei non aveva alcun diritto di presentarsi alla sua porta, senza alcun preavviso, ed iniziare a fare la Maeve Winston. Si umettò le labbra, chinò il capo. La fu Corvonero non voleva essere d’alcun peso alle persone cui teneva, non voleva la vedessero così, ed ecco spiegato perché avesse ripiegato sul ragazzo: Jason non era una responsabilità di Maeve, al contrario di praticamente tutto il resto del mondo magico e non, e la Winston non si sentiva in dovere di essere… invincibile, capite. Che ci provava così spesso, e ci provava così tanto, da non sapere neanche più come si mostrasse la sconfitta – come conviverci. Non poteva permettere che la sua famiglia la vedesse così; non voleva che i suoi amici sapessero che perfino lei, perfino lei!, possedeva punti di non ritorno. Non avrebbe tollerato abbracci, non cercava solidarietà. Perfino il motivo, perdere la memoria, sembrava ormai stupido e falso, seduta sul divano credo del Maddox.
    Non che tutto quello l’avrebbe mai spiegato al ragazzo di Dak. Chiariamoci, per quanto potesse apparire assurdo, Maeve si fidava di lui, ma… di suo non era il genere di ragazza da confidenze in amicizia, figurarsi con un Jason Maddox. «Vuoi perdere la memoria?» Voleva? Grattò con i denti sul labbro inferiore, le dita strette saldamente attorno alla tazza. Era una domanda a trabocchetto, quella: perché , voleva, ma –
    Ma. «non lo so»
    Ma non l’avrebbe mai fatto. Fuggire da tutti i ricordi sarebbe stato più semplice, e magari respirare sarebbe stato finalmente una soddisfazione e non un peso, ma a quale prezzo? Sarebbe stato un suicidio, letteralmente: nel male e nel peggio, i ricordi erano ciò che l’avevano resa quel che era – oramai, erano tutto ciò che aveva. Idealmente, Maeve le piaceva – era la pratica ed il doverlo essere, che stroncavano sempre ogni entusiasmo.
    «non -» alzò gli occhi sul Serpeverde, sperando che potesse leggere nelle iridi azzurre tutto ciò ch’era incapace di esprimere ad alta voce. «- posso» soffiò invece in un sussurro, sentendosi schiacciare dal peso della consapevolezza. Perché voleva, ed avrebbe potuto, ma… non sapeva se fosse coraggio o codardia, ma non era pronta a dirsi addio. A scordare i primi impacciati sorrisi di un Dak ancora ragazzino, le strette allo stomaco date da un’ansia piacevole quando sapeva che i cugini sarebbero tornati dall’America per le vacanze – le occhiate ammirate dei suoi studenti quando riuscivano a compiere un incantesimo complesso, gli sbuffi di Jade ogni volta che Maeve puliva i muri staccando magicamente i graffiti per riporli su pergamena da conservare. «facciamo un ultimo brindisi» Inspirò. Sollevò la tazza verso la birra del Maddox, ritrovandosi suo malgrado ad avere gli angoli delle labbra curvate appena in un sorriso. Cioè, quel quadretto era esattamente ciò che Dakota Wayne sognava da anni – lei e Jason intenti a chiacchierare e bere insieme? Un sognoh.
    E proprio per quello: «che questo rimanga fra noi» indicò loro due, le labbra posate sul bordo della tazza. «non sia mai che dak si faccia strane idee – poi crede che siamo amici, tsk» inarcò un sopracciglio, la gola a bruciare per l’alcool.
    Eppure un poco sorrise, perché magari, un pochino pochissimo eh, amici lo erano davvero.
    «non voglio davvero dimenticare» ammise, abbassando nuovamente lo sguardo sulle proprie mani. «era solo…un’idea» ingoiò un altro sorso, arricciò il naso e sibilò secca fra i denti. «stupida» specificò, tornando a guardare il ragazzo.
    Chissà se continuarono a bere. Chissà se Maeve, quel giorno, ruppe i suoi voti di castità sobrietà quali tornando la giovane ma sei mai stata giovane? che avrebbe dovuto essere: lo sapremo mai? No, perché qui concludo la role – vi lasceremo nel dubbio: Jason avrà drogato Maeve? Avranno parlato di draghi e cercato di volare? Avranno creato un saluto dell’amicizia in codice? Chissà. Immagino che fingeranno sempre che la serata non sia mai avvenuta, ma andiamo: ormai si sa, che la maeddox esiste.
    Ed alla fine, ma proprio alla vera fine, Maeve Regan Winston pronunciò LA parola – quella che mai, in vita sua, avrebbe creduto di poter rivolgere sinceramente a Jason Maddox. Priva di malizia o di sarcasmo, onesta e cruenta come una ferita aperta e richiusa – perché lo intendeva davvero, lei. «grazie.» Di cosa?
    Sempre di un po’ tutto, e di un po’ niente.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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6 replies since 24/3/2017, 03:22   340 views
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