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Thanatos&William.

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    Si svegliò, o forse si riscosse dal sogno ad occhi aperti. A volte gli risultava difficile capire se stesse dormendo oppure no; quando si soffre d’insonnia la vita diventa un eterno torpore. O quantomeno a lui sembrava che fossero passate settimane da quando / quello / era iniziato: non era facile tenere traccia del tempo, non quando hai la mente pervasa da illusioni. L’unica certezza era che le sue fantasia su suo padre non erano reali. A volte lo rivedeva nel riflesso di una vetrina, altre nella penombra gettata dalla fioca luce di un lampione. Ma era soltanto la sua immaginazione. Era solo un passatempo per la sua mente inquieta.
    Il materasso madido di sudore invece, con le molle rotte che gli entravano nella schiena, erano reale. Ed erano veri anche i crampi alle gambe e il mal di schiena. Non sapeva dove si trovasse, non sembrava neanche importargli poi così tanto, non quando altro ha la precedenza nell’anticamera del cervello. Mugolò appena strascicando flebili respiri tra i denti serrati. Aveva la secchezza in bocca insieme ad un retrogusto nauseante di ruggine. Doloroso era lo schiudere degli occhi quando la luce artificiale di una lampadina appesa ad un soffitto alto e spifferato ne trafisse l’iridi insanguinate. Allungò le braccia, Thanatos, sopra la sua testa lì dove la fronte brucia: sentì scricchiolare le giunture e avvertì una fitta di dolore sui polsi, dove si tendeva il tessuto cicatriziale ancora fresco. Si raggomitolò stringendo a sé il mucchietto d’ossa di cui era composto, contorcendosi silenziosamente. Ed era allora che ricominciò a vagare coi pensieri, stavolta non nella fantasia, ma nei suoi ricordi.
    Pensare a quanto era successo. Lo rivive.
    Se si ha paura di qualcuno, lo si odia, ma non si può fare a meno di pensarci. Le immagini di sangue faticavano a pulirsi dalla sua mente e si ripercorrevano all’infinito nella sua mente sotto un proiettore dei ricordi. Quando il regime era giunto la pioggia aveva iniziato a battere sui tetti delle villette a schiera scivolando sul suo volto con fredde lacrime.
    E da allora non aveva smesso.
    Le grandi nubi si condensarono intorno alle minuscole particelle. Dadrian si volse per guardarle, cupo e deciso. Nel suo sguardo c’era da sempre qualcosa che lo faceva spiccare a differenza di tutti gli altri, qualcosa di invisibile, di spietato, di freddamente calcolato. Era come un dinosauro fuori dal proprio tempo. Non grosso, ma pur sempre un animale superato, impacciato. E come ogni animale costretto quotidianamente a lottare per la sopravvivenza, forse pericoloso. Cliccando su play, ricordando gli insegnamenti di Nice, il giovane sospirò. Quel rumore bianco era pura magia, come la carta stagnola, le cuffiette e il caffè in cialde. Riuscì a far scomparire i rumori della città. Clacson, camion dell’immondizia, sirene: bastò una playlist sul telefono regalatogli dalla ragazza per zittirli tutti. Quando il rumore bianco riempì le sue cuffie, poteva essere ovunque —— o da nessuna parte —— , ed era l’unico modo per non pensare.
    Quando uscì sulla strada parallela a quella di arrivo, la pioggia iniziò a battere con più insistenza e la busta gocciolò ad ogni passo. Un topo trotterellò pigramente sull’asfalto crepato. Dall’altra parte c’era la carcassa arrugginita di una Humber del 2013, appoggiata sui mozzi delle ruote. Era stata saccheggiata completamente, perfino dei cuscinetti delle ruote e dei supporti del motore, ma la polizia non l’aveva ancora portata via. Dadrian camminava in fretta, senza guardarsi intorno. L’aria era sulfurea, pesante. Quattro moto gli passarono accanto, rombando, e qualcuno provò ad approcciarlo per un grammo di cocaina. Dopo cinque chilometri di strada giunse finalmente e, dinnanzi a lui, la High Street faceva capolinea come l’ultima ancora di salvezza, e la prima. Erano le 23.00 e il baratro in cui era caduto il cielo, percorso da continui brontolii, era tempestoso e affascinante. Il tuono iniziò a battere le mani da qualche parte al di sopra delle nuvole. Una saetta forcuta calò più avanti.
    William Barrow.
    Dalle informazioni raccolte nel dossier, Thanatos, sapeva il luogo esatto. Nonché gli orari di lavoro, di stacco, di uscita di William. La foto più recente lo ritraeva mentre il giovane impugna la sua bacchetta. Così mentre il vento gelido si innalzava smuovendo i rami spogli degli alberi rachitici lungo la ormai desolata via , trascinando la spazzatura raccolta nei canaletti di scolo in volteggio sulla strada, Dadrian osservava curioso le foto del suo obbiettivo. Aveva quasi la sua stessa età: sarebbero stati buoni amici, pensò, in un mondo parallelo o in ben diverse circostanze. Un peccato, ma con essi ormai il Byrn ci camminava a braccetto. Attese, con pazienza.
    Perché proprio William Barrow?
    Thanatos lo sapeva ma non lo ricordava. La memoria poteva cambiare la forma di una stanza, il colore di una macchina. I ricordi potevano essere distorti; erano solo una interpretazione umana, non erano la realtà; irrilevanti rispetto ai fatti ma la sensazione di non ricordare, come se un pezzo della sua anima gli fosse stata celata dietro un muro che al momento stava per crollare, lo stava torturando.
    Ore, ma anche giorni prima, aveva urlato contro quel muro ma fu tutto inutile. L’unico modo era estrapolare informazioni su William la cui figura era un gran mistero.
    Quei pensieri si dissolsero nell’aria come il fumo della sigaretta che ben presto cadde a terra e venne inglobata nella più totale oscurità del vicolo in cui Thanatos era nascosto. Una porta si aprì dall’altra parte della strada e la caccia iniziò.



