shooting fireworks like it's the fourth of july

bells x syria

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    La pioggia le bagnava i capelli, insinuandosi fra le labbra dischiuse e le palpebre serrate. Bells riusciva a sentire ogni goccia, taluna un umido frammento di ghiaccio a scavarle la pelle, lasciando scie di vetro – taglienti, trasparenti. Cercava di respirare, ma l’aria, semplicemente, non entrava: seguiva una strada alternativa che non la portava ai polmoni, entrando dal naso per rimanere incastrata in gola, e uscire rotolando sulla lingua.
    Non c’era spazio, in quel petto troppo piccolo, troppo giovane, per qualcosa ritenuto superfluo come l’ossigeno. Non c’era vita fra quelle costole accartocciate fra loro, quelle ferite a zampillare sangue caldo.
    Sangue non suo.
    Sangue di tutti loro.
    E si guardava attorno, Arabells Dallaire; si guardava attorno, e li vedeva tutti - come non li aveva mai visti, come aveva sempre timore di vederli. Elijah, Mephisto, Oscar, Arci, Jeremy, Jack. Ed Eleanor, Thea, Amalie, Todd. Riversi al suolo, immobili sotto un cielo cieco ed assente. Privo di stelle, di nuvole, di qualunque elemento che potesse definirlo cielo. Vuoto, come i corpi che non accennavano a muoversi.
    Come la ragazzina, al centro di quella radura, con la pelle chiara e sporca di terra e polvere, i corti capelli castani spettinati. Non aveva tagli, non aveva sangue, ma non aveva neanche calore: giaceva lì, dimenticata anche dalla Morte stessa, senza che nessuno l’avesse mai guardata. Non sapeva come potesse saperlo dato che non c’era più nessuno a poterlo testimoniare, ma lo sapeva. Rimase ferma come gli altri, finchè ferma non lo fu più – ed allora si alzò a sedere, ancora fredda, e bianca, e dannatamente poco viva. Gli occhi chiari si scontrarono con le iridi altrettanto chiare di Bells, giada su giada e fiordaliso su fiordaliso.
    Arabells Dallaire ricambiò lo sguardo di Arabells Dallaire.
    «sei stata tu» un singhiozzo di entrambe, e di nessuna.
    «è colpa tua».

    Con un soffio feroce e disperato, la Corvonero rimbalzò sul materasso svegliandosi di soprassalto. Le lenzuola erano un groviglio bagnato di sudore, le gambe a penzolare nude fuori dal letto. Il cuore, che spontaneo avrebbe dovuto irrorare di sangue all’organismo, sembrava in preda ad una crisi epilettica: pareva ritorcersi su sé stesso anziché pompare, chiudersi e riaprirsi come una cicatrice mai guarita. Il capitano della squadra di quidditch si portò una mano al petto, quasi avesse potuto bloccare fisicamente l’andazzo malato del proprio cuore, ed una alla fronte. La pelle sotto i polpastrelli risultò innaturalmente calda – o forse erano le dita, ad essere troppo fredde. Deglutì un paio di volte, gli occhi spalancati per timore che se solo li avesse richiusi, tutto sarebbe diventato reale- tutto sarebbe stato vero, e le menzogne che era solita raccontarsi si sarebbero sgretolate come castelli di sabbia. Strisciò fino alla testata del letto, dove raccolse le gambe al petto; le abbracciò, affondando il mento fra le ginocchia e cercando di soffocare fra pelle e carne quel senso di smarrimento che l’incubo le aveva lasciato appiccicato al palato – ma come poteva, Bells, liberarsi di quello? Non era la confusione di chi si perdeva fra i boschi, o di chi non ricordava cosa stesse cercando nel frigo; non era la frustrazione del non riuscire a rimembrare i termini più banali, o i nomi che una volta si davano per scontati ed erano ormai divenuti una sfida.
    Era quel senso di vuoto che appesantiva il respiro, perché un vuoto troppo pieno. Di cose non dette, sì, ma soprattutto di quelle dette. Di paure ingiustificate, certo, ma soprattutto di quelle giustificate. Cazzate, dire che sarebbe passata. Cazzate. Si ripeteva ogni mattina, ogni maledetta mattina, che quel giorno sarebbe stato diverso; che, finalmente, sarebbe riuscita ad andare avanti, lasciandosi alle spalle l’anno precedente, la vita precedente.
    Non succedeva mai.
