Home is a feeling

-- milkobitchez

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    the man who can't be moved -- 17 Y.O. | death eater | hufflepuff | addicted | chaser
    Strinse le labbra l’una contro l’altra, Jeremy Milkobitch, riducendo maggiormente le già sottili curve della bocca, mentre lo sguardo distratto vagava oltre il bordo superiore della busta, cercando senza nemmeno vederle le gambe incrociate di Run sulla panchina dinnanzi la propria o il movimento nervoso delle mani di Todd seduto al suo fianco, e le proprie dita andavano a sfiorare i bordi appuntiti della carta, sembrando quasi che con quella superficie tagliente volesse tagliarsi la pelle dei polpastrelli continuando a percorrerne il profilo. «se non muovi il culo e apri quella lettera, lo farò io al posto tuo». La voce della Crane, con qualche istante di ritardo, lo distolse dal punto fisso sul quale si era incantato pochi minuti addietro, quando aveva finalmente appreso - dopo giorni che quella missiva gli era stata recapitata - il mittente dell’epistola, costringendolo ad alzare le distanti iridi cerulee ed incontrare il viso della sorella. La vide stringersi tra le spalle con fare innocente, ma conosceva troppo bene quel sorriso per non sapere che il suo non era affatto un modo di dire, o un incoraggiamento a sbrigarsi: sapeva perfettamente che se non avesse rotto il sigillo che teneva chiusa la lettera, gliel’avrebbe strappata dalle mani senza mezzi termini. Cercò il sostegno di Ian, ma fu alquanto inutile: quello si limitò soltanto ad annuire, accondiscendendo alle parole della più grande. Era un complotto. Infilò indice e medio tra il nodo della cravatta e la camicia, andando ad allentare l’annodatura che poco prima si era premurato di sistemare nel dormitorio, appena di ritorno dalla lezione. «adesso la apro,» annunciò con un filo di voce, rigirandosi l’oggetto tra le dita, le intestazioni ora rivolte verso il proprio viso. «con calma». Tentò di ignorare il sospiro strozzato ed esasperato del corvonero, ma nel silenzio del cortile della torre dell’orologio fu praticamente impossibile riuscirci davvero, o di non percepire nell’aria lo sguardo teso che i due si stavano scambiando senza che lui potesse vederli; le parole della mimetica, invece, non poté provarci nemmeno a far finta di non udirle. «l’hai già detto cinque minuti fa-» «e quindi?» la interruppe, senza notare la mano di lei già alzata per zittirlo. «e cinque minuti prima ancora». Touché. Disperato, rivolse l’attenzione al fratello, nella vaga speranza di una complicità data dal legame di sangue, dalla familiarità, dall’affetto, da qualsiasi cosa. «dille qualcosa!» «cosa dovrei dirle, jer?» «ma da che parte stai?» e, anche se non rispose, chinando il capo e nascondendo lo sguardo da quello di Jeremy, era abbastanza intuibile quale dei due schieramenti, in quella strana battaglia, avesse scelto Todd; quello era davvero un complotto contro la sua persona. La cosa più imbarazzante di quel pomeriggio di marzo, era che non ci sarebbe dovuto essere motivo di essere lì: era stato stupido, nonché pateticamente infantile, il desiderio di tenere i fratelli con sé mentre recideva i bordi della busta. Non tanto per loro, quanto per se stesso; avrebbe dovuto leggerla da solo, senza aiuto di terzi, come qualsiasi altro fottuto essere umano sulla faccia della Terra. «aprila, dai» lo esortò l’altro indicandogli la busta tra le mani, le dita a tremare impercettibilmente mentre sfioravano le lettere scritte sulla facciata beige, macchie d’inchiostro semplici e dalla calligrafia stropicciata, tremante.
    Accarezzò con lo sguardo le intestazioni, senza nemmeno voler capire qualcosa - della lettera, di quello che poteva significare. «non vi va di leggerla al posto mio?» tentò, alzando la testa sui fratelli. Era un tentativo vano il suo, e ne era perfettamente consapevole, ma valeva la pena di tentare. Da che aveva ricevuto la sua prima missiva, troppi anni addietro per ricordarselo, o per volerlo effettivamente rimembrare, il mago aveva sviluppato una poco velata e mai realmente nascosta avversione per i rapporti epistolari; ogni singolo messaggio che arrivava la mattina durante la colazione, ciascun fottuto pacco che cadeva precisamente davanti al diretto interessato, qualsiasi Strillettera che urlava nel bel mezzo del pasto in Sala Grande, ricoprendo di ridicola umiliazione il malcapitato, gli stringevano lo stomaco, costringendo a focalizzare la propria attenzione sui denti della forchetta infilzati in una fetta di torta. Ogni lettera, ogni sorriso radioso sulle labbra di chi aveva avuto buone notizie da casa, ogni grido di giubilo che seguiva l’apertura di un regalo, non facevano che ricordargli la propria, umile e miserevole, collezione di buste di carta ingiallite dal tempo, alcune mai aperte da quando impudentemente erano state messe nella cassetta appena fuori la porta di casa Myers: le uniche che aveva mai ricevuto erano quelle di un padre che mai si era fatto presente nella sua vita, ed erano probabilmente la cosa che più odiava di Gregory. Non c’era nessun altro che avesse mai avuto la necessità di scrivere al diciassettenne, e non aveva nessuno al quale avrebbe voluto rispondere; se, ovviamente, si escludevano i fratelli ed i catafratti – e se ignorava palesemente, così come faceva se non quotidianamente quasi, i messaggi rosa confetto e profumati di Ego Beech -: loro erano un discorso a sé stante, e fortunatamente li vedeva abbastanza spesso da non dover ricorrere a parole di pece scritte su fogli di pergamena per aver con questi un punto d’incontro. Non erano cosa per lui, le lettere: una repulsione che rasentava quasi la fobia, irrazionale paura di leggere qualcosa che non avrebbe voluto sapere.
    «è per te, dovresti leggerla tu» sostenne Todd, ricevendo subito uno sguardo assassino dal fratello, seguito da uno «scusa», per il quale l’occhiataccia se la beccò da Run. «magari è per te» ipotizzò, alzando le spalle e sporgendo la posta verso il corvonero. Impossibile, lo sapevano tutti e tre: se era per Jeremy, era per Jeremy; non era nemmeno verosimile pensare che qualcuno si fosse sbagliato non solo a scrivere il destinatario, ma anche il mittente. Dire che avesse una terribile sensazione in merito a tutta quella situazione, sarebbe stato un eufemismo: l’aveva da prima di conoscere il nome sulla lettera, figurarsi dopo averlo appreso. Era così… sbagliato, surreale, ingiusto.
    Ian si morse le labbra, Jeremy sorrise soddisfatto, Heidrun alzò gli occhi al cielo: era sempre così facile sbolognare quel tipo di lavoro sporco al fratello. «ian, no» «ian, ti prego» «jeremy, no» «devo leggerla io o no?» «sì, per favore» «no» Si schiarì la gola, ed ormai sconfitto riavvicinò la lettera a sé, posando su di essa lo sguardo ma senza nemmeno vederla. «non voglio leggerla» confessò, come se non fosse stato già abbastanza chiaro fino ad allora.
    Non aveva mai creduto che quella fosse una semplice lettera, altrimenti non avrebbe di certo chiesto ai due di dargli sostegno morale durante l’apertura del sigillo - e così come lo sapeva lui, lo sapevano sicuramente i due compari -: sette anni in compagnia del fatalismo di Arci iniziavano a ripercuotersi nella psiche del Milkobitch, inducendolo a dare più adito alle proprie sensazioni. Non era mai stato quel tipo di persona che si affidava al proprio istinto; aveva sempre seguito i fratelli, o i suoi migliori amici, senza effettivamente pensare a un qualsiasi ipotetico sviluppo della vicenda, o senza aver mai bisogno di dover prendere l’iniziativa. Non credeva nemmeno di avere un senso dell’istinto cui fare affidamento, in realtà. Tuttavia, quella busta emanava impulsi negativi, sembrava chiaramente dirgli di non voler essere letta da lui - ma quella, con molta probabilità, era ancora colpa della droga. Non voleva davvero aprirla, ed il nome di sua madre lì, scritto nella grafia che sempre avrebbe riconosciuto, nonostante gli anni passati, non facilitavano il compito.
    Era una fottuta, semplice, casuale lettera. Non c’era niente di cui avere timore, niente che dovesse impedirgli di strappare la carta e scorrere le iridi chiare sulle macchie di inchiostro. Magari si era solo ricordata di avere un figlio, magari aveva smesso di drogarsi.
    Magari.
    «vi prego» se fosse stato coraggioso, d'altronde, sarebbe finito nei Grifondoro, non tra le schiere giallo nere: poteva ripetersi quanto desiderava che non doveva aver paura di leggerla, ma era più forte di lui. «meh» biascicò Run, avvicinandosi nella non sua nuova divisa da Tassorosso, abilmente rubata dal dormitorio delle ragazze poco prima, prendendo quel pomo della discordia tra le dita. «spero ci sia quello che penso, dentro» «cosa pensi ci possa essere? è una semplice lettera» le fece il verso, cercando con un sorriso più sentito e sollevato, lasciando scivolare via la pesantezza nel petto dal momento che la carta lasciò le dita, il pacchetto di sigarette nella tasca della tunica scura: lo sapeva che lei alla fine lo avrebbe capito. «droga dal tuo spacciatore di fiducia, sotto falso nome ovviamente: magari fogli di acidi, dato che non sembra abbastanza pesante da contenere pasticche o Maria» «non ci avevo pensato abbastanza seriamente alla possibilità» «male bitch poco milko, molto male» «lo so, mea culpa» «come fa questa Maria a stare dentro una busta della posta?» «…» «…» «… AH!» «ian todd milkobitch, mi cadi su queste cose…» «comunque non c’è droga, nella busta»
    Passò forse qualche minuto, forse solo pochi secondi o forse un’eternità: a posteri, Jeremy non avrebbe saputo definire quel lasso di tempo, perso a lanciare occhiate laconiche alla sorella che leggeva la lettera, a fumare e ad interrogare Todd sulle droghe. Di certo, però, non aveva visto arrivare quel momento.
    «non l’ho letta tutta, ma… credo che dovresti leggerla tu»
    Quanto tempo era che aveva quella lettera in fondo allo zaino? Un giorno, al massimo due; in tutto quel tempo, non aveva fatto altro che pensare al peggio che poteva riserbargli quel messaggio. In verità, però, non aveva idea di cosa potesse essere quel peggio; il peggio, Jeremy Milkobitch, l’aveva vissuto tre mesi e mezzo prima, le ginocchia immerse nel fango e tra le braccia il corpo esanime di sua sorella, incapace di poter fare alcunché per farla tornare indietro: nulla poteva essere paragonabile a quella notte di novembre, e ne era perfettamente consapevole. Aveva passato così tanto tempo ad aspettare, il tassorosso, che non si era mai chiesto davvero cosa stesse aspettando, o se quelle che attendeva con tanta ingordigia fossero cose positive o negative.
    Aspettava che suo padre si facesse vivo all’orizzonte del vialetto di casa, o che qualcuno informasse lui e i Milkobitch che Gregory era morto.
    Aspettava di sentirsi adeguato all’interno di quelle mura, accolto da una famiglia che altro non faceva se non cercare di renderlo parte di quel nucleo, e allo stesso tempo aspettava con ansia il momento in cui sarebbe potuto diventare indipendente, prendendo in mano la propria vita ed allontanandosi da quella casa - ma non da loro, mai da loro.
    Aspettava sui gradini che Run ricomparisse, o sul letto che Todd trovasse il coraggio di entrare sebbene avesse sempre cercato di isolarsi.
    Aspettava che Lilith tornasse da lui, scusandosi per averlo abbandonato, ed aspettava affinché il ricordo di lei svanisse completamente, facendogli accettare il fatto che sua madre, un figlio come lui, non lo voleva.
    Ma da lei, una lettera, non se l’aspettava; da lei, quella lettera, non se l’aspettava.