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    Edited by mephobia/ - 14/1/2018, 17:02
     
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    Dondolò pigramente sulle gambe della sedia, gli occhi chiusi e le dita intrecciate sul ventre. Ancora non comprendeva il motivo per il quale si fosse intenzionalmente offerto di lavorare come assistente di strategia, perfettamente consapevole di quanto il docente responsabile della materia fosse un perdaballe assenteista: le lezioni, ovviamente, le teneva tutte Will, che dietro la cattedra era credibile quanto un armadillo alla guida. Rispose con il cenno del capo a quei (pochi) studenti che furono così gentili da salutarlo, ma ancora non si sprecò ad aprire le palpebre: se l’avesse fatto, sarebbe stata la fine. Quelle piccole arpie, creature demoniache con corpi adolescenziali ed ormoni dediti alla venerazione di Satana, non attendevano altro che il termine della lezione per tempestarlo di domande idiote, inchiodandolo dietro la scrivania per più tempo di quanto gli fosse concesso sprecare. Avrebbe potuto liquidarli con un bel piazzato dito medio, sbattersi la porta alle spalle chiarendo che il suo orario di lavoro fosse finito, ma non l’avrebbe mai fatto, Will: nel suo mondo - nel suo mondo - sbagliato e distorto di vivere, oscillando da un estremo all’altro nel tempo di un battito di cuore, aveva un sincero bisogno che gli studenti comprendessero cosa li attendeva fuori dalle mura del castello. Che fossero preparati. Aveva giurato a sé stesso che non ci sarebbero più stati William Barrow, al mondo: che razza d’uomo sarebbe stato, se non avesse fatto quanto in suo potere per mantenere quella promessa. Il che, tristemente, significava ingoiare bile e colorito turpiloquio in favore di un assonnato sguardo di sufficienza accompagnato da un linguaggio lecitamente volgare, ma non da denuncia – piccoli progressi. In perfetto silenzio, tese le orecchie attendendo l’agognato momento nel quale tutti avrebbero, finalmente!, varcato la soglia dell’aula, levandosi dalle palle una volta per tutte. Sognava già il momento di uscire dal castello, fumarsi una meritata sigaretta, e possibilmente rinfrescarsi la gola con una bella birra gelida. E poi, li sentì. Un paio di piedini si soffermarono al di là della scrivania, dove rimasero immobili. William, da bravo Barrow ch’era, finse di non essersene accorto – così come ignorò il pungente profumo alla fragola e zucchero filato che gli si impigliò alle narici, suscitando nell’ex Corvonero il naturale istinto di premere le mani sul naso. La ragazza, perché Will sapeva perfettamente di chi si trattasse, si schiarì allegramente la gola – e quando William persistette nell’ignorarla, s’intestardì maggiormente in quel versetto stridulo ed altamente irritante.
    Perché a lui.
    All’ennesima grattata di gola, l’assistente di Strategia non ne potè più – così, con la stanchezza derivata dal sapere cosa l’avrebbe aspettato, aprì gli occhi. «beech.» l’ultimo sussurro disperato d’un uomo alla ghigliottina. Ma lei, come ogni bionda che si rispettasse (nonché Beech, razza strana), tralasciò volutamente la risposta poco amichevole di Will, rispondendo invece con un brillante e perfetto sorriso confetto. «professor barrow, la trovo particolarmente in forma oggi – ha cambiato balsamo? I suoi capelli sono così luminosi!» «ego.» «… anche se devo dire che non mi convince la maglietta, magari un tocco di colore aiuterebbe, ha…» «ti supplico.» «…provato con, non so, un foulard? Ne ho giusto qualcuno qui in bor-» «no.» ricadde pesantemente con le gambe della sedia sul pavimento, i palmi a sbattere con rassegnazione sulla superficie di frassino del tavolino. Scosse il capo, un