[EASTER PARTY EVENT] Dallaire's Masquerade Party

« Older   Newer »
 
  Share  
.
  1. ;mjay
        +16    
     
    .

    User deleted


    Video



    Edited by #epicWin - 16/12/2018, 14:52
     
    .
  2. anti/hero
        +11    
     
    .

    User deleted


    tumblr_mn90sk4M7V1ryz1kdo9_500
    giphy
    tumblr_lrncs6xMKJ1qfe3iuo1_500
    A little party never killed nobody


    thedallaires
    if you bite, i will be fine -- easter party | london's manor | 22.00
    [ore 04.64 p.m.]
    Partì il sospiro, lento, misurato, mentre la donna si piegava avanti e lasciava che le mani scorressero lente sulla sua schiena, in quel massaggio sensuale e rigenerante. Se avesse potuto, non avrebbe avuto timore a chiedere di passare così la sua intera esistenza -o almeno gli anni che le restavano- ma in quel momento non poteva concedersi nemmeno il lusso di immaginare una vita simile. E in fondo a rendere preziosi quei momenti di pace era proprio il poco tempo a loro dedicabile-- la aiutavano a riprendersi, a ritornare ad indossare la maschera della donna che aveva deciso di diventare per stare al fianco del marito, e l'uomo -dal canto suo- apprezzava che la donna si concedesse quei momenti per se stessa. Non a caso erano una loro scelta le donne che si prendevano cura del suo corpo, come se si trattasse di un “investimento per il loro piacere di coppia”. E l'uomo, come lei, conosceva ogni nome, ogni volto celato dietro le maschere che avevano iniziato a distribuire nel pomeriggio-- nel suo piccolo era conscia di come la cosa stesse prendendo una piega inaspettata, quasi esagerata; ma se non erano esagerazione loro, chi altro si sarebbe preoccupato di creare scandalo?
    Girò appena il viso, posato sulle ginocchia lisce ma segnate dall'età che per gli altri andava definendo sempre più lontano il periodo della primavera: non per Adelaide Crochon. La donna possedeva una femminilità a dir poco provocante, accattivante, quel genere di donna che nell'avanzare degli anni si faceva sempre più femminile, sempre più sensuale. Guardò una delle giovani al suo servizio, riconoscendola nella chioma fiammeggiante-- l'intero viso era coperto dalla maschera, gli occhi velati di nero non permettevano di notare alcuna sfumatura del suo stato d'animo, e le labbra -appena visibili nel taglio della maschera corvina- erano dritte, in una piega severa, quasi austera come l'intera casa. La donna allungò una mano e andò ad accarezzare quella piccola porzione di viso scoperta; non un movimento, delicata strinse pollice e indice sul mento e la attirò a sé, catturandola in un bacio silenzioso, lento, intenso come il massaggio sulla schiena che ben presto la portò a mormorare di piacere sulle labbra carnose della giovane.
    Adelaide si tirò indietro appena, portandosi con la schiena contro il bordo della vasca e trovando, così, l'altra giovane impegnata nel massaggio; anch'ella con addosso una maschera uguale a quella dell'altra giovane, si chinò al suo orecchio baciandolo con dolcezza, seguendo la linea della mascella con labbra morbide e lente. Non servì un ordine, né un gesto, che entrambe le ragazze si avvicinarono alla donna coprendo di casti baci la pelle ad ogni suo respiro, rallentandone i movimenti fin quando, persa, non si lasciò sommergere dall'acqua, crollando sotto il sottile velo con un ultimo, arreso, sospiro.

    [ore 06.18 p.m.]
    Si aggiustò per un'ultima volta i capelli, sorridendo di riflesso alla propria immagine con una certa spietata arroganza. Sullo scrittoio restavano le ultime lettere, mai scritte, e l'inchiostro e la penna incantata erano ancora nella stessa posizione di qualche giorno prima, quando con pazienza s'era messa a scrivere di persona -o meglio, con la propria magia- i vari inviti. Non che li avesse scritti per tutti, per carità, ma i più importanti recavano la firma della padrona di casa, un elegante scarabocchio scarlatto-- perché l'inchiostro nero era così banale, a volte, e sul nero risaltava con una certa eleganza il rosso. Le era sembrato un dovere piacevole scrivere di persona ad alcune sue conoscenze, non appena lei e il marito erano giunti nella casa che non visitavano ormai da anni.
    Uno per uno, gli inviti erano stati mandati a poche conoscenze che Adelaide aveva ritenuto particolarmente intime, per motivi non troppo diversi fra loro. Di suo pugno era stata scritta la dolce lettera a Keanu Larrington, quell'epistola dove si era dilungata più del dovuto lasciando quasi cadere in secondo piano il motivo dell'invito-- del resto, alla donna sarebbe piaciuto conoscere, finalmente, la moglie di cui iniziava già a vociferarsi, e lei stessa era la prima a mettere in giro voci sulla fantomatica donna nella speranza che una di queste potesse portarla a manifestarsi... anche solo per dirle in faccia che certe cose poteva tenerle per sé. Era competitiva Adelaide, peccava di arroganza e spesso non mascherava la gelosia... ma in fondo al cuore, era una donna buona, o per lo meno non avrebbe mai recato sofferenza ad altri senza un ragionevole motivo. Amava se stessa, così come la sua famiglia-- inoltre amava le ragazze che lavoravano presso la sua dimora, e così i giovani... insomma, a sentirla parlare era davvero l'essere più affettuoso del mondo, se non fosse che-- «oh tesoro» chi bene la conosceva sapeva vedere il diavolo dietro quel sorriso dolce e quegli occhi caldi, e il figlio era solo una delle tre vittime principali dell'egoismo della donna. Aubert si fermò guardingo, maledicendosi fra sé e sé per molte cose: l'essere passato davanti a quella stanza, ad esempio, o più semplicemente l'aver accettato quell'invito tanto sentito da parte di una madre dal cuore straziato. Si fermò comunque, sebbene con una smorfia in viso, e fingendo di aggiustarsi i gemelli fissò con occhi glaciali l'avanzare della donna, fasciata in un abito rosso, sgargiante come il suo sorriso alla vista del maggiore dei suoi preziosi diamanti «sei splendido, un vero uomo» la lasciò prendergli i polsi e sistemare la camicia, ma negli occhi di Aubert non svanì il sospetto che portò la donna a premersi più contro di lui, prendendo ad aggiustare il colletto della giacca. C'era davvero qualcosa di malato in lei, e Aubert si augurava di cuore che non decidesse di sfogarsi su di lui, in quel momento... con una casa piena di giovani e ancora un figlio fra le mura domestiche-- non lui. «Presuntuoso pensare che sarei rimasto il tuo bambino per sempre» un serpente viveva in quella famiglia, e come le più famose aspidi, anch'egli preferiva restarsene nascosto sul fondo, tramando in silenzio mentre il resto della famiglia si perdeva nei propri vizi.
    Si staccò all'improvviso, causando un'incrinatura nel sorriso perfetto di una donna che ci aveva messo anni a creare ciò che da sempre aveva desiderato essere: austera, elegante, posata. Quei figli, per quanto sembrassero... impegnarsi per essere la sua disgrazia, non avrebbero potuto in alcun modo attentare alla sua perfezione; e per questo motivo Adelaide non si scompose più di tanto, né si lasciò andare ad una scenata-- cosa che non stupì Aubert, abituato ad una madre distaccata e pressoché assente. «Io scendo di sotto, poi sparisco» purtroppo Aubert era sempre stato quel cavillo, quella rosa in mezzo alle margherite, un qualcosa che sin da subito aveva stonato... più dell'effettiva assenza di poteri in Mephisto. Aubert non era mai stato un Dallaire, e ciò era stato sotto gli occhi di tutti sin dal primo istante, sin dal primo vagito di Mephisto. C'era nella loro villa chi sussurrava come il maggiore fosse geloso di quello che, all'epoca, veniva considerato il minore dei Dallaire... ma con l'andare avanti degli anni, la gelosia era divenuta pura crudeltà, qualcosa che una normale gelosia fraterna non avrebbe saputo spiegare. Aubert era crudele, e non vedeva l'ora di mostrarlo a chiunque osasse pararglisi davanti- la madre, ancora, non volle notare la freddezza degli occhi, cuore di madre, non poteva certo fermarsi a quelle sottili apparenze «non essere sciocco» lo ammonì con la medesima dolcezza dedicata ai suoi figli, ai suoi perfidi e crudeli figli «a breve giungeranno gli ospiti, immagino che i tuoi cugini vorranno vederti... da quanti anni non» non era facile aggiungere quelle parole, o rendere quella frase meno dura di quanto, in realtà, fosse; da quanti anni non fai ritorno a casa? Da quanti anni non vedi un solo volto amato?, ma era più probabile che Aubert non amasse nessuno, e preferisse la solitudine alla soffocante ipocrisia di quella casa. Ragionamenti a cui la donna non riusciva ad arrivare, e non per stupidità: s'era solo ingannata, da sempre, di essere stata una buona madre «non?» malvagio il sorriso incalzante; non attese risposta, e con passo deciso percorse il corridoio sino alle scale, abbandonando la madre in camera, in silenzio, persa negli ultimi preparativi per la propria egocentrica persona.
    Era complicato da spiegare, e nessuno si era mai preoccupato di chiederglielo.
    Aubert odiava quella famiglia. Odiava ogni cosa al suo interno, persino ogni componente.
    Odiava quei genitori egoisti ed eccentrici.
    Odiava quella schiera di servi di cui si circondavano; o le loro assurde feste, perché ovunque girasse gli occhi Aubert vedeva l'offesa, la cocente sensazione di essere di troppo in quella famiglia di disturbati.
    Odiava Mephisto, e forse aveva qualche motivo in più rispetto agli altri: viziato, arrogante bastardo-- era da sempre la pecora nera eppure i genitori avevano tanto investito su di lui, rendendolo l'attrazione della famiglia, la scusante per l'ennesimo grido allo scandalo. E quello stupido, che si lasciava usare in quel modo... lo trovava irritante, snervante, patetico.
    Provava -tuttavia- totale indifferenza verso Emeric, ma per una questione puramente d'ovvio: non lo conosceva. Lo vedeva lì, preoccupato ad organizzare i costumi dei vari camerieri, ad ordinare loro cosa servire e in quale ordine, e il modo in cui lo faceva era senz'ombra di dubbio autoritario... ma non vedeva nulla di promettente in lui, e forse proprio per l'essere nato in quella famiglia dove non avevi troppe scelte. Era solo l'ennesimo schiavo di quel personale girone degli inferi, ma non sentiva di odiarlo come il mezzano.
    Scese le scale, e naturalmente, la prima cosa che incrociò con lo sguardo fu una delle eleganti statue di ghiaccio -mantenuta intatta grazie alla magia- di cui la casa era stata saggiamente riempita. Una per stanza, tutte raffiguranti figure poco distinguibili se non ad uno sguardo attento: nudi, nudi di ogni genere-- levò gli occhi al cielo ignorando lo sguardo penetrante di un corvo. Erano dannatamente inquietanti quelle cose, se ne stavano sotto gli archi, agli angoli delle porte, con addosso quei lunghi becchi neri che sua madre trovava eleganti-- lui schifosamente inquietanti; e fissavano, in attesa di un ordine o un invito, con addosso poco più di corpetto e stivali. Figure slanciate ed eccessivamente magre, il suo primo pensiero fu di farne mangiare una... ma qualcosa gli disse che sua madre non sarebbe stata troppo d'accordo, per via della sua scelta estetica-- e del resto, non era così che voleva rovinare la serata. Aveva un altro paio d'ore per pensare a qualcosa di più scioccante ed efficace, di un corvo obeso.
    Seguendo la strada tracciata in modo implicito, percorse la sala principale e quella in cui si sarebbe dovuto ballare, finendo poi sull'enorme terrazzo della villa, da cui -a distanza- potevano vedersi le luci di Londra. Un venticello fresco tirava sul terrazzo, il minimo per distendere i nervi e tentare di scacciare il tocco della madre dai punti su cui era riuscita ad allungare i lunghi artigli da arpia.

    La donna strinse un calice fra le dita, ammirandone leggermente sorpresa l'aspetto, non nascondendo un certo orgoglio. Doveva ammettere che erano venuti bene, nonostante tutto, a partire dalla reticenza di Mephisto. Non sapeva se avesse sbagliato o meno, era andata piuttosto ad intuito e ricordo ma, degli ultimi anni, neppure Mephisto poteva davvero sapere quali fossero stati i cambiamenti del proprio corpo. Si lasciò riempire il calice di champagne e lentamente lo portò alle labbra, venendo tuttavia sorpresa da due mani calde sui fianchi, e una voce morbida all'orecchio «non posso smettere di fissarti mentre dissacri il nostro matrimonio» risero, con la medesima leggerezza dei primi anni, e nel voltarsi Adelaide non poté che sentirsi fiera per il marito che aveva preso al proprio fianco. Lo stesso pensò Nicolaj, che nel fissare la moglie aveva due braci al posto degli occhi, di quello sguardo apparentemente sempre calmo, distante-- per chi non aveva avuto la fortuna di finire come sua amante. Adelaide bevve e ripose il calice, sciogliendosi in una risatina accesa dallo champagne, mentre il marito ricomponendosi si avvicinava al tavolo per osservare con occhio critico le creazioni in vetro «davvero accurati» e sorrise, tornando dritto con le mani intrecciate dietro la schiena e gli occhi nuovamente sulla donna che anni prima aveva preso in moglie, insieme alle sue strane manie e gli innumerevoli vizi. E mai una volta avrebbe sputato su quel matrimonio, proprio perché i due coniugi non potevano essere più simili, più adatti l'uno alle esigenze dell'altra, e viceversa. Si incamminarono a passo calmo verso l'ingresso, lui con un braccio ai suoi fianchi «mi è giunta voce che, fra gli invitati di cui ti sei preoccupata di scrivere una lettera, vi fossero anche dei Black» non fu severo, tanto meno stizzito-- come se avesse unicamente voluto far notare ad una cameriera la posizione invertita di due posate, una questione da poco ma che suonò spinosa ugualmente. Non per Adelaide, che alzò le spalle «se può rasserenarti ho spedito anche una lettera ai nostri amati nipoti, ai Winston, a Keanu e moglie, e ad un altro paio di amici» e proseguì a testa alta, azzardando una certa malizia nel sorrisetto più fine, ma decisamente provocatorio. Non aveva avuto modo di parlarne al marito, ma non pensava che ne fosse all'oscuro-- mai erano all'oscuro di qualcosa che riguardasse i loro figli, e non perché fossero genitori particolarmente apprensivi... semplicemente, su certi argomenti Adelaide Crochon pretendeva di essere informata, e il fatto che Mephisto avesse volontariamente deciso di ignorare la figura della giovane Black -o come adesso veniva passata- l'aveva offesa più dell'assenza in quei tre anni. I figli andavano e venivano, del resto, e quelle serpi in casa non erano certo motivo di gioia per la donna. «Mi auguro solo, di cuore, che accettino tutti l'invito... è un'occasione così importante per il mio bambino, sarebbe un peccato non condividerla con tutta la famiglia e i suoi cari» e morbidamente andò ad appoggiare la testa contro la spalla del marito, fissando l'uscio ancora chiuso in attesa dei primi festeggiati.
    E mentre i due coniugi aspettavano in silenzio, stretti l'uno affianco all'altra come al giorno delle promesse, gli ultimi preparativi venivano completati alle loro spalle-- le luci spente, i piatti elegantemente disposti, bottiglie di champagne allineate, in attesa di venire aperte ad un solo preciso comando. E mentre moglie e marito indossavano le proprie maschere, intrecciando le braccia come due romantici adolescenti, dall'altra parte della casa qualcuno aprì una porta, e la casa cadde nel silenzio.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Adelaide
    Aubert
    Nicolaj

    Benvenuti all'evento pasquale dell'oblivion ♥
    Intanto, se siete stati furbi e avete subito aperto questo spoiler (messo qui in fondo giusto per eleganza), vi siete saltati il post- e avete fatto bene, io stessa vi chiederei di non leggerlo se non fosse poco etico #wat
    Intanto, come già preannunciato dal bellissimo video qui sopra (grazie Ele, piango da una settimana ormai), l'evento sarà una festa in maschera, precisamente nella tenuta estiva dei Dallaire, vicino a Londra.
    Ora, la festa on game è datata 14 aprile, ore 22.00. Durerà on game tutta la notte, mentre per le tempistiche vere e proprie posso dirvi solo che -fra circa una settimana- qualcosa cambierà nell'evento, per rendere più movimentata una festa che vi creerà solo disturbi. #utenteavvisato
    Il tema della festa (perché uno serve, dai) è il seguente... e prestate molta attenzione, perché se dico tema intendo davvero tema: il ritrovato aspetto di Mephistopheles Dallaire, secondogenito della famiglia. Questo vuol dire che, oltre alle stranezze solite, Adelaide non ha mancato di lanciare nella festa dei “messaggi subliminali”, in modo da farvi ricordare il motivo della festa-- calici, candelieri, cannucce, qualunque oggetto apparentemente ingenuo (wat) avrà una forma fallica di questo tipo... e se volete bere, vi tocca. ♥
    Inoltre la casa è in penombra, le uniche fonti di luce sono le candele, disseminate un po' ovunque- tranquilli, non starete al buio, se non lo vorrete mlmlml. Altra piccola cosa: nelle stanze adibite alla festa sono state posizionate statue di ghiaccio raffiguranti scene d'amore (diciamo così), e inoltre ad ogni porta -anche quelle per ora chiuse- troverete delle giovani donzelle mascherate da corvo, apparentemente morte immobili, silenziose. Nulla di che -per ora- sappiate solo che se vi sentite vagamente a disagio, è colpa loro-- tranquilli, non mordono. Per. Ora.

    Direttive generali:
    • può partecipare chiunque, personaggio vero, in costruzione o fittizio; tuttavia deve aver ricevuto l'invito per uno dei seguenti motivi:
    familiari (embè)
    - docenti e assistenti di Hogwarts, la mamma #wat ha pensato bene di invitare gli amici di Mephisto
    - studenti di Hogwarts, con le dovute precauzioni (fuggite, sciocchi)
    - ribelli (ogni ribelle è stato invitato, essendo una famiglia fortemente attiva nella resistenza)
    - amici di famiglia (insomma, amici ne avranno eh, se ne accettano di tutti i tipi)
    • ogni invitato avrà diritto ad un solo accompagnatore, altro motivo per portare personaggi che non riuscite ad incastrare in alcun modo.
    • per raggiungere la villa i Dallaire hanno messo a disposizione delle auto con tanto di autista Esteban. In ogni caso c'è un camino nel salone, per chi preferisse venire con la Metropolvere.
    obbligatorio indossare una maschera, che tuttavia ad un certo punto della serata sarete liberi di togliere.
    • le stanze per ora accessibili sono le seguenti, tutte al piano terra: ingresso (zona d'arrivo, guardaroba, accesso -riservato- alle stanze superiori), salone principale (divani, poltrone), sala da ballo (pista, bar, tavolate di cibo), terrazzo (bella vista #wat, tavoli, cibo e bevande); l'entrata sarà giocata in queste sale, ma dalla prossima settimana stay tuned che qualcosa cambierà zanzan.

    Sperando di non aver dimenticato nulla, di nuovo, BENVENUTI A CASA DALLAIRE ♥
    Per qualunque cosa non esitate a chiedere ma, soprattutto, a partecipare!


    Edited by anti/hero - 26/4/2017, 00:22
     
    .
  3. ;mjay
        +8    
     
    .

    User deleted


    callingyourname
    DRESS ; MASK ; SHOES -- ex Slytherin | 18 Y.O. | Neutral
    Holly rimase ad osservare, assorta nei suoi pensieri, fuori dalla finestra.
    Era divenuta ormai sua consuetudine, il suo unico passatempo, che di tanto in tanto interrompeva per dedicarsi alla maglia. Ma oramai, la stancava anche quello: le dita non erano più agili come prima, non rispondevano più bene alla sua volontà, il suo corpo la stava abbandonando e lei riusciva ad avvertirne ogni spasmo.
    La malattia le aveva intaccato ogni nervo muscolare, ma lasciato integra la testa, una gentilezza crudele che la rendeva cosciente di ciò che sarebbe presto divenuto inevitabile.
    Ormai si era arresa all'evidenza. Aveva abbandonato ogni tentativo di alzarsi, di provare a camminare senza aiuto. Era un favore fatto a sé stessa e ad Amelia, quella povera ragazza, che ad ogni sua ostinata e goffa impresa di affrontare le più banali attività quotidiane doveva raccogliere i cocci dei suoi fallimenti.
    Sua figlia non le diceva nulla quando per versarsi del tè questo finiva sul tavolo invece che sulla tazza, si limitava a sorriderle, dicendo di quanto fosse banale un simile incidente, che andava tutto bene, per poi ripulire come se nulla fosse successo. Ma poteva leggerle nello sguardo la consapevolezza di quanto stesse accadendo, la sua sofferenza che mai una volta si era azzardata a confidarle per non renderle più difficile e gravosa una situazione già tragica.
    Abbassò lo sguardo sulla piccola busta posata fra le coperte del divanetto.
    L'aveva scritta mesi prima, quando riusciva ancora a stringere fra le dita la penna d'oca, ma ne ricordava ogni parola, ogni virgola, e la fatica che le era costato scriverla. Aveva giurato, quel giorno di fronte a quel portone scuro, di non chiedergli più nulla, di non ricercarlo più, ma quella malattia le aveva portato via tutto dalla dignità, quando aveva accettato che la sua stessa figlia si prendesse cura di lei, all'orgoglio, quando aveva deciso di rimangiarsi quelle parole.
    L'unica cosa che riusciva a rincuorarla alla vista di quella carta ingiallita era il pensiero che lo stava facendo per sua figlia, per non lasciarle soltanto un mucchio di debiti e il ricordo di una triste donna la cui vita era stato un misero fallimento. Sperava di essere stato un modello migliore come madre che non in scelte di vita.
    Sospirò, raccogliendo con mano tremante la busta e nascondendola fra le altre sul comodino vicino, prima che Amelia potesse vedere a chi fosse diretta.
    Si sentiva meschina, prima le aveva nascosto la malattia finché l'evidenza non era stata innegabile, ed ora questo. Probabilmente l'avrebbe odiata e Holly non la biasimava. Troppi segreti. Troppi misteri. E presto sarebbero tutti caduti sulle sue spalle, senza di lei. Che madre avrebbe lasciato la propria figlia in mezzo ad un covo di serpi pronte a morderla?
    Eppure era necessario, per il suo bene. Sarebbe stata più al sicuro con loro, lontana da lei, da quella malattia che aveva iniziato a divorare entrambe, dai pesi dei suoi segreti che presto l'avrebbero schiacciata.
    Inspirò ancora una volta, asciugandosi le lacrime quando sentì i passi della figlia risalire gli scalini.
    « ciao mamma » la salutò posando i sacchetti della spesa sul tavolo « ho comprato un po' di pesce con i risparmi, quello che ti fa bene » le sorrise, leggermente affannata per lo sforzo di aver portato le buste da sola, ma nella sua voce non c'era nessuna traccia di risentimento o stanchezza.
    Holly piegò la testa, allungando un braccio per invitarla a stringerle la mano, oh era fortunata ad averla e spesso si chiedeva come avesse potuto uscire da lei una così splendida ragazza, ormai donna.
    Amelia le si avvicinò sedendosi sul bordo del divano, posando la testa sulla sua spalla come faceva quando era bambina, mentre Holly le leggeva le storie. Le sembravano ricordi lontani, irraggiungibili.
    « non dovevi tesoro, davvero » mormorò lasciandole un bacio sulla nuca.
    Amelia si alzò appena, voltandosi per guardarla « stavo pensando che potremo andare in campagna nel weekend, l'aria pulita potrebbe aiutarti un po', ti ricordi quella collina piena di girasoli in cui facevamo i picnic? »
    Socchiuse gli occhi, annuendo lievemente. Amelia non si sarebbe mai arresa con lei. Mai. Si sarebbe lasciata trascinare a fondo con lei, ed Holly non poteva permetterlo.
    « oh tesoro, mi sono scordata di farti imbucare delle lettere stamattina... quando usciresti potresti imbucarle? Evita la posta Babbana però, meglio un gufo »
    Non parve minimamente sospettosa della richiesta, viste le sue condizioni di salute non era la prima volta che le chiedeva di uscire per delle commissioni.
    « a proposito di posta... » si puntellò sui gomiti, sistemandosi meglio a sedere « oggi è arrivato per te un pacco mentre eri fuori, fortuna che il vicino è stato così gentile da portarlo dentro casa o io non avrei saputo come fare » disse indicando con un cenno della testa l'altro angolo della stanza dove era stata sistemata una scatola scura, chiusa da fiocchi bordeaux e viola.
    Amelia corrucciò le sopracciglia, evidentemente sorpresa « un pacco? Da parte di chi? »
    « non ne ho idea, ho aspettato te per aprirlo »
    Amelia si alzò, avvicinandosi circospetta al curioso regalo, ci girò attorno studiandolo con attenzione.
    « oh sono curiosa da quando è arrivato, non farmi aspettare oltre! Portalo qui e aprilo, no? » la incitò ridendo, facendole segno di farsi più vicina. Esortata, Amelia tornò da lei sistemando il voluminoso pacchetto fra le gambe quando si fu di nuovo seduta accanto alla madre.
    « sembra piuttosto importante » mormorò sua figlia passando le dita fra i nastri e i fiocchi, sembrava timorosa di aprirlo, come se si aspettasse che dal suo interno potesse uscirne chissà quale bestia feroce.
    « Preferisci che ti lasci sola? »
    « no, ma è strano... non ricevo molta posta simile » puntualizzò decidendo alla fine di mettere da parte ogni scrupolo e sospetto. Tirò i capi dei nastri di velluti e lo scatolone si aprì con essi rivelando tre scatole più piccole e separate, assai meno voluminose ed una lettera.
    Holly guardò Amelia piuttosto stupita « ha l'aria di essere... complesso. Mi stai forse nascondendo qualcosa cara? »
    Le guance della figlia si colorarono di un delicato rossore « no! »
    « farò finta di crederti... » le lanciò un ultimo sguardo sospettoso e divertito, prima di afferrare la lettera e porgergliela « avanti, da parte di chi è? »
    Amelia afferrò tra le mani la piccola busta scura, ornata da disegni cremisi e d'oro sui bordi. Il sorriso le si spense sulle labbra quando lesse il nome ed il suo tono divenne improvvisamente freddo, ostile « è da parte della famiglia Dallaire »
    Holly rimase in silenzio, studiando il volto della figlia. Non l'aveva mai vista così... sconvolta.
    Sui suoi occhi poteva leggere fin troppe emozioni contrastanti, le posò una mano sulla spalla « puoi sempre buttare via tutto se non ti interessa »
    Amelia si voltò, sorrideva di nuovo, ma il volto era più teso. A disagio. « no va bene, non ti preoccupare mamma »
    Alzò le sopracciglia, poco convinta, ma lasciò muti i suoi dubbi e non li espresse alla figlia. In fondo era abbastanza grande da poter decidere da sola come gestire la sua vita, a lei oramai era rimasto solo il ruolo di appoggiarla e consigliarla quando ne aveva bisogno.
    Ma erano tante le cose che voleva chiederle: prima di tutto, cosa potevano volere i Dallaire da lei.
    Nonostante non conoscesse nessuno dei suoi membri personalmente, la loro fama nel mondo magico li anticipava. Inoltre ricordava perfettamente quanto Celia Black in realtà, dietro alla facciata di pacata sopportazione, non li sopportasse. Questo le sarebbe dovuto bastare per farseli rimanere simpatici, ma era difficile scordarsi le restanti voci sui loro passatempi preferiti.
    Mentre Amelia rompeva il sigillo di ceralacca, Holly ne approfittò per dar sfogo alla sua curiosità. Si sporse appena, aprendo una delle scatole, la più piccola.
    Al suo interno qualcosa brillò, proiettando sul soffitto decine di riverberi dorati quando la luce del sole ne rivelò il contenuto. Al suo interno vi era una maschera.
    Intricati fili dorati, impreziositi qua e là da cristalli preziosi, si intrecciavano e curvavano per disegnare un intricato disegno simile ad un pizzo metallico. Mai in tutta la sua vita avrebbe mai potuto permettersi una cosa simile.
    « per le mutande di merlino »
    La sua esclamazione di sorpresa dovette finalmente far voltare Amelia, prima totalmente assorta nella lettura, e la sua reazione non fu poi così diversa.
    « è-è bellissima... » mormorò la ragazza, sfiorandone con dita tremanti i bordi, quasi avesse timore di rovinarla.
    « vuoi spiegarmi cosa sta succedendo? »
    Amelia scosse la testa, sembrava confusa, come se mille pensieri le stessero bombardando la testa ma alla fine balbettò un imbarazzato « è un invito per una festa »
    « non credo che forniscano a tutti gli invitati un simile trattamento... »
    « è complicato... »
    « immagino »
    « non ci andrò »
    Holly fissò la figlia, accigliata « aspetta... cosa? »
    Il volto di Amelia era duro, ripiegò la lettera accartocciandola fra le mani « non ci andrò... io... non voglio vederlo » asserì, probabilmente più a sé stessa che rivolta a lei e si alzò decisa, come se avesse appena emesso la sentenza finale. Nel farlo la busta scivolò sul pavimento e dal suo interno cadde un biglietto più piccolo che prima doveva esserle sfuggito.
    Quel piccolo quadrato di cartoncino catturò la sua attenzione, facendo correre in secondo piano domande come “Chi vorresti esattamente non vedere?”, lo raccolse e mentre la figlia stava sfogando la sua frustrazione sulla lettera che finì, arrotolata in una palla di carta, dall'altra parte della stanza, Holly lesse le poche righe vergate a mano su quel curioso biglietto.
    Sorrise, addolcendosi, guardando da sotto le ciglia la figlia.
    « bene, non farò domande ma... » le porse il cartoncino rosso « chiunque ti ha mandato tutta questa roba ci tiene davvero tanto che tu ci vada »


    Amelia si fissò un'ultima volta allo specchio.
    Stava davvero per farlo? Eppure fino a qualche ora prima era ben ferma sulla sua decisione ed era convinta che nulla avrebbe potuto farle cambiare idea, almeno finché sua madre non le aveva messo fra le mani quel piccolo biglietto, aggiunto all'invito in un secondo momento.
    Aveva davvero una forza di volontà così debole? Le erano bastate poche parole gentili ed ogni intenzione era caduta, baluardo di un principio che ora le appariva quasi infantile.

