timing has never been our strong suit

cranes

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    Mirror mirror on the wall
    Who's the baddest of them all?

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    death eater. special: heidrun ryder crane
    maybe i'm just too fucking complicated for anyone to love
    21.05.2017 | mimesis | 1996's | fucked up | huntress
    Deglutì, le palpebre ancora chiuse. Si concentrò sul proprio respiro, lasciando che l’aria viziata le impregnasse i polmoni – quindi, così come aveva cominciato, semplicemente smise. Era il metodo più efficace per distinguere un sogno dalla realtà, smettere di respirare: se non sentivi l’esigenza d’incamerare ossigeno, probabilmente stavi sognando. Con Heidrun Ryder Crane, in verità, non si poteva mai dire. Per puro spirito di sfida all’esistenza stessa, sarebbe stata in grado di convincersi di non aver bisogno di respirare, finché non fosse inevitabilmente svenuta: fortunatamente, quello non era il nostro caso. Quando il petto non le bruciò alla disperata ricerca d’aria, diede spazio anche al resto dei sensi – udito, tatto. Sentiva ogni forma levigata ed evanescente, chiaro segno che, la sera prima, non solo aveva preso le pasticche, ma era anche andata a dormire ubriaca: quelle erano le notti in cui la Crane non sognava, sollievo fra incubi di sangue e caos. Un vero peccato che ci fosse qualcun altro, a sognare per lei. Sfregò il viso contro la superficie sul quale era poggiata; seppur non ne avesse una chiara percezione, come spesso accadeva nel mondo onirico, fu il suo sé interiore a darle le informazioni delle quali necessitava: velluto. Una volta aperti gli occhi, avrebbe scoperto che si trattava di velluto borgogna, foggia da due soldi con bordi consunti. Come faceva a saperlo? Perché sapeva esattamente, Run, dove si trovava.
    Un sorriso curvò pigro le labbra della mimetica, le palpebre socchiuse a lasciare un ritaglio di visuale dal quale mise a fuoco un lembo di soffitto a volte. Le gambe erano mollemente piegate sulla poltrona accanto, la testa leggermente reclinata per poter vedere il palco. Quante volte era già stata, la Crane, in quel teatro? Troppe, e mai abbastanza. Se avesse potuto scegliere un loop onirico nel quale rimanere imbrigliata, avrebbe sempre scelto quello – la parte migliore, era che il suo ospite non si era mai accorto della sua presenza. Heidrun sedeva in platea, ombra fra le ombre, a fondersi nell’opaca oscurità del pubblico, e da lì osservava l’intero spettacolo. Non aveva mai chiesto al diretto interessato, ma dalle informazioni che era riuscita a carpire, doveva trattarsi di un remake di una vecchia recita scolastica – abiti da bambini, ma corpi ora adulti ad indossarli. Esilarante, probabilmente: la mimetica, distratta da altro, non aveva mai prestato particolare attenzione a quei dettagli. Il suo interesse era tutto, e completamente, rivolto a…
    «davvero, jackson? DAVVERO?» Il perché la maestra delle elementari di Eugene Jackson, nel subconscio di lui, fosse rappresentata da Jaden Beech, avrebbe dato infinità di materiale a Sigmund Freud. Run si limitava ad apprezzare la scelta, le iridi verdi a scivolare sul Pavor; nulla cambiava mai in quel sogno, e malgrado Heidrun sapesse cosa sarebbe accaduto di lì a breve, era sempre una sorpresa esserne silenziosa spettatrice. Una prima volta fra cento volte. Eugene, al centro del palco, osservò con cipiglio confuso la Beech. «cosa?» Quanto lo amava. Era difficile dimenticarsene, ma ogni volta era sempre una novità rendersi conto di quanto, davvero, amasse il suo coinquilino. «un incubo?» Quello non se l’era aspettato. Colta alla sprovvista, sobbalzò lanciando un’occhiata al sedile accanto al suo, ed in un automatico il gomito scattò a colpire il fianco scoperto di Gemes Hamilton. «abbassa la voce» ringhiò in un sibilo, sguardi preoccupati al palcoscenico. Era la prima volta in sei mesi che allo spettacolo di un non più troppo bambino Eugene Jackson, presenziavano entrambi i membri del Trio Fortuna. Per quanto Run amasse le soprese, preferiva sempre essere avvisata – il che le rendeva non più sorprese, lo so, ma era dannatamente brava a fingere lo fossero. «perché dovrebbe essere un incubo?» domandò quindi, sotto voce, ruotando gli occhi sul telecineta. «perch è nud- ah.» Vide la consapevolezza di quella risposta, a portata di mano sin dal principio, farsi strada nel sospiro fra i denti del moro. «jackson: tipico» che pareva non fosse affatto una spiegazione, ma invero diceva tutto. Eugene Jackson, Pavor per mancanza d’idee e mago abusivo a New Hovel, svettava al centro del palcoscenico privo di qualunque indumento, il copione stretto fra le mani. Heidrun aveva sempre sperato che fosse un ricordo, e non mera invenzione della mente distorta di Euge – forse avrebbe potuto chiedere ad Al. Si strinse nelle spalle, un sorriso ancora a brillare sulle labbra. «e perché ci stiamo nascondendo? A me spaccate sempre le palle» Che esagerato. Alzò gli occhi al cielo, le sopracciglia corrugate. Innanzitutto, chi gli aveva insegnato ad usare quel linguaggio («voi» lecito.); in secondo luogo, per quanto la domanda apparisse innocente, c’era qualcosa di maledettamente intimo, nella risposta. Run amava guardare le persone a cui teneva nel loro habitat naturale, senza che sapessero di essere osservati. Un tempo l’aveva fatto per farsi un’idea di come sarebbero stati, tutti loro, quando lei non ci fosse più stata – ed allora sedeva in cima agli spalti, invisibile, a guardare gli allenamenti di quidditch e delle mascotte. Le pareva di rubare loro un momento che avrebbe potuto tenere per sé, solo per sé e di nessun altro, strappando un filamento della loro storia per poterselo legare al dito, ora parte anche di lei. Poco importava che gente come Eugene Jackson, con o senza Heidrun Ryder Crane ad osservarlo, fosse sempre la stessa – era una questione di principio, un vizio difficile da perdere. «rude.» rispose solamente, ignorando l’interrogativo con una scrollata di spalle. Aiutandola a chiudere l’argomento, la luce sugli spettatori iniziò a scemare, lasciandoli pesanti in una bolla di grigiore. L’unica fonte di luminosità, era data dal faretto che tenue brillava sopra il Pavor, il quale aveva compiuto un melodrammatico passo verso il pubblico. La sua parte preferita. Run si sedette civilmente, i piedi per terra ed il mento poggiato sullo schienale della poltrona di fronte, dimentica del suo compagno di avventure. «Indossare i pantaloni o non farlo, questo è il problema.» Aveva sempre amato le tragedie, la Crane. Avevano il giusto equilibrio fra drammaticità e pessimismo, che tanto le faceva apprezzare l’ironia della vita – la quale, drammatica e pessima, lo era davvero. Leggerlo era un po’ come viverlo, e viverlo era un po’ come esorcizzarlo. Sempre meglio le pene altrui, delle proprie. «mi stai ignorando?» non che fosse propriamente facile, ma sì, stava ignorando Gemes. Continuava a ripetersi che se avesse perseguito nell’ignorarlo, non sarebbe stato proprio come omettere il suo (loro?) passato. Non era come procrastinare una discussione che gravava nell’aria da mesi – se fingeva che non fosse presente, non poteva avere colpe. Si inumidì le labbra seccata, senza dare accenno di averlo sentito, le iridi smeraldo ancora saldamente puntate sul palco. «È forse più nobile spogliarsi, nell'intimo della proprio dimora, trichechi e bradipi scagliati dall'oltraggiosa new hovel, o levarsi le brache, invece, lanciarle a palmer ed alla beech, e combattendo contro il pudore metter una fine? Spogliarsi per dormire. Nient'altro.» Davvero. Che fosse platonico, carnale, da amico o da amante, non aveva dubbi che lo amasse sinceramente e dal profondo del suo cuore. Era così… un Euge. Perfino quando sognava, era un pirla. Lo osservò con commosso orgoglio, il sorriso a pendere caparbio dalle labbra – talmente sentito, che non oscillò neanche quando sentì l’Hamilton schiarirsi la gola spazientito. «MI ST-» Cristo signore. Scattò di lato prima che Euge potesse accorgersi del vociare in platea; in un unico movimento, scivolò sul sedile di Gemes e premette entrambi le mani sulla sua bocca, schiacciando con i palmi sulle guance per attirare la testa di lui contro la propria. «sì, ti sto fottutamente ignorando» sibilò in un soffio di voce, gli occhi ridotti ad una fessura. Con la flemma derivata dalla violenza appena trattenuta sotto la superficie, il moro inspirò dalle narici ed afferrò i polsi di lei, la quale non oppose alcuna resistenza mentre lui le allontanava le mani dal volto. Ed eccolo, a presentarsi nuovamente, il problema di fondo fra loro: dove lui arginava, dosando con minuzia, lei irrompeva e spaccava gli argini; la Crane poteva anche essere una tempesta, bella da guardare da lontano, ma buon Dio, Gemes Hamilton era la frustrazione del cielo carico di pioggia – quello così denso che pareva di respirarlo.
    «non posso ucciderti.» osservò, pragmatico. «ma posso ancora mutilarti, crane.» vi dirò: dall’anno e mezzo in cui lo conosceva, aveva sentito di peggio. La mutilazione, in confronto, era una dimostrazione d’affetto. Lo osservò in silenzio, assicurandosi che il monologo di Amleto proseguisse indisturbato, quindi lasciò che un lieve sorriso le curvasse un lato delle labbra. «stai flirtando con me?» Fece scivolare gli occhi sulle dita di lui ancora sulle proprie braccia, un sopracciglio cinicamente inarcato, quindi rivolse la delicata malizia delle iridi giada allo sguardo ceruleo di lui. «lo sto facendo?» ma non suonò come una domanda, se non a sé stesso: oscillò fra la veemente accusa, e la non troppo ingenua provocazione. Oh, mio, Dio. Lo stava facendo davvero. La sua era stata una domanda ironica, vagamente consapevole del fatto che lui, come sempre, l’avrebbe ignorata. Evidentemente, da lei ed Euge non aveva preso solamente la predilezione per le sostanze stupefacenti.