sopracciglio inarcato. «non so se jeremy preferisce i capelli sciolti o legati. Sono suo cugino, non sua -» rip Lililith. La voce scemò finchè non divenne nulla, Will sospirò stringendosi nelle spalle. «chiedilo a leroy, so che hanno un rapporto intimo.» un po’ stronzetto, il Barrow, nel sottolineare la posizione di favore di Archibald – era più forte di lui: ci godeva, sottilmente e sadicamente, nello sbriciolare i sogni adolescenziali di e vissero tutti felici e contenti. Non sarebbero durati a lungo in ogni caso, tanto valeva svolgere precocemente un lavora che s’aveva da fare. «non quanto il nostro.» rispose piccata la sorella di Jaden, lisciando invisibili pieghe nella gonna. Non era davvero l’uomo adatto per consigli di cuore, William Yolo Barrow. E, sinceramente, nessuno lo pagava per occuparsi delle relazioni sociali di Jeremy Milkobitch, il che azzerava qualsivoglia interesse potesse nutrire nella causa: ciatellare con Niamh e Mitch degli ultimi gossip del mondo magico era un conto, ma fare da Cupido non era nelle sue corde. Quindi: «WAAAAALSH. WAALSH.» Lo sapeva che Maple era da quelle parti, riusciva quasi a sentire l’odore di erballegra e spezie che da sempre la seguiva. «WALSH PORTA QUI IL TUO CULO O CANCELLO GLI ALLENAM- oh, toh.» Bastava anche solo accennare al quidditch, con Maple Victoria Walsh, per ottenere tutta la sua più completa attenzione – e chiunque la conoscesse sapeva quanto difficile fosse attenere la totale attenzione della Tassorosso. «se ti porti via la beech ti offro una canna.» «ma lei è un professo-» «andata.» Quant’era bello, talvolta, non avere una morale.
    Quando finalmente fu libero di abbandonare l’aula, era già sera - ovviamente. Avrebbe dovuto andare al quartier generale della Resistenza a fare qualcosa di utile, o almeno fingere di farlo, ma quel giorno decise di aver già fatto abbastanza volontariato anche senza presenziare fra le file dei ribelli. In ogni caso, di lui, non avevano più bisogno da un pezzo. Si grattò distrattamente la nuca, la celeberrima sigaretta spenta che mai abbandonava la sua bocca a pendere dalle labbra; mentre percorreva i corridoi di Hogwarts cercando di evitare quanto più contatto umano possibile, alzò una mano in segno di saluto verso Noah Parrish, il quasi assistente della biblioteca: da come osservava la ragazz(ona)ina che si dava da fare fra le file di libri, dedusse che non mancava così poco alla sua promozione ufficiale. Forse avrebbe dovuto dissuaderlo da qualsivoglia moto omicida alimentasse il pigro sorriso sulle labbra dello special, ma… naah. C’erano altri adulti responsabili ad Hogwarts, che ci pensassero loro a prevenire assassini. William Yolo Barrow era un uomo impegnato, mica (ma anche) cazzi. Fuori dai cancelli di Hogwarts, finalmente, prese la scatola di fiammiferi ed accese la tanto bramata sigaretta, gli occhi chiusi in pura estasi religiosa. In quei momenti, fragili e quotidiani, Will aveva la chiara e netta percezione di quanto la vita fosse breve, puro insieme di cagionevoli istanti già labili nella memoria. Sarebbe parso un pensiero ovvio ed assai stupido su chiunque, ma il Barrow, in quei ragionamenti, stava a pennello: era uno di quei ragazzi con i quali sarebbe stato possibile parlare per ore del nulla, il semplice arrovellarsi dietro situazioni utopiche ed ideologie sconnesse. Un utopismo che, anni prima, aveva portato alla nascita della Ribellione.
    A qualcosa serviva, essere dei sognatori.

    «mitch, mi annoio»
    «sto lavorando» Senza religione.

    «niv, andiamo a picchiare qualcuno?»
    «meh, è uscita la nuova stagione di orange is the new black» Senza rispetto.

    «ak-»
    «non mi va» Non che si fosse aspettato una risposta differente.