    “Caro Jeremy,
    non sono mai stata brava a comunicare, lo sai benissimo, e scrivere una lettera è… difficile, e strano. Non credo di averlo mai fatto fino ad ora, ma mi sono informata e credo di aver capito che questo sia l’unico modo per contattarti. Lo so, dopo sette anni non avrei il diritto di farmi viva in
    questa maniera, ma non saprei come altro farlo, ed è importante per me.
    Mi rendo conto di non essere mai stata la madre di cui avresti avuto bisogno, di non essermi mai comportata da tale, ma ci tengo che tu sappia che a mio modo ci ho provato. Ci tengo tu sappia che ti voglio bene, anche se non ti biasimerò – soprattutto dopo queste mie parole – nel caso tu dovessi pensare l’esatto opposto.
    Ci tengo tu sappia che mi dispiace, che mi dispiace davvero e mi dispiace
    così tanto, ma che in ogni caso non credo di poter fare altrimenti arrivata a questo punto.
    Sono undici anni che mi chiedo dove, mia sorella e suo marito, abbiano trovato il coraggio; mi dicevo in continuazione che quello non era stato un atto audace, che era stata solo vigliaccheria: lasciare tutto, così senza preavviso, non poteva essere che codardia. Ma ero semplicemente cieca, ferita dall’abbandono: ora li capisco, Jeremy, e mi chiedo come sia riuscita a non farlo per tutto questo tempo.
    Probabilmente, eri tu a frenarmi: non c’eri fisicamente, e solo Dio sa quanto mi dispiaccia averti abbandonato, ma eri sempre e comunque nei miei pensieri.
    Però ora non sei più un bambino, e saprai sicuramente cavartela da solo – sperando che tu, da solo, non ti ci senta mai.
    Ci ho riflettuto a lungo, ma non ho ripensamenti; credo di aver resistito anche troppo, e non ho intenzione di farlo ulteriormente.
    Ricordati che la mamma ti vorrà sempre bene.”


    Non si era accorto, il Milkobitch, di essersi alzato a metà della breve lettera, allontanandosi di alcuni passi dalla panchina, o di aver stretto con forza i margini della pergamena. Non si era accorto di aver riletto il tutto più di due volte, incapace di comprendere alcune parole, alcuni passaggi sgrammaticati e privi di alcun nesso logico.
    Non si era accorto di aver smesso di respirare, trattenendo il fiato in un’apnea forzata, fino a quando i polmoni non avevano iniziato a bruciare di un fuoco irreale, reclamando l’aria di cui li stava privando; non si era reso conto delle palpebre pesanti, ormai calate su un paio d’occhi troppo chiari che, di quelle parole, non volevano leggere più nulla - che, su quelle parole, non volevano versare lacrime.
    «devo…» devo respirare, devo pensare, devo dire qualcosa, devo. Non era vero, non poteva esserlo: magari era uno scherzo, di pessimo gusto tra l’altro; magari, nemmeno aveva scritto lei quella lettera. Magari era stata obbligata, per qualche stupido motivo, o magari era solo in preda a qualche suo attacco ed era già passato tutto, stava bene. «io…» si umettò le labbra, la lingua carta vetrata a graffiare la pelle, prima di girarsi verso i fratelli. Non aveva idea di cosa dovesse fare, a quel punto - la mente non lo aiutava ad elaborare soluzioni, le parole si incastravano tra le corde vocali. Doveva dire loro cosa aveva appena letto? No, non voleva - non ce la faceva. Tentò di inspirare, ma quel semplice gesto, ordinario e disinvolto, sembrò impossibile da compiere del tutto.
    Non riusciva a respirare - e non riusciva a pensare, a dire qualcosa.
    Non riusciva.
    Non era possibile, non era reale.
    Sentì la carta piegarsi tra le dita che, piano, si riducevano a pugni, incuranti della lettera che andavano rovinando; per un secondo, quando se ne accorse, esitò: se era vero quello che c’era scritto, probabilmente quella era una delle ultime cose che Lilith Myers aveva toccato - l’ultima cosa che aveva avuto l’ardore di fare, prima di privarsi della vita. Se era vero, e non un sogno, un’allucinazione, un fottutissimo scherzo di merda, quello era tutto ciò che gli restava di sua madre. Allora strinse con più voga, fino a quando il malloppo di pergamena non stette completamente tra i pugni chiusi, vicini; non era vero, e lei non era… non era. Dovette premere con più forza anche le palpebre, per non pensare a ciò che sua madre non era, sentendo le tempie dolere di un male che poco aveva di fisico. Se fosse stato nello studio di Stiles, in quel momento, questo o Shane gli avrebbero detto che quella era soltanto negazione, soltanto una fase dell’elaborazione del lutto; se fosse stato qualcun altro, in quello stato, a rivolgersi allo stesso Milkobitch, egli stesso gli avrebbe detto che di negazione si trattava.
    Ma non lo era.
    Fanculo!, non poteva scrivergli dopo sette cazzo di anni soltanto per dirgli che si sarebbe suicidata.
    Non era giusto, non poteva fargli quello. Era pur sempre suo figlio, non era pensabile che gli giocasse un tale tiro mancino.
    Avrebbe potuto fingere, e dire a Run e Todd che era una lettera di semplici saluti, e che ivi v’era scritto che voleva un riavvicinamento, che dovevano recuperare il tempo perduto – e, da una parte, aveva voluto si trattasse solo di quello quando aveva aperto la busta. Avrebbe potuto dirgli che non era nulla di che, che non gli interessava abbastanza, che gli dispiaceva di aver fatto loro perdere tempo per paure infondate; avrebbe potuto andare a cercare i suoi migliori amici, ed innocentemente proporre loro una serata alla Stamberga all’insegna del loro personale concetto di divertimento: non sarebbe stata una proposta tanto fuori luogo, considerando che a turno, un giorno sì e uno no, qualcuno dei Catafratti lo proponeva. Avrebbe potuto non esserci alcun secondo fine, in quella richiesta dai toni disperati ed i sorrisi di circostanza, ed avrebbe potuto ignorare qualsiasi cosa fosse successa in precedenza, rifugiandosi nella dorata nebbia d’alcol e marijuana, offuscandosi la mente fino a dimenticarsi davvero di quanto letto – almeno per un’ora, se non per sempre. «devo andare» disse invece dopo aver ritrovato una parvenza di voce, volgendo lo sguardo all’entrata del castello; non riuscì nemmeno a guardare i fratelli, quasi temendo che potessero leggere nelle rughe del volto le stesse frasi prive di senso – e forse, la Crane avrebbe potuto farlo davvero, residuo nel suo potere quello altrui. Senza realmente degnarsi di controllare, le dita riposero la posta stropicciata nella tasca della borsa: non la voleva con sé, eppure non riuscì nemmeno a pensare di gettarla a terra, darle fuoco, usarla come cartina per le canne; doveva, Jeremy, tenerla. «scusatemi» biascicò infine, già in marcia verso l’interno della scuola.

    Quando aveva incontrato di sfuggita i Catafratti sul corridoio del terzo piano, diretti dalla parte opposta alla sua, aveva detto loro che stava andando a casa, che doveva andare a casa. Li aveva sentiti fermarsi, mentre lui continuava a correre, più che camminare, verso la statua della Strega Orba intento a prendere il passaggio segreto verso Hogsmeade, ma non aveva il tempo di fermarsi a dare spiegazioni improvvisate sul momento, né tantomeno la voglia – più si convinceva che non poteva essere vero e più ci credeva realmente, più era inutile parlarne; e più faceva male il petto, come se i polmoni spingessero contro il costato per allargarsi maggiormente, o come se il cuore fosse diventato un involucro di metallo, nemmeno più in grado di pompare sangue nell’organismo, capace solamente di fratturare la gabbia toracica in ogni punto che riusciva a colpire.
    Però non aveva mai specificato verso quale casa fosse diretto, e solo perché non lo sapeva nemmeno lui.
    “Casa” era la dimora nella quale d’estate, durante le feste, in sporadici fine settimana pernottava stabilmente accolto da Bradley Milkobitch; “casa” era Hogwarts, la Foresta Proibita, la Torre dei Tassorosso e la capanna di Pearl, “casa” era la Stamberga Strillante.
    “Casa”, per Jeremy Milkobitch, erano Archibald Leroy, Arabells Dallaire, Oscar Fraser, Jack Hades.
    “Casa” erano Ian Todd Milkobitch ed Heidrun Ryder Crane.
    Casa non era un luogo fisso, per quanto gli riguardava; casa era un sentimento, una sensazione sottopelle, un caldo tepore a cullare la stanchezza ed alleggerire il sorriso, una risata più dolce ad addolcire il petto.
    La sua vera casa, tutto ciò che lo faceva stare bene, l’aveva momentaneamente lasciata in quel Castello, ed in quel momento non apparteneva ad alcuna dimora, come non aveva probabilmente mai fatto per diciassette anni.
    Non aveva avuto idea di dove andare per quelle che gli parvero ore.
    Indugiò fuori dalle recinzioni di Hogwarts per un po’, chiedendosi se avesse appena preso la decisione sbagliata: dentro quelle mura, si era sentito davvero a posto. Era stato strano, all’inizio, un impatto che un mezzosangue cresciuto tra i babbani non era preparato a tollerare, ma lì non era l’unico, e soprattutto non si era mai sentito di troppo: ogni volta, saper di dover tornare a scuola era una gioia per il tassorosso, nonostante per il malcontento della sua tutrice quel gaudio non era rivolto allo studio. C’era il quidditch, c’erano i posti strategici per le canne, c’erano i suoi migliori amici. Ma con le mani tra i capelli, sapeva che non era lì che, in quel momento, doveva restare.
    Era rimasto per qualche minuto, forse qualche decina considerando l’astratta concezione del tempo che lo accompagnava, fuori dalla casa di Bradley. In quella famiglia, Jeremy si era sempre convinto di essere di troppo: c’era la donna per la quale suo padre aveva tradito sua madre, il figlio che l’aveva spinto ad abbandonarlo. C’era la famiglia perfetta, e lui non ne aveva mai fatto parte – inutile anche solo illudersi potesse essere diversamente. Si era adattato ed aveva imparato ad amare sia Ian che Bradley come se fosse cresciuto con loro, sebbene fosse carente nelle dimostrazioni d’affetto, ma la sensazione di essere un elemento di disturbo per quel quadretto dalle cornici ornate d’oro e d’argento era rimasta, crescendo insieme al moro col passare degli anni. Malgrado tutto, però, non avrebbe saputo a chi altro rivolgersi se non alla donna, in quel momento – e se fosse rimasto un altro poco lì immobile, alla fine si sarebbe convinto ad entrare. All’improvviso era come se fosse tornato ad essere un undicenne impacciato, più timido di quanto avesse imparato a non essere col tempo, che con le labbra tremanti di un pianto che si intestardiva a non far uscire si avvicinava alla Milkobitch, tra le dita l’ennesimo giocattolo di Todd che era accidentalmente riuscito a rompere, dopo averlo preso di nascosto ed averci giocato altrettanto celato ad occhi indiscreti, quasi che se avessero potuto vederlo l’avrebbero punito, o umiliato, o invitato a continuare – non aveva idea di quale sarebbe stata la peggio tra le tre precedenti opzioni. Se le chiedeva sottovoce di aggiustarlo, lei lo faceva sempre, e con un sorriso tenero sulle labbra prometteva che quello sarebbe stato un segreto tra loro due e che il fratello non avrebbe mai saputo dell’inconveniente. Riusciva sempre ad aggiustare tutto; poteva aggiustare anche quello? Poteva aggiustare Lilith?
    Poteva impedire a Jeremy di spezzarsi?
    Perché non sapeva quanto avrebbe retto ancora, dopo aver rischiato di rompersi così tante volte.
    Si era piegato alla prima scomparsa di Run, così a lungo da divenire malleabile a qualsiasi agente esterno – alcol, droghe, sesso, come se per un adolescente fosse completamente normale una vita simile. Si era piegato quando aveva visto Todd piegarsi per una malattia che non sapeva come arginare, e si era piegato alla nuova partenza improvvisa di sua sorella. Si era piegato alla rabbia feroce del fratello per quell’evento, al rapimento di Tiffany. Si era piegato quando ad essere preso era stato Blaze, e quando tra le foto del Morsmordre era comparsa la Crane.
    Si era piegato ad ogni video, ad ogni vita che aveva preso in quel bosco di Brecon, ad ogni brivido freddo sulla pelle quando non v’era alcun rumore se non il frusciare dei rami.
    Era arrivato pericolosamente al punto di rottura, Jeremy Milkobitch, quando tra le sue braccia Run non aveva risposto alla sua voce, sentendo simbolici ma minacciosi cigolii mentre una cupola opaca lo divideva dal rito che l’aveva infine riportata in vita, salvando anche lui.
    Ma quello? Non avrebbe dovuto nemmeno importargli: l’aveva abbandonato ad una famiglia che nessuno dei due conosceva, a persone estranee senza mai più farsi viva. Eppure poteva quasi vederla quell’asta premuta alle estremità con forza, la crepa al centro che avvisava un’imminente spaccatura.
    Dovette ripetersi un’ennesima volta che non poteva essere vero, per non scoppiare.
    Dovette ripetersi un’ennesima volta che non poteva essere vero, per lasciare il vialetto.