    Era cambiata, Bells. Senza volerlo, senza farlo apposta, ma era cambiata. L’avevano, cambiata. Costretta da un mondo che di ragazze come lei, dagli occhi pieni ed il sorriso morbido, ne aveva visto troppe – e se n’era stancato, trovandole noiose nella loro placida innocenza. Aveva pensato bene di piegarla, di spezzarla, e di rimetterla a posto solamente per romperla un’altra volta, ed in un punto differente. Aveva più cerotti che pelle, la Dallaire.
    Era così stanca, di fingere. Eppure ogni mattino se ne convinceva un po’ di più, di quella menzogna che si sforzava di portare avanti con malizia ed inganno. Ed ogni notte, crollava un po’ di più. «fabbisogno» inspirò, espirò. «fabbrica» quanto picchiare, dietro lo sterno. «fabbricabile» si umettò le labbra, strofinando la fronte sulle gambe. «fabbricante. Fabbricare. Fabbricato.» soffiò l’aria fra i denti. «fabbricazione» socchiuse le palpebre, le pupille ad adattarsi alla scarsa luce dell’alba. «fabbriceria» c’era chi contava le pecore, chi canticchiava fra sé, chi si alzava e prendeva un libro per leggere. Arabells, sin da quando era bambina, per rilassarsi elencava le parole del dizionario. Una nenia confortante, che necessitava una capacità mnemonica in grado di strapparla da qualunque altro pensiero, ricordo, terrore: era solo un elenco, roba da psicopatici l’avrebbe definita qualcuno, ma talvolta era tutto ciò che si aveva. Tutto ciò che Arabells Dallaire, sesto anno, Corvonero, aveva.
    Quando il cuore smise di battere forsennatamente ed il respiro tornò regolare, potè finalmente allungare le gambe fra le lenzuola. Era troppo presto perfino per quelle secchie dei suoi compagni, non c’era nessuno a ripassare o leggere nella cedevole luce azzurra che filtrava dalle finestre; i loro fiati, regolari e cadenzati, la cullarono mentre si alzava e, in punta di piedi, raggiungeva il bagno della sua sala comune. Una doccia, si disse, avrebbe sistemato le cose.
    Non lo fece.
    Non erano ancora le sette del mattino, quando Bells si lasciò alle spalle la stanza blu bronzo dei suoi concasati. Con i capelli ancora umidi ed i polpastrelli raggrinziti a causa dell’acqua, nella sua impeccabile divisa perfettamente stirata –la studentessa modello, la figlia che qualunque genitore avrebbe voluto-, scese le scale a chiocciola fino a trovarsi nel cuore di Hogwarts. Avrebbe potuto infiltrarsi nella torre dei Grifondoro, svegliare Oscar e costringerlo a dormire con lei; avrebbe potuto rifugiarsi in biblioteca, perfino studiare per il giorno dopo, oppure raggiungere il capanno di Pearl e farsi insegnare un nuovo modo per uccidere qualcuno con un cucchiaio. Più banalmente, e conoscendola sarebbe stato più prevedibile, avrebbe potuto nascondersi al campo da Quidditch, una scopa fra le gambe ed il boccino a disegnare ampi cerchi d’oro nell’aria. Ma non fu in nessuno dei luoghi sopracitati che i suoi piedi la portarono, tracciando un percorso prima ancora ch’ella potesse razionalmente decidere dove andare. Si lasciò passivamente trascinare dalla memoria muscolare, la mente annebbiata e gli arti ancora intorpiditi. Fra le fredde mura grigie del castello, non incontrò anima viva – ed evitò accuratamente tutti i quadri che, di buon mattino, già avevano voglia di sfracellarle le pluffe con chiacchiere su i loro tempi. Non un caffè, malgrado il suo corpo sembrasse necessitarlo come ossigeno, né colazione: non sarebbe riuscita ad ingollare neanche una mollica di pane, in quel momento. Si strinse invece le braccia al petto, e silenziosa uscì nei cortili della scuola; la prima lezione di quel giorno sarebbe cominciata solamente alle nove, quindi aveva ancora due ore da riempire come sapeva fare meglio.
    Non facendolo affatto.