    Così si ritrovò, le dita intrecciate in grembo, al Ministero Magico. Secondo quale logica non ci era dato saperlo, era pur sempre Will: quale ribelle, quando si annoiava, non frequentava il livello dei Pavor? Ma era lì in borghese, il Barrow. Non era un ribelle, solamente un biondo padre che cercava altri biondi padri con i quali andare a bere qualcosa – era a quello che servivano gli amici, no? No. Aver passato serate a riflettere sulla vita (quale) sul futuro (ma dove) e sulle tette di Akelei (sempre) aveva fatto credere all’ingenuo William Yolo Barrow di aver trovato anime affini. E cosa veniva a scoprire, la bocca dischiusa in segno di sorpresa, da una Lowell in tenuta da lavoro alta quanto un dattero ed armata come un membro dell’Isis?
    «ma come è nato.» si portò una mano al cuore, le dita a premere sul costato. Davvero? Era nato il figlio di Al e nessuno glielo aveva detto? Neanche quella rompi coglioni della sorella dei suoi cugini? I suoi colleghi a Hogwarts? NIAMH LA PORTINAIA DI PALAZZO?
    Incredibile.
    «è una domanda retorica, spero.» tutto il senso dell’umorismo di Nathaniel, mh. Reclinò il capo, le sopracciglia corrugate su un paio di pigri occhi cobalto. «e dove sono tutti?» Jericho Lowell fece spallucce, le labbra piegate in un broncio annoiato. «non è un mio problema.» Ma che… maleducata. Non ci poteva credere che i suoi compagni di tette, quelli diplomati e che non poteva (forse?) rapire da Hogwarts, erano a fare i badger. Eugene Jackson? Come aveva potuto tradirlo così. Fece un offeso passo all’indietro, inspirando dalle narici. «devo trovarmi dei nuovi amici.» espirò greve, il petto a svuotarsi e le spalle ad afflosciarsi con rassegnata tristezza. Non c’era pace, per la triste giornata di William Yolo Barrow – neanche l’ombra di un sollievo.
    Beh. Sarebbe andato a bersi una birra da solo, come ogni vero macho, e poi sarebbe comunque andato a bussare, kind of, alla porta di Akelei Beaumont: tanto sapevano entrambi che un non mi va durava poco, quando si trovavano nella stessa stanza. Oppure sarebbe morto nel tentativo, gli sarebbe andato bene comunque: sapeva accontentarsi, Will.
    Si ritrovò a vagare, le mani in tasca e la sigaretta accesa fra i denti, fra le vie di Diagon Alley. Come se non fosse bastata la giornata all’insegna del mainagioia, il cielo sopra di loro pareva voler scaricare la sua frustrazione da un momento all’altro, rombi lontani a rimbalzare da una nuvola all’altra come in un troppo adulto gioco da bambini. Passò per l’aetas evitandosi così il luna park e lo zoo, i bambini non lo facevano impazzire, e con distratta attenzione s’immise nella via principale della cittadella magica. Al contrario dei suoi compagni di scuola quando ancora era uno sbarbatello studente di Hogwarts, non aveva mai trovato nulla di entusiasmante, ad Hogsmeade. Non aveva mai trovato nulla di interessante, punto: era stato solamente un ragazzo viziato fra altri centinaia di ragazzi viziati, dedito a passatempi dissoluti per silenziosa vendetta nei confronti delle corde d’oro che tutti fingevano di non vedere, e con un più confortante e necessario bisogno di rimanere da solo – in biblioteca, nella propria sala comune, negli spalti del campo da quidditch quando finiva una partita. Il piacere della compagnia era una scoperta relativamente recente, nella vita di Will. Era sempre stato un lupo solitario, dove i denti erano i suoi silenzi e gli artigli le mani nascoste nelle tasche. Fu in quel momento, che si accorse di qualcosa di strano. Non fu una vera percezione, concreto pericolo che rizzava i peli sulla nuca, quanto più una… flebile sensazione, un prurito al palato. Corrugò le sopracciglia, un sospiro dedicato al nulla a sbriciolarsi nella pesante aria inglese: pavor, fu il suo primo pensiero. Non sarebbe stata la prima volta che indagavano su di lui, e di certo non sarebbe stata l’ultima – e, come sempre, non avrebbero cavato un ragno dal buco. Dovevano davvero, davvero imparare a farsi i cazzi propri. In quel momento, in ogni caso, non aveva nulla da nascondere – si fottessero, allora. Spense la sigaretta sotto lo scarponcino, le dita a grattare il sopracciglio destro. Spalancò le porte del locale, un pub del tutto anonimo, e con la stessa sciolta non curanza percorse il corridoio del bar, giungendo infine al bancone.
    Tutto nella norma.
    Attese paziente, i gomiti poggiati sul legno e le dita a tamburellare sui sotto bicchieri di fronte a sé, i piedi intrecciati sul supporto dell’alto sgabello. Si umettò il labbro inferiore con la punta della lingua, alzando un indice per indicare al barista di avvicinarsi. «fai… » reclinò il capo, percependo poco distante la porta del locale che s’apriva. Un pigro sorriso gli curvò le labbra, la mano ad infilarsi fra i corti ricci biondo cenere. «due birre, grazie bello.» senza voltarsi, tamburellò sullo sgabello di fianco al proprio con le dita, invitando il suo nuovo amiko, a cui ancora dava le spalle, a prendervi posto. «non sai che lo stalking è un reato…» iniziò, arcuando tediato le sopracciglia, lanciando un’occhiata di sottecchi da sopra la spalla per individuare il nuovo invitato alla festa.
    Ed allora la voce gli morì in gola, gli occhi appannati da quelle memorie che da sempre affogava in droga ed alcool, lasciando che il passato scivolasse sulle ferite come acqua sotto la doccia. I suoi amici, i suoi sacrifici – tutto ciò che aveva perso per divenire quel che era diventato.
    Uno spreco – d’ossigeno e di vite.
    Si risolse in un sorriso fintamente rilassato, l’angolo destro delle labbra piegato verso l’altro. «thanatos,» pregna d’ironia, la voce di William. Impossibile che il ragazzo potesse comprenderne l’origine, ma la cosa non turbava il Barrow quanto avrebbe dovuto. Era sempre stato quello del fallace e peculiare sarcasmo, William Barrow. «qual buon vento?» Una domanda innocente, ed una pigrizia che accendeva, invece, tutti i campanelli d’allarme di Will: perché poteva essere una coincidenza, certo.
    Ma poteva non esserlo affatto.
    do it for the aesthetic -- ms. atelophobia
     