    Ma a dire il vero, forse anche quello valeva in categoria. Punti di vista. Il sorriso pregno di orgoglio e finta ingenuità, evaporò dalla bocca della Crane prima ancora che potesse realmente farci caso, già ingarbugliata nei pensieri sconnessi che sempre intercorrevano in quei sogni – talvolta preludio del risveglio, talvolta semplicemente un sonno agitato. In mondi come quello, ponti fra realtà ed immaginazione, la verità aveva forma più fluida e meno concreta; scivolava dalle labbra, dalle mani, dalle dita che non ricordava di aver intrecciato sulla nuca di lui, come se non avesse effettive ripercussioni sulla vita vera. Nella propria semplicità, trovava l’inghippo – nulla di reale era facile, e la sincerità, sicuramente, non lo era mai. «non lo so?» che, come sempre con la Crane, valeva un po’ per tutto ed un po’ per niente. Non sapeva un sacco di cose, Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso: non sapeva perché fossero lì, non sapeva il come, non sapeva cosa.
    Non sapeva perché.
    Le uniche cose che sapeva, era che non avrebbero dovuto. Era fatta per le cose semplici, Run – per le persone semplici. E non lo sapeva davvero, Run. Capire le intenzioni, i pensieri, i gesti di Gemes Hamilton, era sempre stato fuori dalla sua portata. L'aveva preso come un gioco oramai, una sfida con sé stessa: neanche se n'era accorta, quando aveva cominciato a perdere. E si sentiva, Dio!, così... Sciocca. Non era abituata a quel bruciore ai polmoni ad ogni respiro, a quel battito che mancava sempre quando avrebbe dovuto. Non era abituata a dover distogliere lo sguardo, puntandolo sui propri piedi: ed era inutile imputarlo alle colpe di un passato opaco, quando Run sapeva benissimo di cosa, le iridi bosco, fossero sporche. Non era solo vergogna per ciò che aveva fatto, quella che la obbligava ad evitare l'Hamilton. Non erano gli interrogativi privi di risposta.
    Era quel non senti niente che da mera constatazione era diventata silenziosa supplica: perché non senti niente? Avrebbe reso tutto più semplice, ed al contempo più tristemente drammatico - ma avrebbe potuto, seppur per poco e con poco, farne valere la pena. Quello, fra tutti i motivi, era ciò che la spingeva ad odiarlo un po' di più: non c'era nulla di più frustrante e ridicolo dell'amare qualcuno quando non si era nulla più che un passatempo - specialmente quando c'erano persone che l'avrebbero meritato di più, quell'affetto non richiesto. Ed era anche uno dei motivi per i quali lo odiava meno: prima o poi, continuava a ripetersi, si sarebbe stancata di Gemes Hamilton ed il suo sproposito ego. Ed allora, infine, l'avrebbe ringraziato, di quel nulla.
    Avrebbe reso più semplice accettare il disprezzo, una volta che avrebbe saputo la verità - ed in ogni caso, non funzionavano bene, fra loro.
    Buon Dio, non funzionavano bene neanche da soli.
    Era uno di quei catartici momenti, quotidiani nella vita di chiunque, in cui Run era così immersa nelle proprie considerazioni, da aver lasciato che fosse il proprio viso a parlare per sé – lo sguardo spento e assente, le sopracciglia lievemente corrugate, le labbra imbronciate. Perché era giunta, in quel susseguirsi di concatenamenti del tutto razionali, a giungere ad una triste, ancor più patetica, verità. Il nucleo centrale di tutto, quella certezza che continuava a pungolarle il palato con una sorta di déjà vu. spalancò gli occhi, tornando a mettere a fuoco l’ala del teatro attorno a sé – le tende cremisi a coprire le pareti, il pavimento morbido e nero, la voce di Euge che insisteva sulla sua tesi del perché recitare nudi fosse meglio, ed infine il paio d’occhi blu davanti a sé.
    Stava diventando Murphy Skywalker.
    Murphy
    Skywalker. Non le bastava avere lo spirito da ciatella di suo zio, e la tendenza all’alcolismo di suo padre – no, perché fermarsi, quando il peggio dei Quinn ancora non era finito! Murphy. Non fraintendetela, amava sua cugina. La amava stalker, shipper, in angoscia per mancanza di zuccheri, iperattiva a causa delle bibite gasate – ma. Non quello.
    Non. Quello.
    Inspirò, le mani a ritrarsi per coprire il proprio viso. Doveva andarsene – da quel sogno, da quella vita, da quel disagio che cresceva di battito in battito nello stomaco. Voleva, idealmente, morire. Non poteva prendere la passione per le coppole da Sin, e lasciare a Murphy quel che era di Murphy? Nello specifico, lo struggersi (e struggere le palle di chiunque) per Elijah Dallaire. Che vita di merda. «ejdfr fhdkjs» «…» abbassò di poco le mani, ma solamente per lasciare uno spiraglio al proprio sguardo. «sbb diorlfdc» ripetè, le dita ancora premute sulla bocca. Quando Gemes inarcò un sopracciglio, dovette mordersi il palmo per impedirsi di dargli una testata. Poteva almeno, che so, sforzarsi un minimo. «HO DETTO CHE DOBBIAMO PARLARE»
    Merda. Si accorse troppo tardi, sempre troppo tardi, di averlo gridato. Piombò il silenzio, lo spettacolo a tacere mentre gli occhi del Jackson, li sentiva, pungolavano la platea alla ricerca di chiunque avesse osato interrompere il suo monologo da Oscar («o almeno pulitzer» «quello è per il giornalismo, la narrativa, e-» «HEIDI, ALMENO TU»). « “abbassa la voce” » Heidrun rimase immobile, un’occhiataccia al sussurro dell’Hamilton. Perché non le bastava avere a che fare con Euge tutti i giorni, dovevano pure moltiplicarglieli. «cos’hai, dodici anni?» sibilò fra i denti, muovendo impercettibilmente le labbra. Erano così vicini, che avrebbe potuto baciarlo o frantumargli il setto nasale. Indovinate quale fosse la sua opzione preferita. «sarei comunque più grande di te» «HEIDI?? GEMES???????? SIETE QUI?» madonnaemanuele. Era tentata di far saltare la propria copertura, solamente per menarlo. Nei sogni non funzionavano i poteri, e parlando di addestramento base, nessuno aveva dubbi su chi avrebbe fatto il culo a chi. In realtà, anche con i poteri e nel mondo reale - ma almeno lì poteva ucciderlo. «ti odio» e le bastò pronunciare quelle parole, con una rabbia che rivolgeva più a sé stessa che ad altri, per rendersi conto di quanto fosse una cazzata – una di quelle a cui facevi l’abitudine, che davi per scontate anche quando non lo erano più. Si morse l’interno della guancia con frustrazione, un po’ perché Euge era sceso dal palco scivolando greve fra gli spettatori, ed un po’ perché la vita faceva davvero schifo, talvolta. «si vede» alzò il pugno serrato nel momento esatto in cui qualcosa cominciava a vibrare.
    E non fu solo il braccio, a cadere nel vuoto.

    La gravità era troppo spesso data per scontato, nella vita. Quando veniva a mancare, non avevi neanche il tempo di imprecare sonoramente, prima di che la realtà ti venisse, letteralmente, sbattuta in faccia. «crist-OH» un ultimo grido sofferente, il …morbido? Impatto contro qualcosa. Un grugnito dolorante ed acuto le smorzò l’entusiasmo del non essere morta, la testa pesante e le ginocchia ancor di più. «RuUuUuUUuUun» «spostati!» rotolò su un fianco, infilandosi fra i due corpi caldi sul materasso. Sollevò una palpebra, l’amaca a penzolare pigra sopra di sé ormai priva di abitante. Ah. «ho un caschetto» osservò, le sopracciglia corrugate, mentre le dita andavano a sfiorare il casco da muratore sulla propria testa. Non contenta, aveva anche copri gomiti e copri ginocchia, come potè notare ad una seconda, assonnata, occhiata. «HO NOTATO» lo strillo di Euge nelle orecchie le fece arricciare il naso. Beh. Rotolò pigra un po’ a destra ed un po’ a sinistra, scavandosi uno spazio fra Euge e Jade che fosse a debita distanza dal pancione di lei, ma al contempo abbastanza vicino da sentire il calore della loro pelle, e la forma che avevano lasciato sul cuscino. «ieri sera continuavi a cercare di teletrasportarti sull’amaca.» tipico. «aw, sarai una mamma perfetta» «meh.» ma neanche un’ancora rincoglionita dal sonno Jaden Beech, potè nascondere l’ombra del sorriso sulle labbra sottili.
    «woooow» Ecco cosa l’aveva svegliata: Owen. «ma pensa» la bocca ancora impiastricciata, i pensieri sconnessi e gli occhi già appannati dal torpore. Non era esattamente schizzinosa, quando si trattava di dormire: poteva svegliarsi duecento volte in una stessa notte, ed altre duecento volte si sarebbe riaddormentata. «credo tu mi abbia rotto una costola. AH! HAI VISTO LA MIA VERSIONE DI AMLETO, VERO? Sono stato bravo» «dormi» «dormi, cazzone» risposero in contemporanea le coinquiline, mentre Owen continuava a mugolare come ogni brava tartaruga psicotica che si rispettasse.
    «wow»
    «EEEEEEEEEEEEE» quello era Breuge. Mugugnò fra le lenzuola, la faccia già sotterrata nel cuscino.