    Malgrado fosse già sorto il sole, la temperatura non era ancora adatta alla divisa leggera che, così superficialmente, la Corvonero aveva indossato; rabbrividì nella corta gonna a pieghe, il maglioncino grigio, con appuntata la propria casata, troppo sottile per proteggerla dal freddo esterno. Con i movimenti sicuri di chi, quella strada, l’aveva già fatta centinaia di volte, s’infilò nelle serre di Erbologia. Nick Stilinski era uno dei professori più cazzoni e perditempo di Hogwarts, quindi sapeva che se l’avesse beccata lì all’infuori dell’orario scolastico, non le avrebbe fatto alcuna storia. Di certo, al contrario di altri colleghi, non l’avrebbe spedita in Sala delle Torture – ed erano anni, che la Dallaire cercava di evitare quella stanza. Inspirò profondamente, beandosi del profumo caldo e tenero della terra smossa e dei boccioli in fiore; un sorriso le curvò spontaneo le labbra, mentre le dita scivolavano sapienti sui banconi dell’aula.
    Non era di certo lì per ammirare il panorama, Bells. Fino a che Stilinski non aveva preso la cattedra, non si era neanche mai interessata particolarmente alla materia: interessante, sì, ma non tanto da portarla, in un’alba qualunque di un giorno qualunque, fino alle Serre. Qualcosa era cambiato. Il docente, era cambiato. Con sé, Nick non aveva portato solamente una ventata d’aria fresca, o un particolare senso dell’umorismo che prima, fra i docenti, a dir poco scarseggiava.
    Aveva portato altro, ed era quello che, i polpastrelli della francese, andavano cercando. «bingo» bisbigliò, premendo un pulsante noto a pochi. Un cassetto si spalancò laddove sembrava esserci una libreria - finta, come aveva potuto constatare cercando di prendere uno dei tomi ivi esposti – e fu quello scomparto che Arabells raggiunse con un sorriso raggiante, lo sguardo ancora opaco di sonno. La panacea di ogni male, a dire del saggio Milkobitch e della brillante Campbell – del saggio Milkobitch e della brillante Campbell, bisognava sempre fidarsi. Prese una canna, già rollata da qualcuno con più sbatti di lei, e la passò sotto le narici per sentirne il peculiare profumo di salvia, malgrado sapesse che di salvia non ce ne fosse affatto. Erballegra, e di quella buona.
    Ho già detto quanto bene volesse a Nick? «merci, stilinski» chiuse gli occhi e chinò il capo in rispettoso cenno di saluto verso l’assente docente di Erbologia, sinceramente grata che Cole Baudelaire gli avesse affidato la cattedra.
    What a time to be alive.
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    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:01
     
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    Una ciocca dopo l'altra, i suoi capelli andavano ad intrecciarsi sotto la presa salda della ragazza. Un gioco di intrecci, di trame, quasi a nascondere qualcosa. Lentamente si intrecciavano come le vite di due persone si intrecciano fino ad instaurare un legame, la forza di esso dipendeva soltanto dal volere delle due vite. Un sussurro, un risveglio da quello stato di completa assenza, assente da quel luogo ma presente in un altro, trasportata dal vento, da quel lieve soffio di vento entrato dalla finestra spalancata che le accarezzava la chioma color cioccolato ormai raccolta in una treccia lunga. Osservava se stessa allo specchio, la stessa persona di sempre, lo stesso fisico, la stessa anima, una luce diversa negli occhi. Occhi che si erano fatti meno luminosi, più attenti. Osservò i suoi lineamenti, puntò l'unghia dell'indice destro verso lo specchio, tracciando il suo contorno, quasi a dipingere quella persona riflessa che sembrava non appartenerle. Appoggiò il dito sul vetro freddo, lasciando la propria impronta, mentre un brivido era partito dal dito fino a percorrere l'intera schiena. Si sentiva in una specie di oblio fra ciò che era reale e ciò che non lo era, avrebbe potuto scambiarli, distorgendo la realtà sotto i proprio occhi e non se ne sarebbe mai accorta. «Non è così semplice.» Un pensiero sfuggitole dalla morsa della mente, un gioco di intrighi, confusione e caos misti a quella voglia di afferrare il filo logico per strotolare quel groviglio, per farci chiarezza, per capirne qualcosa, per distinguere la realtà dalla fantasia. Passo dopo passo uscì dal bagno, in camera prese al volo la borsa di vimini contenente l'occorrente per disegnare. La borsa di vimini le riportò alla mente la voglia di staccare completamente la mente per andare in vacanza, sentire il sole sul la pelle, l'odore del mare e le onde infrangersi sulla riva, ma mancava ancora un po' per l'estate. Quella giornata si stava rivelando ricca di intrecci, come lo sarebbe anche diventata quella giornata, un piccolo intreccio della sua vita. Se fosse uscita da quella stanza in quel momento e l'avessero trovata per lei sarebbe stato un grande problema, la Sala Torture ormai la conosceva bene, conosceva l'odore del suo sangue, la sua disperazione. Aveva paura ogni volta che la portavano lì, aveva paura anche solamente a vederli avvicinare, a vederli sorridere davanti alla loro preda. Cercava di evitare quel luogo come tutti gli altri, peccato però che non riusciva nel suo intento, la coglievano sempre sul fatto e quasi sospettava che avessero iniziata a seguirla per tenerla d'occhio, cosa anche logica, se ci si pensa. Ricordava ancora gli occhi pieni di sorpresa e disperazione che aveva colto negli occhi del fratello quando si erano trovati lì, insieme. Da quel momento tutto nella sua testa era un miscuglio di immagini mosse e grida soffocanti, sotto lo sguardo ghignante di altri. Il momento più brutto della sua vita.