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    Era un gioco. Era tutto differente, come se le condizioni in cui navigava il suo panorama interiore andassero a braccetto con quelle in cui si ritrovava lui stesso. Quell'ambiente non era dotato di una vita propria, mutava solo e soltanto in relazione a ciò che compiva il suo legittimo proprietario, ma nonostante quella consapevolezza, Thanatos non poteva non percepire un senso di disagio aggrapparsi al suo animo come fosse un punto stabile, una sorta di territorio da colonizzare. Era una sensazione che lo pervadeva ogni volta che si addentrava tra le fronde ed il verde di un posto isolato, una solitudine non tanto malinconica quanto disarmante, il presentimento di essere osservato da migliaia di occhi che, a prima vista, sembravano non esserci. I Tedeschi erano soliti definirla waldeinsamkeit, un ideale ascetico, che avrebbe dovuto portarlo a distaccarsi completamente dal mondo, con il conseguente perseguimento di una perfezione interiore che, si sapeva, non avrebbe mai raggiunto. La sua mente era sempre stata come una malattia mortale, un groviglio di sentimenti tenuti assieme all'interno di una scatola sepolta sotto metri e metri di finto amore per se stesso e modi più o meno educati che erano stati inculcati nella sua mente a suon di calci e pugni. Non era mai stato avvezzo ad aprirsi, l'unica volta che lo aveva fatto era stato mandato dritto dritto da uno strizzacervelli, e ancor meno era stato avvezzo ad accettare sguardi di compassione da parte degli altri. Li detestava. Detestava quel finto buonismo, quell'improvviso interesse nei suoi confronti, quella spasmodica ricerca di informazioni apparentemente portata avanti per un'opera di bene, ma in realtà stimolata dal vizio di non riuscirsi a fare i cazzi propri - e lui detestava altamente chiunque osasse andare oltre la propria individualità ed interessarsi in una maniera quasi spasmodica a quella degli altri, magari pretendendo anche che questi ultimi sorridessero teneramente e si lasciassero psicanalizzare senz'alcun problema. Non era così che funzionava. Non con lui, perlomeno. Ci volevano certamente molte più cose, rispetto a delle insulse paroline dolci e degli sguardi docili.
    Ma come tutti anche il mercenario celava, nella sua mente, attimi di debolezza in cui non riconosceva neanche i suoi stessi ideali. Aveva sempre avuto l'impressione di camminare su un pavimento di vetro. Scricchiolante, instabile, pericolosamente scheggiato. Sarebbe bastato un nonnulla, come un graffio fin troppo profondo, ed ecco che tutto sarebbe andato in frantumi, lasciandolo privo di una base su cui appoggiarsi. Probabilmente quella l'aveva persa da tempo; o forse non l'aveva mai posseduta per davvero. Forse era sempre stato costretto a galleggiare nel vuoto senza aver, tuttavia, gli strumenti per farlo. D'altra parte, era quello il destino riservato ai bastardi come lui. Un padre che lo aveva disconosciuto, e che lui, d'altra parte, non aveva mai riconosciuto come il proprio; una madre - ammesso che fosse lecito definirla tale - che aveva aperto gli occhi fin troppo tardi, una madre che, beh, era semplicemente scappata via, scomparendo nel nulla come fosse nebbia insieme a suo marito, scordandosi di quel bambino con gli occhi e la pelle troppo chiara. Forse era vero che la vita non fosse nient'altro che una lunga, estenuante processione di maschere, un covo di anime in pena che altro non erano che delle semplici comparse all'interno di uno spettacolo molto più grande di loro. Eppure, pretendevano puntualmente di scavalcarsi a vicenda, di accaparrarsi quel posto d'onore cui lui, francamente, avrebbe volentieri rinunciato. Non perché non fosse in grado di reggere un simile ruolo, non perché fosse una corona troppo grande per la sua testa; bensì perché avrebbe preferito essere un'insulsa ombra, di quelle che, controluce, si intravedevano sul pavimento e sui muri, ma che erano capaci di scomparire con altrettanta facilità. Perché aveva sempre preferito starsene in disparte, nascondersi tra la gente, carezzando con le proprie dita quegli ultimi strascichi di umanità che prima o poi sarebbero stati inevitabilmente corrotti da tutta quell'impurità e di cui, lo sapeva, avrebbe sempre e comunque bramato il contatto, nonostante tutto.
    Eppure, mai si sarebbe aspettato di sfiorare qualcosa che gli avrebbe dato la certezza che, quella, era semplicemente un’illusione; una leggerezza che, stranamente non gli aveva recato nessun fastidio. Fino a quel momento. Aveva sempre diffidato di quella categoria di persone, giudicandola o ingannevole o maledettamente debole, ma in quel caso il suo intelletto lo indusse ad astenersi da qualsiasi pensiero. Probabilmente William non era peggiore di lui; bensì, semplicemente, diverso. Entrambi avevano obiettivi diversi, vite diverse, ideali diversi. Dadrian riusciva a percepire la sua poca delicatezza che usciva da tutti i pori, una presenza che probabilmente da lontano non avrebbe mai individuato, ma che da vicino si rivelava essere, forse, quella più interessante di tutto lo spettacolo. Era un po' come una rosa: dai colori accesi, piacevoli come pochi, pregni di sfumature meravigliose e con un profumo delicato, di quelli che si insinuavano gentilmente nelle narici dei più, senza pretendere di sopraffarle ma che, come fiore, riusciva anche a rivelarsi come uno dei più pungenti quando si cercava di avvicinarsi troppo.
    Un sorriso, di quelli falsi calorosi, gli increspò le labbra, mentre una mano andò a posarsi, seppur per qualche secondo, sulla nuca.