    Cara Amelia,
    i miei genitori hanno organizzato una festa in mio onere. Costretto a portare una compagna, non ho potuto che pensare a te.
    Spero che mi perdonerai per... beh... per tutto.
    Vorrei vederti.
    Di seguito le indicazioni per raggiungere il luogo della festa.
    Spero non ti offenderai se ho pensato di procurarti un abito per l'occasione.

    Mephistopheles



    Si rigirò per un'ultima volta quelle parole fra le dita, la carta si era crepata dalle volte in cui aveva piegato il biglietto, per poi riaprirlo solo per rileggerlo.
    Amava concedere seconde possibilità, aveva quella romantica e malsana idea che chiunque potesse rimediare ai propri errori. Doveva crederci per la sola illusione di poter credere di riuscire a perdonare suo padre semmai avesse deciso di tornare per lei, per loro. Ed allora perché era ancora così restia ad accettare quell'invito?
    Ricordava perfettamente gli eventi in ospedale, tutto ciò che era avvenuto prima e soprattutto dopo.
    Le aveva mentito. E questo avrebbe potuto accettarlo se ad un certo punto avesse accettato di dirle la verità di sua spontanea volontà, senza che questa le fosse caduta violentemente addosso. E nonostante questo, aveva dovuto strappargli le parole di bocca, come se i mesi passati assieme a conoscersi non fossero stati nulla se non sabbia nel vento.
    Non si era dimostrata più che una volta degna della sua fiducia? Tutte quelle pozioni di Amortentia preparate di nascosto senza che nessuno scoprisse mai il suo segreto, la sua dipendenza.
    Come se non bastasse aveva usato i suoi poteri su di lei. L'aveva usata come prova per le sue abilità, una sorta di rodaggio.
    Ed infiniti altri motivi andavano ad aggiungersi alla lista.
    Eppure non riusciva a scrollarsi di dosso il pensiero di quel biglietto, di quelle parole, di quelle scuse. Alla fine cosa sarebbe potuto succedere?
    Era solo una notte.
    Sarebbe andata là, avrebbe sentito ciò che aveva da dire e solo allora avrebbe deciso. Sì, era la decisione migliore.
    E sperava davvero che Mephisto credesse nelle seconde occasioni quanto lei.
    Si sistemò per un'ultima volta le pieghe del vestito rosso che le aveva regalato, era più pesante e voluminoso di quello che le aveva lasciato credere quando era ripiegato ordinatamente all'interno della scatola. Inutile dire che non era il suo genere.
    Il corsetto quasi le impediva di respirare e ad ogni passo temeva di rimanere incastrata fra le stoffe della gonna, ma lì in piedi davanti allo specchio, non poteva fare a meno di pensare che fosse bellissimo.
    Raccolse la maschera dalla cassettiera e la legò dietro la nuca, appena sopra i capelli raccolti. Era pronta.
    Si morse il labbro, era tesa come non lo era mai stata, persino i M.A.G.O a confronto erano una tranquilla passeggiata fra i boschi. Temeva le parole che avrebbero potuto uscire dalle labbra del ragazzo, a stento riusciva a credere che fosse davvero riuscito a scrivere quel biglietto... ma quella bambinesca e disillusa parte di lei che premeva per vederlo, voleva farle credere che sarebbe andato tutto bene. La loro non era mai stata una relazione normale -sempre che tale si potesse definire-, a dire il vero sembrava più un tacito accordo di sopportazione, e non credeva che vi fossero davvero dei sentimenti nei suoi confronti dall'altra parte... in quanto a lei, beh, le sue emozioni al riguardo somigliavano più ad una matassa intrecciata di cui nemmeno lei riusciva a trovare il capo.
    Perciò, quando afferrò una manciata di Metropolvere nella mano, si chiese se c'era veramente qualcosa da salvare.
    « villa Dallaire »
    Una nube di fumo e cenere la ingoiò e poco dopo si ritrovò immersa in un mondo che sembrava uscito da qualche libro. Rimase qualche momento imbambolata, fissando quelle figure mascherate sfilarle davanti, e quasi stentava a credere di essere sveglia. Afferrò fra le dita la stoffa della gonna e con un passo più lungo superò il caminetto ritrovandosi nel lussuoso salotto di quella che doveva essere casa Dallaire.
    Si guardava attorno, in un misto di stupore e imbarazzo, sentendosi quasi fuori posto in un simile ambiente. Se anche avesse conosciuto qualcuno, le maschere rendevano impossibile o comunque molto difficile, riconoscere chi vi si celava dietro. In mezzo a così tante persone, in un'atmosfera così caotica e carica di... beh, qualcosa che Amelia avrebbe potuto tranquillamente definire euforia, si chiedeva come sarebbe riuscita a trovare Mephisto.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by t r o u v a i l l e - 15/4/2017, 01:26
     
    .
  4.     +9    
     
    .
    Avatar

    you want to take the lead and hurt first.

    Group
    Rebel
    Posts
    485
    Spolliciometro
    +1,048

    Status
    Offline
    raise hell, kid
    cj knowles
    tell 'em winning is my motherfuckin' protocol -- mask + outfit +

    marzo 2013


    «puoi uscire» una donna dall’aspetto austero ed i capelli biondi stretti in una coda alta, fece scivolare verso CJ una scatola del tutto anonima: i suoi effetti personali. Era così che funzionava, nel sistema: ti spogliavano di tutto ciò che avevi, di tutto ciò che eri, e ti lasciavano privo d’identità in un mondo dalle facce tutte uguali. Tenne il capo chino, l’ancora undicenne Reynolds; se l’agente di polizia fece caso alle sottili dita tremanti del ragazzino, non ne fece mostra. Caleb Jefferson Reynolds, recitava il nero tratto del pennarello indelebile. Non che il nome avesse mai avuto importanza, per CJ: Chester Jacob Bukowski, Clarke Jeremiah Dahl, Cedric Jonathan Moloney, Clinton Jordan Wirth. Caleb Jefferson Reynolds era solamente uno dei tanti, fra i tanti, nomi con cui era stato chiamato.
    L’unico che fino a quel momento avesse avuto importanza. Serrò le mani attorno alla confezione, dove una sacca sportiva spuntava dai bordi: conteneva il suo skateboard, lo sapeva; si chiese distrattamente se ci fosse ancora la bottiglietta di plastica vuota di otto mesi prima, o se qualcuno fosse stato così garbato da buttarla al posto suo.
    Le labbra sottili si curvarono in un sorriso così crudele ed amaro, che per un istante si dimenticò come si facesse a respirare, o se mai ne fosse stato in grado. Perché ricordava tutto, CJ, dell’estate duemiladodici – del suo capo d’accusa.
    Fottutamente tutto.
    Osservò di sottecchi i suoi tutori legali firmare i documenti necessari a farlo rilasciare dal carcere minorile nel quale era stato sbattuto lunghi mesi prima, il sorriso cordiale e brillante con cui, da sempre, i Reynolds avevano risolto ogni conflitto. Il signor Reynolds gli diede una pacca sulla spalla, mentre la signora Reynolds lo strinse brevemente a sé. E lo sentì, CJ: in quell’abbraccio, sentì che mancava qualcosa. La posa rigida della schiena, gli occhi duri a brillare sotto le asettiche luci al neon del corridoio. Ignorò il vuoto allo stomaco continuando a camminare, il labbro inferiore ancora tumefatto ed un taglio mai del tutto rimarginato a deturpare parte del viso. Ovviamente, gli agenti fecero finta di non vedere – come avevano finto di non sentire le grida, ed i pugni a cozzare contro la carne, ed il sangue a macchiare le federe. Funzionava così, con le forze dell’ordine: avevi un sorriso come quello di CJ, ed eri istintivamente classificato come delinquente.
    I Reynolds non gli chiesero neanche come se lo fosse fatto.
    Usciti dalla centrale, il sole sulla pelle fu così inaspettato da costringerlo a soffocare un brivido, le palpebre socchiuse su un paio d’occhi trasparenti, iridi verdi sporcate d’azzurro. Trasparenti perché sinceri, e perché come vetro bastava sfiorarli per tagliarcisi. Affilati e seghettati quanto il viso spigoloso del ragazzino, quanto il ghigno spietato che prometteva guai. «tesoro…» odiava la dorata ipocrisia nel quale gli esseri umani si cullavano credendosi al sicuro. Odiava la falsa gentilezza con il quale credevano di tenersi pulita la coscienza, come se bastasse profumare di menta piperita per nascondere l’odore di stronzo. Strinse i denti e si irrigidì, ma non alzò lo sguardo. «caleb…» «cj» corresse svogliatamente, la lingua ruvida contro il palato e l’ironia pungente sulla bocca. CJ, solo CJ – almeno quello, almeno sempre. Dato che il metodo della moglie non funzionava, l’uomo di casa si fece avanti: lanciò a CJ una busta gialla, spessa e pesante, ed istintivamente il ragazzino la strinse fra le mani. Si era aspettato un cazziatone, lui; si era aspettato di essere giudicato un mostro, l’ennesimo. Si aspettava di dover giustificare di esserlo diventato per colpa di gente come loro. Si era aspettato tante cose, CJ, ma tastando la busta si rese conto di aver ignorato quanto in basso potesse cadere il genere umano. «mi state pagando come una puttana?» la signora Reynolds si portò una mano alla bocca, come se la parola puttana l’avesse ferita. Non aveva mai compreso perché i ricchi trovassero tanto deturpante il linguaggio scurrile che morbido scivolava sulle stesse strade dove anche loro posavano i loro piedi dentro le cazzo di Prada. Lei lo guardò cercando di interpretare un idioma sconosciuto, lui ricambiò con la malizia di chi, da quel mondo di merda, aspettava solamente un altro calcio nelle costole. «preferisci troia?» «basta così» CJ sapeva cosa significava quel pacco. Troppi film, troppo tempo passato in luoghi poco raccomandabili, troppa corruzione in una vita così breve. «non tornare a casa. quei soldi ti dovrebbero bastare» Non tornare a casa. A CJ non fregava un cazzo, dei Reynolds, né della loro bella casa con piscina e fottuta sauna. Non gli importava di avere un materasso più grande del suo ultimo appartamento, né di avere sempre abiti puliti e profumati ad attenderlo al mattino. Non era quella, casa sua. Non era quello. Abbassò lo sguardo sulla busta, nascondendo la fitta di puro terrore che quelle parole avevano portato con sé.
    Era spaventato. Lo era da un pezzo, in realtà – lo era da sempre. Annuì e basta, ricacciando indietro le lacrime con la stessa feroce violenza con la quale aveva fracassato il comodino sulle sbarre della sua cella. Ed era arrabbiato. Lo era da un pezzo, in realtà – lo era da sempre.
    La piega che prese il discorso fu assai prevedibile, ma non per questo attenuò il senso di soffocamento del giovane uomo. «hai ucciso un ragazzo, caleb»
    Non aveva argomenti con cui ribattere.
    L’avevano trovato sul luogo del delitto, sporco di sangue della vittima – e l’avevano trovato a ridere, il viso nascosto fra le mani, di quelle risate malate e folli che impregnavano le pareti lasciando un segno indelebile. Avevano collegato l’evento all’incendio avvenuto nella casa dove CJ abitava prima di essere adottato dai Reynolds, ed avevano ritenuto di avere abbastanza capi d’accusa per tenerlo al fresco per un po’. Era tutto vero, sapete. Era stata colpa sua. Lui, aveva dato fuoco a quella fottuta casa. Lui, aveva ucciso quel ragazzo.
    Se qualcuno, chiunque, in quel momento gli avesse detto che non era vero, che non era stata colpa sua, forse la sua vita avrebbe preso una piega diversa. Sarebbe stato un ragazzo diverso, Caleb Jefferson Reynolds: avrebbe preso bei voti a scuola, la divisa sempre stirata; avrebbe trovato un buon lavoro, non si sarebbe mai sporcato le mani. Non sarebbe caduto nell’abisso delle dipendenze, fossero sesso, droga, o alcool. Non avrebbe cominciato a fumare così tanto da sentire catrame in ogni fottuto ansito di mezza vita. Avrebbe superato i traumi infantili, crescendo come un uomo più forte, temprato – e se non gentile, perlomeno non brutale.
    Ma nessuno lo fece. I Reynolds non gli dissero che la magia era fatta così, imprevedibile; che si era arrabbiato, e non era riuscito a controllarlo, ed era stata una maledetta tragedia, ma non era colpa sua. Non era colpa di CJ, se in quella casa gli avevano spaccato tre costole a furia di prenderlo a pugni. Non era colpa di CJ, se quel ragazzo aveva minacciato di trascinarlo di nuovo al Rodere, dove quelli come lui non sopravvivevano alla notte. Dove lui stesso, c’era morto più di una volta.
    Nessuno gli disse un cazzo di niente, invece. Nessuno si chiese perché l’avessero trovato raggomitolato sul marciapiede di una casa a pezzi, le lacrime a rigargli le guance, a poco più di cinque anni; nessuno si chiese perché, otto mesi prima, le sue mani fossero strette sui tagli dell’altro, cercando di impedirne l’emorragia.
    La gente si poneva solo le domande errate, e quando gli interrogativi erano quelli giusti, cercavano le risposte sbagliate. Perché alla gente, sostanzialmente, non fregava un cazzo dei bambini come CJ – l’ennesimo bambino sputato in strada da genitori che non l’avevano voluto, abbandonato in una fottuta landa dove la gente si suicidava con la stessa frequenza con cui si cambiava le mutande. Di facce senza nome, senza identità e senza radici, il mondo se ne sbatteva le palle.
    CJ non era un cazzo di nessuno, se non il frutto di un sistema malato.
    «non possiamo permettere che bernie…» Bernie. Rise, scuotendo le spalle troppo magre con una voce troppo vecchia. Le labbra formarono la parentesi di una vita, mostrando i denti bianchi nascosti poco dietro. Di una vita segnata prima ancora che CJ potesse scegliersela. Bernie. La spietatezza di quella risata si tradusse in un singhiozzo lungo e disperato.
    Bernadette Julien Reynolds.
    CJ neanche aveva mai saputo cosa significasse casa, prima di conoscerlo. Sentire la mancanza di qualcuno, sapete. Fiducia, affetto, la calda sensazione di avere sempre un battito a riflettere il proprio. BJ era tutto ciò che CJ non era, né mai, sarebbe stato; non avevano nulla in comune, se non quella stupida J ed il cognome nel quale entrambi erano stati infilati. Perfino nel sistema, erano frutti di alberi differenti: quello marcio, e quello così perfetto da temere di corromperne la rossa superficie con un morso. Non credeva sarebbe mai stato in grado di amarlo come un fratello, o di amare e basta: poi i loro vicini di casa avevano cominciato a prendere in giro BJ, ed il sorriso di lui s’era fatto più opaco. Poi la notte si rigirava nel letto in preda agli incubi, e CJ si ritrovava a doverlo svegliare. Poi BJ vantava nuove macchie violacee sul costato, e CJ si scopriva furioso.
    Non se n’era neanche accorto quando il proprio sorriso, almeno nei confronti del Reynolds minore, era divenuto sincero. Era successo e basta, come quella promessa siglata sotto un cielo vuoto dove CJ giurò che nessuno avrebbe mai fatto del male a Bernadette. Gli spettinati capelli ramati, le sopracciglia folte, la risata allegra che premeva perfino ad un indolente CJ di piegare gli angoli delle labbra in una smorfia meno danneggiata.
    «…che Bernie?» incalzò, lasciando che il sentore agrodolce del sangue, segno che i denti avevano perforato la guancia, imbrattasse la domanda di scherno. «tu lo rovini. Sei un pericolo per te stesso e gli altri. uccidi tutto quello che ti circonda»
    Beata sincerità.
    E CJ finse che ognuna di quelle parole non fosse una stilettata dritta fra le costole; finse di non sentire la gola così stretta da non saper più come ingoiare aria. Finse di non morire, ad ogni affermazione del signor Reynolds.
    Perché era la verità. La temibile, sferzante, assassina verità. Quella maltrattata, che nessuno usava mai. Forse neanche si rese conto, l’uomo, di aver appena ucciso un ragazzo – o forse dieci, o forse i cento, tutti quelli che non sarebbe mai diventato. Era spaventato, Cj, ed arrabbiato. Distrutto. Fili di fumo che andavano dissipandosi nell’aria, lasciando solo il ricordo di ciò che erano stati. Perché Bernie, era la sua famiglia. Bernie, era casa. Con lui respirare era semplicemente più facile, capite. Come se avesse atteso a lungo di riemergere a recuperare aria, e lui fosse stato l’ossigeno. Non l’aveva reputato una minaccia, con quel sorriso sdentato di bambino di cinque anni; non aveva ritenuto opportuno difendersi, ed aveva lasciato non solo che entrasse nel suo cuore, ma che gli mostrasse d’averlo sempre avuto.
    Ogni bambino cercava il proprio posto nel mondo. E CJ, lo sapeva, che il suo posto era con BJ – e non gli importava dove, con chi, né cosa avesse dovuto passare per arrivarci.
    E lo odiava, per quello. Perché se non gli avesse dimostrato di avere un cuore, non l’avrebbe sentito incrinarsi.
    Perché aveva fatto una promessa, CJ – non Caleb Jefferson, Chester Jacob, Clarke Jeremiah, Cedric Jonathan, Clinton Jordan: CJ.
    Nessuno avrebbe fatto del male a BJ. Semplicemente, non aveva creduto che un giorno lui stesso sarebbe diventato quel Nessuno.
    Uccideva tutto quello che lo circondava. Come un tumore, tessuto malato ad intaccare organi sani, prendendo senza dare mai. Strappava le foglie ai fiori più belli, CJ. Rideva quando lo supplicavano di smettere.
    Gli avevano insegnato ad essere così.
    Rise. Di punto in bianco, senza alcun motivo apparente, Caleb Jefferson rise. Scosse il capo, gli occhi alzati al cielo per asciugare le lacrime. «e cosa direte, al figliol prodigo?» ma si sentiva, in quell’amara ironia che si sforzava di suonare fradicia e furiosa, che la violenza era ripiegata solo su sé stesso; che era una domanda disperata, futile, perché aveva già fatto la sua scelta. «sei molto maturo per la tua età» disse l’uomo, al bambino dallo sguardo adulto.
    Non si sopravviveva, con l’innocenza negli occhi. «non è una risposta» doveva sapere. Voleva sapere che almeno per uno dei due, la vita, avrebbe fatto un po’ meno schifo.
    Che poi, diciamocelo: anche CJ sarebbe stato meglio, senza i Reynolds. Non aveva bisogno di loro, poteva cavarsela perfettamente da solo. Le famiglie erano sopravvalutate, mera convenzione sociale. Il mondo cercava di schiacciarlo, di comprimerlo sotto la suola come una chewing gum sui marciapiedi di Londra? Bene: avrebbe dimostrato a tutti, a tutti, che avevano ragione. Danneggiava, ed uccideva, e rompeva - e vinceva, e sopravviveva: ed uno ad uno, avrebbero rimpianto il momento in cui l’avevano etichettato come spazzatura. Se non poteva avere il loro paradiso, avrebbe avuto il suo inferno. Non lo meritavano, loro.
    E lui, non aveva bisogno di nessuno. Figurarsi di un fighetto come Bernadette.
    Se se lo fosse ripetuto a lungo, forse avrebbe avuto meno voglia di piangere.
    «che sei scappato»
    Ovviamente. Continuò a ridere, scuotendo ancora il capo. Posò la scatola a terra ed infilò la busta con i soldi fra l’elastico dei jeans e la pelle del ventre, inspirando secco quando la carta ruvida strofinò i lividi sul costato. Non li guardò, protraendo invece la risata – schegge di vetro a rimbalzare sul cemento, perforando la pianta dei piedi.
    Aveva dodici anni. Dodici anni. Prese lo skate dai suoi effetti personali, constatando che, effettivamente, nessuno era stato così garbato da gettare la bottiglia di plastica di otto mesi prima – e lo trovò così esilarante, da continuare a ridere.
    Non si volse un’ultima volta verso i Reynolds, quando mise il piede sulla tavola. «addio, caleb» un sorriso penoso rivolto al cemento. «è cj, stronzi» si congedò, allontanandosi con il medio alzato nella loro direzione.
    Aveva dodici anni, CJ, quando tutto andò a puttane.
    Perché un Hamilton manteneva sempre le sue promesse.

    oggi


    18:30. Si sedette sul muretto di cemento con le gambe a penzoloni, una sigaretta spenta fra le dita. Guardò l’orologio, quindi tornò a posare gli occhi sul nulla – o meglio, quello che per gli altri era nulla. Per lui, quella strada poco trafficata dall’odore di cose losche da sussurrare nel buio, era un pezzo di casa. Un mausoleo: nessuno ci prestava attenzione, ma era il suo cimitero personale. Era quello, il trucco. Prendere qualcosa che era di tutti, e dargli una forma del tutto nuova, una risata dall’ironia unilaterale che potevi comprendere solamente te. La gente non si faceva domande, se non era costretta; guardava i nomi incisi sulla pietra, le date, ed istintivamente il cervello le classificava come informazioni superflue, che non necessitavano di una seconda occhiata. Un mondo che neanche si sforzavano a vivere, e che CJ si era preso con la forza; un mondo che non l’aveva voluto, e nel quale lui s’intestardiva a rimanere segnando ogni ragazzo morto per colpa loro: Chester Jacob Bukowski, Clarke Jeremiah Dahl, Cedric Jonathan Moloney, Clinton Jordan Wirth, Caleb Jefferson Reynolds. La lista era lunga, quasi quanto le cicatrici che negli anni si erano ammassate sul suo corpo sottile. Rimaneva lì per ore, per vite intere, fumando una sigaretta per ogni caduto che il mondo aveva dimenticato.
    Tutti, l’avevano dimenticato. Era così che si viveva, quando si era un CJ. Quella era l’eredità che avrebbe lasciato di sé, emblematica quanto la breve eternità che aveva vissuto: invisibile in bella vista. Alzò lo sguardo incrociando gli occhi vacui di Cocaine, un filo di bava a pendere dalle fauci cascanti. Un altro scarto di società della quale le persone si dimenticavano, un problema a cui prestare attenzione solamente finchè intaccava la propria sfera. Uno di quelli che causavano orrore, quando detti ad alta voce; uno di quelli di cui nessuno parlava, perché nell’orrore si celava la tragedia: nessuno voleva una storia triste che non fosse la propria. «al volo» gli lanciò un pezzo di pane, e come prevedibile il cane non lo prese, lasciandosi colpire come il pirla che era. Camminava un po’ sverso, perdeva sempre saliva. Uggiolava quando dormiva. Era la creatura più orribile che CJ avesse mai visto, con quella pellaccia nera e le orecchie deformi dove ancora si potevano vedere tracce di morsi antichi, ma non ricordava la sua vita senza di lui. L’aveva trovato per caso un’estate, attirato da guaiti sofferenti e grida mascoline di incitamento: lotte fra cani. Dio solo sapeva quanto si potesse essere coglioni, per pensare ad una cosa del genere – e nello specifico, di iscrivere un fottuto bulldog francese. Era poco più di un cucciolo, ai tempi. «cocaine, sei veramente stupido» Cocaine poteva sembrare un nome di merda, ma era decisamente un miglioramento rispetto a com’era abituato a farsi chiamare prima che CJ lo prendesse con sé. Due disadattati frutto di una realtà iniqua che la società si ostinava ad ignorare. Sicuramente aveva subito gravi danni cerebrali durante le lotte cui l’avevano costretto, altrimenti non si sarebbe spiegato il muso ottuso con il quale da sempre ricambiava le sua occhiate.
    Qual è la tua scusa, CJ?
    Grattò distrattamente il tatuaggio sullo zigomo, stringendosi nelle spalle e chinando il capo per evitare lo sguardo gonfio di giudizi del cane. Due lettere, solo quello. Solo sempre.
    «piccolo figlio di puttana» il suo segnale. Sorrise al nulla, infilando il cilindro di tabacco dietro l’orecchio. «non parlare così della mamma, sai che si arrabbia» Emerson Pinch non ricambiò il suo ghigno, quando CJ lo guardò. I Pinch erano una delle tante famiglie che avevano avuto l’onore di vantare CJ fra le proprie file; a quanto pareva, avevano una certa attitudine per sganciare soldi sporchi agli assistenti sociali per fingere che tutto andasse alla grande – ed avevano sempre bisogno di corrieri, nel giro della metanfetamina: sangue giovane del quale a nessuno fregava un cazzo, se non tornavano più a casa. Emerson si fermò di fronte a lui, i pugni serrati lungo i fianchi. Il Tassorosso non si scompose, mantenendo intatta la curva divertita delle labbra. «ti do trenta secondi per darmi i soldi che mi devi,» corrugò le sopracciglia, le dita a scivolare sulle rotelle dell’orologio da polso. «poi me li prendo comunque.» lo osservò di sottecchi, rimanendo seduto sul cemento.
    Emerson lo prese dal colletto della maglietta tirandolo a forza in piedi, e CJ si lasciò passivamente trascinare sul nudo selciato di Londra. «col cazzo» Neanche ci provò, a difendersi. Non lo faceva mai. Quando si viveva come lui, s’imparava ad incassare molto prima di poter apprendere come attaccare, o Dio ce ne scampi, come difendersi. Ad Hogwarts avevano trovato… particolare il suo modo d’approcciarsi alla materia corpo a corpo, ma ehi, erano i risultati che contavano, giusto? E lui, era bravo. Di certo non avrebbe spiegato ad un branco di idioti i suoi perché: non gli doveva un cazzo.
    Faceva sempre un po’ più male, ma andava bene così. Sentiva il cuore irrorare le vene di sangue, lo stesso che si ritrovava a sputare fra i denti; sentiva il fiato mancare ad ogni colpo ricevuto allo sterno, il lento pulsare della pelle contusa laddove si spaccava lasciando nuovi tagli sulla pelle troppo sottile. Accettò di buon grado ogni calcio di Emerson, finchè le ginocchia non lo implorarono di poggiarsi al pavimento; si lasciò gettare a terra, le scapole ossute contro il marciapiede, mentre il peso del Pinch lo schiacciava al suolo – ed i suoi pugni lo costringevano a girare il capo, la lingua a sanguinare. Pensava di meritarselo, CJ: magari non in quel contesto, ma aveva importanza? L’aveva mai avuta?
    Era colpa sua. E si sentiva così nullo, lui. Così vuoto; erano rari i momenti in cui si sentiva vivo, pieno. Presente ed esistente, non un’ombra fra le ombre. Quello, ad esempio – con un suo presunto fratello a spaccargli le labbra e incrinargli le ossa, ingiurie sibilate a mascella serrata.
    In molti si chiedevano con quale criterio Christopher Joseph Knowles fosse finito fra i Tassorosso, ma era invero alquanto ovvio: credevano che i gialloneri sfornassero solo biscotti, e sorridessero a tutti gli sconosciuti? Si parlava di lealtà, di onore. Di pazienza. CJ Knowles poteva anche essere un piccolo bastardo sociopatico, ma era un leale, onorevole, paziente piccolo bastardo sociopatico.
    «ti ricordavo migliore di così. è troppo facile, connor»
    Gli aveva concesso trenta secondi, e lui manteneva la parola data. «per l’ennesima volta,» tossì, un lento sorriso sornione a sanguinare sul viso affilato. Lo sguardo a saettare su una scritta poco distante dalla riconoscibile calligrafia: Connor Joshua Pinch. Sotto gli occhi di tutti, ma nessuno guardava. Il timer scattò, la campanella dell’orologio a squittire esigendo attenzione.
    Tempo scaduto. Si strinse nelle spalle, la lingua sui denti. «è cj, cazzone»

    21. Reclinò il capo di fronte al proprio riflesso, le sopracciglia corrugate. Il labbro inferiore era così gonfio da affaticare ogni respiro, mentre parte sinistra del viso era coperta da graffi e lividi violacei. Perlomeno, il naso non era rotto. La commessa dall’altra parte del negozio continuava ad osservarlo con aria preoccupata, sussultando ad ogni suo movimento. Quanto amava recarsi nelle botteghe dove si pagava perfino l’aria. Si beava dello sguardo esterrefatto dei dipendenti, di quell’olezzo di disappunto e ripugnanza che faceva loro storcere il naso quando, con i jeans bucati e la maglia a brandelli, metteva piede lì dentro. Sorrideva angelico, gli occhi della giada più chiara a brillare sotto le luci soffuse, riflettendosi in ogni specchio strategicamente piazzato per far apparire i clienti più belli. «è il più costoso che avete?» lei annuì, il telefono in mano. Un classico: sicuramente aveva già digitato il numero della polizia, in attesa solamente del momento propizio per inoltrare la chiamata. Sospirò, voltandosi per ammirarsi nel suo impeccabile outfit: pantaloni neri, scarpe lucide, giacca di un tessuto opaco e morbido che metteva in risalto le striature scarlatte sul viso. La camicia sottostante era così liscia da non inferire sui tagli, scivolando come acqua sulla pelle tranciata del ventre. «lo prendo» asserì semplicemente, sistemando il farfallino sul collo. Un ghigno spezzò le labbra, facendo scivolare una goccia cremisi sul mento. Ben attento che la commessa lo stesse ancora guardando, passò intenzionalmente il pollice sulla scia scarlatta, infilandolo poi in bocca. Vedevano solo quel che volevano vedere, da quelle parti: Christopher Joseph Knowles ce l’aveva scritto in faccia, che era un problema. La cosa ancora più divertente? Con i soldi che i Reynolds gli avevano dato quattro anni prima, avrebbe potuto comprarsi metà di quel fottuto negozio, ed avrebbe ancora avuto i soldi per un gelato al barMasa di Las Vegas. Così, senza neanche sporcarsi le mani per poterselo permettere.
    Ma CJ, quella busta, non l’aveva mai aperta. Non era una fottuta puttana, e non aveva bisogno dei loro soldi – trafficava denaro sporco, ma almeno era sangue e non merda ad imbrattarne la carta moneta.
    Non avrebbe mai ammesso che sperava, lasciandola intatta, che un giorno avrebbe potuto bussare alla loro porta per tornare da loro. Bernie! Se pensava che un tempo era stato il suo miglior amico, quasi un fratello, si sentiva così maledettamente coglione. O almeno, a quello imputava la fitta ai polmoni.
    Si diresse alla cassa con il sorriso malato e folle ch’ella si aspettava di vedere sul suo viso. Malgrado avesse solo sedici anni, esprimeva così tanta violenza appena trattenuta sotto la superficie, da apparire molto più grande. Un adulto – lui che non lo era, e lo era stato sempre. «servono soldi veri» infierì lei, osservandolo dall’alto al basso. Beati pregiudizi. Il ghigno si fece più acuto ed affilato, mentre infilava una mano alla ricerca del proprio portafoglio. Lo aprì con lenta intenzione, facendo scorrere le dita sulle banconote ivi contenute. Una ad una, le fece scivolare sul bancone, l’indice a inumidirsi di saliva per ogni cinquanta sfiorato. Quando raggiunse la cifra richiesta, alzò gli occhi. «tieni,» le disse, facendo scattare quattro Houblon verso di lei, un prestigiatore alle prese con il suo trucco preferito. «comprati qualcosa di carino» socchiuse le palpebre e si infilò una sigaretta fra i denti, sorridendo sangue e veleno mentre si avviava verso l’uscita indossando il completo nuovo di pacca.
    «tipo una personalità» schioccò la lingua sul palato, chiuse i pugni alle tempie, e districò le dita nell’aria.
    Sembrava un coglione, Christopher Joseph Knowles, con quel nome che s’era scelto e quell’attitudine da malvagio stronzetto. La verità?
    Lo era.
    Bow down to the fucking king.