    I primi bottoni della camicia erano sbottonati, la cravatta più lenta, e gli occhi azzurri, puntati sulla villetta al numero quarantatre di Geneva Drive, sporchi di un’innocenza ormai persa, di una stanchezza che un ragazzo dell’età di Jeremy Milkobitch non avrebbe dovuto provare. Intorno a sé, il vociare di bambini che ancora giocavano per la strada deserta si mescolava alle urla di mogli inferocite per la molesta ubriacatura del marito, ed alle grida di quegli uomini che invece si imponevano sulle donne che “non facevano un cazzo dentro quella fottutissima casa” lo riportarono a diversi anni addietro, a quando di Brixton anch’egli era un abitante. Ricordava di non aver mai amato quel rione, malfamato come pochi altri quartieri londinesi, ma di aver invece imparato a conviverci, affezionandosi in un modo malsano: quando aveva dieci anni, non credeva si sarebbe mai allontanato così tanto da quella zona; aveva dovuto convincersi che quella fosse casa sua, che il suo destino sarebbe stato crescere per quelle vie, continuare un’educazione mediocre nella periferia della capitale inglese, diplomarsi e trovare quel pezzo di carta inutile in un mondo che lo avrebbe masticato e sputato ai lati delle strade dove era nato. Magari, aveva pensato allora, avrebbe trovato un lavoro nel discount a pochi isolati da casa, laddove settimanalmente accompagnava la madre a fare la spesa; oppure, avrebbe appreso come giocare con i bulloni e le chiavi inglesi, gli avrebbero insegnato come riparare un’automobile e l’avrebbero preso a lavorare come apprendista all’officina meccanica alla fine della strada; al massimo, avrebbe cercato una ditta di carpentieri presso la quale offrirsi come manovale. Non aveva mai avuto progetti a lungo termine, Jeremy.
    Quella vita, dopotutto, non gli permetteva di averne.
    Poi era arrivata la lettera di Hogwarts - e sua madre l’aveva abbandonato, e lui aveva abbandonato sua madre, e ora lei era…
    «jerry?»

    Chiuse gli occhi, reclamando tutta l’aria che riusciva ad incamerare, ma non si voltò verso la fonte del suono. Erano passati sette anni, o forse più, dall’ultima volta che aveva visto Emily Jordan, ma non avrebbe mai potuto dimenticare la voce della coetanea. Era stata anche l’unica amica che avesse avuto per molto tempo, la vicina di casa con la quale passava quegli intervalli di tempo nei quali gli amici di mamma andavano a trovarla – persino in quel momento, non voleva davvero sapere cosa facessero dentro quella casa mentre lui era a giocare (aka, seduto in silenzio sul divano della signora Jordan con l’altra bambina) dall’altra parte della staccionata. «jeremy sei… sei tu?» c’era qualcosa di sbagliato nella voce della ragazza, e quando si costrinse ad aprire gli occhi ed a voltare la testa si accorse che anche sul suo volto c’era qualcosa che… qualcosa che non andava. Non ferite, o lividi, sebbene non si sarebbe stupito di trovarne: dolore? Dispiacere?
    Niente; non c’era niente di sbagliato. Annuì meccanicamente, tentando un sorriso che non raggiunse completamente le labbra, né le iridi fiordaliso. Si soffermò sui lineamenti delicati della ragazza, i castani e lunghi capelli a ricadere in morbide ciocche ondulate sulle spalle, sulla mano di lei ferma sul basso cancelletto che si apriva sul breve vialetto di casa sua, ma non la vide affatto; aveva sempre faticato a mostrare agli altri il proprio attaccamento, più per un proprio personale capriccio che per reale carenza di affettività, ma Dio solo sapeva quanto, in quel momento, avrebbe voluto correre verso l’amica d’infanzia, abbracciarla e dirle che gli era mancata più di quanto non aveva realizzato finché non l’aveva vista. Invece non si era mosso, immobile davanti al proprio cancelletto aperto, premurandosi unicamente di nascondere un po’ più accuratamente la bacchetta all’interno della manica della camicia. Sembrò persino che l’intero vicinato avesse avvertito il disagio del Milkobitch, ammutolendosi all’improvviso e lasciando i due in un silenzio imbarazzante. «come» le dita di lei indugiarono sulle stecche di legno verniciate di fresco, incerte se aprire o meno, se restare lì fuori o entrare in casa. È perché non ci vediamo da tanto, per forza, pensò, senza però crederci affatto. «come stai?» «bene» rispose secco, incapace di addolcire quell’unica parola, ruvida come cartavetrata sulle pareti dell’ugola. Convenevoli: è normale che voglia sapere come me la passo dopo tutto questo tempo, no? «sì insomma, intendo…» «sto bene» provò ancora, e più lo diceva più perdeva quella certezza – certezza che, a conti fatti, non aveva mai posseduto. Ella fece per aprire di nuovo la bocca, visibilmente impacciata: per sua, per loro fortuna, il padre della ragazza tuonò da dentro le pareti dell’abitazione, reclamandola a gran voce. «scusa, mio padre…» «tranquilla, lo so» la rassicurò, tornando con lo sguardo sulla villa di fronte, vagliando con lo sguardo gli elementi che aveva osservato per minuti prima che Emily arrivasse: il giardino trascurato, l’edera in coltivata che aveva già iniziato a crescere sulle mura esterne quando era piccolo, le aste di legno sulle finestre rotte da atti vandalici di ragazzi ubriachi, gli infissi instabili – Lilith non si era mai curata di sé stessa, raramente lo faceva di suo figlio, figurarsi se poteva avere a cuore la conservazione della facciata di casa. «stammi bene, Em»
    Quando si era avvicinata, non l’aveva sentiti i passi sull’asfalto; quando le braccia si erano strette attorno al collo, non l’aveva visto il suo volto, la fronte ora premuta sulla spalla, e non aveva sentito l’odore stantio di sigarette residuo tra i capelli. Non aveva sentito gli occhi chiudersi, pesanti, e la testa incunearsi lentamente, nascondendosi tra la chioma bruna. Non sentiva niente - perché, ancora voleva esserne convinto, non c’era nulla per il quale avrebbe dovuto sentire quel dolore nel petto, quella fitta ai polmoni e quel bruciore dietro le palpebre. «mi dispiace»

    Resistette a coprirsi il naso e la bocca soltanto perché a quello sgradevole odore c’era stato abituato per dieci anni; ad altri, probabilmente, il misto di chiuso, di incuranza, di erba e sigarette, di sporco avrebbe nauseato, invitandoli ad uscire prima ancora che chiunque vi abitasse avesse potuto farlo a voce. «mamma, ci sei?» Nessuno rispose, lasciando il suono a disperdersi per la piccola cucina inospitale, e così familiare da fargli torcere lo stomaco. Quasi come se potesse trovarsi tra gli sportelli sopra il lavabo, o dietro quelli della dispensa, Jeremy Milkobitch si premurò di aprirli tutti, richiudendoli solo dopo aver capito che non aveva senso - e provandoci con quello dopo, e quello dopo ancora. «lily?» aprì la porta del bagno, sgombro, e quella dello stanzino, quella della camera degli ospiti e di quella che una volta era stata la sua stanza, ora ricolma di cianfrusaglie accatastate alla rinfusa. «mamma, ti prego» l’ultima spiaggia, era la camera della donna. Dal momento che aveva posato le dita sulla maniglia, aveva sentito un brivido scorrere lungo il braccio, un gelido spasimo a scivolare sulla spina dorsale; la stessa sensazione irrazionale che l’aveva accompagnato dal principio, che gli diceva di non aprire quella lettera. Non era un veggente, non aveva il fottuto terzo occhio, e non gli piaceva affatto divinazione: credeva solo a quello che diceva Arci, e più perché gli voleva bene che per il fatto che realmente desse adito alle sue visioni nefaste su un futuro di morte e perdizione. Ma certe cose le si sentono sotto pelle, prima ancora che si possa capire a cosa sono collegate – prima ancora che si possano capire e basta. Tastoni cercò l’interruttore della luce, e sebbene la lampadina attaccata al soffitto ad intervalli decideva di affievolirsi per poi tornare ad una luminosità normale, l’illuminazione tenne quel tanto che bastava a fargli notare il letto disfatto, le ante dell’armadio aperte, i vestiti della donna sparsi dove capitavano – il vestito a fiori che aveva indossato l’ultima volta che l’aveva vista, giaceva su una stampella, illibato nella bellezza di cui serbava memoria. Mise piede all’interno, sentendo qualcosa scricchiolare sotto la suola delle scarpe. Qualcosa di metallico, qualcosa di troppo in una camera da letto. Si chinò quel tanto che bastò a recuperare la lametta d’acciaio, un bordo rigato di sangue rappreso; quasi il lampadario avesse potuto cogliere quel momento, lampeggiò appena soltanto per fargli notare, con la luce più vivida, gocce scarlatte, fresche e al contempo troppo vecchie a tracciare un breve cammino sul pavimento, dal letto al comò. La lasciò ricadere a terra, e mentre questa tintinnava Jeremy si portò una mano a coprire le labbra, reprimendo tra le dita urla e «no» ripetuti che, a quel punto poteva realizzarlo davvero, nessuno avrebbe udito.
    Di quello che accadde in seguito, era come se non ricordasse alcunché, come se il cervello si fosse spento lasciando il corpo in balia di una rabbia che non aveva alcun senso di sussistere. Chi avrebbe potuto sentire i mobili cadere, i pugni contro il vetro dello specchio ovale sopra il cassettone, i calci ai piedi del letto, le grida soffocate? Non Lilith Myers.
    E perché, poi?
    Che senso aveva? Non aveva un cazzo di senso, non aveva un cazzo di senso, on aveva un cazzo di senso.
    Sembrò riscuotersi dal torpore solo quando, seduto a terra, i palmi premuti sugli occhi chiusi e le spalle poggiate contro il materasso, aveva sentito il comodino rovinare a terra, aprendo i cassetti e riversando sulla moquette tutto il loro interno. Qualcosa vibrò come un diapason, richiamando la sua attenzione: non era una novità la droga dentro quella casa, né lo era in generale per Jeremy, ma in quell’istante fu come se l’avesse vista per la prima volta – ed effettivamente, non l’aveva mai fatto dal vivo.