    Era uscita dalla Sala Comune dirigendosi con passo spedito verso un luogo ben preciso, inviso nella sua testa, sicura che sarebbe stata da sola, lei e quello strano peso sul petto che ad ogni battito del cuore l'avvolgeva con sempre più vigore fino a mutarle il respiro, fino a farlo accelerare, un circolo vizioso che si ripeteva mentre i corridoi della scuola sembravano non avere una fine, come quei sogni in cui tu corri all'infinito, ma alla fine è come se rimanessi sul posto, senza raggiungere la tua meta. Finalmente la luce nel tunnel degli o orrori, una speranza a cui appoggiarsi nel vano tentativo di tornare come prima, un salto verso l'esterno, il terreno soffice ad attutire il suo balzo, i capelli al vento, l'erba verdeggiante a solleticare la caviglia. Era tutto così quotidiano ma così distante e diverso, era chiusa in una bolla. «Come se non fossi qui.» Un altro passo verso la meta, si sarebbe detta, ma si fermò d'improvviso, il cielo su di lei ad avvolgerla, anche lui senza inizio e senza fine. Quante cose infinite esistevano e quante cose la sua mente umana non le permetteva si immaginare? Quanti segreti nascondevano le persone che ogni giorno incontrava? Poteva sentire, la presenza opprimente di tutto quello su cui lei non aveva potere d'immaginazione, di creazione.
    Ormai da dove si era fermata poteva osservare le serre, abbastanza da vicino, quello era la sua meta, il suo girovagare era diretto proprio lì, verso quella serra illuminata dai raggi del sole che era ormai già sorto. Era una bella giornata, ma comunque il freddo del mattino si poteva percepire nelle ossa, ormai i polpastrelli delle dita affusolate della ragazza si stavano raffreddandosi, colorandosi di un violetto pallido. Sicuramente nella serra avrebbe fatto meno freddi, sarebbe stata al caldo, ma non era arrivata lì per niente. Non di certo era arrivata lì per dei compiti od una semplice lezione. Lentamente riprese a camminare verso quella serra ormai distante pochi semplici passi e quando fu arrivata entrò senza esitazione. La differenza di calore la poté percepire subito sulla sua pelle, un torpore piacevole. Si avvicinò alle piantine che la circondavano, molte di quelle ormai le conosceva già. D'improvviso un rumore la facendo sussultare e far girare di scatto, il cuore che batteva a mille, se l'avessero scoperta in quel momento sarebbe stata la fine di una delle sue giornate. Aveva fin troppe cicatrici a ricoprirle la pelle che un tempo era liscia e senza imperfezioni. Si appiattì lungo una delle pareti, nascondendosi dietro anche a qualche pianta, se le capitava a tiro. Si spostò con prudenza verso il suono, quella specie di scatto che l'aveva fatta preoccupare. «Merci, stilinski» Non riconobbe la voce, ma potè ben capire che la ragazza non era di certo qui per lei e che quindi non ci sarebbero stati problemi in quanto se anche lei fosse stata scoperta avrebbero entrambe guadagnato una bella punizione. Uscì dal suo nascondiglio, camminando lentamente, ma facendo sentire i propri passi, calmi in modo da non far spaventare la ragazza dai capelli castani ondulati. Si fermò soltanto quando le fu di fianco e guardò ciò che aveva in mano senza parlare, poi spostò lo sguardo sulla ragazza. Aveva schiuso le labbra sorpresa prima di prendere parola. «Se ne incontra di gente la mattina..» Sollevò un sopracciglio per poi sfoggiare un sorriso, solo ora aveva riconosciuto la ragazza corvonero che aveva di fronte. Teneva fra i polpastrelli una canna già crollata, magari da prima che lei le arrivasse di spalle. «A dire il vero sei la prima, fortunatamente. Ti ho interrotto?»