    «E? COSA E?» E tutto rimase immobile. Smise perfino di respirare, Run, mentre la voce metallica si perdeva fra le mura dell’appartamento di New Hovel. Aprì un occhio, si sollevò su un gomito. «l’avete sentito anche voi?» «wooooooooooooooooow» «EEEUEUE» «sei ubriaca?» «WOoOoOoOooOw» Aprì anche l’altro occhio, e scattante si mise a sedere. Anziché cercare l’interruttore, attinse dal potere di Jade per lasciar fluire un globo di luce dorata sulla camera, le palpebre a sbattere repentinamente per abituarla alla nuova fonte di luminosità. «è il tuo… telefono?» Jade, le bionde sopracciglia inarcate, alzò pigramente un braccio verso la zona della camera adibita alle creature – oltre al letto, s’intendeva. Non aveva bisogno della telepatia, per comprendere lo sconnesso, ma legittimo, pensiero della Beech: come potevano esseri privi di pollice opponibile, o anche solo di fottuto pollice, rispondere ad un telefono? Perché sì, era chiaramente il cellulare di Run, quello stretto fra gli artigli del bradipo. Ed eccola lì, la risposta. Sempre a portata di mano, ovviamente. «ohh BRAVO BRUUUJ. Cerco di insegnargli a farmi da segretario da mesi – tanto al ministero non riconoscerebbero la differenza» Ed in tutto ciò: «telefono» niente. Corrugò le sopracciglia, vero emblema della concentrazione. «telefono» nisba. Dov’erano Skandar e gli Hamilton quando servivano. «telefono?» provò ancora, il braccio allungato disperatamente di fronte a sé in un ultima nota angosciata, prima di comprendere di dover scendere dal letto. Grugnì, un sospiro seccato a sfibrarle la lingua, quindi strisciò giù dal materasso per coricarsi supina al fianco di wow!satana e sassy!satana. «non più» si schiarì la voce, una mano a premere sulle palpebre, rispondendo alla domanda precedente. «credo? Spero sia morto qualcuno – anzi, aspetta» si premette il telefono sul petto, alzando una mano per attirare l’attenzione del Jackson. «dieci galeoni che sono morti i tuoi amiki» «rilancio con alsinsciaia» Se facevano scommesse sulle dipartite degli altri triumvirati? Sì, almeno una volta al giorno. Run era team harakiri!Rea, ma Euge le dava (troppa) fiducia, e ripiegava sulla salute cagionevole degli uomini di una certa età (Sin). Annuì, il telefono di nuovo all’orecchio « […] river! Charmion! San mungo? San mungo! RIVE-» Al. «mi spiace, è al» alzò due dita in segno di vittoria. «crane.» merda. «ah, anche rea» scommessa persa. «charmion è in travaglio. Vieni a recuperare l’uomo che l’ha ingravidata, aka tuo padre, o lo butto giù dalla moto. San mungo. Alla veloce, anche» oh.
    Oh.
    Aveva preso così sotto gamba il fatto che Charmion aspettasse un bambino da Al, che aveva completamente rimosso… beh, che fosse effettivamente incinta. Che Heidrun, effettivamente, avrebbe avuto un consanguineo - già un onore, definirlo in tal modo. A Run, di River, non poteva fregare una sega di meno. Odiava Charmion, odiava Al con Charmion, e di conseguenza odiava quel bambino privo di colpe, se non per i genitori che s’era ritrovato. Anzi, una colpa – egoista, immatura – l’aveva: poteva avere la vita che lei non aveva avuto. Lui, che non se la meritava. Rimase ancora distesa sul pavimento, gli occhi aperti e vacui ad osservare ciechi il soffitto. Inspirò, espirò.
    Tossicchiò.
    «ZIO SIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIIN» cominciò a gridare, nel cuore della notte. Non abitavano così lontano, Murphy & Sinuke. «ZIIIIIIIIIIIIIIIIIIIO SINCLAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAIR» evitò strategicamente un cuscino lanciato dalla Beech, nonché le prime proteste che sentiva levarsi dalle case vicine. «ZIEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEETTOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOOO» perché solamente lui fra tutti, avrebbe potuto comprendere il disagio. Murphy era una Murphy, Euge un Euge – Jade la comprendeva, sì, ma almeno lei non doveva ciucciarselo obbligatoriamente in famiglia, quel bambino. «HANSEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEEN» Un colpo di tosse, le braccia allungate sopra di sé per sciogliere i muscoli, e la schiena inarcata con un mugolio basso. Piuttosto che assistere alla nascita di River Crane Hamilton, avrebbe preferito triturarsi le dita di entrambe le mani con un mortaio. Sarebbe rimasta volentieri, molto volentieri a casa, se solo Eugene Jackson non le avesse fatto notare un dato di fatto che Run, nell’impeto del suo odio apparentemente ingiustificato, aveva dimenticato. «andiamo, heidi. È pur sempre…» l’occhiata assassina della Crane, lenta ed intenzionale. Il sorriso sghembo di Euge, le sopracciglia inarcate. «…tuo padre, heidi. subito a pensare male» effettivamente, non era stata la conclusione che s’era aspettata.
    «vestitevi, eubeech. Vi aspetta una finestra sul vostro futuro» ammiccò nella loro direzione, un pigro cenno con il capo al pancione di Jade – uno sguardo estatico e pregno di dolce angoscia di Euge, puro terrore e disappunto in quello della bionda. What a time to be a mora #ehcharmion #ehjade #ehelsa.
    Era accaduto tutto così rapidamente, che Run non era ancora riuscita a pensare razionalmente a cosa, River, avrebbe comportato nella sua vita. L’aveva ignorato così a lungo, reputandolo un problema di chiunque eccetto che proprio, che saperlo effettivamente concreto e non solo ideale con cui sfottere Al e criticare Charmion con Sin, la lasciava… turbata. Allibita. Non ci aveva creduto davvero, in quella gravidanza.
    In quel bambino.
    In quella vita.
    Si erano trascinati, alcuni ancora in pigiama, sulla strada principale di Diagon Alley in attesa del loro passaggio - e quand’era giunto, Run si era resa conto di quanto assurda e sadica fosse la sua esistenza. «per carità divina, jackie» bloccò l’entrata sulla spaco mobile con un braccio, uno sguardo serio in direzione del pavor. «jade qui dentro non ci sale.» andiamo, conoscevano lo stesso Spaco? Li avrebbe probabilmente fatti schiantare contro un palo al primo incrocio – e l’avrebbe fatto apposta, lo stronzetto. Lo amava così tanto. «non cominciare la solfa sul ”sono incinta ma posso fare tutto”, wonder woman» ammonì la Beech, un breve sorriso di circostanza a Sin e Murphy accomodati sui sedili posteriori del pullmino. Prese posto in quello anteriore, salutando con la manina gli Eubeech. «ci becchiamo al san mung- SPACO, CRISTO, FAMMI ALMENO FINIRE»
    Spoiler alert: non la fece finire.
    Quello che accadde in seguito, è tuttora un semi mistero, per la mimetica. Ricordava di aver abbracciato Spaco, rammaricandosene subito dopo nel ritrovarsi le dita appiccicose ed un olezzo di whisky sulla pelle; ricordava di aver cercato disperatamente del caffè, trovando solo vecchie bottiglie di tequila – ovviamente, se le fece andare bene comunque; ricordava farneticazioni di Murphy riguardo Shot insaponati alla sua finestra, e bassi mugugni di Sin mentre, a sopracciglia corrugate e con gli occhiali da vista, pinnava (vedeva il logo riflesso sulle lenti) nelle bacheche sbagliate. Pinnare con uno Spaco alla guida, non era stata certo una delle idee migliori dell’Hansen.
    Ma sapete cos’era stato peggio?
    «SPACO, MADONNAEMANUELE, FRENA»
    Non mettere la cintura di sicurezza.