    «ne esistono tanti tipi» aveva iniziato, scribacchiando organi genitali sul quaderno degli appunti di Oscar, mentre Arci dall’altra parte scriveva dediche d’amore inopportune per Bells – e per Jeremy, e per Oscar, e per Jack: si era lasciato prendere la mano, come al solito. «quella bianca, thailandese, la più pura; quella rosa, che secondo me qualche persona comprerebbe solo perché è rosa» «come la tua ragazza» «non è la mia ragazza, coglione» «sì, certo» «dicevo: c’è quella marrone, mischiata a caffeina – sembra zucchero di canna, quindi evitatelo se non volete finire strafatti -; infine, il cobret che può anche essere inalato»

    Riversò un po’ di polverina bianca sul cucchiaio che sua madre aveva lasciato nello stesso cassetto, accendendo la fiamma della bacchetta sotto d’esso per squagliarla. Gli tremavano le mani, probabilmente nemmeno ci aveva pensato prima di farlo: non gli interessava. Quando ebbe finito, tolse il cappuccio dall’ago di una siringa, e lasciò che la cannula risucchiasse il tutto prima di sedersi sul bordo del letto.

    «le dosi “ideali” sono massimo tre milligrammi, e i primi effetti sono di euforia ed eccitazione – da non somministrare ad Arci» «perché» «perché sei già arrapato ventiquattrore su ventiquattro?» «ah già» «poi il corpo si rilassa, la mentre rallenta, il pensiero perde senso, la percezione del tempo è mistica; alla fine, il corpo e la mente sono talmente anestetizzati da non sentire più alcun dolore, fisico o psichico» «gesù, milko, ti sei fatto davvero una cultura» «beh, arci ha i tarocchi, oscar il quidditch, jack i gatti e l’alcol, tu tutto quanto; lasciami specializzare almeno sulle droghe, bells» «lecito. Basta che…» «tranquilla, dovrei essere davvero disperato per farmi d’eroina»

    Gettò la siringa a terra, lontana e ormai vuota, sciogliendo il nodo del laccio emostatico e lasciandolo tra la risma di oggetti caduti nell’impeto di poco prima. Massaggiò appena il piccolo segno rosso nell’incavo del braccio, mentre lento andava ad accucciarsi in posizione fetale sul letto di sua madre.
    Non sapeva cosa si era aspettato da quello, ma faceva male. Faceva male tutto: le lacrime a rigare il volto, il vuoto nel petto, i singulti, la consapevolezza di aver superato il punto di rottura.
    E voleva solo che smettesse di farlo, almeno per un po’.
    Voleva solo che qualcuno arrivasse ad aggiustare tutto – ad aggiustare lui, a dirgli che andava tutto bene.
    Perché in quel momento, andava tutto una merda.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia


    Edited by (un)lucky - 29/9/2017, 02:39
     
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    Rimase a lungo immobile, Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso. Le braccia armate di sai abbandonate lungo i fianchi, la presenza passiva di Karma Montgomery a premerle sul fianco. Con il capo reclinato, Run lasciò vagare lo sguardo sul nulla di quella stanza rettangolare, dannatamente poco interessata a quanto stesse accadendo attorno a lei. Dire che avesse un deficit di attenzione, sarebbe stato assai riduttivo: tendeva a perdersi, la mimetica, anche quando non c’era una strada dalla quale era possibile sfuggire. Si perdeva in sé stessa, in quei pensieri che da ferite superficiali divenivano cicatrici a lungo termine, che da dolore appena accennato diventavano sangue pulsante e carne lacerata. A volte, in quello smarrimento, non pensava a nulla – si limitava a respirare piano, calibrando ogni fiato sul palato. A volte, in quello smarrimento, pensava a tutto - si limitava a rimanere in piedi, esercizio di una vita. Abbassò gli occhi verso i propri piedi, le sopracciglia aggrottate a distorcere il pavimento di Hogwarts in un labirintico intrecciarsi di vite ed esistenze, fili che s’attorcigliavano ed aggrovigliavano fra loro senza realmente averne intenzione.
    Perché Murphy era sua cugina, ma non gliel’aveva detto. Perché Sin era suo zio, e gliel’aveva sempre taciuto. Come avrebbe reagito, una persona normale, ad una notizia del genere? La Crane di certo non poteva saperlo - che di normale, nei suoi vent’anni, aveva avuto ben poco. Era brava ad odiare, l’avevano addestrata per farlo; era fottutamente in gamba nella rabbia, fedele e bollente compagna di una vita, ardente ed improvvisa quanto un fuoco d’artificio.
    Ma non così. Non con loro. Perché la sua rabbia ed il suo odio, non sarebbero mai durati a lungo laddove vigeva una base di affetto – e buon Dio, per quanto le costasse ammetterlo nel caso dello zio, Run amava Murphy e Sinclair. Si sentiva delusa, ferita. Presa per il culo, certamente. Eppure, non avrebbe retto a lungo il broncio a curvare le labbra verso il basso: quello era il genere di disprezzo che riservava solamente a sé stessa, quello che di notte si divertiva a ritorcersi contro premendo fra le costole. Poteva essere ritenuto malsano quel suo infierire sulla propria persona, ma per la Crane era semplicemente necessario: potevamo farle una colpa, se preferiva biasimare gli altri condannando sé stessa? V’erano battaglie che andavano combattute, ed altre che era meglio abbandonare; c’era un motivo di fondo se, in quei vent’anni, Heidrun aveva cercato di piacere a tutti, comprandosi affetto con fossette pronunciate ed allegri occhi verdi: da qualche parte doveva pur racimolarlo, un po’ d’amore, se non era in grado di fare da sé. Che senso aveva amarsi, quando gli altri potevano farlo al suo posto? Poteva crogiolarsi nel rammarico e nel senso di colpa, consapevole che qualcun altro avrebbe colmato le proprie lacune. Senza contare che, togliendo quello riservato a sé stessa, aveva più affetto da donare agli altri – che quando non si aveva niente da perdere, si dava sempre tutto.
    Ecco perché non aveva mai detto niente, a Jeremy e Todd, riguardo il suo passato. Non aveva bisogno di loro solamente, solamente!, perché erano la sua famiglia: era una questione di sopravvivenza. Di fottuta e stramaledetta sopravvivenza. Un pannello solare dove non c’era il cazzo di sole, era utile quanto un documento falso che intestava comunque età inferiore per comprare alcool. Si inumidì le labbra, sollevando le iridi verdi per cercare i profili di Ian e Jeremy – era così strano vederli nel loro ambiente, e far parte della loro stessa vita. In quanto babbana, era sempre stata esclusa dal discorso Hogwarts: si limitava ad accompagnarli in stazione assieme a Bradley, salutadoli dai finestrini quando il treno si allontanava. Mai avrebbe immaginato che un giorno sarebbe stata una di loro, malgrado una di loro, invero, lo fosse dalla nascita. Avrebbero cambiato opinione su di lei? Aveva fatto tante cazzate, Run, e gliene avevano passate troppe, perdonandola per ognuna di quelle. Continuava a ripetersi che la sua filosofia di vita verteva sul presente, che non avesse senso rinvangare il passato, ma si trattava puramente di codardia: i Milkobitch meritavano di sapere chi avessero scelto per far parte della loro famiglia. Che gli piacesse o meno. Dio Santo, quanto odiava prendersi le proprie responsabilità.
    Tutti sbagliavano. Ruotò allora gli occhi su Sinclair, a svettare su… Jericho? Dall’alto del suo metro e quasi novanta. Come poteva esigere redenzione, quand’era la prima a condannare? Si mordicchiò il labbro inferiore, un retrogusto ramato a sbocciare sul palato come un fiore in primavera.
    Un respiro, due respiri. Un battito di ciglia dopo, Heidrun Crane aveva nuovamente un cuore pulsante nel petto, la pelle raggrinzita dal fango, ed un paio di curiosi occhi verdi che guizzavano privi d’opacità sull’aula della scuola di magia e stregoneria scozzese. Ci voleva così poco, alla mimetica, per trovare la scintilla a far divampare la benzina nelle vene: non era carne, Run. Era solo fuoco e cenere. Aprì i palmi facendo cadere le armi a terra, un tonfo secco contro la pietra. Poco prima che i docenti potessero congedarli, sentì sparire le corde che la legavano a Karma - e respirare fu più facile, e trattenersi dal stringere protettiva il braccio al petto più difficile -, e le bastò quello, per attivarsi. L’unica soluzione che conoscesse. Scattò in avanti senza neanche riflettere, schivando sulle punte dei piedi gli studenti che intralciavano il suo percorso. «levati.» ringhiò fra i denti alla ragazzina, lo sguardo fisso sull’uomo di fronte a sé. Serrò la mano a pugno, divaricò leggermente le gambe.
    E con un gancio secco, privo della cautela che aveva serbato per i suoi avversari sino a quel momento, colpì diretta il naso dell’idrocineta. Un po’ disperata, un po’ inevitabilmente, sempre, incazzata. Il respiro in rapidi rantoli, le guance colorate di rosso.
    Perché sì, Run era una stronza.
    «ora siamo pari.» un sorriso sghembo, le sopracciglia maliziosamente arcuate, le nocche sporche di un sangue condiviso.
    Ma era la loro, stronza.
    Un fischio le giunse attutito alle spalle, seguito da un sonoro, ed assai sentito, sospiro. «sarebbe troppo strano se ti dicessi che ti trovo sessualmente molto attraente?» Run sporse il labbro inferiore all’infuori per alitare un soffio d’aria sulle ciocche di capelli che le erano scivolate sugli occhi. «ti ecciti con poco, will» corrugò le sopracciglia, uno sguardo da sopra la spalla all’assistente di strategia. «ed hai strani feticismi.» Il ragazzo si strinse nelle spalle, le pigri iridi azzurre ad ammiccare da sotto le palpebre semi chiuse. «è un mondo crudele, ragazza. Si sviluppano passatempi crudeli. Tutto a posto, Hansen?» «sta bene.» rispose Heidrun al suo posto, sorridendo allegramente ad entrambi. La violenza era sempre il modo più rapido per sbollire la rabbia – nonché il suo preferito. «non voglio sapere altro, affari vostri – però, Run, puoi fingere di scusarti? #maevemifacosìpaura, ed a quanto pare va bene sfasciarsi di botte durante le lezioni, ma quando si concludono c’è spazio solo per unicorni e zuccherini» Quanto amava la coerenza del mondo magico. Un altro sorriso baluginò sulle labbra della special, gli occhi a guizzare su zio Sin. «spero il naso sia rotto.» che con quel tono gongolante ma l’espressione contrita, da lontano, poteva apparire come una scusa assai sentita. E voi direte: tutto qui? Tutta la frustrazione, lo sconforto di aver ignorato della sua famiglia per anni, il cuore spezzato per quelle possibilità che Sin le aveva strappato tacendo la verità - tutto lì? Ebbene, sì. Non avrebbe mai potuto odiarlo a lungo, figurarsi: dopotutto, le aveva al messo mondo Murphy Skywalker.
    Un minimo di credito.
    E poi, a suo modo, l’aveva ispirata: era giunto il momento di svuotare il sacco, almeno con i Bitches. Casa avrebbe dovuto essere quel posto dove rifugiarsi privi dalla costrizione sociale di indossare maschere, e non voleva fingersi qualcuno che non era con loro. Poteva dimostrarlo nel modo sbagliato, andandosene invece di rimanere, morendo invece di sopravvivere, ma buon Dio, erano stati il suo appiglio per anni. Un’ancora di sanità dove la follia era ossigeno. Si volse per cercarli, ma furono loro a trovare lei. Come sempre. Un sospiro a svuotarle i polmoni, le dita a tamburellare nervosamente sulla coscia. «bitc-» «devo fare una cosa. La fate con me?» Corrugò le sopracciglia, la frase a morirle sulle labbra. Lanciò un’occhiata confusa a Todd, che le rispose stringendosi nelle spalle. «è tutto a posto?» domandò cauta, avvicinandosi istintivamente di un passo a Jeremy. «non lo so?» e nonostante il sorriso stropicciato, c’era qualcosa nella postura di Jeremy Milkobitch che suggeriva quanto invece lo sapesse: non era tutto a posto. Si portò entrambe le mani alle guance, un sospiro mentre le dita s’incastravano nel fango fra i capelli. «okay, strategia: jeremy, rubami una divisa – tiff non se la prenderà. Todd, accompagnami ai bagni, ho bisogno di una doccia con sapone vero. Ci vediamo qui davanti fra venti minuti, e facciamo la… cosa?» Annuirono entrambi, strappandole un ghigno sbilenco. Era uno di quei momenti sottili e sfilacciati che parevano sempre gli ultimi, e che come ogni pezzo di fine, sembravano durare all’infinito e possedere particolari più dettagliati – i docenti riuniti poco distante a discutere di qualcosa, gli studenti che cominciavano ad abbandonare l’aula, gli amici di Jeremy ad aspettarlo sulla soglia della porta, e Murphy ad osservarla con le dita intrecciate sullo stomaco, ed il viso sporco di terra quanto quello della Crane. Le soffiò un bacio cercando di apparire rassicurante, una strizzata d’occhio allusiva e l’indice a roteare nell’aria indicando che ne avrebbero parlato più tardi.
    Una famiglia per volta, skste.