    21:30. «cristo, sandy» gridò alla porta chiusa, la spalla contro lo stipite. Non era neanche certo del perché stesse andando a quella festa: alcool gratis? Fighetti da prendere per il culo? Francesi da mandare in rovina? Mettere in imbarazzo il genere umano? Meh, forse un po’ tutto.
    Forse niente.
    Chiuse gli occhi, espirando la frustrazione verso il De Thirteenth. O la, De Thirteenth: era ancora sinceramente confuso dalla nuova (non troppo) vagina del ragazzo, ma non sorpreso. Aveva sempre saputo che era una pussy. Ciò che l’aveva turbato, era stato ritrovarsi Sun al binario per Hogwarts – a quanto pareva, le ovaie avevano causato un tale turbamento ormonale, da portarlo a ritrovare la sua bacchetta. Evidentemente quella che madre natura gli aveva dato non faceva magie: eh, chi tutto e chi niente. «non solo sei una donna, ma di quelle spaccacoglioni» In fondo, Some of the strongest people I've known are women. Non Sunday, chiaramente. Si chiese se, all’interno della stanza, i domestici lo stessero vestendo mentre lui assaporava il proprio riflesso allo specchio senza alcun bisogno di muoversi, mentre loro si premuravano di sistemargli la pochette. Viziato di merda. Era nato ricco, e si vedeva in ogni fottuto gesto, o sguardo che fosse, che ne era perfettamente consapevole.
    A CJ andava più che bene. Aveva scoperto che più i ragazzi erano ricchi, più erano viziosi e meno temevano le ripercussioni: diversi strati sociali, stesso sottile disagio. Chi aveva tutto, non perdeva nulla: chi aveva nulla, non poteva perdere un cazzo di niente. Anime affini. Morning gli mordicchiò l’orecchio per attirare la sua attenzione, tubando felice sulla sua spalla, ed emise uno strozzato greeek di disappunto quando il Knowles alzò la voce. «scusa, dolcezza» grattò il collo piumato del corvo, uno sorriso pigro a curvargli le labbra. Morning, che come Sandy non brillava di astuzia, si era presa una cotta per CJ, fosse egli nel corpo da animagus o in quello di ragazzo. Non che potesse dargli torto: che fosse o meno in forma di volatile, era l’uccello migliore sul mercato.
    Risaputo.
    «il tuo padrone è un coglione perdi tempo, e - gesù» quando la porta cigolò lasciando uscire Sun, una risata strozzata vibrò nelle corde vocali del Tassorosso, le mani giunte sul mento. Amava la mancanza di pudore e dignità dei De Thirteenth. Come avesse potuto impiegare così tanto per indossare un «bel copri capezzoli» tale striminzito tessuto, era per CJ un mistero.
    Onestamente, non era così interessato a saperlo.

    22:00. Strinse la maschera sotto il braccio destro, le labbra a disegnare una linea sghemba sul volto tumefatto. Sprizzava commenti ironici senza alcun bisogno di aprire bocca, CJ: gli si leggeva in faccia, quel che pensava.
    Ed era quello, il problema: nessuno voleva la verità, in quella presunta vita. Magari nella prossima (spoiler alert: no). Sollevò le iridi di un ridente ceruleo smeraldo sul biondino dall’aria slavata di cui, ancora, gli sfuggiva l’identità. L’aveva placcato nei corridoi, aveva sentito parlare della festa, e bam!: prima ancora che CJ potesse fargli notare quanto poco se ne sbattesse le palle, se lo era ritrovato fra i piedi, invitatosi al party come accompagnatore del Knowles. Inopportuno, e rompicoglioni.
    Gli piaceva già.
    «parrucca» salutò Noah con un cenno del mento, sorridendo ferino alle luci soffuse che provenivano dall’interno della villa. Lasciò intravedere i denti, ostile e seducente come una minaccia, mentre adocchiava il resto degli invitati. Avrebbe dovuto sentirsi un pesce fuor d’acqua, ed invece si sentiva a suo agio quanto nel più squallido dei locali del ghetto: quel mondo gli apparteneva di diritto, che la confezione fosse d’oro o bronzo. Stesso sangue, stessi vizi e perversioni.
    Farlo profumare di chanel n°5 non rendeva pulito ciò che nasceva per essere sporco. Offrì galantemente il braccio a Sun per accompagnarla all’interno della villa, e con quello libero afferrò uno sfortunato Cooper, capitato al suo fianco per caso, e lo avvolse alle spalle. «barry, non ti facevo tipo da champagne» gli schioccò un secco e infame bacio sulla guancia, sbuffando aria calda sulla pelle prima di stringerla fra indice e pollice. «con questo faccino, poi» gli schiaffeggiò piano il viso glabro e sottile, sorridendo licenzioso al compagno di scuola. Inarcò entrambe le sopracciglia e strinse le labbra fra solo, velato d’ingenua innocenza, congedandolo poco prima di premersi la maschera sul volto.
    Nascose tutte le cicatrici, tutti i tagli, i lividi; simbolico come piaceva a lui, fece la sua entrata in villa con un’attillata maschera antigas, la pelle a sfrigolare contro le infiammazioni sottostanti. Bruciava quanto sale su ferite fresche, eppure sotto quel costume sorrideva, CJ Knowles. Del ragazzo dalla tasta rasata ed il sorriso pieghevole, erano visibili solamente gli occhi chiari dal taglio ferino – inequivocabile tintura verde annacquata. Furono quelli che, leggeri come ali di libellula, si soffermarono su un ragazzo poco lontano.
    Lo odiava come la prima volta, come sempre.
    E come mai aveva fatto. «blowjob» apatico e distante, il tono di CJ; ovattato dal tubo, ed immerso in quel genere di derisione che rideva per motivi incomprensibili agli altri. Che rideva di sé, ma non potevi mai esserne completamente certo. Erano così tanti anni che cercava di odiarlo, che si era convinto di esserci riuscito: in realtà, voleva solamente dare a BJ l’ennesimo, giustificato, motivo per non sopportarlo.
    Era più facile, così. Doveva esserlo.
    «diamo fuoco a questa festa» ringhiò, selvaggio e crudele, mettendo più spazio possibile fra sé ed il sé che avrebbe potuto essere.
    Era una rovina, CJ. Era pericoloso, era il caos nella sua forma più pura.
    Ed erano stati loro, a crearlo - a rendere irreparabile il danno.
    Erano stati loro, a romperlo: Reynolds, Pinch, Bukowski, Dahl, Moloney, Wirth. Tutti i Bernie del mondo.
    Tutto il CJ del mondo.
    crane junior hamilton christopher joseph knowles || 2000's || hufflepuff
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia
     
    .
  5.     +7    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Member
    Posts
    790
    Spolliciometro
    +1,509

    Status
    Offline
    Amalie Shapherd
    14th April
    Dallaire's Manor
    "She dreamed of paradise overtime she closed her eyes"
    Ravenclaw ✗ 2000’s ✗ Neutral ✗ dressmask
    Leggere era una delle poche cose che le riusciva bene, se non forse l’unica. Era arrivata a questa conclusione prendendo in esame ogni aspetto della sua vita: alla famiglia era proprio meglio non pensarci, e oramai aveva smesso di chiedersi che cosa avesse fatto di male per meritarsi un trattamento del genere da parte dei suoi genitori. Dal punto di vista degli amici, faceva acqua da ogni parte: per fidarsi di una persona ci metteva letteralmente mesi, se non anni, e dunque le vere amicizie su cui poteva contare le poteva elencare sul palmo di una mano. Anzi, forse bastava anche solo metà mano. A scuola era brava, su questo non c’erano dubbi, e cercava sempre di mostrarsi partecipe a lezione e sapeva sempre rispondere a tutte le domande che le rivolgevano i professori. Allora qual è il problema, vi chiederete. Beh, il problema sta nel fatto che Amalie aveva questo atteggiamento solo nei confronti di determinate materie. Tutte quelle che implicano violenza o dolore erano fuori dalla lista, e capite bene come in una scuola come Hogwarts questo possa diventare un problema, anche piuttosto grave. Aggiungeteci poi il fatto che la biondina non era in grado di tenere la bocca chiusa e i propri pareri per sé : veniva spedita in sala torture almeno una lezione a settimana tanto da averci fatto l’abitudine. Non era mai stata abituata ad essere trattata con i guanti bianchi, Amalie Shapherd, e per lei non era mai stato un problema. O almeno, così cercava di convincere se stessa e quei pochi che ci tenevano alla sua salute.

    Quel pomeriggio era immersa nella lettura seduta sugli spalti del campo da Quidditch mentre in campo si allenava la squadra dei Corvonero. Ormai era presente ad ogni loro allenamento da più di un anno, in seguito ad un incontro con l’alcol molto infelice che aveva visto lei e Bells protagoniste dell’episodio più imbarazzante della sua vita. Naturalmente era stata solamente Amalie a rendersi ridicola, e per evitare che il racconto dell’accaduto si diffondesse per tutta la scuola, aveva acconsentito al ricatto – si poteva definire tale? – della Dallaire di assistere ad ogni partita in cambio del suo silenzio. Ovvio che avesse accettato. Ovvio che, giusto per essere sicuri, aveva iniziato a guardare anche gli allenamenti. Ovvio che oramai non aveva più senso perché era passato un anno, eppure per la ragazza era diventata un’abitudine. E poi aveva scoperto di trovare molto più rilassante leggere con un sottofondo chiassoso piuttosto che nel completo silenzio. Il libro che aveva tra le mani parlava di una giovane ragazza rimasta orfana che, per non mettersi a cercare lavoro in città, si era trasferita dai parenti più prossimi in campagna e questo aveva stravolto la sua vita perché era stata portata ad occuparsi di cose a cui prima non aveva mai dovuto pensare, vivendo da agiata e snob cittadina. Amalie adorava i libri babbani, fin da bambina, ed adorava il fatto che la portassero a vivere storie diverse, ad immergersi in personaggi o tremendamente simili o opposti a lei. Il problema di fondo era che lei non aveva mai vissuto nulla di eclatante, a differenza di molti personaggi immaginari, e per questo cercava in loro una via d’uscita dalla sua vita. Ad esempio, lei non era mai nemmeno stata in campagna, non aveva mai visto da vicino un cavallo o una mucca e di certo non era portata per i lavori che la vita in fattoria comportava, proprio come Flora, la protagonista del libro . O forse lo era ma non sapeva di esserlo. Di una cosa era certa: finita la scuola, avrebbe girato il mondo, visitando nuovi posti e facendo esperienze di vita di tutti i giorni diverse dalle proprie. Nel libro stava descrivendo Flora che per la prima volta doveva mungere una mucca perché lo zio si era infortunato e non poteva farlo, e nonostante all’inizio fosse schifata e titubante, alla fine si era rivelata una bella esperienza. Ecco, anche lei un giorno l’avrebbe fatto.
    Vide Syria Hollins venirle incontro sventolando tra le mani un foglio, ma da lontano non riuscì a capire cosa fosse.
    «Syria! Tu hai mai palpato le mammelle di una mucca? Secondo te cosa si prova?» Si rese conto solo dopo aver aperto bocca di aver formulato una frase tremendamente strana. Nella sua testa, e seguendo il filo logico del suo ragionamento, aveva molto più senso. Eppure detta ad alta voce era abbastanza ridicola. Senza l’abbastanza . Buttò la testa sul libro, sperando di poter sparire tra le pagine e allontanarsi da quella situazione . Poi prese coraggio e rialzò la testa: in fondo era Syria, una delle sue uniche amiche, non doveva vergognarsi. Però vedendo il suo sguardo tremendamente perplesso si vergognò eccome .
    «Una mucca? Non ci ho mai pensato ma credo sarebbe strano… come mai questa domanda?»
    «Sai cosa? Lascia perdere. Dimentica quello che ho detto, ti supplico» Se avesse potuto, le avrebbe lanciato un incantesimo per farle dimenticare gli ultimi cinque minuti, ma fortunatamente non aveva la sicurezza tale da poter garantire al 100% di poter lanciare un oblivion perfetto senza il rischio di cancellare cinque anni invece che cinque minuti. Era meglio non rischiare.
    Poi si rivolse all’amica. Se era venuta a cercarla fino a lì doveva sicuramente dirle qualcosa d’importante . «Allora, che succede?»
    «Eh? Uhm…Cosa? – Am aveva già iniziato a capire, riuscendo ora a capire cosa teneva tra le mani Syria. E aveva già iniziato a scuotere la testa – Ah si ecco, mi è arrivato un invito per la festa dei Dallaire e stavo pensando che potremmo andarci assieme»
    La bionda continuava a scuotere la testa in segno di netto rifiuto. Lei, nel esatto momento in cui aveva ricevuto l’invito, l’aveva buttato tra vari libri nella sua stanza senza nemmeno leggerlo con attenzione. La parola “Festa” era bastata per far diventare quel pezzo di carta tossico per la ragazza.
    «Sì, perché non vuoi lasciarmi andare da sola ad una festa vero? Mi sentirei a disagio da sola e poi così ci divertiamo un po’ assieme»
    «Syria, è una festa a casa dei Dallaire. Una festa. Ti sembro il tipo da festa?» Se mai sul dizionario avessero aggiunto l’aggettivo “odiafesteesocializzazione” al suo fianco avrebbero stampato una foto di Amalie. Sicuramente.
    «Ti prego ti prego ti pregooo.” Però era difficile rimanere fermi nelle proprie posizioni davanti al viso da cucciolo indifeso di Syria. Tanto difficile. «Davvero io non me la sento e poi..»
    «Se non vai tu non vado nemmeno io» Boom. Aveva vinto lei. Perché sapere che avrebbe rinunciato alla festa – lei, che le feste le amava – solo perché Amalie non veniva, beh bastava a darle la forza per affrontare una serata che comportava il dover scegliere un vestito, truccarsi, ballare e soprattutto parlare con persone nuove. Un incubo. Eppure sarebbe stata disposta a farlo per far piacere ad un’amica.
    «Me ne pentirò presto lo so…dai, andiamo - Il volto di Syria era già tornato ad illuminarsi - MA tu mi aiuterai a scegliere un vestito E a truccarmi. Non troppo, sia chiaro »

    E così aveva acconsentito a partecipare a quell’evento così non da lei. Eppure aveva passato un bellissimo pomeriggio, più di quanto fosse disposta ad ammettere, a scegliere un abito da indossare e a farsi truccare da Syria. Dopo vari buchi nell’acqua e bocciature a prima vista di abiti terribilmente orrendi e che Amalie non avrebbe indossato nemmeno sotto tortura, riuscì a trovare quello adatto: era molto sobio, lungo fino ai pieni, smanicato e con il corpetto in pizzo bianco decorato da piccole paiette blu notte della stessa tonalità della lunga gonna in taffettà. Trovare una maschera era probabilmente stato ancora più difficile: era inorridita da tutte quelle con le piume - eh si, Amalie aveva un'irrazionale fobia per ogni animale che era in grado di volare, nessuno escluso - e per sua sfortuna quasi tutte le avevano. Infine, riuscì a trovarne una argentata e sottile, l'unica che le sembrò bella, piuttosto che un ornamento da circo. Si sentiva fuori posto, come se stesse indossando i panni di una ragazza che non era lei, più grande, più matura e più “socievole”. Eppure, per quanto fosse strano , allo stesso tempo vedere la sua immagine allo specchio le dava anche un grande senso di spensieratezza e orgoglio. Sentimenti che provava raramente.

    Entrata nella dimora dei Dallaire, Amalie rimase ammaliata: sembrava di essere stati catapultati in un’altra epoca, o comunque in un ambiente totalmente estraneo a ciò a cui era abituata di solito. Era come se fosse entrata in un libro e quella era la sua avventura. Forse non era stata poi una così cattiva idea accettare la proposta di Syria. Forse quella serata non si sarebbe dimostrata un totale disastro come aveva previsto. Forse sarebbe persino riuscita a divertirsi. Oppure no.
    code by ;winchester


    Lucky Strike di Aprile:
    CITAZIONE
    • Amalie Shapherd - 6. Domanderà al proprio interlocutore se ha mai provato a palpare le mammelle di una mucca
     
    .
  6. ;mjay
        +7    
     
    .

    User deleted


    totalB l a c k;
    DRESS ; MASK ; -- ex Slytherin | 23 Y.O. | Death Eater

    « Sua madre sta morendo »
    Alle orecchie di Perseus quella parve più una velata supplica che una costatazione, e nel voltare lo sguardo sui resti sull'uomo che era suo zio non vide altro che un omuncolo pietoso, ben lontano dall'austero Black a cui avrebbe dovuto aspirare ad essere.
    Ed a stento trattenne una risata, per nulla toccato da quella tragedia, trovava ridicolo la preoccupazione di Altair e il suo goffo tentativo di nascondere il dolore che tale notizia gli aveva procurato.
    Stringeva ancora fra le mani quella lettera ricevuta nel pomeriggio, spiegazzata, ma poteva riuscire a vedere gli aloni nell'inchiostro ancora freschi laddove le sue lacrime erano cadute.
    Era tutto così pateticamente divertente. E si sa, Perseus Black aveva uno strano senso dell'umorismo.
    Dall'altra parte dello studio, Celia Black, la matrona di casa, si limitava ad assaporare con deliberata lentezza il suo té apparentemente sorda alle richieste del figlio. Era una donna crudele, Celia, Perseus questo lo sapeva bene. Non era tipo da lasciarsi ammorbidire dalle suppliche né tanto meno da lasciarsi corrompere da banali richieste.
    Si prendeva tempo, non si sbilanciava, mentre valutava cautamente ogni aspetto della nuova notizia per trarne ogni vantaggio. Ma se Altair credeva di poter ottenere ciò che voleva facendo leva sui suoi buoni sentimenti, allora poteva anche girare i tacchi ed andarsene prima che fosse Celia ad invitare a farlo.
    Ma Perseus sapeva che suo zio non era uno sprovveduto, era ingenuo e buono, ma non stupido; doveva avere in mente qualcosa, e questo probabilmente lo sapeva anche sua nonna.
    Spronato dal suo silenzio, Altair continuò « Ho tenuto fede alla mia parte di accordo, non le avrei più viste e non sarebbe stato fatto loro del male ma adesso le cose cambiano »
    Perseus mosse distrattamente un pedone sulla scacchiera, sospirando divertito « Sì, che la provvidenza ha pensato ai TUOI problemi. Morta lei, tua figlia non avrà molto a seguirla sommersa dai debiti e con i Mangiamorte alle calcagna... »
    « Nessuno ti ha interpellato » fu la risposta dura e secca dello zio, il suo tono era lapidario, le mani sbiancarono nel tentativo di resistere all'istinto di colpirlo. Quel genere di risposta stimolò maggiormente il suo animo tedioso.
    « Come ti è venuto in mente zio? Davvero, mi chiedo come una persona possa essere così stupida a lasciarsi guidare dai sentimenti... per una donna simile poi, amica della feccia e la cui fedeltà al sistema così... dubbia » il moro si strinse nelle spalle, eliminando una delle statuette di cristallo bianco dalla scacchiera, quasi a voler suggellare la sua vittoria con quel gesto « Sono disgustato al solo pensiero... esserti confuso con persone simili, fa vergognare persino me della nostra parentela » alzò un sopracciglio, piegando la testa verso lo zio, un sorriso sardonico dipinto sulle labbra.
    « Vorrei parlare con mia madre, non con te » Altair si voltò verso la matrona, lo sguardo fiammeggiante di rabbia « Cosa ci fa lui ancora qui? »
    Celia posò la tazza di té, e rispose senza alzare gli occhi dai documenti di fronte a lei « Lui è un Black, se vuole ha tutto il diritto di presenziare alle questioni che riguardano la famiglia, soprattutto in mancanza di Lissa e tuo fratello » Perseus piegò la testa in direzione della nonna, in una scenica messa in scena di un inchino.
    Amava essere teatrale alle volte « Questo non significa però che tu possa tediarmi con le tue opinioni, Perseus » lo corresse la donna, alzando finalmente lo sguardo ed incrociando le mani sulla scrivania, guardando il figlio « Arriva al punto, mi state facendo venire il mal di testa »
    Altair superò la poltrona dove Perseus era seduto, deciso ad ignorare qualsiasi suo futuro intervento. Il moro rise dentro di sé per la mancanza di polso dell'uomo, ma decise comunque di non aggiungere altro.
    Non tanto per il precedente avvertimento della donna, per cui comunque provava un certo rispetto, quanto più per trovare finalmente sfocio alla sua curiosità riguardo alle curiose richieste dello zio.
    « Bene, il futuro dei Black è in bilico. Lo sai... meglio di chiunque altro. Nice non potrà portare avanti il nome di famiglia, è una femmina e sappiamo entrambi che Perseus non accetterà mai i vincoli matrimoniali e se lo farà probabilmente non porterà avanti i suoi doveri »
    Perseus si alzò, le mani in tasca , per nulla toccato da quelle accuse « Oh, questo è un colpo basso zio... non credevo ne fossi capace, un punto a tuo favore »
    Celia rimase per un momento in silenzio, studiando il volto del figlio con attenzione , cercando di capire dove volesse arrivare « Anche tua figlia è una femmina, non può portare avanti il nome di famiglia »
    « Ma io sì » dichiarò Altair, poggiando le mani sulla scrivania « Se Amelia verrà riconosciuta, io allora accetterò a risposarmi »
    « Mio Dio zio, devi essere disperato... » mormorò disgustato Perseus, scrollando la testa « nonna, diglielo tu che non ci confondiamo con feccia simile »
    « Zitto Perseus, sto pensando »
    Un lungo brivido freddo gli scese lungo la schiena, si affiancò alla donna, stringendo con convulsione i braccioli di pelle della sedia su cui era seduta « Non puoi dire sul serio, affonderanno il nome di famiglia... »
    Ma Celia lo zittì con un gesto della mano « Bene Altair, abbiamo un accordo »




    Perseus afferrò con stizza uno dei calici che uno dei camerieri gli porse. Ne tracannò il contenuto, senza gustarsi il vino corposo, o l'odore.
    Non era dell'umore di ammirare la curiosa forma fallica delle decorazioni, su cui normalmente si sarebbe rovinato con lascive battute per intrattenere sé stesso e gli ospiti, né tanto meno brillava della sua solita arguzie alle feste, qualcosa era riuscito a toccarlo, a turbarlo, e la cosa lo stava irritando più di quanto aveva previsto.
    Non sapeva per quale motivo l'idea di accettare quella ragazzina in famiglia lo disturbasse così tanto, ma era una nota stonata nella composizione della sua vita.
    Riusciva a tollerare a malapena la presenza dello zio, che trovava estremamente offensiva per la famiglia e soprattutto per i suoi ideali così disinteressati, se sua figlia aveva preso anche solo la metà da lui, beh, le persone da sopportare sarebbero presto state due. Per non parlare di quanto poco si meritassero un tale beneficio.
    Schioccò la lingua, scocciato, dirigendosi verso il tavolo del rinfresco. Non era ancora abbastanza ubriaco per scordarsi quegli scarafaggi, problema a cui doveva rimediare immediatamente.
    Quando era arrabbiato Perseus sapeva essere particolarmente... violento e molesto. Non tanto contro gli altri, o meglio, in minor parte, quanto verso sé stesso. Per scordarsi i tormenti dell'animo annegava nei piacere, in ogni genere di piacere senza il minimo ritegno per il giudizio altrui o le conseguenze.
    Al suo quarto bicchiere, già gli sembrava che tutto fosse tornato sotto la giusta prospettiva: lui beatamente soddisfatto ed il resto del mondo a dipendere da lui, dalle sue labbra. Come la scialba ragazza che tentava disperatamente di catturare il suo sguardo, o il cameriere che continuava deliberatamente a portargli il vino e la cui mano indugiava nella sua nel passarglielo.
    Era più facile, sotto i fumi dell'alcol, ignorare quel senso di fastidio e di vuoto lasciato dalla certezza che avesse tutto sotto controllo.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by t r o u v a i l l e - 17/4/2017, 16:06
     
    .
  7. anti/hero
        +10    
     
    .

    User deleted


    runyoufools
    life is strange and full of glitter -- 20yo | deatheater | dress & mask
    Con un sorriso intenso -il suo- fissava l'invito rubato malamente, ne rileggeva ogni riga con acceso interesse non riuscendo a fare a meno di compiacersene. Era entrata nella camera per avvelenarlo, e invece guarda che cosa aveva trovato!- suo fratello era una miniera di sorprese. Trovava alquanto disonesto -comunque- che quell'invito non fosse giunto anche alla sottoscritta, e in un primo tempo aveva pensato ad un errore: aspettava, Nice, che Celia la mandasse a chiamare per donare anche alla sua amata nipote l'occasione di presentarsi a casa Dallaire.
    Così non era stato, e adesso -a distanza di qualche ora e con l'approssimarsi del presunto inizio della festa- Nicèphore iniziava a credere che la nonna si fosse completamente dimenticata della perla di famiglia-- grave, gravissimo errore. Purtroppo la giovane nascondeva più assi di quanti ne volesse mostrare, e ancora una volta la sua buona stella l'aveva portata ad una squisita opportunità.
    In barba agli ordini della capofamiglia -e quando mai vi sottostava- Nicèphore Black aveva già sfilato dal proprio armadio il vestito più sobrio che avesse, non mancando di una certa austera eleganza-- e l'aveva indossato, nel buio della sua camera, dopo un bagno ed essersi preoccupata del trucco... insomma, Nice aveva sempre un piano, e la sua gioventù le permetteva di arrangiarsi, tant'è che si preoccupò proprio all'ultimo di avvisare la sua guardia del corpo. Se così la si voleva chiamare: più stava al suo fianco, più Nice iniziava a credere di aver sbagliato qualcosa... per lo meno nell'aver affidato la sua vita alle mani a volte sin troppo imprevedibili del ragazzo.
    Non che ne avesse bisogno -per carità- ma, come soleva ripetersi, fidarsi è bene e non farlo è meglio. Non a caso era entrata nella camera di Perseus, approfittando di una sua assenza per presenziare all'incontro fra la nonna e lo zio, un po' per vedere che non ne stesse tramando qualcuna contro di lei, un po' anche per vedere se poteva in qualche modo avvelenare qualche sua bevanda. Le era andata relativamente male, dal momento che la camera era completamente vuota di cibi e bevande, ma non così tanto male: suo fratello era distratto... o per lo meno disinteressato, e per questo motivo tendeva ad abbandonare quelle questioni che lui trovava poco rilevanti, ma che agli occhi di chiunque altro -come Nice- potevano dimostrarsi alquanto interessanti. La lettera, spedita alla nonna, era scritta con eleganza, inchiostro rosso molto provocatorio, su una carta nera come la notte.
    Era risaltata subito sulla scrivania ordinata del fratello, e lei immediatamente se n'era appropriata, leggendola rapidamente con occhi che vagavano lesti da una riga all'altra mentre abbandonava la camera curandosi di chiudere la porta, come se non vi fosse mai entrato nessuno. Se non per la sparizione della lettera, che aveva portato con sé e che, ancora adesso, stringeva fra le dita sottili con occhi brillanti. Sapeva bene come fra Black e Dallaire non corresse buon sangue, ma sapeva anche come questa antipatia derivasse dalle due capofamiglia: Celia, da una parte, e Adelaide dall'altra-- due forze della natura, si sarebbe potuto dire, mai state tanto diverse eppure simili nella brama di potere. Si concentrò su quanto scritto, cercando di leggere fra le righe quello che per due donne come loro era palese... tuttavia, dopo ore di attesa e rimuginamenti, alla fine non era giunta alla vera conclusione: quale malizia poteva portare Adelaide ad invitare dei membri della casata Black alla festa in onore del ritrovato pisello del mezzano?
    Conosceva troppo Celia per non immaginare come Adelaide stesse complottando qualcosa, e forse anche per questo motivo la nonna non ne aveva fatto parola con lei, affidandosi -piuttosto- al maggiore dei nipoti. Tuttavia la curiosità era troppa, e certo non ci sarebbe andata da sola come un sprovveduta-- “o semplicemente da zitella”, Nicèphore Black non si sarebbe mai presentata ad un evento se non scortata dal numero adeguato di adepti.
    Poco importava cosa effettivamente Filippo fosse per lei, quando afferrò il telefono e gli scrisse impartì l'ordine con la serietà e la determinazione adatte ad una giovane del suo rango «stanotte #partyhard big invito, 21.30 al solito punto xoxo ps. nn trpp nudo ihihi pp.s senza maschera nn bevi #stanottesisboccia #matuno» per poi lanciare il telefono sul letto e scordarsene fino alla fine dei preparativi. Era una despota sì, ma educata: avrebbe potuto strapparlo alla solita bettola(?) senza avvisarlo, non dandogli ben tre quarti d'ora per decidere cosa fare -obbligatoriamente partecipare- cosa mettersi, e come trovare i vestiti adatti. Ew, sospirò, mentre si lasciava andare a mollo nella vasca, era un capo eccezionale.