    Il basso vociare indistinto si fece lentamente più delineato; le parole, anziché sovrapporsi fra loro in una disordinata accozzaglia di vocaboli, iniziarono ad avere senso, un loro completo senso d’esistere. Heidrun inspirò, spingendo sui gomiti per sollevare, perlomeno, il busto. Gli occhi socchiusi colsero diverse ombre di fronte a sé, le sopracciglia corrugate a mostrare la sua (perenne) confusione. «murphy?» «potete levarvi, gentilmente? Devo prendere le dannate misure!» Non conosceva l’uomo che aveva parlato, eppure i suoi tratti, troppo ben marcati, le ricordavano vagamente qualcosa. «perché? Vuoi vedere se sta nel forno?» avrebbe riconosciuto quell’ironia ovunque, anche se le iridi verdi non si fossero posate su quel profilo abbastanza simile, a quello degli altri fremelli, da non esserlo affatto. «stiles?» «RUN, GUARDA» una mano, piccola e morbida, s’insinuò fra le sue dita intrecciandole alle proprie. Erin la tirò verso di sé, spingendo con i piedi per aiutarla a rialzarsi. Di cosa stavano parlando? Cosa doveva vedere? Qualcuno le cinse le spalle sollevandola di peso, un mugolio a bassa voce per lo sforzo. «ehi, sono felice per voi.» il sorriso timido di Lydia la costrinse a ricambiarlo, seppur non avesse la più pallida idea di cosa stesse succedendo. L’educazione prima di tutto. «non è questo granchè» abbassò il capo verso una ragazzina dal corto caschetto castano, ed i peculiari occhi chiari. Bells si strinse nelle spalle, le braccia incrociate al petto. «non sono la dallaire giusta, per gioire di questi eventi» «almeno non sei quella della ragazze corvo» qualcuno le lanciò una fiaschetta, ed istintivamente Run la prese al volo. «allora sì che saremmo stati nella merda» William le rivolse uno sghembo sorriso complice, nell’afferarla per le braccia stampandole un bacio in fronte. «auguri, mh, e tante belle cose» si inumidì le labbra, Run, gli occhi verdi a seguire la schiena del Barrow. Era forse uno scherzo? Se sì, qualcuno avrebbe dovuto spiegarglielo, perché proprio non ci arrivava. Aveva bevuto così tanto? «probabilmente, sì» ed anche quella voce, amara e tagliente, l’avrebbe riconosciuta in ogni luogo – aiutata dal fatto che, beh, aveva appena risposto ad una domanda che aveva solamente pensato. Inarcò un sopracciglio in direzione della Lowell, trovandola (stranamente) sorridente. «spero non ti somigli» chi? «ti prego» eh, figurarsi se mancava lei. Sollevò lo sguardo su Rea Hamilton, la mano poggiata a qualcosa e le caviglie incrociate. Rea tamburellò le dita e la osservò, il capo vagamente reclinato. «non so chi compatire di più – oltre a me stessa, ovviamente» «smettetela, tutti quanti.» un sibilo irritato fu seguito da un nervoso movimento di polpastrelli fra capelli così biondi da sembrare fili d’oro. Un paio d’occhi azzurri la inchiodarono sul posto, un braccio sollevato che, cauto, tornò al proprio posto. «ignorali. Vieni?» Ma Run non voleva andare. Osservò Maeve Winston con la lingua stretta fra i denti, il cuore a battere furiosamente contro le costole. Quand’ella si spostò dalla sua visuale, potè infine vedere cosa avesse attirato tutta quella attenzione: una culla. Un ragazzo, i gomiti poggiati sul lettino, alzò lo sguardo su di lei. Quel sorriso, incrinato ed affilato, fu quasi troppo, per Heidrun. Cosa Cristo stava succedendo. «alla buon’ora, principessa» le dita alla fronte, l’indice ad invitarla a farsi più vicina. E così fece, Run – ma anziché guardare la culla, rimase ad osservare il viso scavato del ragazzino. «perché?» non si era resa conto di voler fare quella domanda, la mimetica. Si abbracciò il petto con le braccia, il labbro inferiore morso fra i denti. «perché?» ripetè, il più flebile dei sussurri. CJ si strinse nelle spalle, un sopracciglio inarcato. «perché è quello che volevi, no?» No. «una seconda possibilità.» Le dita di una ragazza si strinsero sul suo volto, capelli corvini ed occhi color del ghiaccio. «non sprecarla, run» le labbra di Idem a sfiorarle piano la guancia. «svegliati».

    «run? RUN?» «ghe pensu mi» Una doccia gelida le infiammò le ossa, facendola d’improvviso sussultare. Si alzò a sedere così rapidamente, che per poco non colpì la testa di sua cugina, la quale la osservava con occhi spalancati ed un lieve sorriso sulle labbra. «mh. mh» Lentamente, ogni pezzo andò al suo posto: il viaggio sulla Spaco mobile, l’incidente, Murphy ed i suoi Shot danzanti, Eubee- «river?» il solo pronunciare quel nome, le seccò la gola. «ho fatto un…» sogno strano. Ma non completò la frase, i palmi delle mani a premere sulle palpebre. Scosse appena il capo, vertigini a torcerle le budella. «non importa» concluse, più a sé stessa che a loro. Umettò le labbra, aiutandosi con la Skywalker a rimettersi in piedi.
    Quindi era vero, erano in ospedale. River Hamilton Crane stava davvero, davvero davvero, per nascere.
    Non voleva essere lì, Heidrun. Non voleva vedere Al diventare padre per davvero, non con il bizzarro scherzo del destino ch’era Run; non voleva vedere il neonato, un fagotto rosa e rugoso, stretto fra le braccia di ambedue i genitori, entrambi a scambiarsi i sorrisi che avrebbe dovuto avere Jo, che avrebbe dovuto avere lei. Si rendeva conto di quanto fosse stupido ed infantile, ma non poteva davvero non essere invidiosa – e dall’invidia, nasceva l’odio. Charmion, poi! Fra tutte le donne del mondo, fra tutti gli Hamilton del mondo. Perché non era abbastanza assurda, la vita di Run – non che quello fosse un problema di Al, effettivamente.
    O di Run, ad essere sinceri. Almeno, non avrebbe dovuto. «non è ancora nato. Sono tutti di sopra» Tutti. Volse uno sguardo supplichevole a Sin, le iridi bosco che neanche ci provavano, a celare il suo stato d’animo. Che senso aveva fingere? Non con loro, mai con loro. Sentì la mancanza di Ian e Jeremy come un bisogno fisico nel petto: se loro fossero stati lì, si disse, non sarebbe stato così difficile. «tutti?» avrebbe dovuto aspettarselo, sì. E sapeva, a chi quel tutti era riferito - tutta la famiglia, ovviamente. Quanto si sentiva… di troppo.
    Sempre, di troppo.
    «non credo sia…» si schiarì la voce, fingendo che il tono fosse andato a mancare per un opportuno mal di gola. Distolse lo sguardo da Murphy e Sin, un sorriso ad alleggerire il peso di quelle parole. «non credo sia il caso» anzi, ne era certa. «da sobria non sono così simpatica» inarcò le sopracciglia tornando a guardarli con la maschera di malizioso sarcasmo che sempre, e da sempre, Run, usava come scudo. «run…» gli occhioni da cerbiatta no, però. Ingoiò il groppo in gola ed alzò gli occhi al cielo, le palpebre a calare con finta esasperazione sulle iridi smeraldo. «OKAY VA BENE – ma non parliamone.» ed era seria – e non ne parlarono.
    Ignorò tutti, la Crane. Finse di non vederli, mentre con un sorriso leggero spalancava con impeto la porta del reparto ostetricia – li guardò, ma non ne vide nessuno. «DOV’È IL FESTEGGIATO?» una risata muta a brillare sulle labbra carnose della mimetica, gli occhi a scintillare di allegria. Sentiva il cuore batterle perfino sulla lingua, il respiro minacciare d’incrinarsi ad ogni ansito. «behvadoafumare. tenetemi aggiornata, mh» ma anche no, in realtà. Proseguì verso la scala antincendio, noi vogliamo credere ci sia, una sigaretta stretta fra i denti e le dita a tremare impercettibilmente. Si giustificò, i capelli ancora bagnati a gocciolare sulla schiena, con la doccia fredda ricevuta poco prima da suo zio.
    Doveva, essere quello.
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    Edited by selcouth - 6/6/2017, 02:32
     
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    Socchiuse le palpebre, la testa infossata nel cuscino mentre l’ennesimo foglio di giornale veniva lasciato cadere sulle gambe, le dita a togliere un paio di occhiali da lettura, poggiati con fin troppa precisione sulla radice del naso – occhiali di cui, in ventisette anni di vita, non aveva mai avuto bisogno: che fosse stato un effetto collaterale della resurrezione? Che fosse colpa di Shia? Più probabilmente, e ci avrebbe scommesso quei pochi soldi che il governo gli dava mensilmente per giocare a Candy Crush Saga dietro una scrivania, era a causa di Sinclair se era costretto ad usare lenti da vista. Non lo conosceva abbastanza, non lo conosceva affatto, eppure qualcosa di lui sembrava essere più vecchio rispetto all’età che vantava d’avere. Più antico, di quei segreti che sembrava tacere soltanto ad Al e che nel loro semplice restare misteri irrisolti lasciavano apparire, agli occhi del Crane, l’immagine dell’Hansen più sfocata ed oscura, arcana. Avrebbe potuto tranquillamente portarlo al Ministero con una falsa accusa, ammanettarlo al tavolo degli interrogatori e chiuderlo là dentro finché non gli avesse confessato chi fosse – chi fosse per lui, almeno, perché era così fottutamente ossessionato dal moro e dall’idea di non riuscire a dargli un motivo di esistere nella propria vita -, oppure attaccarlo in un vicolo buio delle periferie di Londra e picchiarlo finché non avesse parlato. O, ancor più semplicemente, chiedergli di prendere un dannatissimo caffè – ma non erano mai piaciute al lumocineta le scelte facili. Il problema di base, era che non gli interessava abbastanza, di approfondire quella conoscenza - e gli importava troppo, lo teneva sveglio la notte. Sarebbe stato così semplice, essere solamente grato a quell’uomo che lo aveva riportato in vita – sorridergli alle lezioni, sciorinare ringraziamenti e regalare amichevoli pacche sulle spalle -, eppure.
    Voleva la verità, Aloysius: non aveva mai chiesto molto di più di quello, durante tutta la vita.
    Automaticamente, un gesto così spesso ripetuto da essere ormai involontario, con le dita andò a cercare sul materasso il pacchetto di sigarette che poc’anzi aveva abbandonato al suo fianco, ma tutto ciò che i polpastrelli tastarono per qualche infinito secondo, prima di trovare la scatola desiderata, furono altri fogli. Erano ovunque, innumerevoli e di ogni genere – appunti, ritagli di giornale, fotografie. Oramai non ci faceva nemmeno più caso, tanto era abituato a rigirarsi tra risme indecenti di carta e pergamene quando non era al Ministero, o in missione per il Governo magico – così si accese una sigaretta, sputando verso un buio soffitto tabacco e catrame bruciati, le volute di fumo a danzare macabramente alla fioca luce dell’abat-jour.
    Aveva bisogno, Aloysius Crane, di non farci caso, di sentire tutte quelle informazioni stampate, o vergate con nero inchiostro su pergamena, parte di sé stesso. Perché l’unica cosa di cui aveva bisogno, era la verità – quella verità, che al contempo fuggiva, nascondendosi dietro dita che non erano capaci di celarlo. Da quando aveva messo piede in quel mondo, nuovo e antico al tempo stesso, aveva brancolato nel buio, le mani avanti pronte a sostenere ogni caduta, per spingere da terra al solo fine di rialzarsi e continuare a camminare in un’oscurità che non comprendeva, pronte a sfiorare ogni realtà appena tangibile, riconoscerne i profili vaghi e sentirla - concreta, afferrabile, parte di sé. Ci era morto, il babbano, in quel vuoto, affogato in un mare di quesiti irrisolti - ben prima che il cuore smettesse di battere, le iridi di smeraldo fuso ormai vacue ad osservare un cielo privo di stelle. Ci moriva ogni giorno ed ogni notte, all’inseguimento di domande che, si convinceva, non gli importavano così tanto.