    «non viene mai nessuno, qua» Todd aprì la porta ed arricciò il naso, un cenno con il braccio per indicarle di entrare. «è tutto tuo. Vuoi che ti aspetto qui?» Ma come aveva potuto, anni prima, abbandonarlo. Le labbra del Milkobitch parevano sempre imbronciate, le sopracciglia ramate arcuate in una perenne espressione colpevole: con quei grandi occhi verde acqua, Ian Todd Milkobitch, avrebbe potuto dipingerci il mar dei caraibi. Scosse il capo sentendo una fitta di tenerezza scioglierle i polmoni. «naah, me la caverò.» Eppure nessuno dei due si mosse, entrambi in attesa della domanda impossibile da ignorare. «sai cosa-» «una lettera, credo? Magari ha fatto domanda per entrare in qualche college.» JEREMY? Lo stesso Jeremy Milkobitch che collezionava più giornalini porno che libri scolastici? Run sbuffò, l’aria a scivolare pigra fra i denti. «forse sono i risultati delle analisi del sangue. Forse ha più erballegra che globuli rossi» Ma non lo pensava davvero, Heidrun; ci sperava, ma non credeva affatto fosse una cazzata. Forse, durante la lezione, era rimasta troppo tempo vicino a Freya? La Crane cercava di non assorbire la chiaroveggenza, ma talvolta era impossibile non rimanerne vittima – si appiccicava alla pelle in maniera sottile e discreta, e non ti accorgevi di averla copiata finchè non ti rendevi conto, in un battito di ciglia, che ciò che credevi realtà non fosse altro che l’ennesimo sogno. Era solo un cattivo presentimento, il suo, ma non riusciva a debellare il prurito che le pizzicava il palato, né a placare il senso di vuoto allo stomaco. «probabilmente non è niente» mentì, lo sguardo opaco e distratto. «a dopo.» senza aggiungere altro, s’infilò nei bagni e chiuse la porta alle proprie spalle.
    Ed avete presenti quegli istanti, durevoli quanto mezzo battito di cuore, in cui senti il mondo scivolarti nelle vene? Scavava, bruciava, lasciava terra morta alle proprie spalle: ti svuotava di tutta l’energia che credevi di esser degna di possedere, rendendo le ginocchia molli ed il respiro un rantolo sul palato. La vista si annebbiava, le gambe cedevano. Quei rari momenti in cui la stanchezza era così pressante da rompere il telo fra spettatore ed attore, spegnendo sul nascere la magia del palcoscenico. Si chiudeva tutto, per un secondo; si perdeva tutto, mentre quel tutto cercava d’acquistare un senso d’esistere, trovando il proprio spazio in vite così fottute da essere buone solamente come giornale da riciclo. Non era una Milkobitch, non era una Quinn – in quegli spiragli di vita, nulla aveva un nome. Figurarsi una famiglia. Inspirò dalle narici sentendo la stanza vibrare attorno a sé, un principio di vertigini a chiuderle la bocca dello stomaco. «se devi piangere,» un colpo di tosse umido, un grattare alla gola che aveva poco di sano. Come se l’elastico fosse stato tirato troppo a lungo, l’attenzione di Run scattò nuovamente al presente, un balzo fisico e concreto che le urticò la pelle stessa. Un odore acre e denso la raggiunse, guidando il suo sguardo su una porta socchiusa di fronte a sé. «trovati un altro fottuto cesso. Non c’è posto per le drama queen, shakira.» Un altro colpo di tosse, o forse una di quelle risate così sbagliate da essere percepite come tali. «cristo.» Inarcò un sopracciglio in direzione della voce, cogliendo così lo sguardo asciutto di un ragazzino. Annusò l’aria, trovando il familiare conforto della droga ad addolcirle le labbra in un sorriso. «piangere?» domandò, prima di rendersi conto di quanto stupida fosse quella domanda. Le persone normali, effettivamente, l’avrebbero fatto – buon Signore, perfino una parte di Heidrun Ryder Crane, desiderava farlo. Semplicemente non era il suo… stile: preferiva affogarci finchè non diventavano attacchi di panico, Run. «dovrebbero togliere netflix ai giovani troppo suscettibili.» La mora si strinse nelle spalle, lasciandosi scivolare di peso sulla cornice della porta nel quale s’era rifugiato il ragazzo. «e anche l’erballegra – provvedo io, grazie» allungò una mano strappando la canna dalle dita dello studente di Hogwarts (credeva?), il calore fra i polpastrelli ad alleggerirle già il respiro. «fottiti? È mia.» Aspirò un lungo tiro, il petto a screpolarsi laddove il fango s’era indurito più del dovuto. Oh, grazie Dio. Chiuse gli occhi e piegò la testa all’indietro, lasciando uscire il fumo il lente e dense volute. «saresti così gentile da fottutamente ridarmela?» Ovvio che no. I giovani non dovevano drogarsi, dovevano rollare le canne per quelli che giovani non lo erano più – o che non ne avevano voglia, come Run. Si inumidì le labbra, saggiando il sapore estivo che l’erballegra lasciava con sé ad ogni respiro. «quanti anni hai?» «cazzi miei.» Socchiuse un occhio e reclinò la testa per potergli lanciare un’occhiata di sottecchi: non doveva essere, decise, più grande dei Milkobitch. Dalle risposte, probabilmente quindici anni – età difficile, l’adolescenza. «hai mai…» tacque. Fu il turno di Run di tossire, schiarendosi una voce che altrimenti si sarebbe piegata. Serrò nuovamente le palpebre, una gamba allungata davanti a sé e l’altra stretta al petto, la lingua a sfregare sulle labbra. «ho fatto una cazzata. » «mi hai rubato una canna.» «una di quelle grandi, sai. Quei fottuti elefanti nella stanza che s’ingigantiscono di giorno in giorno finchè diventa impossibile respirare» Il ragazzo rimase in silenzio, Heidrun si morse l’interno della guancia in un sorriso talmente ironico da risultare solo triste. «come posso dirglielo? hanno scommesso – buona l’erba, dove l’hai presa?- su di me quand’ero ancora una partita persa, ragazzino. Mi hanno fatto valere qualcosa.» Era quel genere di discorso che scivolava dalla bocca prima di giungere al cervello, un fiume inceppato con le persone care il quale non possedeva argini con perfetti sconosciuti in maledetti bagni pubblici. Quei pesi che spingevano, e spingevano, finchè da qualche fottuta parte erano obbligati a venire fuori. Strinse le labbra attorno al filtro, tirando finchè i polmoni non minacciarono di collassare. «non posso...» Sentì il rumore di un accendino, quindi quello sabbioso del tabacco. Non concluse la frase, Run – in ogni caso, non avrebbe saputo come. Non poteva fare tante cose. Una risata amara le storse la bocca, le spalle a scuotersi contro il legno consunto della porta. «ero pronta a morire, cristo – davvero, la coltivi te? - santo. Non sono preparata a vivere.» Dio. Nel momento stesso in cui lo disse, si rese conto del peso di quelle parole: non l’aveva mai detto a nessuno, Run; non aveva neanche mai avuto il coraggio di pensarlo coscienziosamente, lasciando che fosse il suo subconscio a rigirare il coltello nella piaga. Deglutì. «sono morta davvero, eh. Parlo per esperienza.» Un secondo filo di fumo si aggiunse al primo, legandosi cremoso a quello proveniente dalla canna di Heidrun. «gli stronzi trovano sempre un modo per giustificare il loro essere stronzi» Non aveva previsto una risposta del genere. In realtà, non aveva previsto alcuna risposta: era un po’ come farsi una chiacchierata con la propria coscienza, e scoprire che quella fottuta coscienza aveva una voce tutta sua. Aggrottò le sopracciglia, piegando il busto di lato per sfiorare il pavimento con la spalla; perfino da lì non riusciva ad avere una chiara visuale del suo interlocutore, ma almeno lo stemma sulla divisa confermò le sue ipotesi sullo studente: Tassorosso. «cosa stai cercando di comunicarmi?» «che non me ne fotte una sega. Mi ridai la mia canna? Posso ancora tenerla per dopo.» «maleducato.» «senti, vaffanculo.» Inarcò entrambe le sopracciglia quando la porta del bagno andò a sbattere, con uno schianto secco, contro la parete del piccolo bagno. Una scheggia cadde a pochi centimetri dal suo viso, un’occhiata ora lenta e decisamente meno amichevole verso il suo semi coinquilino, la gamba di lui ancora sollevata per il calcio nel quale s’era appena esibito. «non tirare la corda. Sono stata maledettamente gentile, bambino.» calibrò grave ogni parola, innescandole sulla lingua come una bomba ad orologeria. «skrz, il turpiloquio rende le conversazioni più stimolanti, e la violenza è ben accetta. è sempre bello vedere come si evolvono le nuove generazioni, un fenomeno assai affascinante. Quando mi farai davvero incazzare, lo noterai dal sangue - tuo. Ehi, conosci jeremy?» Ebbe allora completa visuale del Tassorosso: testa rasata, ciglia chiare e fitte, zigomi pronunciati e labbra sottili curvate nel più infinitesimale dei sorrisi. Il tipo si chinò in avanti con una smorfia sofferente, i gomiti poggiati sulle ginocchia ed il viso ad un palmo dal pavimento: c’era qualcosa di sbagliato, in quelle iridi sottili sporche di giada. Qualcosa che metteva a disagio, e che pareva prendere dagli altri più di quanto non fosse stato permesso loro di ottenere. «vuoi sapere un segreto?» No, ovvio che no. Ne aveva abbastanza di propri per sobbarcarsi anche quelli altrui. Aprì la bocca per rispondere, ma lui la mise a tacere soffiandole una nube di fumo in faccia – rude. «a nessuno frega un cazzo di niente, shakira, di cosa tu abbia o meno fatto, o di quale Dumbo abbia o meno a cagato nel tuo salotto. Ci sono due tipi di persone, al mondo:» Alzò un dito. «quelli che se ne sbattono perché non gliene frega un cazzo di te,» si indicò. «e quelli che se ne sbattono perché qualche cazzo gliene frega.» Alzò il secondo dito, che per l’immensa gioia della Crane, si scoprì essere proprio il medio. Gli voleva già bene. «cristo, è peggio delle telenovelas che mi sbologna sun.» «guarda il segreto?» domandò, premendo sui gomiti per alzare il busto. Ci volevano priorità, nella vita. « “Lei stessa mi raccontò tutto questo con le lacrime agli occhi, Pepa. Non sono pettegolezzi di cortile.”» La mano di lui aperta a palmo verso il soffitto, il tono accorato e basso. Un sorriso le sorse spontaneo sulle labbra, mentre cingeva la mano del Tasso fra le proprie: «“Josefa non era tua madre, credimi”.» Ci voleva davvero molto poco per distrarre Run dalle faccende importanti. Il ragazzo ritrasse la mano con un gesto secco, un sorriso spento a brillare sulla bocca dischiusa come una ferita aperta. «sei troppo giovane per essere così saggio.» non un’accusa, non biasimo, di certo non lusinga: c’era solo la constatazione di un mondo allo sfacelo, nelle parole di Heidrun, ed in quella smorfia che andò lentamente ad adombrare la taciuta risata. Che si diceva saggio, solo per non dire fottuto. Lui si strinse nelle spalle, uno sghembo lato delle labbra ad ammiccarle. «abbiamo tutti i nostri difetti.» Run si portò due dita alla fronte in segno di accordo, tornando poi a poggiare la schiena sul pavimento con gli occhi rivolti al soffitto. Il fatto che Jeremy avesse riunito la famiglia per fare qualcosa, la entusiasmava tanto quanto avviliva: non voleva davvero contasse su di lei. Voleva potesse; Dio, stava lavorando perché potesse, ma prima di farlo doveva… doveva sapere, ed invece non sapeva nulla. I Milkobitch si erano fidati di Heidrun, delle domande messe a tacere con un abbraccio ed un mi dispiace a fonderle il ventre – non le avevano chiesto niente, e lei non aveva risposto. C’era così tanto, da dire.
    Sempre così poco tempo per farlo.
    La canna ormai spenta giaceva inerme fra le dita; l’unico rumore era quello dell’aria aspirata dal Tassorosso, e dei singulti soffocati di lui sibilati fra i denti. Fu in quel momento, con uno sguardo assai corrucciato, che si rese conto di una cosa: l’odore dell’erba ne copriva un altro, più primitivo ed acre. «ma che-» Il ragazzo scivolò sul pavimento prima che Run potesse raggiungere il lembo della divisa, scoccandole un'occhiata fredda e crudele. «cristo santo.» vide la striscia di sangue sul muro, un velo di sudore a luccicare sulla fronte del giovane. «si è fatta una certa.» lui si alzò in piedi, rendendo Run molto consapevole di quanto fosse fottutamente alto – ripiegato com’era stato in quell’anfratto di bagno, non se n’era resa conto. Lo vide poggiarsi sullo stipite per mantenere l’equilibrio, appena una frazione di secondo, prima che, senza troppi complimenti, la scavalcasse. Il tasso lanciò ciò che era rimasto della canna nel gabinetto, rantoli umidi fra i denti. «cos’è successo?» domanda giusta, mondo sbagliato. La risata del ragazzo fu la risposta più appropriata e tagliente per quell’interrogativo. «benvenuta a hogwarts.» saluto militare, passo incespicante verso l’esterno. Doveva accompagnarlo in infermeria? Doveva offrirsi di aiutarlo? Non sembrava il genere di ragazzo che avrebbe accettato volentieri l’offerta – soprattutto, non sembrava affatto impressionato dalle sue stesse ferite. Come se tutto quello, tutto quello, fosse normale. Era diverso sapere come funzionavano le cose, e vederle con i propri occhi. Misure estreme per vite estreme. «salutami jeremy» «chi lo saluta?» fu il quesito più sciocco, ed al contempo il più naturale. Rotolò sul pavimento per poter puntare le iridi ambra su di lui, le sopracciglia corrugate. Lo vide aprire la bocca, richiuderla; inumidirsi le labbra. Sorridere piano, carico d’ironia come una nuvola di pioggia. «nessuno.»