    « Stalking, che gran parolone. Ero solo curioso, più che altro, di sapere dove questa notte ti avrebbe portato, William Barrow. La tua fama ti precede: si dice che molto spesso non c’è divertimento senza il tuo naso storto, perciò, non potevo perdere quest’occasione dato che ero di passaggio. »

    Le iridi chiare carezzarono per un attimo la superficie legnosa del tavolo, per poi alzarsi e sfiorare, invece, la figura di Will, che oramai sembrava aver perso quel cipiglio rigido, indice più che evidente di disagio nonostante cercasse di celarlo dietro il suo solito schermo di ironia e sarcasmo. Non erano tanto diversi, in quello. E fu alquanto sorpreso nel sapere di esse stato visto. Stava per caso perdendo colpi?

    « Credo proprio che sia stato il destino a farci incontrare, questa sera. Tu credi al destino, mio vecchio amico? D'altra parte, possediamo tutti le medesime prove, ma modi differenti di analizzarle. Il che è un bene, in un certo senso: perlomeno, quell'insieme di punti di vista sarebbe capace di fornirci una rappresentazione globale di ciò che intendiamo studiare. Io, sfortunatamente, credo soprattutto al presente e al passato anche se, ahimè, credo che quest’ultimo mi sia stato rubato. »

    Era sempre una questione di sfumature: tra il grigio e il nero ne giacevano altre che spesso e volentieri passavano in secondo piano, ma che comunque possedevano una loro ragion d'essere. Rise di gusto quando le labbra finirono di pronunciare quelle parole: non era una situazione ilare, tutt’altro, ogni muscolo di Thanatos era teso e fremeva, bramoso di sangue.

    « Allora, che se fossi in me, in una situazione di totale vuoto di memoria in cui l’unico ricordo che hai sono dei profondi occhi color ghiaccio, schegge di diamante in un freddo oceano, cosa faresti? »

    La leggerezza con cui parlava era qualcosa di inedito, completamente estranea a quell'animo a lungo tormentato e che non faceva altro che auto-limitarsi sotto tutti i fronti. Assecondò la propria risata, sentendo quasi la mascella fargli male, anche quando il barista prese a parlare, chiedendo se volesse qualcosa da bere.