    Aveva bisogno, Aloysius Crane, di non farci caso – di venirne a capo, di svelare teloni troppo grandi a coprire segreti (forse) troppo piccoli, di diramare una coltre di denso fumo grigio e fastidioso, di mettere a posto i tasselli della sua vita. O, almeno, di trovarli: il resto sarebbe venuto da sé. Gli era stata concessa una seconda possibilità - di nuovo, laddove non avrebbe mai creduto di riceverla -, ed aveva semplicemente deciso di non sprecarla: fin troppe, ne aveva gettate nel cesso e tirato lo sciacquone prima ancora di poterne capire il valore; fin troppe, sembravano essere giunte troppo tardi per sembrare quello che avrebbero dovuto inizialmente essere.
    Non sarebbe successo di nuovo – e con la stessa convinzione con la quale si ripeteva ciò, era certo che inevitabilmente sarebbe andato tutto a rotoli, che sarebbe morto ancor prima di srotolare un’infinita matassa. Non pessimismo il suo, per quanto potesse costantemente sembrare, ma pragmatico realismo: era una legge di Murphy vivente, il Crane. Se qualcosa poteva andargli male, avrebbe fatto inconsciamente in modo che andasse persino peggio – che le decisioni più sbagliate e riprovevoli non le mancava mai, collezionista inconsapevole di trofei che mai nessuno avrebbe voluto mettere in mostra sulla più lucida mensola del soggiorno. Con la stessa convinzione, era certo che sarebbe scappato poco prima di aver alzato definitivamente il velo: perché troppo le desiderava, quelle rivelazioni. Più grande era la brama, più avvilente sarebbe stata la delusione, acida e amara sulla punta della lingua e sul palato, fino al punto in cui deglutendo la bile non avrebbe infettato tutto l’organismo – e di lui, non sarebbe rimasto di nuovo nulla se non il dolore.
    La sigaretta stretta tra le labbra, Al si mise a sedere sul bordo del letto, afferrando mentre si rialzava un foglio a caso dalla mischia – così, tanto per; così, perché sapeva già cosa avrebbe preso tra le dita. Una foto – sempre la stessa, una delle poche che aveva. La fissò a lungo, così come aveva fatto per gran parte della serata, quando non preso a leggere ritagli di giornale casuali, che a nulla sembravano essere utili – ma più la osservava, meno la capiva. Sempre gli stessi fotogrammi ripetuti in un perpetuo periodo circolare, magicamente incastrati in un’istantanea alla quale erano condannati per l’eternità: i biondi capelli ondulati a sfidare le leggi della fisica, rimanendo impeccabile nonostante i movimenti del capo; un sorriso perfetto, portato forse al disagio o all’isteria dalla situazione durante la quale l’immagine aveva macchiato la pellicola; un paio d’occhi, quelli celati da nervosi battiti di palpebre la maggior parte del tempo, che il seppia della fotografia non poteva colorare a dovere ma che il Crane sapeva essere di un azzurro particolare. Li aveva visti, li aveva impressi a fuoco dietro la retina da ormai un anno e mezzo, e non avrebbe potuto dimenticarli facilmente – e dimenticarsi della sorpresa e della paura rifratte dall’iridi chiare, ed il dolore e le domande ad accavallarsi che le facevano splendere un po’ di più. Un ghiaccio tagliente e freddo ad incorniciare la pupilla, eppure i più lucenti degli zaffiri ad impreziosire il gelo.
    L’aveva presa, quella foto, da un articolo della Gazzetta del Profeta di quasi tre anni prima – trovato dopo giorni di ricerche tra archivi bibliotecari e ritenute della censura ministeriale, solo per la necessità di affibbiare al contesto un volto. “Una delle più giovani professoresse che la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts abbia mai avuto”, decantava il giornalista, proseguendo poi per elogiare il resto del corpo docenti. “Notevole studentessa e promettente insegnante”, Maeve Winston sembrava essere la perfetta ragazza della porta accanto: non aveva pecche a macchiare un curriculum ancora praticamente vuoto, né la sua figura pareva trasmettere motivi per averne.
    Sovrappensiero, tratto un altro lungo tiro di sigaretta, portò le dita a cercare sotto i corti fili d’oro sporco il profilo di una cicatrice priva di significato, un marchio per una bestia da macello esattamente come quel 743 in nero inchiostro indelebile inciso sul braccio destro – un altro simbolo pregno di significati, spiegazioni e motivi che il pavor non comprendeva, e temeva di voler scoprire. Seguì il contorno della beta greca come gli era già capitato di fare più volte da qualche mese a quella parte, un sorriso amaro ad incurvare le labbra carnose ed uno sbuffo di fumo a scivolare fuori dalle narici: non avevano nulla da spartire, Aloysius Crane e Maeve Winston – non la conosceva abbastanza, per poter affermare con assoluta certezza che non avesse nulla di simile, la bionda, ad un ragazzo cresciuto a pane e apparenza, arrogantemente viziato in una cupola di vetro che, dall’interno, la luce la faceva sembrare d’oro; ma conosceva abbastanza se stesso, per augurarle di non avere nulla in comune con lui, se non la sfortuna dei biondi capelli e degli stereotipi allegati. Allora, perché? Semplicemente questo: perché - uno dei tanti, uno dei troppi a fare numero nella lista di domande.
    C’erano i Quinn, una famiglia che non ricordava ed una magia che aveva dimenticato di possedere; c’erano i Crane, e troppi quesiti che s’accavallavano giorno dopo giorno su genitori adottivi ai quali non avrebbe più potuto porgere nemmeno una parola; c’era Sinclair, ed il suo respiro a gonfiare i polmoni di Al, i segreti a svuotarli; c’era Jo, e c’erano gli Harvelle, e c’era Run, e nove anni passati senza sapere del gioco atto a proprio discapito, e venti anni di una ragazza cresciuta senza una figura paterna – e troppo, sempre troppo, tempo da recuperare. C’erano i laboratori e quattro anni e mezzo di reclusione, quattro anni e mezzo di tortura ed esperimenti, di giovani che non ce la facevano e di quelli che, fino all’ultimo, ci provavano; c’era il mondo magico, ed una guerra civile che andava avanti da troppo tempo ma che non gli interessava affatto, finché non diveniva una battaglia personale.
    C’era che era morto, Al - senza sapere per quale conflitto, senza sapere di cos’erano i simboli quei corpi immobili sul bagnato terriccio di Brecon: perché era quello che erano stati, per qualche minuto, no? Emblemi di una lotta, caduti nel fuoco incrociato sui quali fondare nuovi basi di belligeranza. C’era che era risorto, Al – senza sapere perché, senza capirlo davvero.
    E c’era stato il Labirinto, e non c’era stato.
    E c’era la Cura, e c’era una profezia – e c’era Maeve Winston.
    Infine, ultimo ma non per importanza (dipende dai punti di vista, insomma), c’era Aloysius Angus Crane, che di tutto non ci stava capendo un emerito cazzo – più continuava, meno capiva, più si intestardiva.
    Quando il telefono prese a vibrare minaccioso sul comodino, non si sorprese di trovarsi in piedi, le mani a forzare la chiusura della finestra per aprirla al proprio volere e far cambiare l’aria della stanza: camminava così tanto, sovrappensiero, da non preoccuparsi più quando richiamato alla realtà si ritrovava a piedi di distanza dal luogo originale. Tantomeno, leggendo il nome sullo schermo dello smartphone, poté stupirsi della chiamata a quell’ora assurda – non era la prima volta che Shia Hamilton lo chiamava poco prima dell’alba, e non sarebbe di certo stata l’ultima: la maggior parte delle volte, dormiva quando il telefono iniziava a squillare; altre, come quella, preferiva non dormire, incapace di sopportare notte dopo notte di ritrovarsi in sogni altrui, in vite altrui. Posò la fotografia sul letto, prima di far scivolare il dito sullo schermo e rispondere alla chiamata. «se vuoi informarmi che anche stanotte hai portato qualcuno a casa, tranquillo: non crederò di avere un infarto, promesso» incalzò, ancor prima di dare la possibilità a Shia di dire qualsiasi cosa; tanto, era sempre per quello che lo chiamava a certi orari. Sorrise, quando udì l’altro ridere di gusto. «mi fa piacere che tu ti sia abituato, ma non è per questo che ti chiamo» Lo sguardo corrucciato, Al prese un’altra sigaretta, affacciandosi alla finestra prima di accenderla. «cosa succede? – no aspetta, non dirmelo» lo fermò, alzando gli occhi ad un cielo che andava schiarendosi, mentre proponeva le sue domande preferite. «volevi avvisarmi che stai per morire? Non ho il testamento a portata di mano per controllarlo, potevi darmi un po’ di preavviso» – non che, in ogni caso, avesse molto da lasciare in eredità a Run. «Al…» «oppure sei con Sin, ed è lui che sta per morire. Salutamelo e digli che lo picchio all’Inferno!» «Charmion sta partorendo»
    «ah.» l’esitazione di un attimo, indice e medio ferme ad un millimetro dal filtro della Marlboro ed il sorriso a divenire una linea dritta sul volto. Tossì sommessamente, riacquistando il controllo dei muscoli delle dita e della faccia, perso per un infinitesimale secondo. «mh,» soffiò via il fumo - troppo, fumo: non si era accorto di aver tirato così tanto -, si inumidì le labbra, i gomiti poggiati sul davanzale della finestra. «quindi, sta partorendo» «te l’ho appena detto» «e mio figlio sta nascendo» «… non sono un esperto, ma di solito è quello che succede» «bene» gettò la sigaretta fuori dalla villa, lo sguardo fermo e calmo mentre chiudeva i vetri, e tranquillo si appoggiava a questi. «stai… bene?» «benissimo: sto benissimo, shia» sottolineò, prima di chiudere la chiamata senza alcun preavviso.