    Le trecce umide a ricadere lungo il viso, gli occhi a scorrere le righe vergate con tratto distratto e rapido. Sembrava non fosse neanche la sua vita, quella; sembrava di vedere uno stramaledetto film. Non poteva certo essere quella di Jeremy. Ed aveva deglutito, Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso.
    Ed aveva stretto entrambi i pugni, un principio di greve, e primitiva, e viscerale rabbia a scorrerle nelle vene come veleno, facendo collassare gli organi interni finchè non era rimasto altro che un ammasso pulsante di furia e dolore. Perché non era, fottutamente, giusto.
    Non poteva crepare e basta? Ma quel pensiero non fu suo, mentre con sguardo schivo ma attento passava la lettera a suo fratello. Scosse il capo, Heidrun.
    Spero per te che tu sia effettivamente morta, altrimenti ti troverò, e ti farò rimpiangere di aver imparato a scrivere. Anche quello non fu propriamente di Run. Strinse maggiormente i pugni inspirando dalle narici, le unghie a segnare la carne di mezzelune scarlatte, un’occhiata sbilenca a Todd: perché solo il Signore poteva sapere quanto in realtà meditasse entrambe le cose. Semplicemente, non erano la sua priorità. Pensava la madre di Jeremy fosse una stronza egoista? Sì. Le augurava tutto il male che c’era nel fottuto oltretomba? Sì. Rimpiangeva di non essere morta a Novembre, perché non poteva più condannarla ad un’eternità di dolore e miseria? Ancora, sì. Perché a Run, di quella donna, non fregava sinceramente un cazzo.
    Ma Jeremy. Come aveva potuto fargli una cosa del genere. A suo figlio, dopo tutti quegli anni? Una fottuta lettera? Come si poteva.
    Sapete la cosa peggiore?
    L’aveva fatto anche Run.
    Nascose il viso fra le mani, il corpo un fascio di muscoli in tensione. Non era brava ad affrontare quel genere di situazioni, la Crane – non era brava punto, la Crane. Avrebbe solamente voluto poter cancellare l’espressione, quella maledetta espressione, dal viso di Jeremy Milkobitch. Delusione, confusione. Quel dolore sordo che pulsava in ogni battito e corrompeva ogni respiro. Raschiarlo con una fottuta spugna, stringergli il volto fra le dita e promettere menzogne, pur di far evaporare ogni traccia di quello. Dirgli che non se lo meritava, un figlio come lui – che era meglio perderla che trovarla, una madre così.
    Che erano loro, la sua famiglia. Perché Todd c’era sempre stato, per lui; perché Run non l’aveva fatto. Perché malgrado tutto, malgrado tutti, erano ancora loro tre in quel cortile – ancora loro, ancora sempre. Ingenuamente si credeva che la perdita fosse il male peggiore. Che quando moriva qualcuno che un tempo amavi, non c’era nulla di paragonabile al senso di devastazione che ne conseguiva, brandello di carne dopo brandello. Sbagliato. La cosa peggiore era vedere qualcuno che amavi andare in pezzi, il cuore spezzato e lo sguardo incrinato, e sapere di non poter fare nulla. Era sentirsi impotenti di fronte ad una situazione impossibile da gestire, un dolore che non era proprio ma era come se lo fosse. Si morse il labbro superiore, le dita incastrate fra i capelli. Allungò un braccio per stringere il polso di Todd, le dita a serrarsi sulla pelle intimandogli di rimanere fermo - anche lei avrebbe voluto alzarsi e stringere Jeremy; anche lei avrebbe voluto poter fare qualcosa. Sapeva per esperienza che c’era bisogno di spazio, di ossigeno, di vita, per comprendere la morte. Qualcosa che a lei avevano rubato, ad esempio: intrappolata in un labirinto, nel braccio ancora legato a quello dell’Hamilton. «devo…» Quella voce, quelle palpebre serrate. Quel Jeremy Milkobitch. Strinse maggiormente il braccio di Todd, aprendo gli occhi verso il Tassorosso. Cosa poteva dirgli? Non c’erano parole per colmare la lacuna creata da quella lettera – e non ne aveva mai avuto bisogno, Run. Rimase immobile, misurando il respiro sul proprio battito -dentro e fuori, dentro e fuori. «io…» Io, lui, loro. Lei. Avrebbe potuto essere uno scherzo, quella lettera; Dio, magari la madre di Jeremy era stata salvata, ed ora mangiava budino in un letto d’ospedale. Ad Heidrun, ancora, non importava: era l’intenzione che si celava dietro quell’inchiostro a premerle imprecazioni fra le costole, stringendole il muscolo cardiaco in una morsa quasi fisica. «devo andare. Scusatemi.» Scattò in piedi, Todd al suo fianco.
    Ma non lo fermò, Run. Con il cuore in gola ed il labbro inferiore morso a sangue, rimase a guardare Jeremy Milkobitch che si allontanava, stringendo al petto Ian per impedirgli di rincorrerlo. Quando fu certa di aver trovato una voce con la quale parlare, sbottò infine il commento che s’era tenuta a lungo a bruciare sulla lingua: «che grandissima troia.» sputò con fiele e frustrazione, i denti a cozzare fra loro. Cercò di calmarsi, il corpo che si ribellava alla mente cercando di muoversi verso Jeremy - non ancora, aspetta un attimo. Si volse cercando gli occhi di Todd, ancora ignaro della situazione. Normalmente non sarebbe stato compito suo dargli quella notizia; normalmente, la madre di Jeremy non si sarebbe tolta la vita. «scheggia, ascoltami bene:» gli prese il viso fra le mani, accarezzando piano le guance con i pollici. «la madre di jeremy…» si umettò le labbra, la bocca secca. «gli ha scritto una lettera d’addio.» inspirò, sentendosi la sorella maggiore meno adatta sulla faccia della terra. Doveva fare fuori i cattivi? Era la migliore sul campo. Consolare per un lutto? Crane sbagliata. «diamogli del vantaggio, okay? Ha bisogno di rimanere un po’ da solo.» Ma solo poco, e per poco. «tanto, lo troveremo sempre. dopotutto» Perché c’era qualcosa del quale nessuno, nessuno mai, avrebbe potuto privarli. Non potevano toglierglielo, quello. Poteva aver dubbi su cosa loro avrebbero pensato di lei, che problema effimero le parve, in quel momento!, ma non avrebbe mai nutrito timore su quel che lei pensava di loro. Su ciò che, i Milkobitch, erano per Heidrun Ryder Crane: famiglia, era un termine molto riduttivo. «dobbiamo riportarlo a casa» che casa, per Run, sarebbe sempre stata loro.