    Come da messaggio, alle nove e mezza la ragazza si trovava nella lussuosa auto che i Dallaire avevano messo a disposizione degli invitati-- quella famiglia di pazzi aveva davvero pensato ad ogni cosa. Tuttavia Filippo tardava, e Nice era molto poco paziente... ma molto spontanea, per questo, quando il suo ennesimo messaggio venne ignorato E NEPPURE VISUALIZZATO, la ragazza comprese di dover intervenire con le brutte. «Le dispiace?» e si sporse avanti, cogliendo impreparato anche l'autista Esteban: con prepotenza posò un palmo sul clacson, e poi di nuovo, e ancora, fin quando stanca non si affacciò dal finestrino «Filly, porta il tuo culo scolpito qui che andiamo» inutile dire di come lo stesso Esteban tentò invano di nascondersi dietro i vetri oscurati quando dalle finestre dei palazzi attorno alcune persone si affacciarono richiamate dal grido della bionda. Non uno di loro il suo giovane prediletto: non sapeva dove abitasse, se effettivamente avesse una casa... e a conti fatti poteva dire che lei stessa avesse deciso il suo attuale nome -con una certa classe- ma non poteva immaginare quale fosse il suo. A conti fatti, quello era davvero solo il posto dove c'erano stati i loro primi incontri-- ma nulla di più, nulla che dicesse qualcosa sul giovane che si parò davanti a lei dopo qualche istante. Nemmeno si curò di come la stesse guardando, «damn boy, e io che pensavo di vederti vestito da cowboy» perché la prima cosa che Nice notò fu l'abito, di cui fu decisamente convinta. Aprì la portiera e tornò a seppellirsi contro un sedile, per armeggiare ancora un po' col telefono prima di tirare fuori dalla borsetta l'invito e mostrarglielo «in ogni caso, si tratta comunque di lavoro» e maliziosa lo fissò a lungo-- ma senza realmente ascoltare o anche solo sentire cosa stesse dicendo. Si era come persa nei suoi pensieri, ancora una volta, tanto che praticamente restò fissa con uno sguardo vagamente psycho per buona parte del viaggio: un analista in gambe avrebbe visto solo unicorni nel suo cervello in quel momento, simpatici unicorni danzanti che in realtà distraevano dal moto continuo dei pensieri nella sua testa.
    Il suo flusso di coscienza era tanto potente da farla estraniare, e in quel modo riusciva anche a ritrovare pensieri che credeva di aver dimenticato «oh» interruppe così qualunque cosa Filippo le stesse dicendo, e trafficando con le mani sotto il sedile trasse fuori una scatola, che posò sul sedile fra di loro «non so se ti sei o meno procurato la maschera come ti avevo esplicitamente chiesto nel messaggio... in ogni caso, ho rubato questa coppia da una camera di casa -ora non ricordo bene quale, forse quella con le pareti rosse e tutti quegli strani utensili da giardino appesi al muro- spero non ti offenderai ma mi sembrava una cosa carina» ora, Nicèphore possedeva un vasto vocabolario, composte da parole elevate e... meno, ma quando usava l'aggettivo “carino”, allora solo uno sciocco non si sarebbe sentito minacciato da quella sguardo vagamente inquietante e quel sorriso ancora più sottile a crudele. Carino per Nice era legge, e non le poteva davvero importare un fico secco del parere altrui-- anzi, aveva questa gran brutta mania di voler egoisticamente essere al di sopra degli altri in scelte estetiche, raramente accettava consigli; mai accettava sconfitte.
    Per questo nonostante le parole lo sguardo non lasciava trasparire che una forte determinazione a fargli indossare la maschera -feticista- che aveva scelto per loro... avrebbe anche potuto non farlo, certamente, ma non era mai saggio premere su certi aspetti della giovane despota. Scese quindi dall'auto, e intascando l'invito, indossando il pellicciotto e la maschera, si affrettò verso l'ingresso dalle porte spalancate con una certa fretta nel passo. Era felice, a modo suo, e si chiedeva se Perseus fosse già lì o avesse tardato. Non che fosse importante, ma preferiva tenere sott'occhio la situazione: all'ingresso, la “giovane” e affiatata coppia Dallaire si premurava di dare il benvenuto ad ogni ospite, come se stessero per festeggiare il loro centoquindicesimo tradimento coniugale. Tuttavia Adelaide, appena la riconobbe, si premurò di bloccarla, sorridendo in modo alquanto irritato «Nicèphore Black» «mamma Dallaire...» la donna accusò il colpo con un impercettibile mutamento del sorriso, che rimase comunque piuttosto grande, predatorio... una dentatura che avrebbe fatto invidia ad uno squalo. «E' una sorpresa vederti qui... pensavo, pensavamo che l'invito fosse stato ricevuto da tuo fratello, Perseus» se i Black mancavano di tatto, i Dallaire erano serpi, e quel sorriso predatore iniziava vagamente a far salire la nausea alla giovane Nice, che desiderò vedere lei con una maschera, su tutta la faccia-- ma non fece altro, che sbatterle direttamente davanti l'invito... con la più serena spontaneità «ho un invito, firmato Adelaide Dallaire...e la nonna, come puoi vedere, l'ha affidato a me. Ora tu, come c'è scritto nell'invito, farai entrare alla tua bellissima festa in onore del ritrovato pene di tuo figlio, me e il mio amico Filippo, divoratore di calippo» e si calò la maschera in viso, avanzando ma continuando a fissarla con sfida.
    Adelaide forse per essere rimasta senza parole, o forse per pietà -probabile- non osò rispondere oltre e la lasciò mescolarsi fra gli invitati, rimanendo sulla porta abbastanza sorpresa. D'altro canto Nicèphore era davvero l'eccezione alla regola, nel suo essere -oltre che sadica di famiglia- suonata come una campana, accortezza che nessuno, educatamente, le aveva mai fatto notare. Non se si teneva alla propria vita, per lo meno. E a proposito di eccezioni-- chi più di suo fratello poteva reincarnare la nobiltà perduta e annoiata del suo secolo? Se ne stava lì, a bere da calici che subito catturarono la sua attenzione-- ne rubò due da un cameriere, e voltandosi ne offrì uno alla sua guardia del corpo, sorridendo allusiva «vuoi favorire?» per poi liberarsi del pellicciotto che lasciò ad una delle mute cameriere della casa. Quelle ragazze lì, fra l'altro, non potevano che avere un compito diverso da quello dell'appendiabiti viste altezza, magrezza e apparente mobilità... sì, insomma, da qualche parte doveva lasciarlo, che se ne preoccupasse la plebe.
    «Mio a m a t o fratello. E io che ti ho atteso per tutto il tempo, aspettando un tuo invito» nonostante la maschera le fu sin troppo facile riconoscere i tratti familiari-- cosa che non poteva dire del resto degli invitati. Gli si accollò premurandosi di scacciare malamente la giovane con cui si stava intrattenendo- tanto gli dava noia, era palese agli occhi del suo stesso sangue- e con occhioni sognanti, ben visibili dietro la maschera lo fissò dal basso «spero non ti offenderai se al tuo posto ho portato un altro accompagnatore» e guardò verso Filippo, facendo un occhiolino malizioso. Ciononostante nel tornare con lo sguardo su Perseus, la malizia lasciò spazio ad un crudele sguardo, una frecciatina quasi, che superava di gran lungo gli sguardi sperduti con cui si mostrava. Era un qualcosa che solo Perseus poteva vedere, quel demone nascosto sotto l'aspetto angelico-- chi la conosceva come una sorella, aveva tutti i motivi per tentare di distruggerla.
    «Ora, se non ti dispiace... dio che splendido abito» e -come ogni volta- la sua attenzione venne catturata da un'altra giovane ospite, dall'abito di una lunga gonna blu, «chissà come fa per mantenere così splendidi i capelli» e d'un tratto, così com'era apparso, quello sguardo ferino e distaccato parve svanire, lasciando spazio ad un solo sincero interesse.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Già inizia a molestare... beh, nella vita Thanatos, Perseus, e Amalie da vera psycho
     
    .
  8.     +7    
     
    .
    Avatar

    Advanced Member

    Group
    Bolla
    Posts
    1,682
    Spolliciometro
    +445

    Status
    Anonymous
    16 YO | 11.04.2017 | Dallaire's Manor | Hufflepuff | Neutral |
    THE ONLY PERSON YOU SHOULD TRY TO BE BETTER THAN, IS THE PERSON YOU WERE YESTERDAY
    SYRIAoptimistHOLLINS

    Quella mattina le era arrivato un gufo che le aveva spedito un biglietto, era piuttosto certa che non fosse dei suoi genitori anche perché si era scritta con loro qualche giorno prima e non si sentivano poi così spesso. Quando lesse dell'invito alla festa che si sarebbe tenuta a cada dei Dallaire, inizialmente aveva già preso la decisione di non andarci, soprattutto perché non avrebbe avuto nessuno che la accompagnasse e che quindi non facesse da palo tutta la serata in un angolo della sala. Si sarebbe imbarazzata come on mai e senza una delle sue amiche non si sarebbe mai divertita. Non è bello andare ad una festa da soli, chi andrebbe ad una festa da soli? Lei no di certo, ecco perché si era vestita immediatamente con le prime cose che le capitavano a tiro e si era subito diretta verso il campo da Quidditch, sicura che avrebbe trovato la persona che proprio stava cercando. «Syria! Tu hai mai palpato le mammelle di una mucca? Secondo te cosa si prova?» Si fermò appena vicino alla ragazza e subito si stupì della domanda piuttosto insolita da parte della bionda. La domanda la sorprese talmente tanto e la fece riflettere che si dimenticò perfino di salutarla come si deve e non solo come aveva fatto in lontananza appena l'aveva vista seduta intenta a leggere un libro. «Una mucca? Non ci ho mai pensato ma credo sarebbe strano.. Come mai questa domanda?» Chiese guardando confusa la ragazza. Chissà come sarebbe stato palpare le mammelle ad una mucca, lei di sicuro non lo aveva mai provato seppur avesse visto miliardi di volte delle mucche. «Sai cosa? Lascia perdere. Dimentica quello che ho detto, ti supplico. Allora, che succede?» Che succedeva? Perché doveva succedere per forza qualcosa? Aveva la faccia di una che doveva dire qualcosa di importante.. Oh sì che doveva dirle qualcosa, ecco perché era andata a trovarla lì. Sapeva di poterla trovare lì ogni volta che la sua squadra si allenava a Quidditch. «Eh? Uhm…Cosa?» Chiese sovrappensiero prima di ricordarsi del foglietto che teneva stretto in mano e che prima aveva sventolato per tutto il tragitto. Aveva già notato che la bionda aveva già iniziato a scuotere la testa, ma face finta di niente mentre continuava con la sua richiesta. «Ah si ecco, mi è arrivato un invito per la festa dei Dallaire e stavo pensando che potremmo andarci assieme.» Guardò la ragazza di nuovo ma non mostrava segni di cedimento, avrebbe quindi dovuto usare i suoi punti deboli per convincerla, ne era certa, anche perché voleva veramente andare a quella festa con lei. «Sì, perché non vuoi lasciarmi andare da sola ad una festa vero? Mi sentirei a disagio da sola e poi così ci divertiamo un po’ assieme» Iniziò già conscia del punto a cui sarebbe dovuta arrivare per convincerla completamente. «Syria, è una festa a casa dei Dallaire. Una festa. Ti sembro il tipo da festa?» Sapeva benissimo che lei non fosse una ragazza adatta a delle feste, ma magari sarebbe riuscita a fare cambiare idea almeno un minimo. Le bastava che si divertisse senza avere troppi pensieri per la testa. Una giornata di puro divertimento per entrambe e avrebbe fatto in modo che fosse lo stesso anche per l'amica. Sapeva che però se Amalie non si fosse trovata bene l'avrebbe seguita a ruota e non l'avrebbe di certo lasciata sola. «Ti prego ti prego ti pregooo.» Le fece gli occhi dolci come il gatto del gatto con gli stivali e la guardò, come se non bastasse poro le mai a combaciare davanti al proprio viso supplicandola. «Davvero io non me la sento e poi..» La interruppe incrociando le braccia al petto, lo sguardo di un angelo travestito da diavoletto. «Se non vai tu non vado nemmeno io» Sapeva benissimo di aver vinto appena guardò la ragazza che mostrava bene segni di arresa. Non voleva sul serio sfruttare i suoi punti deboli, ma voleva sul serio aiutarla e divertirsi assieme e sperò che a fine della serata avrebbe cambiato idea. Già si sentiva in colpa per averla praticamente obbligata ad andare ad una festa alla quale non avrebbe mai partecipato se non ci fosse stata lei e se quella scelta era stata buona o meno dipendeva tutto da cosa sarebbe successo quel giorno. «Me ne pentirò presto lo so…dai, andiamo. MA tu mi aiuterai a scegliere un vestito E a truccarmi. Non troppo, sia chiaro» Sorrise applaudendo entusiasta e promettendo che non l'avrebbe truccata eccessivamente, alla fine ce l'aveva fatta. Avrebbe sì dovuto occuparsi di tutto, ma almeno aveva la certezza che la ragazza sarebbe andata con lei alla festa.

    Era stata molto felice di trascorrere il pomeriggio in compagnia di Amalie, si erano divertite, avevano provato tanti di quei vestiti da spazientire perfino il commesso, eppure lei aveva provato tantissimi abiti, anche quelli che meno le si addicevano e aveva camminato credendosi superiore a tutti. Aveva guardato dall'alto in bassi le persone che la osservavano per poi scoppiare a ridere subito dopo. Aveva caldamente preso in giro tutti coloro che si credevano snob e alla fine si era anche beccata qualche occhiataccia da persone come quelle che fino a poco prima stava prendendo in giro. Si era zittita guardando Amalie, trattenendo un'altra risata.
    Il vestito che lei aveva scelto non era mai stato tanto lontano dai vestiti che di solito indossava la ragazza, ma ne era rimasta affascinata sin da subito. Sia il colore che la forma, appena provato le avevano fatto intuire che fosse il vestito giusto, sì, proprio come quando succedeva alle spose con i loro vestiti, solo che lei non andava certo a sposarsi, non aveva nemmeno un fidanzato, figuriamoci con chi avrebbe potuto sposarsi? In quel momento l'uomo perfetto della sua vita era solamente quel vestito, nessun altro sarebbe riuscito a rubare il cuore della ragazza tanto facilmente.
    La ricerca della maschera adatta fu più difficile di quella del vestito, sia perché Amalie non sopportava le piume, ma anche per lei che preferiva andare sul semplice ma non troppo classico. La maschera in filigrana che aveva trovato rispettava i suoi canoni di semplicità ed eleganza che si era imposta senza comunque sfociare nel banale. Era perfettamente pronta, le mancava solo il trucco, ma quello sarebbe stato l'ultimo passo per compiere l'opera delle due ragazze. Non si truccava quasi mai anche se sapeva farlo, si truccava solamente in occasioni speciali e come sempre comunque non in modo eccessivo ecco perché optò per un trucco al naturale più un rossetto rosso per lei per l'amica, se avesse accettato un colore del genere sennò avrebbe optato per un rossetto rosa chiaro che di certo sarebbe stato meglio ad Amalie e non a lei.

    Quando entrò nella dimora le due ragazze rimasero stupite dallo splendore di quella casa che lei, ad esempio, non avrebbe mai potuto neanche lontanamente immaginare. «Neanche fossimo due Cenerentola...» Sussurrò inconsciamente, le sembrava essere proprio la protagonista di quel libro che le leggeva suo padre quando era ancora piccola. Certo, lei preferiva di gran lunga altre storie, ma in quel momento avrebbe di sicuro potuto essere Cenerentola, per come si sentisse spaesata anche, dinnanzi a quella dimora.

    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code yb ms. atelophobia
     
    .
  9.     +9    
     
    .
    Avatar

    your face is aesthetically pleasing

    Group
    Special Wizard
    Posts
    232
    Spolliciometro
    +241

    Status
    Offline
    i'm such a slave for aesthetic
    DRESS / MASK -- former ravenclaw | 22 Y.O. | deatheater | shapeshifter

    10 aprile 2017, ore 21.30
    stanza di sperimentazione, laboratorio Leda

    Con un rumore secco, il carboncino gli si spezzò fra le dita nel momento esatto in cui premette con troppa forza sul pavimento bianco (bianco, come tutto il resto in quel luogo).
    Il ragazzo restò qualche istante immobile ancora in ginocchio, il viso corrucciato a fissare la polverina nera che si era sparsa sul disegno. Questo poteva sembrare completo ad un occhio inesperto, ma Noah poteva notare l'assenza di qualcosa, i dettagli mancanti. Realismo, ecco di cosa aveva carenza. Mormorò, fra sè e sè: «Realismo, e un po' di colore»
    Aveva una fissazione per la il concetto di perfetto, il prigioniero numero tremilatrecentotrenta, e sebbene fosse ben conscio di quanto fosse difficile, improbabile, impossibile raggiungerlo, questo non voleva dire che non valesse la pena provare a farlo.
    Umettandosi le labbra il biondo si alzò, accuratamente attento a non toccarsi i vestiti con le mani sporche di carboncino per evitare di sporcarli irrimediabilmente; non che quegli stracci bianchi valesse la pena di trattarli decentemente, ma a Noah piaceva credere che bisognasse vivere ogni occasione abbigliati nel modo più giusto e appropriato: quando dipingeva, teneva una vecchia camicia già macchiata; quando aveva ospiti a casa, si vestiva elegante; se doveva andare ad una festa, comprava un completo nuovo.
    Quando organizzava un funerale, si premurava di indossare un abito pulito.
    «Signor Jones», chiamò guardando oltre a vetro davanti a sè, e quel semplice nome, detto con un piccolo sorriso sulle labbra, sembrava tuttavia un ordine. Come se non fosse stato lui quello chiuso dentro una stanza isolata dedita agli esperimenti, bensì l'altro uomo presente nella stanza adiacente piena di macchinari complessi e separata solo per la parete a finestra. Che poi, Noah trovava quella precauzione di tenerlo imprigionato durante le sperimentazioni del tutto inutile: non si era forse dimostrato disponibile a collaborare con i dottori? Non aveva sempre cercato essere con loro il più cortese e mansueto possibile, richiedendo in cambio semplici agevolazioni per rendere il suo soggiorno più piacevole? Ogni tanto lo aveva fatto notare, quanto gli desse fastidio essere messo in quella inutile camera a chiusura ermetica che tanto assomigliava a una stanza degli interrogatori babbani; non poteva provare i suoi poteri in un luogo un po' più carino e meno simile ad un ospedale? Meno simile a una prigione? Non era scappato da Azkaban e dalla stretta di suo padre per quello. «Ah, mi fate venire voglia di infrangere la nostra piccola promessa!», diceva ridacchiando quando gli negavano quelle richieste, la testa che si scuoteva leggermente e i lunghi capelli che gli finivano davanti alla faccia e scacciava con la mano. Aveva fatto loro questo giuramento, il giuramento di ucciderli personalmente e come preferivano, ma l'aveva fatto col solito sorriso morbido e affascinante sulle labbra. «E' quello che ha fatto Giulio Cesare», spiegava ai dottori scettici e a quelli divertiti. Amava la storia e questi piccoli aneddoti, il biondo. Amava ripercorrere i passi di altri grandi uomini, chiedendosi se un giorno anche lui sarebbe finito a occupare un paragrafo in un libro. «Racconta Svetonio che venne rapito dai pirati. Sicuro che prima o poi sarebbe stato liberato, promise che li avrebbe uccisi personalmente, e li invitò a scegliere a quale tipo di albero avrebbero voluto essere impiccati. Una volta libero Giulio Cesare tenne fede alle proprie parole: li scovò, li catturò e li impiccò a quegli alberi che loro stessi avevano scelto per scherzo» Una volta l'assistente di un dottore gli aveva risposto a quella storia con un ghigno amaro. «E se non volessi rispondere come voglio morire, ma preferissi assicurarmi che tu marcisca qui dentro fino alla fine dei tuoi giorni?» «Beh, sarebbe molto spiacevole, ma mi inventerò qualcosa» Semplice e logico, nè più nè meno.
    Il signor Jones, oltre il vetro, ci mise qualche secondo ad alzare lo sguardo dal televisore. Qualche secondo di troppo che innervosì il ragazzo, che eppure si limitò ad allargare il sorriso. Capì che avrebbe dovuto far notare l'ovvio di persona: «Si è rotto»
    «Stiamo testando la tua capacità di far funzionare la realtà aumentata, non le tue doti artistiche»
    «E' piuttosto ovvio che io necessiti un nuovo carboncino»
    «Usa un pezzo di quello rotto»
    Noah esalò un sospiro di delusione. Delusione non tanto per il rifiuto, quanto per la scemenza dell'uomo. Incrociò le braccia. «Mi sembra un po' pretenzioso, signor Jones, chiedere a Michelangelo di completare la Pietà senza uno scalpello»
    L'assistente dottore sembrò non capire esattamente cosa c'entrasse il paragone, ma con espressione infastidita aprì il cassetto della scrivania, tirando fuori un nuovo gessetto nero, lungo quanto il proprio dito. Noah si aprì in un sorriso estasiato. «Quello andrà benissimo. Sareste così cortese da portarmelo?»
    Jones sembrò pensarci un po', forse immaginando che sarebbe stato più furbo non darla vinta allo wizard entrando nella tana del lupo, ma dovette capire che non soddisfacendo l'eccentrico ragazzo a cui era stato assegnato avrebbe finito per dover subire ancora più a lungo le sue noiose e infinite lagne. Era un esperimento tranquillo e accondiscendente, il mutaforma, ma era altresì incredibilmente fastidioso quando ci si metteva.
    Noah lo vide guardare lo schermo che aveva di fronte, sapendo che da lì, a debita distanza, poteva controllare grazie una telecamera che il disegno che lo wizard aveva fatto rappresentasse qualcosa di innocente e non un'arma che avrebbe potuto tirare fuori magicamente grazie al suo potere per poi rivolgerla contro di l'assistente. Ma Noah era stato bravo: si era limitato a rappresentare un uomo dormiente dall'espressione tormentata. «Non vi fidate di me», lamentò mettendo il broncio. «Vi ho mai mentito?»
    L'assistente lo dileguò con un gesto della mano. No, Noah non gli aveva mai mentito, limitandosi sempre a fare quello che i dottori gli avevano detto di fare.
    «Non mi pagano abbastanza per questa merda» Jones si alzò svogliato vedendo che non c'era pericolo, avvicinandosi alla porta con oblò che collegava la camera di sicurezza dov'era rinchiuso Noah e mentre Noah lo aspettava a braccia aperte e un sorriso languido tirò fuori il badge magnetico per aprire. Si affacciò sull'uscio aperto, sporgendo il carboncino che il ragazzo prese ammiccando. Ruotando gli occhi, Jones si voltò per tornare alla sua postazione.
    «Non così in fretta»
    Fu un attimo.
    Jones non si era probabilmente aspettato una reazione da un esperimento solitamente così succube; fastidioso, sì, ma trasgressivo mai. Ah, se solo avesse saputo quanto per anni era stato bravo Magnus a fingersi il figliolo che tutti i purosangue vorrebbero, allenandosi solo per quel momento!
    Noah aveva allungato il braccio, e lo stringeva ora intorno al collo dell'uomo, bloccato in mezzo alla porta, usando tutta la propria forza. Sentiva le sue dita graffiargli l'avambraccio nel tentativo di liberarsi, boccheggiante, ma non mollò la presa dal corpo colto dagli spasmi che cercava di ansimare un grido di aiuto. Noah lo zittì infilandogli di prepotenza con l'altra mano il gessetto in gola, e sperò vivamente che questo non lo fece vomitare. «Shhh shhh...»
    L'assistente ci mise più tempo del previsto a perdere i sensi, e quando lo fece Noah lo fece scivolare lentamente a terra. Si chinò su di lui, alzandogli il polso per guardare il bell'orologio con cinturino di cuoio che portava. Secondo i suoi calcoli, aveva ancora otto minuti prima che qualcuno si accorgesse del fatto.
    «Jones, Jones, Jones... sarebbe stato così tanto più facile se mi aveste detto come preferivate morire, invece che ignorare la mia richiesta»
    Guardò il corpo riverso pancia a terra al suolo, il disegno a carboncino appena visibile sotto di esso, e alzando leggermente il mento ma continuando a guardare verso il basso tirò il più forte possibile un calcio contro la testa dell'uomo, spingendola verso il basso. Il suono di ossa che si rompevano non gli produsse nessuna emozione, nè negativa nè positiva, così come non lo fece la macchia rossa che iniziava ad allargarsi a terra. Non era un medico, e non sapeva se fargli rientrare il naso nella faccia con quel colpo potesse averlo ucciso, ma sperava di sì. Per sicurezza diede un altro calcio un po' più in basso, all'altezza del collo. Tendeva a non considerarsi una persona macabra, che ama accanirsi su un corpo già martoriato; non era uno psicopatico... ma un artista? Quello sì. Sempre con il piede, diede questa volta una piccola spinta di lato al corpo, spostandolo via abbastanza per poter ammirare il disegno precedentemente fatto.
    Guardando la riproduzione di un uomo riverso al suolo, ora imbrattato di sangue, un sorrisetto soddisfatto gli si dipinse in volto.
    L'aveva detto, che mancava solo un po' di colore.