    « Andiamo a fare un giro, William? Odio quando la gente ascolta delle conversazioni privante. »

    Riusciva a ricordare, Dadrian, un freddo inverno nella tenuta Byrn. Un bambino dalle ginocchia sbucciate che mostrava la sua cameretta ad un altro bambino, più alto di lui di qualche centimetro: giocarono per tutta la sera. Entrambi nascondevano qualcosa nei loro animi fin troppo giovani per conoscere davvero il mondo. Thanatos apprezzava la sua compagnia, cosa che non gli capitava molto spesso. Ma esso non era l’unico ricordo nella mente contorta dell’ex serpeverde. Hogwarts, uno degli ultimi anni, non ne era certo, di nuovo quel bambino ma oramai era cresciuto, l’adolescenza orami iniziata già da un pezzo così come il suo spirito di ribellione. Avrebbe cambiato il mondo, così diceva quel bambino. Thanatos era fin troppo impegnato a pensato a come lo avrebbe distrutto, quel mondo. Litigarono e, l’unico ricordo che ebbe di quel bambino, fu che quel bambino era William.

    « Mi sei mancato, vecchio amico. »




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    28.05.2017 | strategy's assistant | 1993's | war hero
    Aveva riportato lo sguardo di fronte a sé, l’abbozzo di un sorriso ancora a premere sugli angoli della bocca. La voce del Byrn gli giunse distorta ed ovattata, ma abbastanza nitida da permettere alla smorfia divertita di farsi più pronunciata. « Stalking, che gran parolone. Ero solo curioso, più che altro, di sapere dove questa notte ti avrebbe portato, William Barrow. La tua fama ti precede: si dice che molto spesso non c’è divertimento senza il tuo naso storto, perciò, non potevo perdere quest’occasione dato che ero di passaggio. » Eau la, quanti complimenti. Ruotò sullo sgabello in modo da poggiare la schiena al bancone, le dita intrecciate pigramente sullo stomaco mentre sollevava gli appannati occhi azzurri sul suo interlocutore. «ottima scelta» dovette convenire, strascicando le parole fra denti e lingua. Beh? Era vero: senza i Barrow, era sempre un divertimento a metà. Dubitava che quello fosse il motivo che avesse spinto l’amico all’interno del bar, ma non era ancora così sbronzo da fare domande stupide le cui risposte non gli sarebbero piaciute. «dicono tante cose di me – la maggior parte non particolarmente lusinghiere, eh» si strinse nelle spalle arcuando un sopracciglio. «ma tutte vere.» triste, ma almeno sincero. William Yolo Barrow era quel genere di ragazzo che piaceva sempre un po’ a tutti: abbastanza ricco e purosangue per l’élite dei maghi con la puzza sotto il naso, ed abbastanza idiota da essere apprezzato dalle fasce sociali più ”basse” - un dono ed una maledizione. Perché , un Will piaceva sempre, ma mai quello vero: donava sempre solo un pezzo di sé stesso, consapevole che l’altro lato sarebbe stato indigesto. Non era falso, semplicemente selettivo. Sapeva adattarsi al suo pubblico, altrimenti non sarebbe giunto a diventare l’uomo che era. « Credo proprio che sia stato il destino a farci incontrare, questa sera. Tu credi al destino, mio vecchio amico? D'altra parte, possediamo tutti le medesime prove, ma modi differenti di analizzarle. Il che è un bene, in un certo senso: perlomeno, quell'insieme di punti di vista sarebbe capace di fornirci una rappresentazione globale di ciò che intendiamo studiare. Io, sfortunatamente, credo soprattutto al presente e al passato anche se, ahimè, credo che quest’ultimo mi sia stato rubato. » Rimase impassibile ad osservare il giovane, la lingua a picchiettare distratta sull’arcata superiore. Piegò il braccio per lanciare un’occhiata all’orologio – non era troppo presto per quel genere di conversazioni filosofiche? Aveva bisogno decisamente di più birra e più droga nell’organismo, prima di affrontare il senso della vita. Arricciò il naso e piegò il capo sulla spalla destra, labbra a schioccare fra loro: gli aveva solo chiesto qual buon vento l’avesse portato lì, per carità divina. «mi bastava un mi annoiavo» un debole sorriso un po’ meno divertito a sporcargli la bocca, prima di rivolgere un ringraziamento ed un cenno con il capo al barista quando la birra giunse, dorata e schiumosa, fra le sue mani. «il passato è sopravvalutato» commentò atono, avvicinando la pinta alle labbra. «e credo che il destino sia una stronzata, ma ehi, bello» alzò il boccale nella sua direzione in un brindisi, gli occhi ridotti ad una