    Avevano setacciato Hogwarts, ma senza alcun risultato. Non che Heidrun, in cuor suo, pensasse davvero di trovarlo raggomitolato in qualche angolo di castello, ma tentar non nuoceva. Abbandonata la scuola, avevano deciso di dividersi: la mimetica avrebbe scandagliato il fondo del fondo della vita del Tassorosso, aka spacciatori e rifornitori d’alcool, mentre Todd avrebbe guardato nei locali più tranquilli, dopotutto non si poteva mai sapere. Ovviamente rimasero in contatto telefonicamente per tutta la durata della missione, a cosa servivano altrimenti i minuti gratuiti?; e, altrettanto ovviamente, non lo trovarono da nessuna parte. Ebbene sì, dato che la Crane conosceva la sua famiglia, aveva puntato subito sulle sostanze stupefacenti – si basava su esperienza personale, lei: alla morte di Jo, Tequila era diventata la sua miglior amica. Aveva perfino bussato alla porta di Shia («uh, divisa da scolaretta! Dolcezza, non ho tempo ora»), ma con scarsi risultati. Rimanevano solamente due posti da esplorare – ed a quel giro, Heidrun e Todd sarebbero andati insieme.
    Purtroppo per i nostri eroi, a casa di Bradley non c’era. Questo dovrebbe bastarvi per giustificare la presenza di una ventenne con una gonnellina a pieghe e le treccine (give me baby one more time!) ed un ragazzino pallido ed allampanato, in una delle zone peggiori di Londra dopo il calar del sole. L’ora, per inciso, in cui gli spacciatori cominciavano ad offrirti assaggi di metanfetamina, e le donne scendevano in strada cercando amore sui marciapiedi. In piedi sul vialetto della casa dove aveva vissuto la madre di Jeremy, Run lanciò un’occhiata dubbiosa a Todd, le labbra strette fra loro. Avrebbe preferito non fosse lì, Jeremy. Avrebbe preferito che le loro ipotesi fossero sbagliate, che in realtà il Milkobitch fosse sdraiato in qualche stanza segreta del castello a fare un magicruciverba, o quel cazzo che gli paresse.
    Il cuore a danzare sulla lingua, il respiro a spaccarsi nella trachea.
    Rimase sul ciglio della stanza per il tempo d’un battito di ciglia, eppure le parve un’infinità. Sembrava così piccolo, raggomitolato su quel letto troppo grande. Quel letto troppo vuoto. Strinse nuovamente le palpebre, gli occhi lucidi di un dolore che solamente una sorella avrebbe compreso: per tutti quegli anni, tutti quei fottuti anni, aveva solamente voluto proteggerli, Run. Si era comportata da stronza, li aveva abbandonati, ma l’aveva fatto per loro – perché l’alternativa, sarebbe stata peggiore. Si sarebbe strappata il cuore dal petto, se fosse servito. Se fosse bastato.
    «vi ricordate,» si schiarì la voce, come se quell’immagine non le avesse bruciato quel poco di umanità che le era rimasta. Non credeva che Jeremy potesse sentirla, bastava vederlo per comprendere che qualcosa non andasse: parlava per sé, Run. «cosa facevamo» un sorriso, le sopracciglia inarcate: cosa vi costringevo a fare. «quando qualcuno di noi stava male?» si schiarì la voce, tossendo aria e veleno. Si coricò sul letto, sapendo che Todd avrebbe fatto lo stesso – l’una a destra, l’altro a sinistra, Jeremy fra loro. Run strinse la mano del Tassorosso, costringendolo a mollare la presa sul lenzuolo, e si rannicchiò al suo fianco, così da avere il viso alla sua stessa altezza. Percepiva il pungente odore del sudore indotto, quello che il corpo secerneva quand’era alterato da sostanze anomale. Le bastò sfiorare la pelle fredda di Jeremy per sentire, sotto i polpastrelli, agitarsi flebile la droga: eroina.
    Un veleno come un altro.
    Una Heidrun come un’altra.
    «soffice kitty, calda kitty, bel micetto tu» fece scivolare le dita sulla testa di Jeremy, accarezzandolo con la delicatezza che si riservava a qualcosa che già s’era rotto, ma che restava comunque una meraviglia. Ogni volta che ne sfiorava i corti capelli castani, assorbiva un poco di quel veleno, depurando l’organismo di Jeremy: il Tassorosso aveva potuto credere che bucarsi fosse una soluzione, ma con il cazzo che sua sorella l’avrebbe lasciato cadere nel baratro di quella droga. Madre morta o meno, lui era ancora vivo – e che Morgan lo proteggesse da sé stesso, perché Run aveva intenzione di farlo vivere ancora fottutamente a lungo. «gioca kitty, dorme kitty» si avvicinò maggiormente a Jeremy, il sangue quasi del tutto pulito a scorrere come fiele nelle arterie. Lo sapeva, che faceva male. Dio santo, lo sapeva. Posò le labbra sulla sua fronte, facendole vibrare impercettibilmente. «prr, prrr, prrr» mimò le fusa sulla pelle del diciassettenne, costringendolo poi ad alzare lo sguardo su di lei. Gli rivolse un debole sorriso, le sopracciglia inarcate. «vivere è fottutamente difficile, bitch poco milko.» scosse appena il capo, strofinando la guancia contro il lenzuolo. «non tutti ce la fanno. C’è troppo da gestire, e…» Inspirò, gli occhi a ruotare verso l’alto. «qualcuno perde la voglia, di combattere una guerra nella quale sono finiti per errore.» per orrore: di scelte sbagliate, di respiri sbagliati. Non era colpa di Jeremy; per quanto le bruciasse ammetterlo, non era neanche colpa di Lilith.
    Era semplicemente così, che andava. Male.
    «anche mia madre è morta.» così, dal nulla. Non gliel’aveva mai detto.
    E c’era un motivo se Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, da sobria non avrebbe mai dovuto parlare. «bradley è la prossima. Poi possiamo cercarcene una nuova.» Un sorriso greve di densa ironia, gli occhi ridotti ad una fessura. «chissà se c’è un catalogo per madri – magari diviso per abilità.» Troppo presto?
    Sempre meglio di troppo tardi.
    do it for the aesthetic -- ms. atelophobia