    Inspirò, espirò. Più volte, dapprincipio lentamente per poi diventare un’azione quasi convulsa e spasmodica. Compose lo stesso numero che poc’anzi l’aveva chiamato, attendendo pochi squilli prima di sentire la voce rude dell’amico. «mi hai attaccato in…» «possibile» sorrise isterico al nulla, muovendo qualche passo verso la porta della propria stanza. «ti volevo solo informare che, nel caso sentissi accidentalmente un dolore all’altezza del petto, per poi incorrere in difficoltà respiratorie e motorie, mi dispiace: potrei aver avuto un infarto. a tra poco.»
    Si chiuse la porta alle spalle, facendo cadere la chiamata e le palpebre pesanti sugli occhi, le dita a premere su quest’ultime, il ghigno paralitico dipinto sulle labbra a scemare di secondo in secondo, lasciando una piega di puro… cos’era?
    Non era pronto, a quello: aveva passato così tanto tempo ad immaginare se stesso con in braccio il nascituro, da essere rimasto in quell’illusione troppo a lungo per riconoscerla come eventuale realtà. Si era cullato nell’ottimistica visione di quella seconda opportunità, da non essersi reso conto che più si infossava nel sogno, più il tempo passava, più suo figlio era effettivamente pronto a venire al mondo.
    Il problema, era che da quel sogno non voleva andarsene. In quel sogno, lui era un padre perfetto per River, ed era stato un padre perfetto per Run. Nelle notti più serene, ed in quelle più travagliate, poteva persino vivere quell’illusione, frutto di una mente troppo idealista – ed era bellissima, ed erano bellissimi.
    Scivolò a terra prima di potersene rendere conto, la mano a coprire il volto ed i respiri affannati a trovare eco nel corridoio vuoto – perché non era mai stato un padre perfetto, per Run. Non era mai stato un padre per Run, punto. Si conosceva troppo bene Al – così tanto, da non conoscersi affatto. Sapeva, che avrebbe mandato tutto a puttane. Di nuovo, sempre. «al…?» Alzò lo sguardo, incontrando gli occhi chiari di Amos. «sei di nuovo ubriaco?» domanda lecita, da parte del più giovane degli Hamilton. Scosse la testa, per poi alzarsi e posare la mano sulla spalla del ragazzo. Perché voleva ricominciare, il Crane – rimettere a posto i tasselli della propria vita, e renderla un minimo migliore di quella che aveva vissuto. Un po’, in fondo, credeva di meritarselo. «devi aiutarmi a svegliare tutti» sorrise al sopracciglio arcuato del biondino, gli occhi verdi già puntati verso la prima camera alla quale avrebbe bussato. «dobbiamo andare all’ospedale» «cos-» «ti spiego dopo REAAAAAAAAAAAAA» «AL CHE SUCCEDE» ma Al non rispose, già correva verso la porta della Hamilton. «REAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA SEI SVEGLIAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAA»
    Spoiler: non lo era.

    Quando era entrato in sala parto era carico d’adrenalina accumulata nel tragitto, e ad attenderlo all’esterno c’erano soltanto Rea e Shia – la prima, perché l’aveva gentilmente accompagnato sulla sua moto volante; il secondo, perché aveva accompagnato Charmion quelle che aveva scoperto essere ore prima: a quanto pareva, qualcuno non voleva fargli sapere che suo figlio, suo figlio!, stava per nascere.
    Quando uscì dalla sala parto, sul volto potevano vedersi i segni di un uomo distrutto, il terrore e la stanchezza a prevalere sulla felicità dell’evento, manco l’avesse sfornato lui il bambino; e ad attenderlo, c’era una piccola folla. Non servì neanche che aprisse bocca, il Crane: il sorriso che lento aveva fatto capolino sul volto tirato, parlava per lui.
    Il primo dal quale si diresse, fu Eugene Jackson: ci sarebbe stato tempo per ciatellare con Sharyn ed Amos, per inorridire gli Hamilton con i dettagli più terrificanti di quella tortura cinese legalizzata alla quale aveva assistito, per fare qualsiasi altra cosa. Ma Eugene, di tempo, ne aveva poco. Pochissimo. Lo abbracciò, le labbra vicine all’orecchio del cugino. «se puoi,» iniziò, con la calma con cui un dottore diceva ad un caro che era morta sua moglie wat «evita di entrare in quella sala, jake, davvero: è uno spettacolo terribile e doloroso» Era giusto che sapesse a cosa sarebbe andato incontro – in cosa si era cacciato. Quello che poteva fare Al, era solo dare consigli da cugino più esperto e maturo (ma dove). Ma c’era qualcun altro, che avrebbe voluto abbracciare prima ancora di Euge, una volta fuori dalla sala. Qualcun altro, con il quale commentare la vicenda, ridere e gioire. La prima persona che aveva chiamato, l’unica che non vedeva. Possibile che non fosse andata?
    Pensandoci due volte, : al posto suo, Al non era certo di cosa avrebbe fatto. «che ci fai qui?» Non se lo aspettava, di vedere Sinclair lì. Oddio, credeva fosse uno stalker sociopatico e con disturbi psicologici che ancora non avevano saputo definire, ma non pensava sarebbe arrivato al punto di pedinarlo anche all’ospedale. «ciao anche a te, come sta il morso sul collo?» al sorriso creepy del moro, il pavor rispose con una smorfia piena di disgusto ed inquietudine. «cristo, sei uno psicopatico» benché lo pensasse davvero, non poteva comunque fare a meno di trovarlo simpatico - in una maniera eccessivamente sbagliata e che Freud stesso avrebbe psicanalizzato a fatica, eppure. Non era nemmeno per il fatto che lo avesse salvato: c’era qualcosa, in quell’uomo, che malgrado tutto lo faceva sorridere. Un senso di familiarità, impressione più che concretezza. «non sono qui per rapire il mini Crane, avevo solo voglia di accompagnare Run» lo sguardo di Al, non poté che illuminarsi al sentire quelle parole: non aveva davvero dubitato del fatto che sua figlia non fosse lì. Soltanto, l’avrebbe capita se avesse deciso di non andare - tutto lì. «quindi lei…» tossì per schiarirsi la voce, gli occhi bassi a tentare malamente di nascondere un eccesso di felicità – accumulo di emozioni, mettiamola così, che trovava facile sfogo in quella semplice certezza. «è… è qui? Dov’è?»

    Non si fece ripetere due volte dall’Hansen dove fosse Run: in poco tempo, era sulla porta che dava alla scala antincendio, le iridi verdi a posarsi sulla schiena della figlia, sui capelli bagnati di lei. «ehi» si annunciò semplicemente, avvicinandosi alla balaustra con una sigaretta stretta tra i denti. «potevi asciugarti prima di venire, non c’era così tanta fretta» scherzò, cercando lo sguardo della ragazza. Sperò, in cuor suo, che non ci fosse bisogno di dirle che River, suo figlio, suo fratello, era nato: se era lì, un motivo c’era, era scontato.
    Semplicemente, non sapeva come dirglielo – perché di base, era troppo semplice: ai Crane, si sa, le cose semplici non erano mai piaciute.
    Perché, perché!, doveva essere sempre così difficile comunicare con lei? Perché non ci riusciva e basta, come delle fottute persone normali?
    Perché loro non lo erano, normali. Giusto? «che ci fai qui fuori, comunque? La festa è dentro».
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    21.05.2017 | mimesis | 1996's | fucked up | huntress
    Strinse le braccia al petto, affacciandosi oltre la ringhiera della scala antincendio. Quanti metri erano? Sarebbe morta se si fosse lanciata di sotto, o sarebbe riuscita ad approfittare dei vari poteri presenti al San Mungo per volare o teletrasportarsi da qualche parte? Quelli erano i veri dubbi della vita, più amletici di quelli vissuti poco prima dall’onirico Eugene Jackson. Non che fuggire fosse realmente un opzione possibile: per quanto fosse una delle cose in cui eccelleva, in quello specifico frangente non poteva permettersi di scappare – giusto perché non aveva alcuna scusa abbastanza solida per giustificare l’assenza alla nascita di suo fratello, non per moralità o intensa voglia di essere nel reparto gravidanze del San Mungo. Heidrun era troppo egocentrica per non ammettere, almeno a sé stessa, che neanche il fatto che ci fosse suo padre fosse per lei una motivazione sufficiente a rimanere; idealmente sapeva che, per lui, avrebbe dovuto sforzarsi almeno un po’ – ma la pratica?
    La pratica era un compromesso.