    14 aprile 2017, ore 20.30
    camera degli ospiti, Villa Icesprite

    Noah guardò la scritta sul retro della fotografia con sguardo nostalgico.
    Magnus Hyperion Icesprite II.
    Quello era il nome con cui era nato, e quello era il nome con cui, presumibilmente, sarebbe dovuto morire; se gli avessero detto qualche mese prima che avrebbe dovuto cambiarlo, che avrebbe avuto l'occasione di sceglierselo, così come di scegliersi il proprio destino, non era sicuro ci avrebbe creduto. Chi poteva saperlo che bastava uccidere il proprio padre per diventare finalmente libero?
    Mise via la foto dalla capsula del tempo (una vecchia valigia in cuoio) da cui l'aveva tirata fuori, osservando gli altri oggetti che sua madre in tutti quegli anni aveva conservato per lui, il suo amato e dannato figlio. Un piccolo ritratto, il suo cravattino preferito, delle spille antiche, una penna del ventesimo secolo, il suo sigillo per chiudere con ceralacca le lettere, qualche altra foto, delle cartoline... sembrava tutto così vecchio, in quel momento, che era assurdo che in realtà lui avesse tenuto fra le dita quella roba poco più di qualche settimana prima. Era quello che accadeva a tutti i viaggiatori del tempo, immaginò... sempre che nel mondo esistessero altri ragazzi nati alla fine degli anni quaranta che erano riusciti, grazie ai soldi e a una madre intelligente, a raggiungere il ventunesimo secolo. Ne dubitava, e la propria unicità gli fece salire un sorriso alle labbra.
    «Magnus». Il ragazzo alzò lo sguardo verso la porta, e prima che la donna che aveva parlato potesse entrare nella stanza si premurò di cambiare il proprio aspetto, diventa il signore dalla faccia gentile che quattro notti prima aveva bussato alla porta di Villa Icesprite. Aveva gli stessi occhi azzurri del ragazzo della fotografia, di Noah, i lunghi capelli brizzolati come la barba, e rughe di cinquant'anni. Si era presentato come il vecchio Magnus H. Icesprite II, rinchiuso in prigione ingiustamente per troppo tempo e finalmente liberato in quanto giudicato innocente... Beh, tecnicamente non era davvero innocente, però era comunque sinceramente stato al fresco, sebbene non ad Azkaban, e sebbene non per cinquant'anni ma poche settimane.
    Laboratori.
    Chi poteva credere che il ventunesimo secolo presentasse delle novità tanto assurde? Nella mente si presentò nuovamente l'immagine di Idem, la ragazza con gli occhioni azzurri così familiari, e gli venne una stretta al cuore. Non avrebbe voluto abbandonarla là, a subire altri esperimenti, altre torture, ma non aveva potuto fare altro. Fuggire era stato già abbastanza difficile senza dover pensare anche a liberare un'altra persona.
    «Entra pure, Levi». Magnus guardò l'anziana donna, sua moglie, come aveva sempre fatto fin da quando aveva scoperto che avrebbe dovuto sposarla nonchè passare il resto della propria vita con lei: un sorriso che nascondeva sufficienza e un tocco di nausea. Lo sguardo di lei era sempre stato lo specchio del proprio, ma in quel momento Magnus, no, Noah, si rese conto che negli occhi di Levi non c'era odio o ribrezzo per il marito, solo indifferenza e forse addirittura affetto. Quei cinquant'anni di libertà da lui doveva essersi goduti, e Noah non poteva che provare un po' di orgoglio per quello che l'aveva resa.
    «Ho sentito che stai per uscire»
    «Non puoi impedirmelo» Noah si rese conto troppo tardi del tono di difesa che aveva assunto, da animale in trappola. Quella casa, quella donna, erano sempre stati una gabbia troppo stretta per lui, e nonostante il tempo trascorso lontano da queste (o forse proprio per quello) poteva ancora sentire le cicatrici delle sbarre dorate contro il proprio corpo.
    «Non era mio intenzione farlo» Non le importava. Noah si rilassò, più sereno. Non le era mai interessato dei comportamenti del marito, ed era felice di scoprire che questo non fosse cambiato. «Volevo solo assicurarmi che tu non facessi rientro prima del mattino. Vive un bambino in questa casa, e non vorrei che tu tornassi ubriaco e lo svegliassi o facessi Morgana solo sa cosa»
    Noah si portò una mano al petto, fingendosi oltraggiato. «Non gli farei mai del male, in nessuno stato»
    «L'hai detto tu stesso: la prigione cambia le persone, e hai visto cose orribili lì dentro»
    Il ragazzo nel corpo del vecchio evitò di far notare che in realtà non aveva davvero passato mezzo secolo ad Azkaban, ma che aveva fatto solo scena cercando di impressionare in quei giorni i suoi discendenti con racconti rubati a libri o a testimonianze di chi aveva conosciuto nei laboratori e che lì sì che c'era stato anni. Dire di non esserci stato alla partita di Quidditch del nipote perchè era occupato a sopravvivere alla pena capitale da parte dei dissennatori sembrava più divertente che dire di essersi semplicemente perso quegli anni, e non averli mai vissuti affatto.
    «Tu cerca di non stare vicino ad Antares da solo. Non voglio tu lo faccia»
    Sapeva perchè lo aveva detto: Magnus era stato un bambino problematico, un ragazzo irrecuperabile, e un marito affatto presente... ma soprattutto aveva avuto degli esempi poco raccomandabili su come comportarsi in quanto genitore. Suo padre e la governante che lo avevano cresciuto non erano esattamente stati l'esempio di amore e bontà di cui un infante ha bisogno, se non si considera far pulire il pavimento su cui si è rovesciata la minestra con la lingua un gesto di affetto. Magnus non aveva mai raccontato nei dettagli i metodi di insegnamento dei suoi tutori, per lui aguzzini, ma sapeva che Levi glielo aveva dovuto leggere negli occhi a un certo punto; lei aveva sempre temuto che un giorno Magnus sarebbe diventato come suo padre.
    Levi si voltò per uscire dalla stanza, ma Noah non potè evitarsi il commento freddo: «Lui non è William»
    William, loro figlio. A quanto gli avevano raccontato, era morto anni prima, e sebbene non fosse mai stato un padre molto presente o amorevole, la cosa lo aveva fatto star male. Non lo aveva mai amato come un figlio, ma per un po' ci aveva provato, tentando di essere come poteva un padre migliore di quanto non lo fosse mai stato il proprio (e ci voleva davvero poco). Di sicuro, abbracciando Will mesi prima, non si era aspettato di sopravvivergli, così come non doveva esserselo aspettato Levi.
    «E tu cosa ne sai?»Tu cosa ne sai, dicevano i suoi occhi, tu non c'eri. Non ci sei mai stato.
    Povera Levi. Doveva aver sofferto molto. Un sorriso amaro si dipinse sulle labbra di Noah. «Lo ricordo piuttosto bene»
    La guardò andare via, e tornò a fissare le proprie cose che aveva sparso sul letto. Sollevò il polso, guardando l'orologio con cinturino di cuoio che aveva recuperato qualche giorno prima, e decise che era arrivato il momento di iniziare i preparativi per la festa.
    Aveva sentito del party di Pasqua a casa Dallaire casualmente, camminando per i corridoi di Hogwarts dove Noah aveva iniziato a frequentare le lezioni di controllo dei poteri, e si era accollato al Tassorosso dai capelli rasati senza pudore alcuno. Perchè qualcuno avrebbe dovuto rifiutare di portarsi come più uno un ragazzo affascinante come lui?
    Aprì la porta dell'armadio, tirando fuori un completo elegante che sapeva di nuovo. Nuovo, ovvio. Ho già detto che se andava ad una festa, si premurava di acquistare un vestito mai messo, ed era importante, sebbene non essenziale, che fosse fatto su misura da un sarto fidato; purtroppo tutti i sarti che conosceva dei suoi tempi erano morti o in pensione, ma era riuscito a trovare un valido sostituto che aveva pagato in contanti. Con i soldi presi da Villa Icesprite, ovviamente; in fondo, era ancora casa sua e glielo dovevano.
    Tornò Noah, la barba che spariva, il fisico che si ringiovaniva e le rughe che si lisciavano, e fissò lo specchio davanti a sè. Si passò una mano fra i capelli biondi, e subito divennero neri. Annuì soddisfatto al cambiamento. Si vestì senza fretta, attento ai particolari perchè fosse tutto impeccabile, e terminato il tutto si appuntò all'occhiello un fiore nero, abbinato alla maschera che avrebbe messo, al cravattino, alle scarpe e ora ai capelli. Si lisciò la camicia sorridendo; amava come la giacca avesse lo stesso colore dei propri occhi, senza che avesse avuto bisogno di cambiare questi ultimi usando il proprio potere.
    Uscì senza salutare nessuno se non il bisnipote Shane (aveva notato come in quella casa a nessuno importasse molto di Noah Parrish, il fantastico cugino dall'America che aveva perso la magia), dirigendosi alle stalle per recuperare una carrozza che lo portasse al luogo dell'incontro con CJ, e passò il viaggio leggendo sereno a lume di candela.
    Arrivato davanti alla villa Dallaire, si diresse con una mano in tasca verso il ragazzo rasato e la sua eccentrica accompagnatrice. «parrucca» «aestheticJ» perchè sì, era per quel motivo che Noah aveva messo gli occhi, avidi di perfezione, su CJ e sulla sua bellezza non solo non convenzionale, ma quasi inesistente, obbligandolo a guardarlo da lontano a Hogwarts per poi cercare di ritrarlo. Perchè CJ non era un ragazzo carino, e a volte Noah si chiedeva se un ragazzo lo fosse e basta, con quegli occhi insieme da fiera feroce e da adulto bambino, e con quel volto segnato delle rughe di mille, di troppi, sorrisi fatti nel modo nel sbagliato, nella vita sbagliata. In più, se non aveva il viso tumefatto da un taglio e da un livido sembrava poco contento. A Noah questo piaceva particolarmente: il sangue stava bene con i suoi denti bianchi e con i suoi occhi taglienti.
    «Interessante scelta», commentò indicando la maschera a gas, mentre si metteva la propria di filigrana metallica; poteva apparire semplicemente nera, ma quando Noah muoveva il viso brillava leggermente di sfaccettature blu. «Ma spero i russi non verranno a disturbarci proprio questa notte. E' la mia prima festa da un po'». Nessuno aveva pensato in quei giorni di dirgli che la guerra fredda era conclusa, e vabbè.
    Si presentò agli amici di CJ, e non cercò neanche di stare loro dietro più del necessario. Non era lì davvero per farsi amicizie per la vita, solo per conoscere persone, solo per conoscere quel nuovo mondo e, in qualche modo, conoscere se stesso. Recuperò un bicchiere di vino da qualche parte, ridendo come un bambino alla forma di questo, e mandò giù in un sorso. Dio, quanto gli era mancata la vita.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia



    linko il wanna ciao #SPAM
    e omg posso attivarlo. Sto così male. NON CICREDO


    sostanzialmente non fa niente che possa importarvi, non leggete davvero.
    Entra con cj, conosce barrow e sun. Beve #trolololol (non credo veda ancora bj, MA STAY TUNED PER THE SOPRACCIGLIA MYSTERY)


    Edited by fucked up - 20/4/2017, 12:56
     
    .
  10.     +8    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Inferius
    Posts
    978
    Spolliciometro
    +652
    Location
    nowhere

    Status
    Offline
    Blowjob/Bernie/BarbaJanni
    15 y.o.
    Brandon Junior Hamilton
    Slytherin

    13th november 2007


    C'era una scatola di cartone sotto il letto di Black Jack, infilata sotto un'asse sconnessa del pavimento fatiscente. Nessuno sapeva della sua presenza, nessuno aveva mai controllato, nemmeno i tutori dell'Orfanotrofio che mensilmente perquisivano i dormitori alla ricerca di oggetti che i bambini non avrebbero dovuto avere. «Non siete nessuno» dicevano, quando non c'erano aspiranti genitori ad osservare o autorità a tenere d'occhio il St. Thomas «non avete diritto ad alcuna proprietà». Le cinture e le bacchette lasciavano segni rossi e ardenti come il fuoco, notti insonni a soffocare le lacrime nel cuscino, i denti serrati per non permettere alle urla di fuoriuscire, per non permettere a Miss Dubois di punirli di nuovo, sta volta con una buona ragione. Le dita cercarono il solco che in sette anni le sue unghie avevano formato e l'asse si sollevò senza problemi, il silenzio interrotto solo dal respiro di BJ, l'unico nel dormitorio nonostante la bella giornata. Da fuori provenivano le urla delle bambine rincorse dai bambini, i ragazzi più grandi che facevano le gare a chi osava avvicinarsi di più al cancello interno, quello che delimitava l'area riservata ai tutori. La stanza era vuota, i letti fatti con cura minuziosa per paura di passare la notte nella cantina. La scatola scivolò silenziosa allo scoperto, permettendo al piccolo di frugarci dentro: una figurina di una cioccorana trovata in giardino, un ritaglio di giornale che parlava della fiera in paese, il fermaglio della sua unica amica, adottata prima di lui e mai più rivista, uno zellino trafugato al vecchio custode, tappi di bottiglie e bottoni scuciti. Era il suo forziere del tesoro, il bottino di una lunga e sofferta permanenza in quel posto, il lavoro di chi sapeva come raggirare il più infido e invasivo dei controlli mensili. Geloso di ogni più piccolo granello contenuto tra quelle quattro pareti cartonate, tirò fuori il pacco mlml e lo portò al petto, abbracciandolo come se fosse stata la porta su cui Rose aveva atteso i soccorsi in mezzo all'oceano. Quando le lacrime bruciavano gli occhi e i lividi si espandevano come chiazze di universo senza stelle, prendeva uno degli oggetti e lo stringeva a sè, la cosa più vicina ad un peluche che potesse avere erano quei frammenti di una vita non sua, schegge dell'esistenza che circondava l'orfanotrofio senza mai coinvolgerlo davvero. Ogni visita dall'esterno era una miniera di preziose aggiunte per la propria collezione. Sapeva di non essere l'unico ad averle, ma nessuno osava tirarle fuori in presenza di altri, temendo sempre la furia dei tutori. Le collezioni erano una sorta di tradizione, una cosa che si sussurrava nei bagni di prima mattina, a cena mentre ci si nascondeva un pezzo di pane in tasca. Pensavano di poter essere normali se avessero avuto qualcosa, se era vero che loro non avevano diritto a delle proprietà, potevano fingere di essere qualcuno se si aggrappavano saldamente anche al più stupido e comune degli oggetti trovati. Barcollando, sbilanciato dal peso del suo bagaglio, BJ attraversò la porta del dormitorio che dava sul corridoio. «Sei pronto?» Emile si accovacciò per poter stare all'altezza di BJ, osservando curiosa la scatola che il piccolo teneva serrata tra le sue braccia. Black Jack annuì con un timido sorriso, afferrando la mano della donna bionda nel tailleur color pesca. «Pensavo che non poteste avere degli oggetti solo vostri a parte gli indumenti» disse Denzel sollevando lo zainetto dove BJ aveva riposto i pochi vestiti che aveva. «E' così» confermò semplicemente il bambino, continuando indisturbato a camminare, quasi trascinando la signora Reynolds. Era così entusiasta di poter finalmente lasciare quel posto, era così felice di non dover più fingere di essere qualcuno, era così euforico di poter avere anche lui delle persone da poter chiamare mamma e papà che non si accorse di essere veramente uscito dal St. Thomas finchè non furono arrivati davanti all'immensa casa dai muri color crema e le inferriate bianche. «Benvenuto a casa, Bernadette Julien Reynolds» la voce trillante per una risata cristallina di Emile tradì l'integrità che aveva tentanto di assumere durante il prelievo del loro nuovo figliolo. Il modo in cui disse il nome del rosso, procurò un curioso brivido che gli fece tremare le gambe, mentre un sorriso si apriva raggiante. Non era mia stato adottato, sapeva che alcune famiglie tendevano a rimandare indietro i bambini, e il timore era insito in lui, sebbene quella visione sembrava troppo gioiosa, troppo perfetta per credere che i Reynolds lo avrebbero mandato via. Gli occhi azzurri e profondi di Denzel, pozzi da cui attingere in continuazione perle di saggezza. Il volto delicato e percorso da poche rughe di Emile, con quel sorriso così materno, seppur Bernadette fosse certo che loro non avessero mai avuto figli. Doveva essere una cosa naturale, doveva avere quel genere di sorriso rassicurante fin dalla nascita. Il potere che quelle due persone, apparenti sconosciuti, avevano su di lui era indescrivibilmente forte. Solo stando nelle loro vicinanze poteva sentire un calore riscaldarlo partendo dallo stomaco, come... come... come una puzzetta! Ma meno volgare e su un piano più sentimentale che olfattivo. Più tardi, avrebbe scoperto che quella puzzetta era il sentimento che caratterizzava l'amore di una famiglia, l'amore che veniva automaticamente quando si era circondati da persone definibili da una sola semplice parola: casa.

    summer 2012


    «Sei sicuro?» la voce titubante di BJ lasciò trasparire la paura che lo attanagliava come una fredda morsa di ghiaccio. Il sorriso beffardo del ragazzo affianco a lui, i denti bianchissimi che disegnavano una candida curva su una pelle ancora più chiara; quello sguardo gelato di chi è costantemente in attesa di proporti una sfida, più intenzionato a vedere se l'accetterai più che a vincerla; la pelata che brillava come una delle sfere di vetro di Denzel, costellata qua e là dai primi capelli che riaffioravano da cuoio capelluto. Tutto in lui diceva che no, non era affatto sicuro e BJ lo seppe ancor prima che lui rispondesse: «affatto... andiamo Blowjob». Era una domanda ma anche una affermazione. Afferrò il braccio di Bernadette e lo tirò giù con sè. Le pentole risuonarono come campanacci sulle tegole del tetto spiovente, i denti di BJ batterono tra loro sia per la discesa che per la paura che, ancor più di prima, gli aveva chiuso la bocca dello stomaco. Sotto di loro un triangolo verde si allargava sempre di più, anticipando ogni secondo il volo che di lì a poco avrebbero spiccato, in quella notte afosa di giugno. Il fracasso avrebbe svegliato sicuramente i vicini, ma i Cooper erano degli stronzi e meritavano anche di peggio, o questo era quel che CJ gli diceva ogni volta che entrambi tornavano a casa pieni di lividi. Oltre alla paura di cadere e morire, c'era il timore che i Reynolds rincasassero prima della fine della festa per vedere come stavano. Erano dei genitori apprensivi e premurosi, sempre in pena per loro, per lui. Se la morte per la caduta non gli avrebbe colti, Denzel ci sarebbe andato giù pesante. Oh, non c'e bisogno di preoccuparsi: i loro genitori non erano mai stati a favore delle punizioni corporali, ma erano molto propensi, ed esperti si direbbe, con le punizioni restrittive: niente tv per una settimana, coprifuoco alle sette per un mese, niente bacchetta per CJ fino all'inizio del nuovo anno scolastico. La loro parola era legge, erano irremovibili sui castighi applicati, ma lo erano anche con le promesse. Mai una volta BJ li aveva visti dover infrangere un patto o venir meno alla parola data.
    Il cielo buio era percorso dall'alone arancione delle luci della città, ma la posizione sopraelevata che avevano i due ragazzi, permetteva loro di osservare la coperta buia della notte puntellata di luci, i lumi di una città dormiente, quasi tutti di lampioni più che di case o negozi. Era una città tranquilla e quell'attimo, il momento in cui la padella si staccò dalla susa discesa, rimase congelato negli occhi del maghetto come una cartolina ricevuta e attaccata al frigorifero. Una città lontana, che forse non apparteneva davvero a loro, ma che BJ voleva con tutto il cuore con sè. Voleva essere qualcuno, non sarebbe stato mai più nessuno. Non una volta avrebbe permesso che le parole di quella donna, Miss Dubois, diventassero vere per lui. Aveva qualcosa, voleva avercela, materiale o sentimentale che fosse, e nessuno sarebbe riuscito a portargliela via. Il cozzare della terracotta contro l'acciaio si interruppe bruscamente e l'aria fece svolazzare le sopracciglia di Bernadette «CJ STO VOL-»
    «ARRESTO MOMENT-» l'erba soffocò le ultime sillabe dei bicigini, facendoli precipitare rovinosamente entrambi nel giardino sul retro. Pochi attimi di silenzio e poi il caos. Dall'altro lato dello steccato un cane iniziò ad abbaiare ferocemente, le luci di casa Cooper si accesero assieme al vociare dei vicini, ma la risata di Caleb Jefferson sembrò sovrastare tutto quanto. «Oops» riuscì a dire tra un singulto e l'altro, ora disteso sulla schiena che sputacchiava fili d'erba verdissima. D'altro canto BJ aveva ben poco da ridere, ripiegato in posizione fetale cercava di ricacciare indietro le lacrime, mentre il braccio sinistro stringeva alle ginocchia quello destro. «Ah Blowjob, non esattamente quel che avevamo previsto, ma comunque niente male» lo sguardo del fratello maggiore puntato sulle stelle, le poche che imponevano la loro luce senza farsi soffocare dai lampioni, incurante dell'insolito silenzio del ragazzo dai capelli ramati. Il cane continuava ad abbaiare, le voci dei Cooper che non capivano cosa avesse fatto tutto quel fracasso imperversavano come il rombare sommesso di una tempesta lontana, mentre un altro era il temporale che si sarebbe abbattuto di lì a pochi istanti su casa Reynolds.
    Lo sbattere di una porta, il suono dei tacchi sul marmo, il mormorio dei genitori che non vogliono disturbare il sonno dei figli e l'affrettarsi dei passi nel momento in cui si erano accorti della luce accesa in giardino. «BERNADETTE» urlò in preda al terrore una voce femminile, calda e rassicurante anche nel suo spavento. La gonna azzurra di Emile si sporcò di verde, quando si inginocchiò accanto a BJ per accarezzargli i capelli e accudirlo. «Caleb Jefferson! Qui, immediatamente» al lentezza con cui l'ultima parola fu pronunciata, fece presagire che avevano sentito anche loro il rumore delle pentole e, vedendole a terra affianco a loro, era bastato poco per fare due più due. CJ si alzò e raggiunse il padre, ma Bernadette non ebbe modo di sentire quel che si dissero, troppo occupato a mordersi la lingua. Un dolore lancinante al braccio che usava per scrivere gli faceva ancora vedere le stelle, mentre le palpebre chiuse mostravano un fondo blu e non nero. Che si fosse danneggiato la cornea? Che la caduta lo avesse reso cieco? Oppure il dolore era così lancinante da avergli causato un'improvvisa allucinazione? Non era la prima volta, anche quando veniva picchiato a sangue dagli altri ragazzini gli pareva vedere colori che non c'erano, come macchie verdi che costellavano il suo campo visivo, simili alle chiazze di bruciato sulle vecchie pellicole nei vecchi cinema. «Sssh va tutto bene, andiamo subito in ospedale» la mano di Emile accarezzò il volto scosso e arrossato di Bernie, un gesto semplice, ma che, per qualcuno che come lui non era abituato alle dimostrazioni di affetto, fece da antidolorifico. Una morfina che in cinque anni aveva reso BJ dipendente al punto da trovare riparo anche nel più lieve dei contatti. Dopo una bruciatura, dopo il doloroso colpo di uno stipite in testa, un bacio gentile o un abbraccio sembravano avere un effetto più immediato sulle ferite. Sia quelle appena procuratesi, sia su quelle che il tempo al St. Thomas aveva inciso sulla su schiena, sulle sue mani, sul suo cuore. La madre lo aiutò a rialzarsi e, solo quando fu in piedi, vide lo sguardo infuriato di Denzel puntato su quello ghiaccio di CJ. «No...» sussurrò lasciandosi sfuggire una lacrima, distrattosi dal trattenere il dolore per colpa di quella scena. Fece un passò e la caviglia gemette sotto il suo peso, subito seguita dalla voce che diede un suono al suo dolore. Continuò a zoppicare, un piede dopo l'altro (o quel che ne rimaneva) fino al completo gessato di suo padre «E' colpa mia» non sapeva mentire, ma lo stava facendo comunque, sperando che la poca credibilità nella sua voce fosse confusa per dolore «gliel'ho chiesto io, volevo vedere le stelle» ingoiò vistosamente la saliva, il pomo d'Adamo fece un lungo su e giù, come le emozioni che si stavano alternando in quel giardino. Gli sguardi delle tre persone a cui più teneva erano puntati su di lui e tutti sapevano che stava mentendo, ma cos'altro avrebbe dovuto fare? Lasciare che il suo migliore amico, suo fratello, venisse punito? Non tentare nemmeno di difenderlo? Dopo tutte le volte in cui lui era stato difeso, in cui lui era stato quello bisogno di aiuto, il minimo che poteva fare era aiutare il suo eroe quando le persone che avrebbero dovuto amarlo sembravano fare tutt'altro.
    «Con te facciamo i conti dopo» fu l'unica cosa che la voce austera e profonda di Denzel osò dire. Nessun altro parlò, non finchè BJ fosse rimasto lì, ma, quando si voltò indietro mentre la madre lo accompagnava dentro casa, vide il braccio del padre poggiarsi sulla spalla di CJ in un gesto apprensivo, mentre gli occhi dei due sembravano scambiarsi sguardi fulminanti.
    Un sospiro di sollievo fuoriuscì dal petto, anch'esso dolorante, di BJ, lieto che Denzel si fosse dimostrato il padre apprensivo che in cinque anno era sempre stato,
    Peccato che la guancia arrossata di CJ fosse quella nascosta agli occhi dell'undicenne.

    present day
    08:25 pm


    Gli auricolari ben piantati nelle orecchie non potevano minimamente competere con il battere veloce e prepotente del cuore, affaticato dal duro allenamento che Bernie aveva quasi portato a termine. Il sacco da box davanti a lui rimbalzava con un suono duro e piatto contro le sue nocche, fasciate con cura come gli aveva insegnato l'istruttore diversi anni prima. Il fiato corto, la pelle lucida e lo sguardo concentrato sull'oggetto che, nella sua mente, poteva essere la faccia di chiunque. Metà delle persone che conosceva si erano crudelmente prese gioco di lui, lo avevano sottovalutato e insultato. Quella promessa che si era fatto, il non voler essere mai più un nessuno, era stata mantenuta, seppur nel peggiore dei modi. Camminava per strada e la gente, i suoi coetanei, lo additavano e lo sbeffeggiavano, trasformandolo nella vittima perfetta per qualsiasi cosa. Le nocche colpirono ancora la pelle nera del sacco, ad ogni cazzotto l'odore della gomma, di sudore, di sangue, odori contrastanti con il bianco immacolato e la purezza di quel posto. Su ogni parete si alternavano pannelli di vetro che riflettevano la sua immagine sudata e spossata, ma nemmeno lontanamente arrendevole. Innumerevoli BJ sfoderavano i medesimi colpi contro i medesimi avversari, impassibili e lievemente dondolanti, sembravano televisioni che inquadravano il Serpeverde da diverse angolazioni, permettendo allo spettatore uno spettacolo a trecentosessanta gradi. Un altro pungo, e un altro, le mani portate all'altezza del mento pronto per un difendersi da un cazzotto che non sarebbe arrivato, non lì. Pronto per un ultimo pugno, un colpo di nocche che avrebbe mandato al tappeto molta gente di sua conoscenza, gente che non avrebbe esitato a fare lo stesso con lui, si maledisse per non averlo mandato a segno. Prima che la sua mano potesse spingere il bersaglio di pelle sintetica e sabbia, un trillo squillante, che gli costò l'udito per qualche secondo, esplose nei suoi timpani. Si tolse violentemente gli auricolari, lasciandoli a penzolare sul petto, mentre il fiato ritrovava lentamente il suo regolare andamento. «Vai a farti una bella doccia, i sarti saranno qui a momenti» la voce di Emile non lo colse di sorpresa, certo che anche lei aveva impostato una sveglia per quell'ora. Si voltò verso l'uscio, nascosto dietro un ennesimo specchio, e sorrise alla madre, che si dileguò lasciandolo da solo nella sua stanza. Qualche anno fa, dopo che BJ aveva scoperto una certa propensione per la box, i Reynolds avevano costruito una sorta di piccola palestra in una delle sale ricreative della loro immensa villa. Bilancieri, tappetini e attrezzi, addirittura un piccolo ring, il tutto sembrava duplicarsi riflettendosi in ogni specchio strategicamente piazzato per far sì che Bernie avesse più fiducia in sè stesso e in quel che faceva. Non che ne fosse sprovvisto, ma i suoi cali di autostima erano più che giustificati quando ad ogni passo in strada qualcuno era pronto a insultarti, a picchiarti... ucciderti. Nessuno lo aveva mai puntellato con un coltello, nessuna pistola aveva mai avuto intenzione di svuotare il proprio caricatore su di lui e mai una bacchetta lo aveva minacciato con un incantesimo dalle fatali conseguenze, eppure ogni giorno sentiva una parte di lui morire. Come se ogni giorno che sorgeva, ogni mattina in cui si preparava per affrontare il modo subdolo e crudele che lo circondava, desse fiamme ad uno dei preziosi tasselli del curioso e variegato puzzle contenuto nella scatola di cartone. Non la tirava fuori da un bel po', non aveva più bisogno di fingere di avere qualcosa di suo, ora aveva anche lui oggetti definibili propri, o così credeva... sperava, eppure quelle schegge di vita altrui erano ancora le sue cose preferite in tutta quella casa. I Reynolds erano brava gente, bravi genitori, ma non avrebbero mai compreso appieno il significato insito tra le pieghe di quei giornali e i granellini di polvere nascosti nelle più piccole crepe. Uno dei bottoni contenuto in quella scatola aveva un valore cento volte superiore a quello di tutti gli attrezzi da allenamento messi insieme, ma perchè non li aveva più toccati, osservati e ammirati? Perchè non aveva avuto il coraggio di tirare fuori quel lato di sè? Per quante cose potesse avere, sapeva che era ben poco ciò che poteva considerarsi propriamente suo.
    Si accasciò su una panca, osservando con intensità le scarpe che portava, di una marca che non avrebbe saputo nemmeno pronunciare, calzature con solette ergonomiche, lacci anti-inciampo, suole con super aderenza e Morgan solo sa chissà quali altri diavolerie sponsorizzate nelle ammalianti pubblicità, mostrare a tavola su uno schermo televisivo grande quanto il suo letto. Era una vita che non credeva possibile e che, invece, si era ritrovato a condurre da così tanti anni che gli sembrava solo un lontano sbiadito ricordo il tempo passato al St. Thomas. Ma nessuno che fosse stato lì avrebbe mai potuto dimenticare un'infanzia come quella.
    BJ non era da meno.

    9:10 pm


    Le bacchette si muovevano leggiadre attorno a lui, mentre un team di due sarte e uno stilista ricamavano il vestito addosso ad un BJ immobile, terrorizzato dall'idea che potessero letteralmente cucirgli gli abiti a pelle in un legante tatuaggio ottocentesco. L'ago univa il corpetto alle maniche, il metro si arrotolava come un serpente su per le gambe e i sussurri del team preoccupavano non poco il giovane. Non era la prima volta che un vestito gli veniva fatto su misura, ma mai era stato così elaborato e raffinato. «Oh, Denzel, guardalo! Il nostro ometto!» commentò la donna bionda, portandosi le mani giunte alla bocca. «Mamma!» disse tra i denti, anche se in fondo non gli dispiaceva sapere che anche i suoi genitori lo vedevano cresciuto, maturato. «Emile, Bernadette ha ragione: non dirgli mai più che è un bel ragazzo!» scherzò l'uomo dai capelli scuri e lo sguardo azzurro, poggiando le mani sulle spalle della moglie. Sia lei che loro figlio risero, suscitando un tick nervoso nell'uomo che supervisionava le sarte «mister Reynolds, non si scomponga» commentò nel tono più pacato possibile, con un accento vagamente Olandese che tradiva la sua apparente calma. In realtà Bernie sapeva che Etiènne odiava quando i suoi modelli is muovevano, era o non era il loro stilista di fiducia? (#cosedaricchi) Ma era anche per quello se, ogni tanto, BJ osava un movimento azzardato, divertito dal sorriso tirato e di mera cortesia dell'uomo dalla capigliatura bianca, non per la vecchiaia ma per la moda. La moda: un continuo e irrisolvibile mistero per il rosso, come lo erano le sue sopracciglia per quella che sarebbe stata un giorno la Mystery Inc., ma questa è un altra storia!
    «Etiènne, sei sicuro che questo costume vada bene per questo genere di festa?» si osservò nei numerosi specchi, constatando che non era poi così male come abito. Un completo di fine ottocento era appena stato ricamato sulla sua figura, indossabile solo da lui, con un tessuto magico che si sarebbe adattato alla sua sola figura. «sta dubitando della mia capacità critica? Mette in discussione la mia conoscenza della volubile arte della moda?»«Non oserei mai!» mentì, avrebbe osato eccome se non avesse saputo che i rapporti che l'uomo aveva con la sua famiglia erano talmente saldi da essere durati anche oltreoceano. L'uomo sembrò soddisfatto, nonostante il tono di BJ fosse stato sottilmente canzonatoria, una sottigliezza disapprovata dai suoi genitori, come i loro sguardi confermavano.
    In un battere di mani, sarte e attrezzi si allontanarono dal piedistallo sul quale si trovava il Serpeverde e lo stesso supervisore del capolavoro indossato dal Reynolds fece levitare una maschera bianca con delle sagome marroni e nere, contornate da intarsi dorati. La maschera copriva solo la porzione superiore del viso, a eccezione del naso che si dilungava dismisura. BJ si sentì vagamente offeso per l'insinuazione muta alla lunghezza della sua appendice nasale: c'erano uomini che avevano avuto nasi ben peggiori coff coff FRED coff coff. La maschera era un tutt'uno col copricapo, legato ad essa magicamente, vagamente simile ad un cappello da pirata. Non appena il tessuto rigido, quasi cartonato, poggiò sul suo viso, potè sentire sottilissimi fili avvolgersi attorno al capo. Il campo visivo ridotto dai fori ovali per gli occhi non gli permisero di ammirare appieno la sua figura, a quello pensarono i suoi genitori ed Etiènne, fiero del suo lavoro e tremendamente mortificato dal fatto che ad indossarlo fosse un ragazzo di nome Bernadette Julien.