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    Edited by Acacia - 18/5/2017, 17:27
     
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    Nessun uomo sano di mente avrebbe assunto Nick Stilinski ad una scuola prestigiosa quanto quella di Hogwarts. Avevano indubbiamente abbassato gli standard del corpo docenti, dopo la dipartita della Lagrange (pace all’anima sua – ed a quella della cannella, nemico giurato di qualunque studente che avesse avuto l’onere, più che l’onore, di averla come insegnante.): la verità, era che a nessuno importava realmente come i ragazzi venissero istruiti.
    Erano solo carne da macello, ormai.
    L’insegnante di Storia della Magia, in attesa di un degno sostituto alla Bulstrode, era un Fantasma con la Demenza Senile – davvero, la demenza senile: poteva anche passare le due ore di lezione a fissare il vuoto, il signor Ronald, senza neanche rendersene conto. Entusiasmante, vero? Quando si decideva a parlare, li farciva con nozioni prive di nessi logici, pescate casualmente da una mente, di suo, in subbuglio. Il professore di Strategia, Bells, non ricordava neanche che faccia avesse, talmente di rado egli s’era presentato al castello: era compito dell’assistente, William Barrow, istruire le nuove leve. Non fraintendiamoci, a Bells non dispiaceva il biondino, ma… aveva davvero un’aria poco affidabile, ecco. Non gli avrebbe mai dato una classe, potendo farne a meno. Trasfigurazione? Jerry, così amava farsi chiamare, non aveva alcuna voglia di occupare quella cattedra, e non faceva che farlo notare; narrava loro di com’erano stati belli i suoi anni al castello, quanto rimpiangesse non aver mai conseguito il Master in Guarigione, e come il suo cane preferisse il cheeseburger di pollo piuttosto che quello di manzo. Cura delle Creature Magiche, da quando Viktor Berqualcosa si era ritirato, era totalmente allo sbaraglio. Da sempre ritenuta una materia di troppo, nessuno si era preoccupato di sostituire il vecchio docente. Talvolta Pearl, mossa a compassione, mostrava loro qualche animale a caso – con spiegazioni altrettanto a caso, quanto la amava - ma lì si concludeva la faccenda. La professoressa di scherma, Arwen, era rientrata a scuola dopo un periodo di… assenza del quale spesso s’era vociferato in giro senza mai ottenere una risposta effettiva, ed era divenuta più scostante, nel suo lavoro. Distratta, ed un insegnante di scherma non avrebbe mai dovuto mostrarsi con la guardia abbassata. Phobos era troppo un Phobos per venir preso sul serio come docente; Bells lo adorava quasi quanto adorava sua figlia sorella, ed era ormai familiare nel mettere a tacere, con metodi poco ortodossi, chiunque si azzardasse a parlare male di lui (o anche solo pensare di mancargli di rispetto), ma… era Phobos. Più simile ad un grande amiko barbuto che casualmente è abilitato a dare dei voti, che non ad un insegnante di Hogwarts. Maeve, la professoressa di incantesimi, era così giovane che avrebbe potuto smuoverla a tenerezza, in quei suoi sforzi di apparire meritevole della cattedra… se solo, ad ogni lezione, non avesse tentato di ucciderli. Era ormai risaputo che cercasse di colmare la fanciulla età con un innato sadismo – spoiler alert? Funzionava. Eppure, malgrado tutto, era ancora… complesso, vederla nell’ottica di una docente. Perfino Bells era stata una sua compagna di casata, ed ancora ricordava la voce acuta dei rimproveri che spesso, troppo spesso, rimbalzavano fra le pareti zaffiro della sala comune. A conti fatti, i coniugi Icesprite erano gli unici che, a parere di Arabells Dallaire, fossero opportuni nel coprire le cattedre. Svolgevano alla perfezione il loro compito: terrorizzavano gli studenti, e li costringevano ad apprendere o pagare le conseguenze della loro ignoranza.
    Davvero perfetti, per il mondo in cui vivevano. Per il modo in cui vivevano.
    Scosse il capo, la lingua ad umettare rapida le labbra. Prese la bacchetta e, con un movimento fluido ed ormai consueto, accese la canna già stretta fra i denti, gli occhi chiusi in attesa dell’abituale sapore denso dell’erballegra a impastarle la lingua.