    Strinse il filtro della sigaretta fra pollice ed indice, la lingua ad umettare il labbro superiore. Odiava che tutti si aspettassero che fosse felice, come se avesse dovuto essere un emozione di base – quelle che se non le provavi, eri per forza di cose tacciato come mostro. Era un reato non essere al settimo cielo per la nascita di una creatura? Tanto criminale la era, che infilassero anche quello sulla sua già sporca fedina penale. «ehi»
    Meh. Si prese un secondo per serrare le palpebre, inspirare, e stamparsi sulle labbra il migliore dei suoi sorrisi, prima di volgere un’occhiata da sopra la spalla ad Al. Non era un sorriso falso, era… erano le circostanze, ad esserlo – valeva? Non aveva bisogno di fingere un sorriso in direzione del Crane, il che rendeva a curva delle labbra genuina e spontanea, bastava solo non pensare al motivo per cui entrambi fossero lì. «ehi» rispose brillantemente, con un delicato cenno del capo nella sua direzione. «potevi asciugarti prima di venire, non c’era così tanta fretta» Inarcò un sopracciglio verso Al, il capo reclinato da un lato per lanciargli un’occhiata di sottecchi mentre la raggiungeva alla balaustra. Solo una domanda: ma voi dove andate? venire dove? Al San Mungo? Sulle scale antincendio? Aprì la bocca per rispondere, la solita naturalezza che l’aveva cacciata nei guai più di una volta, ma la richiuse quando si rese conto della persona con la quale stesse parlando: e sì che erano praticamente coetanei, ma aveva come la sensazione che suo padre non avrebbe apprezzato l’onesto ”ma a me piace essere bagnata” o il ”potevi asciugarti priva di venire è un po’ come dire potevi mangiare prima di farti la pasta”. Inspirò dalle narici, uno sbuffo di fumo dalle labbra dischiuse. «è estate» commentò invece, molto più diplomatica, stringendosi nelle spalle. «ed è sempre un po’ come essere sul set di baywatch» scrollò i capelli bagnati sentendo gocce umide scivolarle sulle spalle, prima di ruotare ancora gli occhi verdi, gli stessi occhi verdi, su Al: «sono hasselhoff, ovviamente. ho già le mie pamele» almeno quello poteva dirlo? Non sapeva come funzionasse il rapporto genitori – figli, ma da quanto aveva compreso in quei mesi, era decisamente troppo impegnativo per il suo peculiare senso dell’umorismo. Beh, non era certo un segreto che le sue Pamele fossero Jade ed Ake, bionde e decisamente più fornite di lei – poteva anche, quasi, non sembrare vi fosse alcun riferimento sessuale.
    Ecco. Ma come si vivevano le conversazioni normali senza riferimenti sessualmente più o meno espliciti? Non era certa di saperlo fare, almeno quasi quanto era certa di non volerlo scoprire con papà. «che ci fai qui fuori, comunque? La festa è dentro» ah, il momento della verità. La Crane si concesse un sospiro, le spalle ora a volgersi verso l’esterno e la schiena poggiata alla ringhiera, un braccio poggiato contro lo stomaco e l’altro impegnato a reggere il mento. C’era un modo carino per dire al proprio padre quanto poco si fosse interessati alla nascita di suo figlio? Dubitava, dato che River era anche suo fratello.
    Non era colpa di River se Run una famiglia già ce l’aveva, e lui era di troppo. Non era colpa di River se lui una famiglia l’aveva già, e lei aveva dovuto trovarsela fra sudore e sangue. Avrebbe potuto rispondere qualunque stronzata, ad Al – anche solo accennare ad una carenza di nicotina, un pigro cenno verso la sigaretta.
    Ma non era così, che voleva il loro rapporto. Heidrun Ryder Crane non sarebbe mai stata la figlia che avrebbe voluto avere, ma sicuro come l’inferno era quella che già aveva, e della quale dove accontentarsi così com’era – nel male, e sempre nel peggio. Il non averla vista crescere sembrava aver creato in Al l’immaginario comune per il quale, ora, dovesse riempire quei vuoti – lui, Heidrun, la vedeva ancora come una bambina. Quando aveva conosciuto Al, aveva creduto… che potessero funzionare, in qualche modo. Compromessi, giusto? Il fatto che fosse suo padre non significava che dovesse essere… diverso dagli altri. Voleva un amico, Run - voleva qualcuno sul quale poter contare, non che si prendesse cura di lei. «non mi piacciono i bambini» ammise sincera, arcuando le sopracciglia. «figurati i bambini hamilton» battè lentamente, ed intenzionalmente, le ciglia: era abbastanza p a l e s e che la situazione la inquietasse – era giustificata, no? Oltre al fatto ch’era certa River fosse il nuovo Anti Cristo, era decisamente a disagio con il fatto che suo padre, con tutte le vagine esistenti, avesse deciso di esplorare quella di Charmion. Dov’era – dov’era la solidarietà? Sperava non ci fosse bisogno di tirare fuori l’argomento, perché non aveva alcuna intenzione di affrontarlo con Al.
    Almeno quello. Potevano parlare di tutto il resto, tanto merda emotiva da spalare ne avevano in arretrato di anni, giusto? «e non mi piacciono più di cinque persone in una stanza se» sono tutti vestiti «non ci sono alcool o una pista da ballo, senza contare che l’ospedale odora di morte» concluse ovvia, facendo un profondo tiro dalla sigaretta, un pigro sorriso a sollevare l’angolo sinistro della bocca. Abbassò lo sguardo sulle proprie mani, socchiuse le palpebre. «senti, non prenderla sul personale, ma… tutti si aspettano che io sia felice, ma… non vedo motivo per esserlo? Non – non pensare male» come si esprimevano le persone normali? Per ovvi motivi, non lo sapeva. Sibilò acido e cinismo, sincerità che al mondo piaceva poco, ed a lei sempre un po’ troppo. «è una pallina rosa. Se lo deve guadagnare, il mio affetto.» si strinse ancora nelle spalle. «sono qui solo per te, al» lasciò uscire l’aria in un soffio, lo sguardo a cercare quello di suo padre. «river non è ancora mio fratello. il sangue non basta» ed il sangue non serviva - lo sapevano entrambi. Lui aveva i Jackson, lei i Milkobitch. «se tu sei felice, lo sono anche io» allargò le braccia lungo i fianchi, la sigaretta a pendere dalle labbra. Beh? non Tryhard Malfidati, era vero.
    Davvero - oh.

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    death eater. special: aloysius angus crane
    very early in my life it was too f u c k i n g late.
    21.05.2017 | lumokinesis | 1989's | revenant | pavor
    Respirò piano, il cuore a battere ancora fin troppo prepotentemente contro la gabbia toracica. Dicevano fosse normale, sapete?, quell’impertinente palpitare duro a morire.
    Si era voluto preparare a quell’evento nel migliore dei modi, Aloysius Crane: aveva letto più cose di quante avesse dovuto, scoperto dettagli che alla conoscenza maschile avrebbero dovuto rimanere preclusi; si era addirittura addentrato in luoghi che il buon senso comune, a ragion veduta, avrebbe dovuto boicottare con tutte le proprie forze – ne aveva passate tante il lumocineta, anche troppe secondo il suo modesto parere, ma i traumi che si portava dietro dalle profonde ricerche nel dark web delle mamme moderne non li avrebbe augurati nemmeno al suo peggior nemico. Col senno di poi avrebbe potuto rifletterci due volte prima di creare un account falso – ovviamente al femminile, altrimenti quale sarebbe stato lo scopo di quell’indagine? -, chiedersi se ne valesse davvero la pena, quale fosse il prezzo che avrebbe dovuto pagare per quell’effimera sete di conoscenza; qualche mese prima, non l’aveva ritenuto necessario: si era fermamente convinto che entrare ne “il fantastico mondo delle mamme di facebook”, fosse un’idea geniale. Ne era uscito con un disturbo da stress post traumatico più logorante di quello che si portava sulle spalle per l’essere morto, e conoscenze su gravidanze e rapporti sessuali che avrebbe preferito non dover mai ripetere ad alta voce – nemmeno sapeva quale fosse stata la parte peggiore di quell’esperienza, Al. Probabilmente, quando per il più infausto scherzo del destino si era ritrovato a leggere i vari utilizzi che le madri facevano del reciso cordone ombelicale del proprio figlio: c’era chi lo essiccava per mangiarlo poiché ricco di preziose proprietà nutritive, chi ne aveva ricavato dei trendissimi orecchini che portava ogni giorno – e lungi dal ventottenne andare a scoprire a quali altri macabri tipi di gioielli li abbinavano -, e chi infine ne aveva fatto un portachiavi perché giustamente era parso l’utilizzo più ovvio da farsi del funicolo dato che oh!, le chiavi di casa doveva sempre portarle con sé.
    Tutto ciò che gli era servito per affrontare la gestazione di Charmion ed il successivo travaglio, non l’aveva di certo trovato lì – e tante grazie. Non che avesse davvero trovato granché da ricordare, in realtà: perlopiù informazioni e consigli apparentemente inutili per il Crane, scritti da psicologi o da chi ci era passato prima di lui. Tra i tanti dati (trascurabili o non, ma che a conti fatti non gli erano serviti a nulla né nel corso della gravidanza, né fino a pochi minuti prima), c’era chi gli aveva preannunciato tutto quello. Che fosse adrenalina, eccitazione o, molto più probabilmente, panico allo stato puro, quella tachicardia a pervadersi fin sulla lingua, a far tremare le mani – in maniera così maledettamente impercettibile, da non rendersene conto fin quando alla prima cosa che si provava a tenere tra le dita la si lasciava cadere senza nemmeno opporre alcuna resistenza -, a far sorridere della piega più ebete anche chi il sorriso credeva di averlo perso troppi anni addietro, era un elemento così terribilmente ricorrente che gli era stato impossibile non imprimerselo nella mente. Non un problema di tutti, il cuore a far quel cazzo che gli pareva dietro le costole; questo c’era da dirlo – ma era stato sempre fin troppo emotivo, Aloysius: non aveva avuto bisogno dell’empatia come mistico dono regalatogli dai Laboratori, per assorbire in maniera quasi letterale l’agitazione che la Hamilton reprimeva, a favore di rabbia ed indignazione per quella fottuta bestia che gli stava uscendo da in mezzo alle gambe.
    Eppure – eppure c’erano troppi fattori, in gioco. Troppe circostanze a rendere aspro sulle labbra quel sorriso inebetito dalla gioia della nascita di suo figlio, martellante e sconosciuto quel battito che prima o poi gli avrebbe spaccato il petto: ci provava, il Crane, a dirsi che vivere con un senso di colpa costante non lo avrebbe portato troppo lontano, se non da nessuna parte in assoluto.
    Ma come faceva a reputare normale l’adrenalina a pompare troppo sangue nel muscolo cardiaco, ad imputarlo ad un eccesso di gioia e felicità, se ogni palpito temeva fosse troppo forte, ed avrebbe potuto nuocere a due persone che non avevano fatto alcun male – se ogni palpito, gli ricordava quanto non gli appartenesse affatto.