    10:18 pm



    Su suggerimento di Etiénne, BJ gettò un pugno di Metropolvere ai suoi piedi, stando leggermente ricurvo nel camino di casa Reynolds. Le fiamme divamaparono, bruciando le immagini dinanzi a lui, come se la vita vissuta fino a quel momento stesse svanendo dietro un'impenetrabile e inarrestabile barriera di fuoco. Per pochi ma orribili attimi, temette di aver dato fuoco alla casa, di aver ucciso i suoi genitori (e il team di sarti), come una foto che prendeva fuoco con una fiammata verde e azzurra, a causa delle sostantze che, per quanto tossiche fossero, permettevano alla foto di durare nel tempo, rimanere invariata come una finestra sul passato. La sensazione, il timore, terminò quando le fiamme, che lo avevano circondato in un verde rogo, si aprirono dinanzi a lui, rivelando un salone enorme e addobato con «peni?» chiese a nessuno in particolare. Anche le ultime lingue di fuoco smeraldino si spendesero in un sibilo di sabbia buttata su un falò. Le persone nelle prossimità del camino si voltarono, sguardi curiosi e ammirevoli rivolti ad un ragazzo mascherato che sarebbe potuto benissimo passare per un uomo sulla ventina. Quando si accorse degli occhi puntati su di lui, ricordò l'ennesimo consiglio di scena: «testa alta, passo sicuro ma non rigido, devi sentirti come se tu fossi la persona che ha indetto la festa e non uno dei miseri invitati » #plebe. Le scarpe, fortunatamente non del diciannovesimo secolo ma di un tempo più vicino al presente, batterono ritmicamente sul marmo, con solo la musica a coprire il suono del tacco, una cadenza leggera e sciolta, come il suono rilassante di un metronomo che oscilla elegantemente. Un ticchettio che imponeva la sua presenza grazie alla sua calma.
    E poi «blowjob» le risate si levarono tra le persone così fortunate da poter aver sentito quello che era abituato a chiamare fratello. Risolini divertiti che avevano avuto l'accortezza di nascondere o rosate sguaiate e decisamente poco adatte ad un contesto come quello, ma pur sempre risae gelide, lame che puntellavano l'orgoglio del ragazzo. Non sentì nemmeno ciò che disse dopo, si avvicinò al ragazzo con la maschera antigas e gli strinse un braccio «Già trovata qualche vittima per la notte, CoJone?» chiese trascinandolo fino ad un tavolo pieno di bicchierini fallici. Non lo strinse troppo forte, temendo che il braccio potesse far esplodere le cuciture, sebbene fossero magiche ed elastiche come una circense del Circ du Soleil. «Sai, dicono che il seno perfetto sia quello che si adagia elegantemente in una coppa di cahmpagne» prese in mano uno dei bicchieri e lo osservò in contro luce «credo che per questa sera valga lo stesso per i ragazzi» lo mosse verso quello di CJ ma uno dei due (BJ, ovviamente) doveva averci messo troppa forza, perché entrambi i calici finirono in frantumi. «Capperin...» da festa in maschera a festa russa è un attimo.
    Rubò due bicchieri più piccoli dal contenuto colorato, cocktail probabilmente, e ne porse uno a suo fratello. Nonostante le lenti scure e appannate, poteva quasi immaginare gli occhi chiarissimi, simili alla pennellata verde di un acquerello molto bagnato, scurtare prima il bicchiere e poi il ragazzo dinanzi a lui. Sembrava ieri che lo vedeva salire nella macchina nera dei Reynolds l'ultima volta, sembrava ieri quando il giornare riportava la foto di un edificio in fiamme, la foto di un ragazzo dai capelli rasati a zero e i tratti identici a quelli di Caleb. Perché quello era Caleb. E poi era fuggito, scappato dal perdono offerto dalla sua famiglia, un'occasione buttata ai cani, uno sputo nel piatto che lo aveba nutrito. BJ si era sentito ferito, aveva pensato che fosse stata colpa sua, colpa di tutti i lividi che si era preso per colpa sua.
    Ma, allora, perché aveva preso uel cazzotto, durante la orima settimana in cui entrambi si erano trovati ad Hogwarts? Perché aveva continuato a coprirgli le spalle? «Non si viene scelti per Tassorosso per nulla» constatò BJ sorseggiando il drink.
    L'aroa si fece pesante, forse a causa di quei pensieri, ma una chioma bionda, quasi candida, si mosse leggiadra nell'aria. «I miei occhi vedono qualcosa che apprezzano molto» un sorriso accennato appena sul bordo vitreo del cocktail, uno sguardo che lasciava intendere tutto e niente «e non è il mio riflesso nelle tue lenti» specificò punzecchiando il Tasso con il gomito. Forse era la maschera o la sensazione di essere cresciuto, ma sentiva una spolverata di spavalderia posarsi su di lui, disseminata con la stessa cura ed efficacia con cui Salty Man spargeva il sale.
    Bernadette Julien BJ Reynolds
    I'm gonna prove you all wrong
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia

    perdonate typo ed errori nel code ma soni da telefono TuT
    Interagisce solo con CJ e a fine post indica Meara #wat


    Edited by Archer83 - 19/4/2017, 03:22
     
    .
  11.     +6    
     
    .
    Avatar

    .

    Group
    Inferius
    Posts
    52
    Spolliciometro
    +46

    Status
    Offline
    ThanatosByrn
    « SOMETIMES IT'S ABOUT PLAYING A POOR HAND WELL. »
    23 y.o. | ex slytherin | neutral| mercenary | dress | mask
    Per come la vedeva lui, la vita era un fatto semplicissimo. Tu ti volevi divertire, loro te lo volevano impedire, e allora tu facevi del tuo meglio per infrangere le regole. Non vi era molta scelta: o marcire o ardere; e Thanatos aveva scelto di bruciare come la stella più luminosa della galassia incurante di quanto poco tempo gli sarebbe poi rimasto: prima di essere schiuma sarebbe stato indomabile onda. Così, in un appartamento a lui totalmente sconosciuto, in compagnia di qualcuno a lui ignoto, boccheggiava alla ricerca d'aria col petto piangente sangue e il respiro mozzato in gola dalla possente morsa delle mani di Cain. Come serpenti, le sue dita si erano attorcigliate al suo collo. Sbattuto al muro, il contatto con la superficie fredda lo fece rabbrividire gettandogli al basso ventre quella scarica d'adrenalina il cui sguardo tagliente di quelle magnifiche iridi grigie riusciva a doparlo. Via via che i polmoni graffiavano per essere riempiti, la gola fremeva di dolore, il volto diveniva paonazzo e le labbra violacee, in Thanatos cresceva il desiderio di conoscere sempre di più il ragazzo che avrebbe aiutato a trovare il suo amato fratellastro. La sua pelle venne sporcata dal sangue dell'altrui ferita, e mentre le sue mani salirono fino ad arrampicarsi sul braccio di Cain, vezzeggiandone l'ossatura, il poeta non riuscì a farsi mancare uno sbuffo divertito benché non avesse più respiro alcuno. Parole vomitate, sibilate, il soffio gelido contro il suo volto non lo scalfì affatto. Quando la presa venne meno, lentamente scivolò contro le piastrelle umide del bagno angusto appoggiandosi sul bordo del lavandino per reggersi. Tossì, più e più volte respirando affannosamente. Sfiorò delicatamente la pelle lesa del suo collo e cancellando con la mano la platina di condensa sullo specchio, intravide i segni rossastri delle dita altrui divenire velocemente violacei. Ora quel sangue che sgorgava dal suo petto sembrava essere la materializzazione del suo immenso dolore, di quelle ragnatele nella sua anima che avevano reso cupi anche i ricordi più felici. Fissava incessante la propria immagine riflessa, ovattata dalla condensa, e quando una mano si adagiò sulla superficie di vetro, Thanatos si chiese cosa ci fosse di sbagliato in lui, perché tutti quelli a cui teneva morissero. Forse, pensò, semplicemente alcuni nascevano con la tragedia nel sangue.
    Strattonandolo violentemente dai suoi pensieri, riportato in quella realtà, lo show continuò ad andare avanti. Trascinato per i capelli, non obbiettando, Thanatos cadde a peso morto contro il materasso. Quest'ultimo cigolò sotto il suo peso. Dalla finestra aperta entrava aria gelida della notte, bagnato com'era si congelò. Afferrò il lembo estremo del lenzuolo e mentre Cain sistemava gli alcolici, lui si rotolò come un fagotto tra le lenzuola, sporcandole di sangue. D'altronde ormai le gocce cremisi sia sue che dell'altro peccatore tracciavano un chiaro percorso dal bagno fino alla stanza da letto e Cain non aveva accennato minimamente al letto, solo ed esclusivamente al pavimento. Girando, e rigirandosi, tamponò il corpo bagnato con le coperte calde, ancora intrise del profumo altrui. Sedendosi a gambe conserte, stringendosi per riscaldarsi, parte della trapunta copriva il suo capo. Ciocche corvine ingabbiavano gli occhi chiari, limpidi e ancora così puri quando tutta la purezza del suo essere gli era stata strappata via anni addietro. Chinò il capo lateralmente mentre due gemme grigie lo fissavano minacciose dall'alto. Dadrian socchiuse gli occhi.

    «Dicono che la curiosità nei confronti dell’altro è una profondissima forma d’amore, --» sussurrò nel silenzio del cuore notturno, quasi fossero le sue parole un segreto profondo. «-- e tu mi hai incuriosito.» ammise con ingenuità sorridendogli dolcemente, sorridendogli nell'egual modo di un neonato.
                   «Il lavoro che sto per chiederti, Cain, non vale tutti questi soldi. Avrei potuto dirigermi verso il primo malvivente sull'elenco telefonico sotto la “m” ma, vuoi che sia per le tue gesta vuoi che sia per il tuo nome volevo conoscerti di persona.»

    Mentre parlava, il vestito di calma che indossava sembrava estraneo al comportamento esuberante di poco prima. Pacato, il tono calato di un'ottava tramutò drasticamente e Thantos non sembrò più essere il gioioso ubriaco con smanie per il sangue. Un braccio sbucò dall'involucro di coperte, un braccio apparentemente esile la cui mano aveva dite sfilanti di un pianista, non di un combattente. La sua mano cercò quella altrui, sanguinante, e quando la raggiunse Thanatos ne strinse le dita macchiate cremisi e strattonando Cain verso di lui, quasi ad invitarlo ad avvicinarsi, portò il palmo tagliato con frammenti di vetro verso le sue labbra. Lo baciò, ne sfiorò la pelle lesa con le labbra e l'attimo dopo raccolse un rivolo con la punta della lingua. Il sapore ferroso gli pervase la bocca. Dalla ferita fresca passò alle falangi, ripulendole d'ogni altro liquido cremisi seccatosi.
    «Che ne dico, mi chiedi?» chiese, poggiando la guancia contro la sua mano, chinando il collo da cui i segni violacei, lividi profondi, facevano capolinea nella loro crudeltà di tale atto.
    «Uhm... dico che dovresti imparar a riconoscere un coltellino finto, e trovare meglio nascondigli per le tue armi. La pistola nel lavabo o quella dietro l'anta a specchio del bagno... potresti fare di meglio. Scommetto che ne hai anche una nelle reti del materasso.» soffiò un riso divertito, flebile e appena udibile. Le sue iridi sbocciarono come rose blu e guardando l'altro Dadrian tornò a stendersi nel letto dandogli le spalle, raggomitolandosi sotto il guscio di lenzuola.

                   «Se volevo ucciderti, ora saresti in un canale di scolo col volto deturpato e avrei venduto i tuoi organi al mercato nero. No, Cain, non è nel mio interesse uccidere qualcuno, solo conoscerlo e, devo ammetterlo, sei alquanto interessante.»

    Afferrò uno dei cuscini e inghiottendolo nel suo piccolo rifugio, dalle coperte sbucavano solo accennati ciuffi corvini e piedi. D'un tratto il cellulare scivolato dalla sua felpa sul pavimento, prese a vibrare. Thanatos lo ignorò.

                   «Il cielo è oramai scuro, tra un paio d'ore scomparirò... Vuoi passare il tempo lì in piedi a riempire una pozza di sangue, o mi fai compagnia?»

    Prese tra le mani l'altro cuscino, in un batter di ciglia, smuovendosi dal groviglio caldo di trapunte, lo lanciò dritto sul volto crucciato di Cain. Si alzò appena giusto per guardarne l'espressione e godersi quel piccolo momento d'ilarità. Rise, rise cristallino tanto che la sua risata sembrò aleggiare in aria anche quando lui smise di farlo.

                   «Guarda Caino, il sangue scorre dalla tua pelle e macchia il tuo prezioso pavimento. Cos'è che temi, traditore? Che lo sporco di quest'appartamento si amalgami con il nero della tua anima; o è forse timida dolcezza quella che mi mostri? Togliere dalla mia portata gli alcolici quando mi hai dato il benservito... l'hai fatto per preoccupazione nei miei confronti?»

    Di nuovo il telefono riprese a vibrare e Dadrian fu costretto a rispondere quando il suo interlocutore lo aveva minacciato di lanciarlo dalla finestra. L’ex serpeverde non era di certo affine alla tecnologia e ci mise un po’, con le dita ancora macchiate del sangue cremisi, a sbloccare il telefono e leggere il messaggio della sua attuale cliente; non volle ammetterlo a se stesso ma si sentiva stupido in materia, chiese aiuto a Cain per decifrare ciò che la ragazza aveva scritto. «stanotte #partyhard big invito, 21.30 al solito punto xoxo ps. nn trpp nudo ihihi pp.s senza maschera nn bevi #stanottesisboccia #matuno» .
    Un’imprecazione, una corsa ed un telefono schiantato contro il muro.




    A nessuno avrebbe piaciuto ammetterlo, ma l’idea di perdere il controllo era una di quelle che affascinavano persone controllate come lui più di ogni altra cosa. Ed era una tentazione per qualsiasi persona intelligente, e specialmente per perfezionisti, cercare di uccidere l’io primitivo, emozionale, animale. Ma era un errore. Perché era pericoloso ignorare l’esistenza dell’irrazionale. Alle volte, pensò, le cose cruente, terribili, erano le più belle. Un’idea macabra e molto profonda. Bellezza è terrore. Ciò che chiamiamo bello ci fa tremare. E cosa poteva essere più terrificante e più bello, per anime come la sua, che perdere ogni controllo?
    Strapparsi di dosso per un attimo le catene dell’essere, frantumare la contingenza del nostro io mortale? Quella passione distruttrice Thanatos l’aveva liberata in quanti più gloriosi modi la sua fantasia avesse mai immaginato: cantare, urlare, danzare a piedi nudi nel bosco nel cuore della notte privi, come gli animali, della coscienza della morte. Potente mistero era. Era abbastanza forse di cuore da strappare il velo e fissare quella nuda, terribile bellezza dritta in volto. Probabilmente per ciò che accadde quella sera Dio lo avrebbe consumato, divorato, smembrato.
    E lo avrebbe sputato rinato.
    I ricordi lo avevano reso un mostro, un mostro che non meritava d’assaporare l’amore.
    Pensieri come quelli riempirono la mente del nostro giovane eroe mentre la ragazzina, da cui era stata pagata per essere protetta, aveva fatto il suo grande ingresso nella villa mentre lui, come il più taciturno degli accompagnatori, se ne stava con la maschera calata sul viso e i segni violacei delle dita di Cain ancora sul collo.
    Aveva ritarda, si, di quanto? Una ventina di minuti. Era stato troppo occupato a curarsi la ferita sul petto e a cercare di nascondere i lividi sul suo corpo che, ad occhi non attenti e peccaminosi, potevano sembrare segni di una notte focosa passata tra morsi ed altri atti impuri. Era assolutamente da Dadrian ma non in quel caso, per una volta c’era qualcosa di più importante del sesso, della alcol o della droga.
    Le labbra del ragazzo dalle iridi cerule si aprirono una volta che prese sottobraccio Nice e le si avvicinasse per sussurrarle ad un orecchio:

                   « Cerca di non metterti troppo nei guai, lì c’è tuo fratello e non voglio che sangue di Black venga sparso in giro per la stanza…o almeno finché tua nonna non mi pagherà, una volta fatto, beh…se hai bisogno di qualche tipo di pozione o droga magica per avvelenare qualcuno, la mia bottega segreta è sempre aperta. »

    Con quella parole avanzarono verso la figura dura, spaventosa avrebbe potuto dire Dadrian se non avesse conosciuto realmente la vera paura. Per anni avevano provato a comprendere il giovane, nell'impossibilità di poterci vedere chiaro, riuscivano a vedere chiaramente l'oscurità attorniante la figura contrastante di Thanatos. Una figura inafferrabile, tormentata, una di quelle figure che finiva col maledire chiunque le stesse attorno. Riusciva a scorgere nelle iridi di Perseus la stessa oscurità ma forse si sbagliava, non lo conosceva e probabilmente non lo avrebbe mai fatto se non fosse che la ragazzina iniziò a sbavare dietro al vestito di una studentessa, pensò vedendo la sua giovane età.
    Quale miglior modo di “combattere il nemico” se non tastando il territorio?

                   « Suppongo che io abbia perso la mia accompagnatrice nel bel mezzo della folla. Troppo baccano per i miei gusti. Io sono Filippo, puoi chiamarmi…Filippo. »

    Disse lasciando che il proprio sguardo si perdesse in mezzo alla folla per tirare un’occhiata alla ragazza, sperando che l’avvertimento che il mercenario le aveva fatto prima fosse stato ricevuto.

    role code made by effe don't steal, ask



    E' la prima volta che ruolo Thanatos evbb, spero sia uscito qualcosa di decente. Anyway, parla solamente con Nice (più che altro l'avverte di non fare cavolate...) e si presente a Perseus.


    Edited by GINTI. - 20/4/2017, 23:43
     
    .
  12.     +6    
     
    .
    Avatar

    we'll be together again

    Group
    Neutral
    Posts
    429
    Spolliciometro
    +746

    Status
    Offline
    erin chips
    run crane
    lydia hadaway
    erin -- mask + outfit || heidrun -- mask + outfit || lydia -- mask + outfit
    19. La situazione, era diventata insostenibile. C’erano ben pochi segreti che avesse con Nathaniel Henderson, il suo capo: sapeva che aveva perso la memoria, ma non che era una Baudelaire; sapeva che aveva vissuto per anni al Paiolo, malgrado ad altri ella non ne avesse mai fatta parola. Fine, perché la Hadaway non era particolarmente affine all’idea di dover celare qualcosa a chicchessia – e non aveva molto da tenere per sé, a dire il vero. Per l’infinito, e costante, disappunto di Nate, c’era però qualcosa che ancora non gli aveva detto.
    Qualcosa che lui sapeva perfettamente, ma come Sara con i Chiogini, voleva fosse Lydia a dirglielo. A confermarglielo. Le lanciava frecciatine in ogni suo momento libero (sempre), la osservava di sottecchi con sguardo allusivo fintanto che non la metteva a disagio (sempre), le chiedeva come passasse le sue serate anche quando, santo cielo!, erano insieme a preparare una lezione. Lydia, a Nate, voleva bene. Lo sapeva che lo faceva con buon cuore, un po’ perché era shipper compulsivo, ed un po’ perché ci teneva, a lei. Davvero. Aveva notato, da brava osservatrice qual era, che nell’ultimo periodo Nathaniel era diventato più… scostante. Non necessariamente diverso, semplicemente… un po’ più Nate, ed un po’ meno: ed aveva immaginato, Lydia, ch’egli volesse semplicemente cercare di pensare ai problemi di qualcun altro – di vivere le gioie altrui sulla propria pelle come ogni mamma chioccia. L’avrebbe fatto anche lei, lo faceva anche lei.
    Però, andiamo.
    «henderson» serrò le palpebre e sibilò il nome di lui fra i denti, inspirando secca dalle narici. Un tic nervoso le arcuò il sopracciglio sinistro, le dita a stringersi sul tessuto morbido dell’abito che aveva posato sullo schienale della sedia. Più lui insisteva, meno gioie gli avrebbe dato. E poi, oh, era stato Nate ad insegnarle che quando una ship diventava canon, perdeva il proprio fascino. «piantala.» socchiuse gli occhi, lanciando un’occhiata in tralice all’uomo. Non dovette neanche cercare di nascondere il lieve rossore delle guance, che avrebbe tranquillamente potuto imputare alla rabbia – come se Lydia, seriamente, avesse mai potuto arrabbiarsi con lui.
    Beh, in realtà, sì. E anche spesso.
    Ora, partiamo dal principio. Perché Lydia si trovava nell’appartamento di Nathaniel Henderson? Ingenuamente, aveva pensato che avrebbero potuto andare insieme, alla festa di quella sera – festa per la quale, a dire il vero, provava ancora un sincero e cinico timore. Non aveva mai avuto un buon rapporto con i party del mondo magico, e non vedeva perché quello avrebbe dovuto essere diverso: perché provarci? Eppure, si era ritrovata… entusiasta, all’idea di mischiarsi per un po’ al resto del genere umano. Persone normali, ad un evento mondano ed elegante. Ne era terrorizzata quasi quanto era emozionata. Ingenuamente, aveva pensato di poter andare con il collega, nonché superiore, nonché amico, nonché (triste, lo so, ma: ) punto di riferimento, Nathaniel Henderson. Innocentemente, non aveva pensato alla serie di domande che avrebbe comportato.
    «quindi……Jay non viene?» Avrebbe potuto fingere non curanza e domandare di chi stesse parlando, ma sarebbe stato un tentativo così patetico, che preferiva risparmiarlo – sia a Nate, che a sé stessa. Così, con l’accenno di sorriso sulle labbra, rispose semplicemente: «ti ho già detto che i cani non possono entrare» non che Jayson Matthews fosse un cane (nelle giornate positive, tipo quella; nelle altre, meglio non chiedere un parere a Lydia, talvolta si faceva prendere dal cuore e perdeva la ragione: cane, in quei giorni, sarebbe stato semplicemente un complimento). Per un qualche mistico, e sconosciuto alla Hadaway, motivo, Nate aveva pensato bene di prendersi un altro cane, e l’aveva chiamato Jay.
    Indovinate a chi toccava fare, da dog sitter. Nomi a caso.
    «lydia» «nate» gli rivolse un sorriso a labbra strette, gli occhi stretti a fessura. Il fatto che Jayson non fosse presente, era per la Hadaway fonte di sollievo e dispiacere in egual misura – ma più sollievo, a dire il vero. E Nathaniel, con quel suo fiuto per le ship, avrebbe dovuto saperlo: ogni volta che lei ed il telecineta si trovavano ad uno stesso evento, capitava qualcosa a turbare il loro rapporto. Solitamente, il qualcosa implicava il suo ragazzo (…era il suo ragazzo?) che infilava la lingua in bocca a qualcuno, non propriamente l’idillio amoroso che qualunque fanciulla sognasse. Se le mancava? Certo, quello sempre. Le mancava in ogni respiro ed in ogni battito, sentiva il vuoto nel palmo laddove avrebbe dovuto esserci la sua mano. «sento come se tu stessi cercando di dirmi qualcosa» sapeva di spezzare il cuore di Nate tenendo segreta la relazione con Jay, ma anche lei aveva diritto a preservare il proprio, di cuore. Così gli rivolse un’ultima stizzita occhiataccia, prima di lanciargli la particolare lavagnetta che, insieme al lucchetto che le aveva regalato Nate per suggellare il loro operato, condivideva con lui: «tu dici?» e con quell’ultimo, acido, commento, si diresse verso la porta lasciandolo ad osservare il dito medio che, dalla moodboard, ammiccava a Nathaniel. «trovati un altro accompagnatore» sbattè la porta alle proprie spalle, permalosa come solo una Baudeliare sapeva esserlo.
    E si morse la lingua, Lydia Hadaway: perché, in realtà, era lei quella priva di accompagnatore.
    … o forse no?

    20:30. «solleva il gomito. il gomito» Heidrun, una ciotola di pop corn appoggiata sulle ginocchia, sollevò appena lo sguardo sulla ragazzina al centro della stanza. «di più. di più» Jericho Karma Lowell, il gomito parallelo alla spalla ed un coltellino da lancio stretto fra le dita, le ringhiò contro. Giuro, le ringhiò: il verso che uscì dalle sottili labbra rosee della telepata, non aveva nulla d’umano – e Run rispose con l’ombra di un sorriso morbido, la pennellata distratta di un’artista dal fraintendibile senso dell’umorismo. «ora stringi il pugno, alza la mano nell’aria – si, così – e grida: SU LE MANI NEW HOV- ehi.» rotolò a terra per evitare la lama del pugnale scagliato contro la sua (bellissima!) persona, attenta a non rovesciare il prezioso bottino dei chicchi di mais saltati, ed osservò la Lowell dal basso. «rude» ma rideva, la Crane – e ridevano gli occhi verdi, che a stento trattenevano le lacrime di gioia. Era sempre troppo facile, e dannatamente troppo divertente, convincere Jericho di starle insegnando ad usare armi da lancio, per poi improvvisarla DJ – quando non ballerina del ventre, o perché no, break dancer. Un passatempo come un altro, sapete. Sarebbe stato altrettanto esilarante se la Lowell non avesse, ogni volta scoperto l’inghippo, attentato alla sua vita? Probabilmente no. Si morse il labbro inferiore, inarcando entrambe le sopracciglia. «hai un talento naturale» non riusciva proprio a trattenersi, era più forte di lei. L’istinto di autoconservazione che sembrava fondamentale negli esseri viventi, pareva non aver mai messo radici in Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso. Se poteva scegliere fra il fare qualcosa che sapeva si sarebbe concluso male, e qualcosa che si sarebbe concluso peggio, avrebbe sempre preferito la seconda ipotesi. Era fatta così, lei: di quella pasta che appassiva giovane. «TI ODIO» L’aveva sentito così spesso, che aveva smesso di crederci. Nessuno lo ripeteva così a lungo pensandolo davvero: nessuno odiava così a lungo da averlo mai fatto. «non apprezzi, lowell. Anche questo è un insegnamento: visto com’è stato facile schiva-AHIA.» cristina d’avena. Ma perché Run si intestardiva sempre con i più psycho sulla piazza? Non poteva passare il suo tempo libero insegnando a Stich a montare la panna, o ad Amos come classificare gli sgrassatori in ordine di efficacia? Ma no, perché darsi a hobby così semplici, quando poteva provare il brivido dell’accendere la sopita, ma sempre presente, spia killer in qualunque essere umano dotato alla nascita di sociopatia. «i didn’t see that coming» si portò le dita alla guancia, ritraendo i polpastrelli sporchi di sangue. Un taglio superficiale, una distrazione - che di certo, in un mondo dai sani principi, non avrebbe dovuto donare quell’arcaica gioia al sorriso di Jericho. Si umettò le labbra, premendo con il dorso della mano per tamponare la ferita. «mi dai un bacino per far passare la bua?» reclinò il capo per osservarla, i capelli scuri allargati sotto la testa. «no» fece appena in tempo a rotolare un’altra volta di lato, per evitare il pestone con il quale Jericho cercò di romperle il setto nasale.
    Se non avesse temuto serie ripercussioni da parte di Henderson, Brandon, in parte Eugene e Gemes, ma soprattutto Thad – non capiva, era così piccolo e adorabile e così assassino GLI VOLEVA COSì BENE non poteva farsi odiare da lui!- le avrebbe preso l’amabile testolina da telepata, e l’avrebbe sbattuta contro ogni spigolo di New Hovel.
    Invece, nuovamente, le sorrise – la piega delle labbra che un po’, a quei pensieri, diede forma. Ad Heidrun, in fondo, piaceva credere di essere una ragazza sincera. «riprova» si asciugò il taglio sulla spalla, sporcando così la maglietta di sangue, e rilanciò il coltello alla proprietaria. L’obiettivo del giorno era colpire il galeone attaccato alla porta – se fosse riuscita a farlo cadere, avrebbe potuto essere suo. Run confidava che Jericho avrebbe fatto buon uso, di quei soldi. E quando si parlava di buon uso nello stesso contesto della Crane, ci si riferiva o all’alcool, o alla droga.
    O ad entrambi.
    Jericho la guardò, il coltello a scivolare fra le dita con aria distratta. La vide inspirare, Run, e la vide rilasciare lentamente l’aria; così come vide, quando la telepata lanciò la lama, la porta dell’appartamento aprirsi. Non ebbe tempo di imprecare, di fermare l’inevitabile: con le labbra dischiuse in segno di sorpresa, potè solamente guardare, mentre la Lowell si lasciava sfuggire un gridolino stupito e molto poco badass.
    «gesù» Lydia Hadaway guardò il pugnale conficcato nella cornice della porta, ancora a vibrare a causa dell’impatto. Aveva la mano sul pomello, e dallo sguardo terrorizzato che posò su di loro, probabilmente stava valutando l’idea di fingere di non essere mai andata lì – eppure rimase, la lingua ad inumidire il labbro superiore, ed i capelli ramati a scivolarle sulla schiena. «mi hanno detto che ti avrei trovata qui,» lungi dalla Crane comprendere che stesse parlando con lei, finchè Lydia non si schiarì la voce: «run» Strisciò a sedere con la schiena contro la gamba del tavolo, un sopracciglio inarcato nella direzione della Hadaway. «cercavi… me?» lei abbozzò un sorriso, palesemente così costretto da obbligare la mimetica a mettersi in allerta.
    Lydia, imbarazzata, le accennò della festa che si sarebbe tenuta quella sera stessa, scusandosi per il poco preavviso. Purtroppo per la Hadaway, Run aveva già compreso che tipo di festa fosse: «non credo sia il mio genere» si giustificò, stringendosi nelle spalle. Le dispiaceva davvero dare pacco, specialmente dopo che Lydia era stata già paccata (mlml) da tutti gli altri («jay? murphy? Shot? Amos? Nate? phobos? MA SONO L’ULTIMA RUOTA DEL CARRO?»), ma sembrava troppo… fancy, per lei. Run era tipo da ballare sui banconi, rovesciarsi rum sulla pelle e lasciare a qualcun altro il compito di bere – di quelle che gli shottini li facevano leccando il sale sul collo, anche quando di sale non ce n’era più. Di quelle che stavano al centro della sala, o in cima ad un lampadario, o ovunque fosse possibile vederla: non era tipo da abiti eleganti, inchini carezzevoli, e danze lente in saloni più grandi del suo appartamento.
    «decisamente no»
    Corrugò le sopracciglia, piegando lentamente la testa verso Jericho – la quale, a braccia incrociate, non faceva che ridere di lei. «come, prego?» La Lowell mantenne l’espressione di allegro divertimento, quando chinò gli occhi blu su di lei. «è una festa da…persone» così, semplicemente. Si strinse nelle spalle come se quella fosse una spiegazione sufficiente – ed a giudicare da come anche Lydia evitò il suo sguardo, probabilmente lo era. «e io non sarei una persona?» Nessuno rispose.
    Ora.
    Lei poteva dire a sé stessa di non essere tipo da fare qualcosa, ma di certo nessun altro poteva permetterselo. Chi erano loro per sapere cosa Run potesse o meno fare? Chi ella fosse? «è una sfida?»
    Lo era.
    Scattò in piedi, osservando entrambe con un espressione corrucciata ed offesa. «bene.» prese la giacca e se la lanciò sulle spalle, sbattendo languidamente le ciglia sugli occhi d’ambra. «ci vediamo qui fra un’ora» si avviò verso la porta, un’ultima occhiata di sottecchi.
    Era sempre stata competitiva, Run – aveva sempre, sempre avuto il bisogno di dimostrare agli altri che avevano torto, e che lei, al contrario, aveva ragione. Di principio, sapete. Sorrise, le labbra la malizia di una scommessa che aveva già vinto: «later, sluts»