    Edited by #epicWin - 17/6/2017, 03:35
     
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    Spero di essere Todd

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    Todd non aveva molti amici nella sua vita, togliendo Mickey ( che era pur sempre invisibile agli occhi degli altri) e la sua famiglia si poteva dire che era solo. Questo non voleva dire che si biasimava, non voleva fare neanche pena alle persone, in fondo lui era felice (anche se non è proprio il giusto termine) perché amava profondamente Run e Jeremy. Ogni giorni si sentiva in colpa per non essere stato con il fratello in quella foresta, anche se i due erano felici del contrario lui non riusciva a farsene una ragione, poteva averli perdersi entrambi. ( «Siamo vivi e siamo qui. Basta tormentarsi » ) Magari fosse così semplice non pensarci, col tempo forse si sarebbe attenuato il senso di colpa grazie anche erano proprio i due che cercavano di non fargli pesare tutto quello che era successo, sembravano essere tornati a prima della scomparsa della sorella. Quindi fanculo a tutti, lui aveva Run e Jer.
    Da quando erano tornati da quella missione sembravano più affiatati come famiglia, era persino tornato Mickey, probabilmente perché sia la ragazza che il tasso lo costringevano a prendere le medicine. Anche se all'inizio si lamentava ora era davvero grato per quelle attenzioni, non sarebbe sopravvissuto senza di loro; erano la sua ancora di salvezza, anche se poteva sembrare arrugginita ma era funzionante. Erano il suo salvagente, anche se malandato comunque lo facevano rimanere a galla in quell'acqua profonda che era la vita reale. Non si poteva definirla perfetta quella famiglia, ma cazzo se erano uniti, ci erano voluti anni ma insieme potevano spaccare il mondo, o quasi, magari a modo loro: tra un festino di alcool del Milkobitch e un droga party della Crane, avrebbero sfondato di sicuro.
    E poi arrivò quella lettera, indirizzata a Jeremy quella spezzò tutto quello che stavano ricostruendo con fatica, ma perché la vita faceva così schifo?
    Perchè vi chiamate Milkobitch...Mi dispiace che Run ne faccia parte, poteva finire in posto migliore ma siete capitati voi disse Mickey cercando Jeremy sotto ad un auto, come se potesse trovarsi lì. Mickey, se devi aiutarmi a cercare almeno fallo bene. E smettila, lo so anche io che noi Milkobitch abbiamo problemi, non hai bisogno di ricordarmelo rispose inacidito, odiava quando l'amico lo trattava in quel modo.
    Se gli fosse successo qualcosa? Io non posso neanche immaginare...
    Dai non pensarlo...anzi so che lo stai facendo. Ma non può essere morto. In fondo è tornato dalla foresta no?
    Si lo so, ma questo è ...sua madre si è tolta la vita. Non sta bene. Devo trovarlo
    Vide l'amico serio che annuiva, ora erano preoccupati in due. Perfetto. Si erano divisi lui e Run, ma ancora nessuna traccia del fratello, era persino andato a cercarlo da Archibald (dove? A boh) ma del fratello ancora nessuna traccia, si stava facendo prendere dall'ansia.
    Erano rimasti con un “dobbiamo riportarlo a casa” ma era più difficile di quanto potesse pensare, Jeremy era davvero un bitch e poco Milko, non sapeva proprio più dove battere la testa.
    E poi ci fu la svolta,quando trovarono quella che forse era stata la casa della madre di Jer. Era un posto poco sicuro, non che gli importasse molto l'importante era averlo trovato.
    Quando però lo vide rannicchiato sul letto, fatto, gli venne i brividi Jer... disse con un soffio di voce come se avesse paura di svegliarlo o di spaventarlo, se poi fosse scappato? Guardò Run che lentamente si avvicinava a lui. Lei si che era brava, non si faceva mai prendere dal panico. Stare con loro due l'avrebbe portata alla deriva ne era sicuro, non era il contrario come credeva lei, il marcio erano i Milkobitch.
    «vi ricordate, cosa facevamo quando qualcuno di noi stava male?»
    Uhh questa la so.... Mickey saltellò e si avvicinò a letto, rimase in attesa di Todd che lo guardava contrariato, perché doveva avere un subconscio così idiota eh?
    Annuì a Run e si distese nel letto, al fianco del fratello abbracciandolo, rimase in silenzio per tutto il tempo non occorrevano parole o frasi, bastava quel contatto e Run. Sapeva che se ne sarebbe occupata lei di tutto, forse era egoista pensarla così, praticamente si era tolto ogni tipo di responsabilità ma lui era comunque lì per Jeremy, la sua famiglia. Sempre.
    «vivere è fottutamente difficile, bitch poco milko.» continuò dopo la canzone la sorella, Todd strinse più forte Jeremy. Non voleva perderlo, non avrebbe potuto affrontare quella perdita ( la player non vuole ALTRI morti). Capiva perfettamente quello che stava cercando di dire la mora, in realtà pensava quanto lei che la vita fosse davvero ardua, lui doveva convivere con un disturbo della personalità, e se un giorno avesse un fatto qualche casino? Non aveva il controllo quando non era se stesso, non aveva neanche idea di quante persone ci fossero dentro di lui, e se ce ne era qualche pericolosa? Cosa sarebbe successo se le medicine non avessero più fatto effetto? Non ne aveva idea. Era meglio non pensarci, magari non si sarebbe neanche mai presentato il problema e in caso contrario poteva contare su il fratello ( sperava) e la sorella.
    «anche mia madre è morta.» ed ecco un altro colpo, alzò la testa per guardare la donna negli occhi, ma stava dicendo la verità? Perchè non glielo aveva mai detto? Era stato così egoista e concentrato su stesso in quei mesi che non si era preoccupato di nessuno. Come poteva averla ancora accanto, come poteva volergli così bene? Era unica, e una sorella così non l'avrebbe mai trovata. Era meglio che un tesoro.
    Strinse la sua mano e le sorrise debolmente mi dispiace... disse a bassa voce. Era sincero, non poteva capire il dolore che aveva provato la ragazza come quello del fratello, ma era lì in quel momento e avrebbe fatto anche suo il dolore se fosse stato necessario.
    bradley è la prossima. Poi possiamo cercarcene una nuova. Todd ebbe un brivido percorrergli la schiena, non ci aveva ancora pensato ad una cosa del genere. Era orribile. E per un secondo quasi si sentì fuori luogo lì con loro due. Era dannatamente egoista Todd, come poteva pensarlo in quel momento così delicato? Di certo non voleva davvero la madre morta per essere alla pari con i due, ma cazzo cosa poteva fare per aiutare? Ehm..magari ci basti te. Run. Rimani con noi. disse solo quello, ma era una richiesta disperata. Aveva bisogno di stabilità e anche se può sembrare strano sua sorella poteva dargliela, magari insieme loro tre avrebbe reso quella strada più diritta senza buche e curve.
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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    Soffiò tenue l’aria tra i denti, debole nel febbricitante dormiveglia – un sibilo sordo, troppo forte in quella stanza troppo vuota, echeggiante tra le pareti di quella casa abbandonata da più tempo di quanto non lo fosse fisicamente. Si era perso ad analizzare gli effetti di quel buco sul braccio con lo stesso accademico interesse con cui un Archibald poteva dedicarsi alle scienze occulte, o con il quale un Oscar ed una Bells potevano studiare strategie di gioco sul campo di Quidditch, concentrandosi solo su quello che aveva appena fatto – senza domandarsi cosa cazzo aveva appena fatto: aveva detto lui stesso ai suoi amici che per arrivare a quel punto avrebbe dovuto prima raggiungere il limite più infimo della disperazione, e non poteva accettare di essere andato così oltre per colpa della donna che l’aveva messo al mondo; non era fottutamente giusto, non lo voleva. E così, non ci pensava.
    Si diceva, le ginocchia al petto e le lacrime incandescenti a tracciare cammini ardenti sugli zigomi, che tanto prima o poi avrebbe dovuto provare, che non sarebbe stato a posto con la propria, discutibile, coscienza se non l’avesse mai fatto in vita sua - che aveva solo quello, lui; che della sua vita non sapeva che farsene, che non sapeva dove andare a sbattere la testa, che di ambizioni scarseggiava; che non c’era niente di male ad eccedere un po’, una volta.
    Non si diceva, che se non avesse ricevuto quella lettera non ci avrebbe mai nemmeno pensato.
    E così si era perso a studiare il corpo umano sotto l’effetto dell’eroina, a testare le letture e ricerche che aveva fatto in merito, a verificare fosse tutto vero.
    E così si era perso, Jeremy Milkobitch.
    Aveva atteso un’euforia che non era mai giunta, le dita strette con vigore attorno al lenzuolo del letto sfatto da giorni - settimane, mesi, vite; avrebbe voluto, in quel momento più che in altri, essere stato schifato all’idea di quanti amplessi quel materasso aveva visto, di quanti un bambino di cinque anni ne aveva sentiti attraverso le sottili mura della sua camera, così che l’idea di fermarcisi sopra potesse passargli di mente: purtroppo non era mai stato schizzinoso, e si era abituato a cercare nell’abbraccio della madre un nido sicuro di notte, incurante di cosa fosse accaduto tra quelle coperte -; aveva lasciato scivolare sul corpo un’eccitazione che non aveva ragione d’esistere, le labbra morse con più ferocia nel vano tentativo di placarla più in fretta – che avrebbe voluto sfogarla in un modo qualsiasi, soltanto per farla andare via davvero
    Si limitò invece a focalizzarsi sulla propria respirazione, sulle lancette della sveglia che si muovevano al ritmo di una musica sconosciuta - un respiro, un ticchettio.
    Cinque respiri, due ticchettii.
    Mezzo respiro, tre ticchettii.
    Nessun respiro, nessun ticchettio.
    Lo percepì distintamente quel mezzo sospiro a scaldargli le labbra, come vide perfettamente le stecche di legno dell’orologio distorcersi appena, danzare intorno al loro perno ad un ritmo più veloce – e poi più lento, ed ancora più veloce. Non le sentì, così come non si accorse delle dita tremanti a perdere la presa sulle fodere beige del letto, ad arrancare nello spasmodico tentativo di afferrarle di nuovo; non si accorse, il tassorosso, delle palpebre pesanti ed i brividi a fior di pelle, del senso di nausea a premere sulla punta della lingua. La situazione era degenerata così rapidamente, da non dargli nemmeno il tempo di rendersene conto – che di tempo, il Milkobitch, non sapeva nemmeno quanto ne fosse passato. Rimase lì immobile, la spalla premuta contro il materasso e le iridi celesti fisse sulle lancette – senza apparentemente respirare, tanto flebili erano gli ansiti, soffici e troppo caldi nelle ultime settimane d’inverno londinese; senza più piangere, le ultime gocce d’acqua salata a seguire le curve del naso; senza nemmeno pensare, la testa pesante e distante, rumorosa contro le pareti del cranio.
    Se solo ci avesse capito qualcosa, avrebbe sorriso dell’essere riuscito nel suo intento: anestetizzare ogni dolore, verificare i suoi studi nella materia, non sentire nulla.
    Si accorse di non essere più da solo solamente quando la vista gli si oscurò – un viso conosciuto sfumato ed alterato dalla droga, una voce vicina ma fin troppo lontana e distorta, mani a stringere le sue, braccia a cingergli i fianchi. Congiunse le labbra secche, la gola ad inumidirsi di saliva che faticava a salire, ed istintivamente, infastidito dal cambio di luminosità al quale aveva fatto vezzo, chiuse gli occhi. Li tenne serrati, mentre il suono si faceva più distinto, la mente più leggera e dolorante – che non poteva impedirsi di sentirli al suo fianco, ma poteva perlomeno evitarne lo sguardo: non gli ci volle molto a capire cosa stava accadendo, ma soltanto perché gli effetti dell’eroina tendevano a scemare in maniera forzata. Fintanto che non schiudeva le palpebre, poteva fingere che fosse un sogno e che i suoi fratelli non l’avessero trovato nella casa di una tossicodipendente morta, rannicchiato sul suo letto ad accettare l’unica eredità che gli aveva lasciato. Strinse la mano di Run, cercò quella di Todd, senza nemmeno rendersene conto - istintivo, così tanto naturale che forse non l’aveva mai fatto. Voleva ridere, o almeno sorridere, di quella canzoncina sussurrata sulla pelle, pretendere che non facesse così male. Non doveva fare così male, non voleva. L’unico suono che riuscì a produrre, fu un singhiozzo strozzato, lacrime che aveva smesso di far scendere nuovamente ad inumidire la cornea – un «perché l’hai fatto» sussurrato tra le labbra, non un accusa né una vera e propria domanda: avrebbe aspettato che l’effetto finisse, che quella sofferenza ingiustificata scemasse nel nulla.
    Non fu in grado di dire quello che davvero gli premeva sulla lingua – che era loro grato e che aveva voluto dal principio che qualcuno, che loro, accorresse lì per lui; che gli dispiaceva, fossero lì per lui.
    Todd prendeva dei farmaci, Run era già passata a miglior vita una volta e ancora non aveva capito quali conseguenze la cosa avesse avuto sulla sorella. Non dovevano essere loro a preoccuparsi di lui, avrebbe dovuto essere il contrario. «vivere è fottutamente difficile, bitch poco milko. non tutti ce la fanno. C’è troppo da gestire, e… qualcuno perde la voglia, di combattere una guerra nella quale sono finiti per errore.» «stronzate» fu l’unica cosa sensata che gli venne in mente. Cristo, se ce n’erano di cose difficili da sopportare – ed aveva solo diciassette anni, Jeremy, ma aveva visto e vissuto abbastanza per poter dire di saperlo per esperienza -, ma questo non fottutamente giustificava il suicidio. Non aveva mai accettato quella via di fuga scelta dagli zii, non aveva mai voluto comprendere o giustificare l’intensa voglia di sua cugina di togliersi la vita così prematuramente: come poteva accettare che l’avesse fatto sua madre lasciandogli solo una cazzo di lettera? A soffrire, poi, erano quelli che restavano: era sempre così. «non è giusto» che sia così, che io stia così. «non la conoscevo nemmeno» si lasciò sfuggire, senza sapere più se era la verità o meno: era tutto ciò che di certo aveva avuto per dieci anni, come poteva non aver capito che una cosa del genere sarebbe potuta accadere?
    Non aveva voluto, semplicemente.
    Cercò gli occhi di Run dietro la patina offuscata, le dita ad intrecciarsi con più forza con quelle di lei: non eccelleva nelle condoglianze, e conosceva abbastanza la Crane da sapere che, se non aveva detto loro che sua madre era morta per tutto quel tempo, probabilmente nemmeno le desiderava. Lui non le avrebbe desiderate; lui non le desiderava. «bradley è la prossima. Poi possiamo cercarne una nuova» «non è divertente, heidi» sussurrò, sentendo sotto il palmo della mano il dorso di quella del fratello – eppure, umido e stropicciato, un sorriso glielo rivolse. Che non voleva dirlo ad alta voce, ma loro di madri non ne avevano bisogno – non ne avevano mai avuto. «però se proprio dobbiamo» si schiarì la voce, voltandosi appena verso il fratello maggiore. «ne voglio una con un giardino in cui ci permetta di coltivare» inutile aggiungere cosa ci fosse da coltivare.
    «magari ci basti te, Run. rimani con noi» puntò lo sguardo sulla mimetica. «dove vuoi che vada, todd» rispose, al posto di lei – perché voleva fosse chiaro, che non le era permesso non rimanere con loro. Erano o no, una famiglia? «è già morta una volta ed è comunque tornata a casa» sorrise mesto, gli occhi ormai asciutti. «quello era il tentativo più estremo che potesse fare per liberarsi di noi»
    You Sit And Stay I Don'T Obey // by ms. atelophobia
     
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