ridente fessura. «il mondo è bello perché è vario» lungi da Will giudicarlo, se lui credeva nel Fato – e se credeva di coglierlo in fallo con quella non troppo sottile frecciatina, aveva decisamente scelto il vecchio amico sbagliato: era stato leader della Resistenza, se ogni volta che qualcuno avesse nominato i ribelli in sua presenza fosse sobbalzato od avesse dato segno di sapere qualcosa, avrebbe rischiato la vita della sua gente. William Yolo Barrow era l’imperfetta, che la perfezione stonava un po’ ovunque, tela bianca sul quale ciascuno poteva leggere quel che più gli aggradava. « Allora, che se fossi in me, in una situazione di totale vuoto di memoria in cui l’unico ricordo che hai sono dei profondi occhi color ghiaccio, schegge di diamante in un freddo oceano, cosa faresti? » Ah, ma allora Thanatos sapeva, eh? Beh, il buon Barrow avrebbe comunque continuato a fingere non curanza, almeno finchè reagire non fosse stato strettamente necessario. «penserei di avere una cotta» rispose semplicemente, la lingua a raccogliere la spuma incastrata sul labbro superiore, prima di sorridergli pregno d’innocenza. Che bello, era sempre entusiasmante quando due vecchi amiki si incontravano a causa del destino in una catapecchia di Londra a parlare di infatuazioni! «bisogno di consigli in amore? Basta chiedere» EH, lui sì che in relazioni era una cima – si vedeva dalle tristi scelte di vita e lenzuola, ciauz Ake xoxo. Malgrado Thanatos fosse giovane, la sua risata aveva un qualcosa di antico ed inquietante che risultava poco piacevole, vetro ad infrangersi ineluttabile sul marciapiede come il Fragolino e le speranze della Castaraduni. Fu comunque educato, in virtù del loro vecchio legame, nell’unirsi alla risata suonando decisamente più leggero e naturale del collega. «andiamo a fare un giro, William? Odio quando la gente ascolta delle conversazioni privante. » Eeeeh beh. Schioccò la lingua sul palato, e prima di rispondere bevve un altro sorso di birra. Come poteva rispondere, senza suonare offensivo o volgare, ”sti gran cazzi”? Dopo la /faccenda losca/ che Thanatos, evidentemente, non aveva poi così dimenticato, i rapporti fra i due erano andati ad incrinarsi passando da amicizia a cordiale tolleranza. Finita la scuola, poi, le loro strade s’erano divise: non aveva più saputo nulla del ragazzo, e per quanto ne sapeva, poteva tranquillamente essere diventato il braccio destro di un qualunque spietato serial killer – se non il serial killer stesso.
    Quindi, insomma. «naaaah, troppa fatica.» liquidò la faccenda con un morbido cenno della mano, afflosciandosi maggiormente sullo sgabello per rendere bene l’idea di quanto gli pesasse il culo - o almeno, farglielo credere. Non ci pensava neanche ad uscire in sua compagnia: non era così stupido da farsi trascinare in qualche vicolo buio dove il Byrn avrebbe potuto ucciderlo con le mani legate dietro la schiena. Lo so, è sempre scioccante scoprirlo, ma Will non era stato smistato nei Corvonero per errore. Umettò le labbra, già pronto a congedarlo con una scusa qualsiasi, quando: « Mi sei mancato, vecchio amico. » e malgrado Will sapesse che si trattasse solamente di una frase di circostanza, la tipica sentenza di due compagni che non si vedessero da tempo, non potè che soffocare il ciaone già a premere sulla punta della lingua.
    Perché erano stati amici, loro due. Abbastanza da spingere un adolescente William a confidarsi, a suggerirgli a bassa voce il segreto - e la reazione del Serpeverde, gli aveva spezzato il cuore. Friends can break your heart too, come citava il vecchio detto. Razionalmente sapeva che sarebbe stato più saggio tagliare la corda, salutare rapido con la manina e sperare di non incontrarlo più – razionalmente.
    Ma. Perché non darsi un’altra opportunità? il Barrow era il primo a sapere quanto le seconde possibilità fossero importanti – inoltre, avrebbe potuto amichevolmente convincerlo che ciò che ricordava non fosse reale, qualunque cosa fosse. «perché non ti siedi e non ti prendi una birra? Ciarliamo un po’ dei vecchi tempi, mi racconti cos’hai fatto nel mentre – buon Dio, non ci vediamo da così tanto»
    Oh. Uno ci provava sempre.

    do it for the aesthetic -- ms. atelophobia
     
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3 replies since 27/5/2017, 23:56   337 views
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