    22. «ecco,» piagnucolò, sentendo la propria voce incrinarsi. Se avesse potuto sparire dentro l’abito nero che (Jess) aveva scelto per quella sera, l’avrebbe fatto. Intrecciò le dita fra loro sentendo i palmi sudati, gli occhi grigio verdi a studiare il profilo della villa dove i Dallaire avevano organizzato la festa. «lo sapevo,» strinse le labbra fra i denti, saggiando con la lingua il lucidalabbra alla fragola. Quando si parlava di festeggiare, solitamente, Erin Chipmunks era sempre in prima fila: le piacevano le persone, le luci, il cibo; le piaceva ballare, e ridere, e passare una serata fuori dal quartier generale in compagnia dei suoi migliori amici.
    Ma di solito non c’era tutta quella gente - mascherata, poi! Si sentiva così… stupida, ed infantile, dentro il suo abito al ginocchio con pizzo scuro, la maschera a forma di gatto a coprire la parte superiore del viso. Alzò lo sguardo su Jess, supplichevole. «è stata una terribile idea» concluse in un sussurro, premendo le mani sul petto quasi avesse potuto, fisicamente, trattenervi il battito impazzito. Fece scivolare poi la propria attenzione su Nathan, concludendo poi su Scott. Lui, fra tutti, sembrava essere l’unico a condividere il suo disagio. Istintivamente, allungò un braccio per stringerlo a sé; si aggrappò a lui come se ne andasse della sua vita, cercando di nascondersi dietro al suo corpo, e nel mentre di fargli da scudo. «siamo ancora in temp-AAA» Jessalyn la afferrò per il braccio libero, e con una risata la trascinò verso l’entrata della villa –e per inerzia, Erin prese con sé Scott e Nathan. Jess, come la Chipmunks ed il Wellington, viveva al quartier generale della Resistenza; sin da quando avevano recuperato Scott a Piccadilly Circus, dove si erano dati appuntamento per andare alla festa, il suo migliore amico non aveva lesinato domande in proposito all’identità della giovane: ERA AFFIDABILE? UNA SERIAL KILLER? LA CONOSCEVA BENE BENE? Erin, sbuffando, aveva messo a tacere tutti quegli interrogativi con occhiatacce allusive. Sì, era affidabile – molto più, che affidabile. Aveva sempre guardato alla ragazza come un modello da imitare, con quei suoi sorrisi allegri e la risata contagiosa. Avrebbe voluto essere come Jess, Erin – ed era felice, tristemente felice, che anche lei fosse costretta a vivere al QG. Chi l’avrebbe vestita, se non ci fosse stata lei? Chi si sarebbe sorbito tutte le sue fanfiction sulla nuova cotta del momento, o i suoi sogni ad occhi aperti su quello che, Erin era certa, sarebbe stato l’uomo della sua vita? Amalie Nathan Scott Skandar Murphy okay tendeva a rompere l’anima a chiunque, fatele causa NESSUNO. Era stata la Goodwin a scegliere l’abito per lei, e ad aiutarla con la maschera; era stata lei a truccarla, a pettinarla, a contagiarla con la sua eccitazione per quell’evento.
    E si era lasciata influenzare, Erin Chipmunks. Lo rimpiangeva così tanto. «jess….» ma la voce le morì sulle labbra, quando si rese conto della maestosità della casa entro cui erano stati invitati. Per un istante, dimenticò di essere una persona e rimase ad osservare il tutto con oggettivo sguardo critico: le luci delle candele a dare una sfumatura calda e seducente ad ogni anfratto della stanza, il pavimento a ticchettare sotto il peso dei tacchi di decine di donne dalle maschere fini ed i denti bianchi, i vestiti a strisciare dietro di loro come code da un’altra epoca. Gli uomini perfettamente agghindati con le camicie più bianche che Erin avesse mai visto – tutti così eleganti, e meravigliosi, da stringerle la gola in una morsa soffocante. «ma è…» perché i suoi occhi, velati d’innocenza ed ammirazione, non colsero neanche l’accenno di riferimenti sessuali. Nelle statue, Erin vide solo amore - e non si preoccupò del fatto che, come si soleva dire, ci fosse troppa carne al fuoco. Le donne alle porte, con le inquietanti maschere a forma di corvo, suscitavano nella Chips un misto di terrore e fascino – la falena alla fiamma, qualcuno avrebbe potuto dire.
    Neanche si rese conto, di essersi allontanata dai suoi compagni - stupida, stupida Erin. «belliss- NON SEI JESS» guardò la ragazza al proprio fianco (ciao Sun!) sistemarsi il prosperoso seno dentro…cose… ma era un capezzolo, quello? «scusa, scusa, scus-AH» indietreggiando colpì qualcuno finendo, non metaforicamente, fra le sue braccia. «non ti avevo visto, scus-AH» non riuscì neanche a dar forma al grido terrorizzato che già vibrava nelle corde vocali: alzò gli occhi, di un impossibile grigio muschio, su… una… maschera antigas? Rabbrividì quando quello, innaturale e sbagliato, piegò lentamente la testa per osservarla con freddi occhi verdi. Quando alzò un braccio per salutarla, Erin per poco non si mise a piangere. «vorrei dirti che non mordo, ma» il ragazzo, o almeno così le parve dalla voce, soffiò una risata nella maschera. «sarebbe una cazzata» non lo vide, ma seppe che stava sorridendo.
    Erin Therese Chipmunks, fuggì.


    «malfidata» neanche l’ennesima ammonizione di Heidrun, che aveva nuovamente colto Lydia ad osservarla, riuscì a farle distogliere lo sguardo; non si era pronunciata in precedenza, ma andiamo: aveva pensato si sarebbe vestita da batman, da spiderman, da bustina dell’oki o test di gravidanza, non aveva creduto davvero che potesse vestirsi da… «lo so, è scioccante» persona. Lydia Hadaway, nel suo lungo vestito argento, sembrava riflettere la luce delle centinaia di candele che illuminavano la casa – e la sua stesse pelle, un perla morbido e denso, pareva essere uno specchio dove le fiamme potessero riverberare. All’interno della villa, con i lunghi capelli sciolti sul seno e parte del viso celata da una maschera fine e delicata, pareva un frammento di luna. Al contrario, nel suo abito cremisi e con la sua pelle diafana, Heidrun sembrava assorbire ogni scintilla proveniente dall’ambiente circostante – e con le labbra rosse imbronciate, gli occhi ambra socchiusi a districarsi nella folla, aveva il calore di una stella. «scusa. È un po’ come vedere nathaniel senza eyeliner» «ESISTE UN NATHANIEL SENZA EYELINER?» Lydia rise, riflettendo nella propria voce la nota divertita della Crane.
    Non si sentiva normale da così tanto, Lydia - da così sempre. «no» ovviamente. Si guardò anche lei attorno, costringendosi a non intrecciare le braccia sul petto – voleva sforzarsi di non fare l’asociale spacca gioie, per una sera. Una soltanto. Il sorriso della Hadaway appassì ad ogni viso conosciuto che passò sotto il proprio radar; quando notò che Run la stava studiando, si limitò a stringersi nelle spalle. «sono l’assistente di nate, e ci sono tanti studenti,» si inumidì le labbra, curvandole in un sorriso ironico che si sforzava d’alleggerire l’atmosfera. «è difficile fare amicizia, quando cerchi di ucciderli quasi giornalmente» se l’era sognato, o un guizzo di dolore era passato nello sguardo della mimetica? «neanche troppo» e lo pensava davvero. Lydia accennò alla sua guancia: «era proprio necessario?» lasciò le dita a vagare sopra il cerotto di hello kitty che la Crane aveva applicato sulla guancia – cozzava così tanto, con il mogano dei capelli sciolti sulla spalla, l’abito elegante del rosso più acceso, e la sottile maschera nera dal retrogusto antico.
    Heidrun inarcò le sopracciglia, un sorriso spezzato sulla bocca. «sì»
    Era una di quelle risposte, che nascondevano sempre un po’ di più di quel che dicevano. Lydia sentiva le parole premerle sulla lingua, minacciando di uscire – e gli interrogativi che cercavano, nel loro arrovellarsi, di trovare un posto negli occhi verdi della sua interlocutrice. Era uno di quei discorsi apparentemente innocenti, che celavano un universo – e che quando cadevano, divenivano irrecuperabili. Aprì la bocca per rispondere, per chiedere, ma non uscì nulla se non un: «oh.»
    Abbassò lo sguardo trattenendo il respiro, gli occhi socchiusi e le braccia abbandonate lungo i fianchi. Una figura non meglio identificata l’aveva avvolta in un abbraccio disperato, e Lydia poteva sentirne il respiro caldo attraverso il sottile tessuto dell’abito. «scusami, non trovavo… e lei era nuda, e le cannucce, e lui mi ha spaventato…scusa» istintivamente, Lydia posò esitante una mano sui capelli di Erin, tentando di non spettinarla. Deglutì, la bocca improvvisamente secca. Perché respirare era diventato così difficile? «CHI ERA NUDA? Dai, lydia! Allora potevo-» «no» la mise a tacere distrattamente, alzando la mano per fermarla prima che potesse dire qualche boiata. «decisamente no, run» «RUN?» Erin alzò istintivamente gli occhi sulla Crane, le labbra dischiuse in segno di sorpresa. La squadrò dal basso verso l’alto, tornando poi a cercarne il volto – tentando, con la scarsa illuminazione dell’atrio, di riconoscerne il profilo. «heidrun?!»
    E Run, un po’, li odiava tutti.
    «così pare» rispose, vagamente offesa, corrugando le sopracciglia. Era così disturbante che non si fosse presentata vestita da salame beretta? Drizzò la schiena ed inspirò profondamente, il braccio piegato per reggere la maschera sulla punta del naso. «chi hai perso? E chi ti ha spaventato? SCOTTY!» Run alzò le braccia ed attirò l’attenzione del Chipmunks, invitandolo ad avvicinarsi ed indicando la nanerottola ancora appallottolata su Lydia. «quello… non importa, AW MA-» forse dimentica di aver appena avuto un mini attacco isterico, Erin si lanciò nuovamente nella folla, dove trotterellando raggiunse Amalie – in compagnia di una ragazza che la Chips non conosceva. Come prevedibile, quando si trovò davanti a loro, non seppe cosa dire.
    Finchè, tristemente, lo seppe: «SONO ERIN!» ma non mi dire.
    Nel mentre, Lydia si sentiva vagamente vuota, intorpidita dall’assenza della ragazzina. Sorrise debolmente ai tre amici di Erin, le dita a stringersi nervosamente fra loro. «ciao…?» che sembrava sempre, dalle labbra di Lydia, una maledetta domanda. Un senso di déjà-vu.
    In tutto ciò, Heidrun non dimenticava, né perdonava - semi cit. Sorrise ai tre ragazzi, stropicciando le guanciotte di Nathan ed optando per un bacio a distanza a Scott – soffriva di… una fobia…giusto? Insomma, era suo cugino NON SAPEVA QUANTO, quindi voleva convincersi di conoscerlo abbastanza da sapere quando lasciargli i suoi spazi wat. Li superò per seguire la direzione indicata vagamente da Erin, trovandosi a seguire un ragazzo dalla maschera più orribile nel circondario – e lo odiò, perché che cazzo, a lei avevano detto niente maschere da sub, e lui poteva mettersi quella antigas? Ma che vita era – che si ritrovò, in men che non si dicesse, in compagnia del ragazzo con il completo più orribile nel circondario – e odiò anche lui, perché DANNAZIONE A LEI AVEVANO DETTO NIENTE CALZAMAGLIA DA SPIDERMAN. La cosa positiva, era che si trovavano vicino al tavolino degli alcolici.
    «I miei occhi vedono qualcosa che apprezzano molto. e non è il mio riflesso nelle tue lenti»
    «aw, che dolce, grazie figliolo! – e grazie anche a te, trpp gentile» prese il bicchiere dalle mani di (CIAO CJ) antigas, e dopo averne annusato il contenuto per assicurarsi contenesse alcool, ne ingollò il liquido in un unico sorso. «avete almeno l’età per bere? Non credo proprio» lasciò il bicchiere ormai vuoto fra le mani di CJ, e prese quello di (BJ) Peter Pan. «problema risolto, non ringraziatemi»
    Che madre modello.
    erin chipmunks, 2000s, rebel | heidrun crane, 1996s, mimesis | lydia hadaway, 1996s, death eater
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia




    eh, allora. escludo le winception ed il pre #wat quindi:
    erin interagisce con sandy, amalie e syria
    lydia con jess, scott (!!!!!!!!!!!!) e nate
    run con scott, nate, jess e BJ (!!!!!!!!!!!!)
    it's so beautiful

    «ERIN»

    «RUN»

    «LYDIA»
     
    .
  13.     +7    
     
    .
    Avatar

    Take your broken heart and make it into art.

    Group
    Member
    Posts
    194
    Spolliciometro
    +107
    Location
    Kreuzberg

    Status
    Anonymous
    ETHAN YVES DALLAIRE
    dress & mask | The first Dallaire |



    Caro Yves,
    è passato così tanto tempo dall’ultima volta che la famiglia si è riunita che spero accetterai almeno l’invito di partecipare a questa festa in maschera organizzata per tuo fratello. Nella busta in allegato troverai tutti i dettagli. Ovviamente ti aspettiamo prima. Non vedo l’ora di riabbracciarti.
    La tua amorevole madre,
    Adelaide



    Cinque anni fuori, cinque anni lontano da quella che avrebbe dovuto essere la sua famiglia. Non ricordava quand’era stata l’ultima volta che lui aveva messo piede in quel manicomio che conservava i suoi ricordi d’infanzia, se mai di infanzia si poteva realmente parlare. Sicuramente erano passati due o tre anni. Suo padre e suo fratello minore Emeric non li vedeva da allora. Sua madre l’aveva vista forse qualche altra volta ma solo perché era dannatamente insistente con le sue litanie. Ethan non resisteva più di qualche minuto insieme a lei. Stare in presenza della madre, e per di più da solo, lo irrigidiva. Sentiva la mascella contrarsi e il suo sguardo indurirsi, cosa che rendeva ancora più marcati i lineamenti del suo volto perfetto. C’era qualcosa in lei che lo metteva a disagio da quando era ragazzo, e lui sapeva benissimo cos’era. Adelaide Dallaire era probabilmente l’unica donna che poteva mettere in difficoltà Yves Dallaire, se solo lui glielo avesse lasciato fare. Con il suo sguardo languido e le mani scaltre Adelaide era in grado di accattivarsi ogni essere vivente sulla terra e di fargli fare tutto ciò che ella voleva.
    Dopo la madre, il mezzano, Mephistopheles, era quello che sopportava meno della sua eccentrica famiglia, ed era quello che si trovava più spesso sotto il suo naso, non si sa bene come. L’unico che aveva visto un po’ di più, ovviamente per sbaglio. L’aveva visto persino dopo che un esperimento andato male lo aveva fatto diventare una femmina. Per Ethan non poteva essere più umiliante. A quel poveretto non solo il danno, anche la beffa. Gli faceva pena. Lo odiava. Ethan aveva sempre saputo di essere nato nella famiglia sbagliata. Lui era diverso da tutti gli altri. Lo era per davvero. Per questo decise di tagliare i ponti con tutti quelli che portavano il suo stesso cognome. Ma per quanto si impegnasse non ci riusciva mai del tutto.

    13.04, 12:35 am
    Quella lettera era arrivata a casa di Ethan molti giorni prima della festa. Adelaide sapeva fin troppo bene che il suo primogenito avrebbe ignorato quell’invito seduta stante, a prescindere da ciò che c’era scritto. Fu per questo che negli ultimi giorni prima della festa mandò altri inviti, tutti uguali. Alla vigilia della festa, però, insieme alla solita posta era arrivata anche sua madre.
    «Signore, c’è qui sua madre. Ho provato a fermarla, ma.. lei sa..» Ethan si voltò verso Josh mentre impugnava ancora la penna con la quale stava scrivendo una lettera. Nonostante fu una cosa inaspettata anche per lui, Ethan compì quel gesto con una tale calma che in molti avrebbero potuto fraintendere. L’espressione su quel viso, infatti, non era quella di uno che aveva voglia di ricevere visite, eppure sembrava completamente indifferente alla cosa. «Mi dispiace signore.» Mentre Josh abbassava gli occhi, il primo Dallaire lo fissò attentamente, pensando a cosa fare. Da quando si era trasferito in quella vecchia dimora di famiglia, a Londra, Ethan aveva dato ordine a tutti quelli che lavoravano lì di non aprire il cancello a nessun componente della famiglia Dallaire. Ma quella donna riusciva sempre ad ottenere ciò che voleva, persino l’impossibile.
    Alla fine, con molta eleganza, Ethan si alzò dalla poltrona girevole e si avviò verso la porta scorrevole precedendo il suo maggiordomo. Attese poi che Josh uscisse, prima di chiuderla personalmente e infilandosi quindi nel corridoio. Poi proseguì, raggiungendo le scale che portavano giù, nella sala dove sua madre lo attendeva. Solitamente, quando qualcosa lo metteva a disagio, usava sistemarsi i polsi della camicia che fuoriuscivano di poco da sotto la giacca, più o meno dove si mettevano i gemelli. E fece così anche in quel momento, prima di scendere l’ultimo gradino.
    «Non pensavo si usasse portare ancora i ricordini alla fine di una festa. Cos’è? Un portachiavi a forma di pene?» Con la sua voce calda e seducente riusciva a rendere bellissima qualsiasi cosa lui pronunciasse. Un offesa sembrava essere persino un complimento detta da lui.
    Quando Adelaide lo vide scendere le scale si alzò dalla poltrona su cui si era adagiata per andargli incontro, sperando in un abbraccio o in un gesto d’affetto che sapeva non sarebbe mai arrivato, non da lui. Perciò, una volta di fronte, si accontentò di poggiare semplicemente le mani sulle sue braccia e stringerlo, sorridendogli, come se ciò che aveva appena detto Ethan, per lei solo Yves, non fosse mai uscito dalla sua bocca.
    «Non essere sciocco. La festa è domani, altrimenti non sarei venuta qui di persona per ricordartelo.» Prese dalla pochette che manteneva sotto il braccio l’ennesimo invito per Ethan, e glielo porse, questa volta già aperto. «Non hai letto uno solo degli inviti che ti ho fatto mandare, non è vero?» La mano ancora a mezz’aria in attesa che il suo adorato figlio lo prendesse, ma invano.
    «Penso di averli usati al posto della legna per accedere il fuoco ieri sera. Bruciavano veramente bene.» Una fiamma nello sguardo di Adelaide scomparve. I suoi figli erano una costante provocazione per lei. Ma proprio perché lo sapeva era ormai difficile poterla sorprendere. Dopo tutto quello che lei aveva fatto per loro.. Inspirò profondamente e sorrise, inclinando leggermente il capo mentre fissava suo figlio estasiata.
    «Dato che insisti, aggiungerò anche questo insieme alle scartoffie da cui uscirà un bel falò.» E senza neanche abbassare gli occhi su ciò che c’era scritto su quel pezzo di carta afferrò l’invito e lo allungò alla sua destra, in attesa che Josh, il suo maggiordomo, lo prendesse e se lo portasse. Adelaide fissò la naturalezza con cui il suo amato Yves la stava chiudendo sempre più fuori dalla sua vita.
    «C’è altro?» Qualcosa in quella frase, forse il tono, forse le parole, fece trasparire la fretta che aveva Ethan di liberarsi di Adelaide. Ma Adelaide amava prendersi ciò che non era suo, e suo figlio non lo era più da anni ormai.
    «Cosa indosserai?» Ogni minuto che passava, lo sguardo della donna, cercava sempre di oltrepassare quello di ghiaccio del figlio. Sapeva per giunta, che a prescindere dal fatto che quello davanti a sé fosse Yves, la maggior parte della persone con cui aveva a che fare si sentiva a disagio a stare con lei. E questo non faceva che aumentare il suo ego e il suo divertimento personale. Amava torturare le persone.
    Posò le sue mani affusolate sul petto di Yves, sentendo attraverso la camicia quanto fosse dannatamente muscoloso e scolpito quel corpicino che lei aveva partorito tanti anni prima. Ethan, irrigidito da quel contatto, fece con calma un passo indietro, dirigendosi verso un banco che conteneva una serie di alcolici, per versarsi del buon bourbon in un bicchiere. L’alcool e il fumo erano gli unici suoi due amici.
    «Ho di meglio da fare che venire ad una festa in maschera.» Adelaide lo raggiunse, rubandogli il bicchiere non appena riuscì ad allungare le sue lunghe zampe verso il figlio, e costringendo Ethan a versarsene un altro. La donna si allontanò, camminando per la sala, e sogghignando.
    «Qualsiasi cosa dovesse succedere domani sera, non pensare che ne rimarrai fuori, anche se non vieni. Sei un Dallaire, la gente parla anche se non fai niente. Anzi.. Si potrebbe pensare che tu abbia qualcosa da nascondere.» Ethan sapeva che ora lo aveva in pugno, ma la cosa peggiore era che comunque aveva ragione. Rimase immobile, senza pronunciarsi.
    «Oh.. mio caro Yves.» Ritornando verso il figlio buttò giù tutto d’un sorso il bourbon che aveva nel bicchiere, per poi lasciarlo di nuovo sul banco da dove era stato preso. «Sarà una bella serata, vedrai.» Si sporse in avanti per dargli un bacio sulla guancia e lasciare così quella casa. Prima, però, di chiudersi la porta alle spalle si voltò verso suo figlio che già stava risalendo le scale per ritornare nel suo studio e lo fissò, maledicendosi perché quell’uomo così bello, purtroppo, era suo figlio.

    14.04, 10:15 pm
    Essere venuto lì dal pomeriggio ed essere stato in quella casa, tutte quelle ore quel giorno, gli sarebbe bastato per i prossimi due anni. C’era stato poco con la sua famiglia, in realtà. Probabilmente l’unica persona felice che lui fosse lì era sua madre, senza ombra di dubbio. Dopo tutto quel tempo quale altro parente lo avrebbe comunque riconosciuto, con una maschera sul viso, per giunta? Nessuno. A malapena si sarebbero ricordati di lui. E probabilmente era anche per questo se alla fine aveva ceduto. Forse.
    L’orologio a pendolo aveva suonato le 10 già da un quarto d’ora abbondante. Era arrivato il momento di scendere e fare numero in mezzo ai primi invitati. Dal balcone da cui si era affacciato riusciva a vedere tutti quelli che stavano arrivando. Rise, e pensò a quanto la gente avesse bisogno di stimoli per mettersi in evidenza. E quella festa era la loro occasione. Alla fine a loro non importava nulla che a suo fratello fossero tornati tutti gli attributi. Loro erano lì solo per fare casino. Per fare veramente casino. Dalla tasca dei pantaloni Ethan afferrò il pacchetto di sigarette per accendersi l’ultima prima di finire risucchiato da tutti quegli spostati che gironzolavano per casa sua vestiti a Carnevale. Inspirò profondamente per poi abbandonarsi del tutto al primo dei suoi tre vizi.

    10:25 pm
    Ethan passò per l’ultima volta dalla sua vecchia camera da letto per andare a prendere la maschera che si sarebbe infilato di lì a qualche minuto. Prima però si fermò davanti allo specchio per sistemarsi un’ultima volta: passò la mano fra i capelli, si aggiustò i polsi della camicia, i gemelli, la giacca e, infine, il papillon. Poi afferrò la maschera, e dopo aver sospirato se la infilò.
    Uscì veloce dalla sua stanza e percorse il corridoio, fino ad arrivare davanti alle scale che lo avrebbero portato vicino all’ingresso da cui entravano gli ospiti. Poi si fermò. Squadrò, attraverso la maschera, ogni singolo invitato tra quelli compresi nel suo campo visivo. Più giù, sentiva la voce di sua madre che dava il benvenuto, insieme alla musica e al ticchettio dei tacchi a spillo. E poi tante voci. Troppe voci.
    Con un’eleganza impressionante Ethan scese finalmente le scale, poggiandosi sul corrimano di legno, come fosse una principessa. Perché in fondo lo era. Quel ragazzo era sempre stato di una bellezza inspiegabile, e nonostante portasse la maschera e il suo volto fosse anonimo, le persone si fermavano comunque ad osservarlo. E lui, con la più totale indifferenza, una volta arrivato nella sala principale proseguì diritto, portandosi nella sala da ballo davanti al tavolo delle bevande dove si servì un bicchiere di champagne per dare inizio alla serata.


    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia



    Josh
    Adelaide
    Ethan Yves

    Sostanzialmente non fa niente. Osserva e squadra tutti. E beve.
     