    Udì lo spostamento d’aria prima ancora di sentire i passi sul pavimento. Si immobilizzò, acuendo l’udito per cogliere ogni sfumatura di quel suono – la leggerezza con i quali i piedi sembravano scivolare sul pavimento, il rumore morbido dei una gonna a seguirne i movimenti. Con il suo passato da non vedente, Arabells poteva vantare capacità eccellenti nel riconoscere qualcuno da debita distanza; dopotutto, era o non era il palo preferito dei catafratti?
    Lo era.
    Non poteva essere un insegnante, altrimenti l’avrebbe già richiamata all’attenzione. Un assistente, forse? Pearl? Lanciò una timorosa occhiata da sopra la spalla, il fumo ancora incastrato in bocca ad attendere di venire rilasciato. I particolari occhi di Bells, l’uno verde e l’altro grigio, si soffermarono sulla divisa da Tassorosso della ragazza, e lì la Corvonero trasse un sospiro di sollievo. Rassicurata dal fatto che fosse una studentessa espirò, il naso arricciato ed un sorriso sghembo a curvarle le labbra, ed allora la osservò con un sopracciglio inarcato: Syria Hollins. La conosceva? Di vista, di fama. Sapeva che era un’amica di Amalie, perché era una stalker professionista, sapeva che aveva partecipato alla missione di Novembre, e sapeva che passava più tempo in sala delle torture di quanto avrebbe dovuto.
    Sostanzialmente, un’anima affine.
    «Se ne incontra di gente la mattina..» Ricambiò il sorriso con una piega pigra e distratta della bocca, le spalle a rilassarsi rilasciando la tensione appena accumulata. «A dire il vero sei la prima, fortunatamente. Ti ho interrotto?» Se l’aveva interrotta? Bells non potè trattenere una breve risata, la canna stretta fra le dita della mano sinistra, ed il capo a scuotersi facendo ondeggiare i corti capelli castani. «in effetti,» reclinò la testa e si portò una mano al mento, le palpebre assottigliate in un espressione pensosa. «ero davvero molto, molto impegnata» sollevò la canna e si portò due dita alla fronte. «ma per te posso fare un eccezione.» magnanima, Arabells Dallaire. Le sorrise a labbra serrate, offrendole il suo tesoro dalla parte del filtro, in caso avesse voluto favorire: tanto offriva Stilinski. Si guardò poi attorno, invitandola con un cenno a seguirla – erano decisamente troppo allo scoperto; si districò fra i corridoi della serra quali fino a trovare il famoso Angolo Erba, dove il vetro s’era scheggiato permettendo così al fumo di uscire. Era talmente usato da (Nick) gli studenti di Hogwarts, da avere un vero e proprio ripiano completamente libero, cosicché vi si potessero sedere. Fu proprio quello che fece Bells, saltando sul bancone con l’agilità data dall’allenamento. «cosa fai in giro all’alba, tassa? Non c’era più pasta frolla per fare i biscotti?» Punzecchiò, poggiando la schiena alla vetrina per poi incrociare le gambe. Amava ironizzare sui clichè che da sempre gravavano sulle casate di Hogwarts – i secchioni, gli idioti, i cazzoni, gli sforna biscotti – ma, ovviamente non credeva realmente a tali etichette, né dava loro alcuna importanza.
    Anche perché, diciamocelo: chi mai sarebbe stato così impavido da mangiare dei biscotti cucinati da Jeremy Milkobitch?

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    Era come se la bolla che fino in quel momento l'aveva circondata, fosse scoppiata appena entrata in quella serra. Di colpo era tornata la solita ragazza, sveglia e sorridente, come se non fosse mai successo nulla, come se avesse perso la sua memoria sull'ultima ora vissuta, come se si fosse svegliata da un sogno ad occhi aperti e per quanto fino a poco prima sembrava essersi imbambolata a fissare il vuoto, lo sguardo perso chissà dove, di colpo tornò al presente. Ci fu un attimo di vuoto totale, non aveva idea di dove si trovasse e del perché, mentre man mano le riaffioravano i ricordi. Era così difficile per lei rivedersi in quella bambina che aveva per la prima volta varcato le porte della Sala Grande, la confusione e la meraviglia di aver iniziato quella scuola. Era troppo piccola allora, ma ben presto aveva provato sulla propria pelle la bellezza della delusione, davanti a quella che credeva essere un bellissimo posto nel quale studiare. La sua immaginaria visione del mondo era stata infranta in mille pezzi con la prepotenza con cui la consapevolezza, del mondo che la circondava, si era fatta largo nel cuore della ragazza. Era stato forse allora che era iniziato ad avvenire il cambiamento, cambiamento che non era avvenuto così da un momento all'altro, ma nell'arco della sua intera permanenza in quella scuola e già si sentiva ben diversa dalla Syria che era tornata l'anno precedente in quella scuola. Fra poco le sarebbe mancato solo un anno alla fine di quella scuola, da una parte non vedeva l'ora e dall'altra anche. Non avrebbe sopportato più di un altro anno lì e sarebbe ben sparita nel nulla piuttosto che continuare con gli anni. Dopotutto non sarebbe stata la prima e forse nemmeno l'ultima, ma per ora si era prefissa l'obiettivo di raggiungere gli esami o tutti quegli anni lì sarebbero stati sprecati. Giusto per assicurarsi quindi di finire nei guai, era uscita molto prima quella mattina, così che se l'avessero scoperta, sarebbe proprio stata al sicuro fra le mani dolci e gentili di persone che avrebbero voluto salvarla da inutili e dolorose cicatrici (#credici). Di fronte a lei stava Arabells Dallaire, lei e Syria si conoscevano dato che facevano entrambe parte delle squadre di quidditch di Hogwarts, anche se facevano parte di due squadre differenti. Più di una volta si erano quindi scontrate sul campo, ognuno giocando per arrivare alla vittoria, per non parlare inoltre del fatto che Amalie gliene aveva parlato un po' della ragazza e di quanto lei fosse sempre al posto sbagliato al momento sbagliato per quanto riguardava la biondina. «in effetti, ero davvero molto, molto impegnata» Inarcò un sopracciglio annuendo e guardando la ragazza. Aveva notato quanto fosse impegnata a fumare, aveva solamente potuto disturbare la sua quiete mattutina. Si chiese come mai fosse sveglia a fumare a quell'ora, solitamente non era un bisogno doversi svegliare presto per fumare, non ci si pensava se si dormiva. Appunto, se si dormiva. Forse non era riuscita a dormire o aveva dormito poco, fatto sta che lei non doveva essere affatto tutto a posto. «ma per te posso fare un eccezione.» Sorrise accettando la canna tendola stretta fra pollice e indice e rigirandosela fra le dita nel mentre la ringraziava. «Molto gentile da parte sua miss.» Seguì la ragazza che l'aveva invitata a seguirla con un cenno mentre i loro passi le conducevano ad un angolo della serra dove il vetro essendo scheggiato, permetteva la fuoriuscita di rivoli di fumo. In un attimo Bells saltò sul bancone e lei si avvicinò semplicemente. «Non pensavo fossi un gattino, questo mi era sfuggito.» Disse annuendo quasi a convincersi che fosse vero per poi inarcare il collo all'indietro e fare un verso molto prossimo alle fusa. Portó la canna stretta tra due dita alle labbra, schiudendole appena. Il sapore subito la invase la bocca, un sapore familiare. Inspiró lentamente, sentì il fumo percorrerle la gola, scendere dentro di lei ed infine espiró. Non fumava spesso, quando ne aveva l'occasione, solitamente scroccava da qualcun altro, si concedeva qualche tiro, ma niente di più anche perché non avrebbe saputo dire come avrebbe reagito suo fratello se l'avesse scoperto. Molto probabilmente anche lui fumava, non l'aveva ancora mai visto fumare, forse entrambi si evitavano a vicenda per non farsi vedere fumare non sapendo la reazione l'uno dell'altra. «cosa fai in giro all’alba, tassa? Non c’era più pasta frolla per fare i biscotti?» La punzecchiò Bells, poggiando la schiena alla vetrina ed incrociando le gambe. Si sedette anche lei lì vicino e abbracciando le gambe le portò al petto porgendole nuovamente la canna. Picchiettò l'indice dell'altra mano sulle labbra prima di far finta di essersi ricordata proprio in quel momento il perché della sua presenza alla serra. «A dire il vero» Riprese guardando la ragazza con un sorrisetto «erano finiti gli insetti che metto nell'impasto spacciandoli per cioccolata e qui c'è sempre una così vasta varietà che ho deciso di approfittarne.» Aveva colto benissimo la punta di ironia dietro le sue parole e anche lei aveva risposto allo stesso modo. Diciamo che lei e la parola "ribattere" avevano una sana relazione di amore che proprio le permetteva di farne a meno, anche se si ironizzava, la divertiva, quindi coglieva sempre al volo quelle occasioni per distrarsi e divertirsi un po'.