    .
  14.     +5    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Member
    Posts
    145
    Spolliciometro
    +349

    Status
    Offline
    Jessalyn Goodwin
    14th April
    Dallaire's Manor
    Low on self esteem, so you run on gasoline
    1999's ✗ Wizard ✗ Former Huff ✗ Rebel ✗ Dress + mask

    11 Dicembre 2010


    Quella mattina Ophelia Helidaile si svegliò di ottimo umore. Anzi, non era solo felice, era davvero euforica, e i suoi genitori non ci misero molto ad accorgersene: la ragazzina entrò in camera loro urlando a squarciagola per poi salire sul loro letto e incominciare a saltare come un canguro pestando diverse volte la malcapitata gamba di suo padre. Spesso i due si chiedevano dove avessero sbagliato nella vita: la loro bambina era un tornado, nel vero senso della parola. Per prima cosa, non stava mai ferma: la trovavi sempre impegnata in qualche assurda e pericolosa attività come salire sul tetto e cominciare lì un pic-nic con i suoi peluche, decidere di lanciarsi con uno slittino costruito da lei stessa per la ripida discesa fuori casa nelle giornate di neve o avvicinarsi a qualunque animale esistente e considerarlo fin da subito il suo migliore amico. Poi non la smetteva mai di parlare: aveva iniziato a pronunciare le sue prime parole ancor prima di compiere un anno, e tempo altri cinque mesi eccola iniziare a mettere insieme parole tra loro insensate. Se ne sarebbero dovuti accorgere fin da subito, i coniugi Helidaile, che avevano dato vita a un esserino le cui batterie non si scaricavano mai, nel momento stesso in cui tutti gli altri bambini piangevano ed Ophelia era lì che li guardava ridendo e agitando il suo peluche preferito, un piccolo sole giallo e sorridente, proprio come lei. In ogni caso, l’esuberanza di quella mattinata derivava dalla lettera che la bambina agitava in aria come un tifoso agita una bandiera allo stadio. « È arrivata mamma! È arrivata!! » Quanto aveva atteso quella lettera? Quante volte si appostava sul portico fuori casa a fissare il cielo nella speranza che un postino, un gufo o anche solo un colpo di vento le facesse arrivare quel pezzo di carta, il suo biglietto per nuove avventure: la lettera di ammissione alla scuola di magia e stregoneria di Salem. Aveva sentito raccontare tantissime storie su di essa da suo padre, che l’aveva frequentata alla sua età, mentre sua mamma veniva dall’Inghilterra quindi era andata in un’altra scuola chiamata Hogwarts. Ophelia però aveva sempre saputo che un giorno avrebbe frequentato quella di Salem, e da sempre si domandava in quale casa l’avrebbero smistata. Sapeva di non poter diventare un Wildcats come suo padre, visto che era una femmina, eppure a volte fantasticava e sognava di diventare la prima ragazza a venir accettata tra le loro fila.
    Quel giorno era il suo undicesimo compleanno. Essendo nata dopo Dicembre, le aveva spiegato sua madre, non poteva iniziare la nuova scuola da subito ed era costretta a rimanere un anno in casa, anche perché i suoi genitori avevano deciso di non farle continuare la scuola babbana. Così aveva visto tutte le sue amiche, streghe e non, iniziare un nuovo capitolo della loro vita mentre lei era rimasta bloccata e, per una come Lia, la cosa rappresentava un bel problema perché non potendo investire nella scuola le sue infinite energie, andava sempre a trovare modi nuovi e più bizzarri di combinare guai. Ma in quel momento importava solo la lettera che stringeva tra le mani: a settembre sarebbe partita! Le sembrava un sogno.
    Festeggiò il suo compleanno nel migliore dei modi, riuscendo a convincere i suoi genitori prima a portarla al mare – mare nel bel mezzo di dicembre? ovvio – dove si divertì a lanciare palle di sabbia ai suoi per poi rotolarsi in essa, poi al suo ritorno a casa aveva trovato tutti i suoi parenti e altri amici di famiglia ad aspettarla. Era stata una giornata splendida, di quelle che ricordi per tutta la vita e a cui ripensi sempre con un sorriso sulle labbra. Sfortunatamente, fu uno degli ultimi momenti felici che condivise con tutta la sua famiglia. Sfortunatamente, non se lo ricorda nemmeno più.

    19 Luglio 2011


    «Dobbiamo davvero partire? » Sua madre annuì, mentre continuava a muoversi per la casa agitando la bacchetta e sistemando tutte le loro cose in degli scatoloni. «Tesoro ne abbiamo già parlato, dobbiamo andare». Come potevano farle questo? Insomma, aveva appena finito il suo primo anno di scuola a Salem. Al contrario di quanto sognava, era stata smistata tra le Flameango, e nonostante l’iniziale titubanza ci aveva messo pochissimo tempo a fare amicizia con tutti e a diventare la piccola mascotte della casa. Il capitano della squadra delle cheerleader le aveva persino detto che aveva grandi potenzialità e per questo spesso la faceva assistere agli allenamenti, mentre Ophelia non attendeva altro che diventare abbastanza grande per fare il provino ed entrare in squadra. Aveva stretto amicizie con tutti. Le piaceva il fatto che le ragazze potessero indossare anche i pantaloni e non solo le gonne, che lei odiava: le piaceva vederle sulle altre persone ma di certo non mettersele addosso. Certo, si metteva spesso nei guai - come starebbe stato possibile il contrario? – eppure sapeva che alcuni professori avevano un debole per lei nonostante non facessero altro che richiamarla.
    Non voleva lasciare la scuola. Non voleva abbandonare tutti i suoi amici. E, ancora di più, non voleva abbandonare l’America. Non voleva lasciare i suoi zii , i suoi nonni e i suoi cugini. Era tremendamente ingiusto.
    Ma doveva andare così e in fin dei conti la ragazzina ne era consapevole: i genitori facevano parte della fazione ribelle e non l’avevano mai tenuto segreto alla figlia, rivelandoglielo quando l’avevano ritenuta abbastanza matura. Sapeva che il loro segreto comportava gravi rischi, sapeva di doverlo difendere con la sua stessa vita, proprio come loro, sapeva che l’avrebbero messo sempre al primo posto. E in quel momento erano esposti: alcuni funzionari del ministero avevano trovato prove del loro coinvolgimento nella resistenza e per questo dovevano andarsene il prima possibile.
    Per questo, Ophelia era stata costretta a mettere loro e il loro segreto davanti a se stessa. Le dava un fastidio tremendo dover dire addio a tutto ciò che conosceva e che per anni era stato il suo mondo. Ma aveva la speranza di costruirsene un altro. "Con il tuo carattere ce la farai subito", le continuavano a ripetere i suoi genitori. Ed in fondo sapeva di essere realmente in grado di farlo.

    E così avevano lasciato la loro tranquilla casa di Savannah, in Georgia, per trasferirsi a Londra. Avevano assunto nuove identità, grazie all’aiuto di alcuni della resistenza, e così erano diventati la famiglia Goodwin. I suoi genitori le avevano persino dato la possibilità di scegliersi da sola il nuovo nome, sperando di poterla tirare su di morale. E così, da quel giorno, la ragazza si chiamò Jessalyn, detta da tutti Jess. Un nome affascinante ed inusuale, ma all’occorrenza diretto e semplice. Lo adorava. Alla fine, i genitori avevano avuto ragione: appena arrivata ad Hogwarts era riuscita a stringere nuove amicizie. A ricostruirsi una vita, a mostrarsi gioiosa di fronte ad ogni avversità. Anche le peggiori. Anche quando i suoi genitori furono uccisi. Aveva continuato a rimanere salda, a mostrare a tutti la facciata della ragazza che desiderava essere. A cercare di ingannare anche se stessa. E poi c’erano stati i laboratori. Lì non aveva retto. Lì tutta la sua forza si era sgretolata, e non ce l’aveva fatta. Voleva dimenticare ciò che aveva passato, ma in quel tentativo aveva cancellato ogni cosa.

    14 Aprile 2017


    Non sognava mai nulla, Jessalyn Goodwin. O almeno, per quanto ricordasse non aveva mai sognato immagini concrete. Le sue notti erano buie e vuote, insignificanti, perché per lei dormire era solo un’azione vuota, un insulso bisogno fisiologico che si trovava a dover assecondare. Non trovava in esso né conforto né tristezza. Non ci trovava nulla.
    Oramai ne era abituata. Per altro, che cosa mai avrebbe potuto sognare? Jess non aveva ricordi d’infanzia o dell’adolescenza che il suo cervello potesse rielaborare e rimandarglieli sotto forma di sogni, e tutto questo era dovuto ad un errore, un suo maledettissimo errore. O almeno, ora lo considerava così. Eppure sapeva che era stata proprio lei a volerlo. L’ altra lei. La Jessalyn che era prima. L’estranea che aveva abitato il suo corpo prima di lei, che era lei ma in realtà non lo era. Era un ragionamento intricato, complesso, che lei stessa non capiva. Che la sua mente formulava, ma allo stesso tempo cercava di cancellare un secondo dopo. Perché di una cosa la ragazza era certa: non avrebbe mai e poi mai fatto spazio alla tristezza nella sua vita. Alla disperazione, al rimpianto, a tutta quella serie di emozioni che portavano solo negatività e inquietudine. Se la Jess del passato aveva fatto quello che aveva fatto , probabilmente era stato proprio per dare alla ragazza la possibilità di essere felice.

    Quel pomeriggio fu svegliata da Erin che le strattonava il braccio. La sera prima era uscita per locali ed era rientrata all’alba, cosa che l’aveva portata a dormire fino a tardi. Aprì gli occhi controvoglia e borbottò suoni incomprensibili che teoricamente dovevano formulare una semplice domanda : «Che ore sono?» La Chipmunks – giustamente – non aveva capito molto ma iniziò a ricordarle che quella sera c’era la festa a casa Dallaire e che quindi doveva sbrigarsi perché doveva prepararsi e soprattutto aveva promesso di darle una mano. Le bastò sentire la parola “festa” per scattare in piedi. Diamine, come aveva fatto a non ricordarsene! «LA FESTA! METTIAMOCI ALL’OPERA» Scattò in piedi in un attimo, fregandosene di quanto fosse effettivamente stanca o di quanto odiasse venire svegliata. Quella era un’occasione speciale: da quando avevano ricevuto gli inviti, Jess non faceva altro che blaterare su quanto amasse le feste e non vedesse l’ora di partecipare. Aveva persino convinto Erin ad andare, promettendo di aiutarla a scegliere l’abito, la maschera e soprattutto ad acconciarle i capelli ed a truccarla. Jessalyn amava tutto ciò che riguardava feste e divertimento, quindi non si sarebbe mai fatta scappare quell’occasione, per nulla al mondo. E poi, cosa ancora più bella, era in maschera! Aveva impiegato due giorni a trovare l’abito adatto, dato che tutti le sembravano stupendi, ed alla fine aveva optato per uno dorato lungo fino ai piedi a sirena, decorato da ricami che rappresentavano in modo stilizzato la coda di un pavone. Per questo ci aveva abbinato una maschera tutta fatta di piume vedi e blu.
    Così aveva trascorso il resto del pomeriggio in compagnia di Erin ed entrambe si erano preparate, o più precisamente, la Goodwin aveva preparato entrambe. Adorava Erin, così come adorava Nathan ed adorava vivere al Quartier generale della Resistenza. Quando era stata liberata dai laboratori e non aveva alcun ricordo, di due cose era certa: si chiamava Jessalyn Go e faceva parte dei ribelli. Lo sapeva e basta. Per qualche strano motivo, quelle informazioni erano rimaste immuni all’incantesimo che le aveva cancellato ogni altra informazione personale. E così, tra le fila della resistenza, aveva trovato persone che conoscevano i suoi genitori. Persone che sapevano chi era quando lei era la prima a non saperlo. E in Erin , Nathan e il QG un legame profondo identificabile come una vera e propria famiglia. L’unica che conosceva.
    Intorno alle dieci, erano davanti all’entrata dell’enorme dimora dei Dallaire. Jess era in estasi: già dall’esterno superava di gran lunga le sue aspettative. Non vedeva l’ora di entrare, ma al contrario la Chipmunks era terrorizzata. «è stata una terribile idea» Come poteva calmarla? Ormai erano lì, e di certo non sarebbero andati via ad un passo dalla porta d’ingresso. Jess si voltò verso di lei, sorridendole per tranquillizzarla. «Tu lo sai che cosa simboleggiano i pavoni in Tibet? - fece un passo avanti, roteando su se stessa per poi alzare le braccia al cielo - sono simbolo della trasformazione positiva di qualunque situazione negativa. Quindi se la serata inizia a mettersi per il verso storto, ti basta chiamarmi e tornerà tutto ad essere perfetto » Visto che la ragazza non sembrava ancora convinta, nonostante il suo splendido discorso d’incoraggiamento – su, come era possibile, le aveva citato una credenza popolare tibetana ! - a Jess non restò altro da fare che afferrarla per il braccio e condurla nella casa. Non avrebbe potuto far di meglio: l’interno era ancora meglio dell’esterno. Rimase ammaliata da ogni cosa: le statue, le cameriere che si muovevano leggiadre per la stanza travestite da corvi, gli altri partecipanti già presenti con i loro abiti e soprattutto ….«IL TAVOLO DELLE BEVANDE». Fece uno scatto felino verso l’oggetto del desiderio, perché si sa, quando l’alcol chiama non si può far altro che rispondere. Soprattutto se ti chiami Jessalyn Goodwin e non hai ancora smaltito la sbornia della sera prima. Si versò da bere, notando con divertimento la forma particolare delle cannucce e pensando bene di riempire un bicchiere anche per Erin solo per il gusto di osservare la sua espressione nel vedere dove avrebbe dovuto mettere le labbra per bere. Diamine, è la festa dei miei sogni. Scrutò la sala alla ricerca dell’amica , ma i suoi occhi furono catturati da un ragazzo dai capelli biondi : aveva qualcosa di maledettamente famigliare ed anche se indossava una maschera Jess sapeva che aveva gli occhi azzurri. Era una sorta di sensazione irrazionale. Poi si costrinse a spostare lo sguardo ed ecco che vide Erin in compagnia di altre ragazza. Senza pensarci oltre, si diresse verso di loro ed allungò subito all’amica il drink. «Ecco qui, tutto per te» poi rivolse lo sguardo alle altre, rivolgendogli un ampio sorriso. «Jessalyn , è un piacere conoscervi». La ragazza non potè fare a meno di notare che la bionda che indossava l’abito con la lunga gonna blu le aveva rivolto uno sguardo sconvolto e non faceva che spostare gli occhi dal suo abito al suo volto. «Erin , non dirmi che hai già iniziato a parlare male di me in giro!»

    code by ;winchester


    Potete tranquillamente saltare lo sproloquio sulla sua vita ( Dai capitemi, è il primo post *^* ) , allora alla festa per prima cosa fissa Barrow - in attesa della scenata #wat - poi torna da Erin e si presenta ad Amalie, Nicè e Syria.


    Edited by #rayofsunshine - 1/5/2017, 21:12
     
    .
  15.     +6    
     
    .
    Avatar

    Member

    Group
    Professor
    Posts
    728
    Spolliciometro
    +1,124

    Status
    Offline
    barrow h. cooper
    y'all can suck my dick
    people empty me. i have to get away to refill. | dress & mask &

    Era il silenzio la cosa peggiore.
    La quiete, il pigro ciondolare senza meta di coloro che il fondo lo avevano toccato da un pezzo, gli sguardi vacui incollati alla schiena senza davvero vedere qualcosa. Senza vedere lui . Al punto da non dover nemmeno fare lo sforzo di usare la magia, o le sue doti innate per modificare il proprio aspetto. Non lo avrebbero riconosciuto comunque; cristo santo, non avrebbero riconosciuto le madri, persino i figli, se se li fossero trovati di fronte. Di quel ragazzino ricco dall'aria slavata, troppo magro e troppo pallido, interessavano solo i soldi e quanti di questi fosse disposto a spenderne. Per una buona causa, s'intende! Voi come altro definireste la sopravvivenza? «Due pezzi, come mi hai chiesto..» L'uomo curvo di fronte a Barrow aprì le mani mostrandogli i palmi incrostati di sporcizia, al centro degli stessi il sopracitato numero di bustine di plastica trasparente grandi quanto francobolli da collezione. Eccolo lì il quieto vivere, la calma nella tempesta: perché Barrow Cooper dentro all'uragano ci viveva attimo dopo attimo, sferzato da venti e pioggia e tuoni pronti a spezzarlo in due come un ramo secco. A volte arrivava persino a sentirsi tale, teso, secco, scricchiolante. Di quelli che prendono subito fuoco e lasciano mille schegge nella pelle. «E questi sono i tuoi, Marvin. Ho aggiunto qualcosa per la discrezione.» Non sorrise mentre porgeva all'uomo alcune banconote ripiegate scambiandole con i piccoli involucri sigillati: all'interno degli stessi, una decina di pasticche rosa confetto, dall'apparenza innocua.
    Come per tante cose, come per tante persone, l'involucro esterno raramente combaciava con ciò che si nascondeva all'interno, sotto una superficie pulita ed accattivante.
    Marvin, il cui cognome un tempo doveva aver significato qualcosa - una famiglia, una vita, un'identità -, ma aveva smesso di appartenergli da un pezzo, arraffó i soldi con malcelata impazienza, quasi al punto da farseli scivolare tra le dita tremanti, prima di stringerli nei pugni. Barrow reclinó la testa di lato, un moto di curiosità che lo spinse ad osservare il viso dello spacciatore nella penombra, forse un instante di più di quanto non gli capitasse normalmente; di solito, terminato lo scambio, il corvonero girava sui tacchi senza più guardarsi indietro e a ragion veduta: non c'era niente di bello da vedere, nemmeno un dettaglio sul quale valesse la pena soffermarsi. Solo occhiaie livide e pelle sottilissima, una ragnatela di capillari scoppiati ad iniettare di sangue i bulbi oculari. E poi c'era la disperazione. Totale, incontrovertibile, definitiva. È così che vuoi finire? A sbavare sui bordi di un marciapiede con lo sguardo da pazzo e la dignità buttata nel cesso? Se fosse servito a far incazzare loro allora sì, perché no. Si riscosse a quel pensiero, indietreggiando di un passo con entrambe le mani calcate nelle tasche del giacchino, la droga ormai al sicuro.
    Marvin the drug dealer poteva anche lasciarci le penne quella sera stessa, ma il giovane Cooper non poteva ancora permetterselo; lo aspettava una festa, e che diamine!


    Le mani della madre, dita lunghe e affusolate e fredde come ghiaccio, gli si strinsero attorno alla gola, graffiando la pelle con unghie smaltate di rubino, solo un segno impercettibile sulla superficie slavata e sottile. «Lascia, Berry, ci penso io.» Come sempre. Abbassò le braccia lungo i fianchi, sapendo di non avere nulla con cui controbattere, così che lei, posizionata alle sua spalle, potesse sciogliere il nodo allentato della cravatta per ricominciare da capo. Dovette infilare entrambe le mani nelle tasche dei pantaloni stirati e inamidati, per non dare alla donna la soddisfazione, l'ennesima, di vederle chiudersi a pugno. «Non serve che io ti ricordi le buone maniere, vero tesoro?» Ovviamente non serviva.
    Barrow Holden Cooper conosceva le regole, fin troppo bene; e per questo aveva tentato in tutti i modi di sottrarsi a quell'agonia, senza successo. I suoi genitori lo avevano obbligato senza tanti giri di parole, prima ancora che Kieran Sargent potesse piombargli addosso dall'alto del suo metro e cinquanta come una vera stalker per trascinare il malcapitato corvonero dritto nella trappola infernale. Il problema, almeno per lui, era che con tutta probabilità avrebbe finito per dirle di sì, anche senza le imposizioni naziste dei Cooper; i quali, se avessero saputo quali compagnie frequentava il loro unico figlio, sarebbero stati ben lieti di fargliela pagare. Purtroppo, non si trattava di una figura retorica, un mero modo di dire. Te lo devi guadagnare, il nome che ti abbiamo dato. E come poteva dirglielo che quel nome non lo voleva? Che avrebbe preferito sputarci sopra, strappare ogni lettera e ficcargliela su per il culo? Sorrise, senza dischiudere le labbra, rimirando la propria immagine allo specchio evitando accuratamente di incontrare le iridi nocciola di Genevieve, mai così distante dalle sue. Non c'era nulla nei genitori, nemmeno il più piccolo dettaglio, al quale Barrow potesse aggrapparsi per sentirsi parte di qualcosa, che gli facesse dimenticare anche solo per un istante quanto li sentisse estranei. Quanto, senza tanti giri di parole, li odiasse entrambi. «Non hai di che preoccuparti. E porterò i vostri saluti ai professori.» La vide annuire con un'ombra di soddisfazione sul volto affilato, le mani finalmente lontane dal collo del sedicenne: sapeva bene, la signora Cooper, quando ritirarsi dal campo di battaglia, soprattutto dopo una vittoria. Se avesse osservato con più attenzione, se mai si fosse sforzata di leggere tra le righe e riconoscere i segni, forse avrebbe capito che mille battaglie non fanno una guerra.
    Quella, per quanto riguardava il fu Lynch Barrow, non era ancora nemmeno cominciata.
    «Tuo padre vorrebbe dirti due parole, quando sei pronto per scendere.» La solita frase, ripetuta mille e più volte alle orecchie di un bambino ignaro finché non era diventata abitudine, e che nonostante questo non mancava mai di provocargli un brivido lungo la colonna vertebrale, simile ad un presagio di sventura. Perchè Bartholomew Cooper non voleva mai solo dire due parole; non si intravedeva rassicurazione nelle granitiche iridi antracite, meno che mai comprensione o affetto. Parlava per se stesso, il capofamiglia, in nome di un onore che Barrow veniva costantemente invitato a rispettare ed idolatrare, con scarso successo. Anche se le minacce un effetto lo avevano: alimentavano il fuoco, meglio di un qualunque liquido infiammabile da due soldi spruzzato sulla carbonella ardente. Se vi è mai capitato di accendere un barbecue sapete di cosa sto parlando. Ed ogni occasione era buona per ricordargli quale fosse il suo posto nella scala gerarchica dei Cooper, e le conseguenze cui sarebbe andato incontro il sedicenne se avesse deciso di trasgredire le regole. Tuo padre vuole dirti due parole, Barry. Prima di una festa alla quale avrebbe dovuto fare bella figura, all'alba del primo giorno di scuola, quando mostrava anche solo lontanamente di voler fare amicizia con un coetaneo. Come qualunque altro bambino. Tuo padre vuole dirti due parole, Barry : ci devi tutto, non ti azzardare a farmi fare brutta figura, a quella gente non ti ci devi nemmeno avvicinare , impara a stare al tuo posto Barrow, o me la paghi. «Arrivo tra un attimo.» La donna lo osservò per un istante alla ricerca di un guizzo, un cedimento strutturale, la più piccola piega storta nel sorriso pacato del figlio, poi richiuse la porta della camera alle spalle, lasciandolo finalmente solo, un lampo di bieca soddisfazione nelle iridi scure. Convinta di averlo piegato, plagiato, manipolato al punto da spegnere ogni istinto, anche la più piccola scintilla di vita.
    Erano davvero quelle le priorità di una madre? Secondo il corvonero, nato e cresciuto nel gelo di una gabbia dorata e perfetta solo agli occhi di un estraneo, non esisteva alternativa; dovevano essere così anche tutti gli altri genitori del fottuto mondo. Il sorriso sul volto pallido di Barrow scemó quando Genevieve abbandonó finalmente la maniglia, i tacchi a risuonare sul marmo del corridoio fino alla scalinata: ci si era quasi spaccato la testa, a otto anni, rotolando dal primo gradino fino all'ultimo, senza mancarne uno. Scivolato, inciampato, spinto, chi può dirlo. Lui la ricordava bene la mano del padre, troppo grande per una spalla cosi piccola, il pollice a premere contro la clavicola strappandogli un gemito di dolore; poi la sensazione del vuoto sotto i piedi, il soffitto dove sarebbe dovuto esserci un pavimento, il rumore delle ossa in frantumi. «Alla tua, papi.» Alzò in aria la mano destra, tenendo stratta tra le dita una dlele pastiglie acquistate dal buon vecchio Marvin, pronto a brindare alla sua immagine riflessa nello specchio, alle ombre scure sotto gli occhi grigio azzurri ormai diventate parte del pacchetto notti insonni, una sfumatura appena percettibile di ocra a sporcare lo zigomo destro.
    Chissà se si era accorto, Cj Knowles, di quanti nuovi tagli e lividi erano apparsi il giorno dopo il loro primo magico incontro, o se non ci avesse fatto nemmeno caso, abituato a sfiorare sangue e ferite con lo sguardo ogni minuto di ogni ora di ogni vita. Chissà se lo sapeva, Cj Knowles, quanto l'avesse fatto sentire vivo, e fino a quale punto Bartholomew avesse soffocato tale rara sensazione di libertà, colpendolo come il tassorosso non sarebbe mai riuscito a fare. Scosse la testa, posizionando la pasticca sulla punta della lingua, inghiottendo la stessa senz'acqua, il sapore amarognolo già invadente all'interno delle guance e lungo la gola.
    Fuori una, ne restano nove.

    Sarebbe rimasto ad aspettare anche tutta la notte, se solo avesse significato potersi risparmiare quella farsa in maschera, ma sapeva che Kieran era solo in ritardo e presto sarebbe arrivata; come una piaga d'Egitto alla quale è impossibile scampare, l'uragano Kathrina, il surriscaldamento globale. Barrow non la conosceva abbastanza bene da avere delle certezze, eppure gli bastava quel poco tempo passato insieme per farsi un'idea sul dove fosse e cosa la stesse trattenendo dall'arrivare puntuale ad un appuntamento: cibo. Da quando lo aveva fermato in uno dei tanti corridoi di Hogwarts, con la sua divisa priva di colori rappresentativi e i grandi occhi scuri da cerbiatto intenti a scannerizzare la figura del corvonero da capo a piedi («Ti prego, dimmi dove hai fatto la tinta. Ma sono naturali? E' un piercing quello?»), non l'aveva mai vista senza un qualche tipo di alimento a portata di mano, fosse anche solo una caramella estratta dalla tasca con fare da prestigiatore. Come fosse arrivato ad accettare di accompagnarla alla festa dei Dallaire, rimaneva un mistero, soprattutto per lui.
    Prima che potesse distogliere lo sguardo dai propri piedi, nonché la mente dal piano escogitato per far pesare il ritardo alla mimetica, il braccio di Christopher Joseph Knowles planò rapace sulle spalle del biondino, le dita graffiate a stringere il tessuto pregiato dell'abito scelto con cura maniacale da Genevienve Cooper; se con quel gesto l'avesse sgualcito, gli avrebbe solo fatto un favore. «barry, non ti facevo tipo da champagne» Non lo era. Permise al coetaneo di agganciarlo in una morsa senza tentare minimamente di liberarsi, le palpebre calate sulle iridi chiare per raggiungere nel modo più rapido possibile lo stato di trance e meditazione necessario a sopravvivere: a cj, alle pericolosissime tette di sun, a quello stupido ritrovo di simboli fallici e pagliacci mascherati. Solo quando il sedicenne gli premette le labbra sulla guancia, nel punto in cui solo poche settimane prima vi aveva impresso le nocche della mano destra, Barrow riaprí gli occhi, puntando i piedi così da svincolarsi dal braccio del tassorosso e sollevare il proprio per sistemare la maschera rossa tirata indietro sul capo, leggermente storta. «Noi ricchi con lo champagne ci laviamo il culo, Knowles. Non lo sapevi? Sun può confermare.» ed accennó alla ragazza con un cenno della testa, ben sapendo chi si celasse all'interno di quell'involucro tanto ben confezionato; una vera opera d'arte, sebbene il corvonero apprezzasse indistintamente entrambe le identità del De Thirteen, con o senza tette, con o senza pene. Tipo quello che gli passò sotto il naso mentre Christopher e il fu Sandy avanzavano verso l'ingresso della villa, poggiato insieme ad altri suoi simili sopra ad un vassoio di lucido argento: maschere, bicchieri fallici, atmosfera da setta satanica. «Eyes wide shut.» Tutto sommato, per il sedicenne era come trovarsi a casa propria.
    «Coop!» sempre meglio di berry Alla fine era giunta; suo padre l'avrebbe additata con disprezzo, addossandole la colpa di essere diversa, il bieco risultato di un esperimento fallito, e tanto bastava al biondino per accettare la vicinanza di Kieran più di quanto non facesse con altri. Di contro, c'era da dire che sapeva essere una gran rompicoglioni, la brunetta, ma anche quello era in grado di farlo con stile, una dote innata sufficiente a strappargli di tanto in tanto quel sorriso tirato che lei interpretava come una resa. «Devo dire che speravo non arrivassi.. non vedevo l'ora di levarmi dalle palle.» Giá si immaginava lontano da lì, dall'altra parte della città, imbucato a qualche party non proprio legale dove poter consumare la sua piccola dose di serenità in santa pace, abbandonato su di una sedia a sdraio con lo sguardo rivolto alle stelle. Si prese un'ingiustificata ceffa sul braccio destro, attutita dalla stoffa spessa dell'abito su misura, reagendo con una smorfia di dolore facilmente scambiabile per vera. «LINGUAGGIO, COOPER!» Party illegale, sedia a sdraio, stelle, droga. Chiuse gli occhi, Barrow Cooper, inspirando a fondo l'aria tersa della sera, piacevolmente fresca sotto il peso di tutti gli strati indossati uno sopra l'altro, il braccio destro piegato e spinto in fuori affinché Kieran potesse passarvi attorno il proprio, dal basso del suo metro e ottantavogliadicrescere. La mano libera, ancora premuta nella tasca sinistra della giacca bordeaux, ne uscì portando con sé una delle ormai famose pasticche rosa confetto estratta dalla bustina numero #1: non era certo intenzione di Barrow consumarle tutte e nove - otto, a quel punto - durante la serata, ma a simili feste altolocate bisognava sempre tenere un asso nella manica, di quelli che ti fan vincere la partita; vide lo sguardo incupito di Kieran puntarglisi contro quando la pastiglietta scomparve sotto la lingua, e ad esso il corvonero rispose con la solita alzata di spalle, un sopracciglio inarcato a rinarcare il concetto. «Sopravvivenza, Sargent.» Caló la maschera sul viso, una macchia rossa e crudele che lasciava intravedere a mala pena le iridi chiare del ragazzo e le labbra sottili tese in una smorfia di accondiscendenza alla quale ormai era dannatamente abituato.
    Lo rivolse ad alcuni professori, compagni di casata dei quali non ricordava nemmeno il nome, e ad altri il cui volto per qualche strano motivo non gli innescava dentro il desiderio di annegarli in una vasca: tra questi ultimi, una biondina dall'aria spaesata, in direzione della quale sollevó persino una mano in cenno di saluto; rapido, quasi impercettibile, distante. E ancora più gelido quando lo sguardo si posò sulla figura di Jess, riconoscibile nonostante la maschera a nascondere in parte i tratti del viso, sugli inconfondibili riccioli scuri. Ma lei faceva parte di un'altra storia, praticamente di un'altra vita.

    lynch barrow holden cooper | 16 y.o. | ravenclaw | pinterest
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia


    madonnaemanuele che fatica faccio con i nuovi pg. eeee ho scritto pochissimo perche ancora non lo conosco bene (?) mi ci devo abituare. allora parla con cj, sun, kieran, saluta amalie con un cenno, fissa male jess perché mestruato ♡


    Edited by j e r k . - 20/4/2017, 18:09
     
    .
152 replies since 9/4/2017, 18:31   5624 views
  Share  
.
Top