    - sorry dear, i'm allergic to bullsh*t - code yb ms. atelophobia
     
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    Strinse le labbra attorno alla canna volgendo una pigra occhiata alla Tassorosso, il fumo a farsi denso sulla punta della lingua. Il sapore ed il profumo dell’erballegra erano oramai cosa familiare, per Arabells Dallaire - confortante. Ricordava quando sentiva quello stesso odore sugli abiti di suo fratello, da bambina; prima ancora che potesse sapere cosa fosse, era già diventato un po’ casa, perché significava che Elijah era tornato in Scozia. Era l’aspra dolcezza delle notti d’estate e dei languidi pomeriggi con i Cata, di quei risvegli sempre a metà che lasciavano in dubbio quando si fosse effettivamente andati a dormire. Non era una dipendenza, per la Corvonero – Cristo, non la catalogava neanche come droga.
    Un passatempo, forse. Etichetta che gli si addiceva molto di più. Una specie di coperta di Linus degradabile: fra le dita, la Dallaire, teneva parte di quel poco di buono che la vita le aveva offerto – i suoi amici, la sua famiglia. Era un po’ come non essere mai da soli, ed al contempo esserlo abbastanza da poter respirare a pieni polmoni. «erano finiti gli insetti che metto nell'impasto spacciandoli per cioccolata e qui c'è sempre una così vasta varietà che ho deciso di approfittarne.» Inarcò un sopracciglio in direzione della Hollins, un sorriso a metà a farsi spazio attorno al filtro. «sembrano buoni» commentò, trascinando le parole con studiata lentezza. «bear grylls sarebbe fiero di te» credevate che essendo una strega purosangue non conoscesse Bear Grylls? Il mitologiko Bear Grylls? Non esageriamo. Anche perché, quando ancora era priva di vista, le era capitato troppo spesso di dover seguire gli strilli di quei ritardati (con affetto, eh) degli amici di Elijah impegnati in chissà quale prova di sopravvivenza (con il senno di poi, Bells aveva dedotto che la prova di sopravvivenza fosse semplicemente Rea: cosa te ne fai di un orso, quando puoi sfidare la labile pazienza di un Hamilton?), si era fatta una certa cultura in merito. Sospirò, occhi chiusi e testa poggiata alla vetrinetta. Non aveva mai compreso quanto il silenzio fosse prezioso, finché questo non era venuto a mancare – finché perfino i suoi stessi, maledetti, pensieri, non avevano iniziato a fare un po’ troppo rumore. Umettò le labbra, i polmoni leggeri e la testa momentaneamente vuota. Il perfetto equilibrio fra il non essere e l’essere tanto, il non sentire nulla e percepire tutto – il suo Nirvana. «ripensi mai a novembre?» le domandò dal nulla, cauta nel tenere le palpebre abbassate. Un discorso che aveva testardamente deciso di evitare con chiunque – i suoi migliori amici, ed indubbiamente quella testa di rapa del Dallaire maggiore – ma che comunque, fastidioso, le pungeva la lingua ogni qual volta apriva bocca. Ne era tormentata, Arabells; se lo portava dietro ogni maledetto giorno, ad ogni maledetto respiro, ad ogni fottuto battito di cuore - sempre lì, il ricordo.
    E sempre lì, la paura. Sistemò meglio le gambe, socchiuse gli occhi per lanciare un’occhiata alla Tassorosso. Si conoscevano, sì, ma non avevano… non avevano il genere di confidenza che avrebbe potuto mettere la Corvonero in difficoltà. Era risaputo che parlare con uno sconosciuto fosse più semplice rispetto al confidarsi con coloro che abitavano quotidianamente la propria vita – più facile sostenerne lo sguardo, più tollerabile dire di non averlo superato. Non aveva bisogno che qualcuno si preoccupasse (inutilmente, per di più) per lei, l’avrebbe solamente fatta innervosire. Ma con Syria? Aveva partecipato anche lei alla missione, e non sembrava il genere di ragazza che fosse avvezza ad unirsi a simili circostanze – una prima volta anche per lei.
    Bells non aveva mai ucciso nessuno, prima di quella notte.
    Bells non aveva mai perso nessuno, prima di quella notte.
    «qualche volta ho ancora gli incubi» confidò, nella mezza menzogna masticata fra i denti – che qualche volta, non lo era mai. Che era sempre, maledettamente, un po’ troppo spesso.

    liesandsmiles
    arabells lies dallaire
    i like fire more than people because all it does
    is destroy, and people do that too
    but at least fire admits it
    16 y.o.
    11.04.17
    the liar
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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