    E come poteva non sentirsi in colpa, mentre al «ehi» di Run, replicava con la stessa, pigra piega colpevole ad ammorbidirgli il volto? «è estate, ed è sempre un po’ come essere sul set di baywatch» Si piegò verso la balaustra, il sorriso a brillare nelle iridi smeraldo mentre poggiava i gomiti sulla ringhiera della scala antincendio – non sapeva nemmeno che una struttura magica come il San Mungo avesse bisogno di quel tipo di precauzioni in caso di incendio: credeva che fossero attrezzati meglio, sapete, e che non avessero bisogno di far evacuare la palazzina in un modo tanto barbaro e babbano. «sono hasselhoff, ovviamente. ho già le mie pamele» non ritenne particolarmente opportuno domandarle se si riferiva a qualcuno, o se per “pamele” intendeva le proprie tette: era stato a letto con donne che davano nomi alle proprie ragazze, e non l’aveva mai reputato particolarmente disturbante – tuttavia, parlare del seno di sua figlia lo metteva un po’ in imbarazzo. «una parte di me – quella vecchia dentro: insomma,» si voltò brevemente verso Run prima di tornare a contemplare Londra, le bionde sopracciglia allusivamente sollevate. «sin -, desidererebbe ti facessi una ramanzina per l’escursione termica, per i rischi che corri, per gli acciacchi da ottantenne che potresti riscontrare domattina perché vuoi sentirti come mitch butchannon mentre corre verso il mare» avvicinò la sigaretta alle labbra, l’acre sapore del tabacco a prudere sulla lingua. «l’altra parte è molto più vicina alla tua età, quindi» si strinse nelle spalle lasciando scivolare dalla bocca semiaperta un filo di fumo grigiastro. «chi sono io per dirti che sarebbe meglio se ti coprissi»
    Ed avrebbe voluto, Al – con tutto sé stesso, per un solo istante aveva voluto posare gli occhi verdi sulla ragazza in maniera eccessivamente intensa, giusto per farle capire che avrebbe preferito che si andasse ad asciugare, o che si mettesse addosso qualcosa che la coprisse dalla lieve brezza di maggio. Ma per quanto potesse desiderarlo, davvero: chi era per dirle cosa fare, lui?
    Suo padre, era un titolo che lei non voleva, e lui non aveva mai avuto.
    Andava bene così: erano amici, almeno.
    Rimase in silenzio, osservandola reagire al suo interrogativo. Quando l’aveva posto, aveva voluto essere il più innocente possibile – perché d’altro non s’era mai vestita, quella domanda, se non di sincerità: erano tutti dentro, persino Eugene. Non… non era normale lei fosse fuori da sola. «non mi piacciono i bambini, figurati i bambini hamilton» piegò la testa, arcuò gli angoli delle labbra verso il basso: come darle torto. «io li ho sempre odiati» concordò onesto, sentendosi in dovere di renderla partecipe di quante volte, prima di essere rapito dai Dottori estremisti, aveva ridotto alle disperate lacrime bambini innocenti in passeggino, solo perché a) li odiava davvero; b) era divertente e non aveva alcuna ragione di farlo. «e non mi piacciono più di cinque persone in una stanza se non ci sono alcool o una pista da ballo, senza contare che l’ospedale odora di morte» «sei proprio mia figlia» constatò, senza riuscire a soffocare una mezza risata.
    «senti, non prenderla sul personale, ma… tutti si aspettano che io sia felice, ma… non vedo motivo per esserlo? Non – non pensare male» gettò la sigaretta oltre la ringhiera arrugginita, un ultimo sbuffo di fumo a scivolare dalle narici mentre si appoggiava al ferro con la schiena, le mani ad infossarsi nelle tasche dei jeans. Dire che si era aspettato quell’uscita dalla parte della Crane, sarebbe una menzogna: per tutto quel tempo, non gli aveva fatto nemmeno lontanamente immaginare che la cosa la potesse infastidire. Aveva evitato sempre l’argomento, non si era mai esposta in maniera aperta - forse avrebbe dovuto capirlo da solo, Al; non era mai stato particolarmente bravo a capire le persone, però. «è una pallina rosa. Se lo deve guadagnare, il mio affetto. sono qui solo per te, al: river non è ancora mio fratello. il sangue non basta» sospirò annuendo, la lingua ad umettare le labbra. «se tu sei felice, lo sono anche io» «capisco» convenne soltanto, alzando lo sguardo giada sulla figlia. Avrebbe potuto finirla lì per troppi motivi, il Crane – che la capiva davvero, lui. Che non si aspettava salti di gioia, che andava comunque bene così: era vero.
    Ed era anche una grandissima bugia. «mi dispiace, ovviamente ancora ci sperava – e sempre l’avrebbe fatto -, che potessero essere una famiglia vera; era inutile mentirle, basare quel loro rapporto sul fatto che non gli cambiasse nulla, se lei era contenta o no di quella nascita. «ma non pretendo né che tu sia felice di… tutto questo, né che tu voglia esserlo perché io lo sono» avrebbe aggiunto che non sarebbe mai stato pienamente gioioso fino a quando lei non lo fosse stata, che prima di tutto voleva la sua, di felicità – ma non gli piaceva vivere di frasi fatte, ad Aloysius Angus Crane: ne aveva sentite fin troppe a fin di bene nella sua vita, ed avevano sempre fatto troppo male. Si strinse nuovamente tra le spalle, lo sguardo sul pavimento. «ma non posso fare nulla per cambiare la realtà dei fatti» dovette mordersi l’interno della guancia, mentre tornava a guardarla negli occhi del suo stesso colore «è mio figlio, dopotutto» alzò le bionde sopracciglia, le labbra strette in una curva forzata: se nel sorriso voleva cercare d’evidenziare quell’immutabile dato di fatto, nell’ombra dell’iride era lampante che avrebbe voluto cambiare la realtà - non la nascita di River, mai quello, ma…
    Tutto il resto, capite. «se…» inspirò, espirò. «se tutto fosse andato in maniera diversa, run. se…» si accese un’altra sigaretta, anche solo per prendersi il giusto tempo – era abbastanza sicuro che contare sulle dita gli anni che separavano il duemilasette da quel giorno, avrebbe perso una credibilità ed una serietà che già faticava ad avere. «tu ora avessi nove anni, capisci?, pensi…» non sapeva nemmeno dove voleva andare a parare: non una novità, ma insomma. «pensi che sarebbe stato diverso?»
    E che non potessero - nessuno dei due - avere una risposta, era chiaro e faceva male.
    Ma doveva sapere se avrebbe accettato suo fratello, Heidrun.
    Sapere se pensava, come lui, che forse sarebbe stato tutto meglio, o decisamente peggio (niente vie di mezzo, per i Crane) - o se valeva anche soltanto la pena, di provare ad immaginare loro due in un rapporto diverso: lei come sua figlia, lui come suo padre.
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    death eater. special: heidrun ryder crane
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    21.05.2017 | mimesis | 1996's | fucked up | huntress
    Heidrun sorrise, priva di divertimento. C’era chi sorrideva per celare il proprio stato d’animo, per nascondere l’imbarazzo dietro un ghigno, per riempire i vuoti cercando di affettare la tensione con i denti – ma non lei. Run sorrideva per noia, come chi avrebbe potuto mangiucchiarsi le unghie o grattarsi le tempie; sorrideva con la distrazione di chi da quel mondo se n’era già distaccato, ed osservava il quadro completo stringendosi pigramente nelle spalle: okay, quindi è così che andrà d’ora in poi? Bella lì. Sorrideva sempre sentendosi il sorriso bruciare la gola ed illuminare le pagliuzze dorate negli occhi verdi; sorrideva sincera, perché nella noia non c’era bisogno di alcuna finzione. Sorrise per occupare spazio, perché le veniva più naturale che non abbassare il capo e fissare contrita la punta delle proprie scarpe da ginnastica. Non era studiato, non era cattivo – e, certamente, era lontano dall’essere poco piacevole. Era semplicemente diverso da qualunque altro sorriso, ma diverso non significava sbagliato, né malevolo. La gente quei sorrisi cercava d’interpretarli sempre, ed ancora non aveva capito che in Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, non ci fosse nulla da interpretare. «è una domanda trabocchetto» osservò semplicemente, le labbra a curvarsi sul filtro della sigaretta. Un interrogativo complesso sotto diversi punti di vista, ed in tutta sincerità al suo capisci? avrebbe voluto rispondergli che no, non capiva. E non capiva davvero, Run – non era nella sua indole lasciarsi trasportare da pensieri del genere: amava le riflessione filosofiche, ma era implicito in quelle questioni che non fossero personali. La roba troppo personale, non le era mai piaciuta.
    Ad essere onesti, non le era mai interessata. Così non capiva, Heidrun, perché la questione non l’aveva mai sfiorata, ma non significava che non capisse Al: sfumature, probabilmente. Avrebbe potuto, certo che avrebbe potuto, lasciarsi andare a qualche melanconico viaggio mentale rispolverando l’idilliaco universo che suo padre aveva sollevato con il quesito, ma sarebbe stato lontano anni luce dalla loro realtà. La loro realtà, che piacesse o meno, era assai meno piacevole; si digeriva male, rimaneva in gola a lasciare un sapore amaro e fastidioso sul palato. Era tossica, un groviglio di strade che anziché portare al centro della cittadina, continuavano a frammentarsi allungando il percorso di vite intere. La mimetica poggiò i gomiti sulla balaustra, un piede incastrato fra le sbarre della ringhiera. Tacque pensosa, una manciata di secondi a prender tempo, quel tempo che non aveva mai, nel tragitto fra le dita a tamburellare sulla coscia, ed i polpastrelli sul cilindro di tabacco. «diversa? indubbiamente» battè le ciglia lentamente, persa nel labirintico meandro dei suoi pensieri. Ci si perdeva spesso, Run, nella propria testa – talvolta tornare a terra le piaceva un po’ troppo poco, ed era sempre più faticoso farlo. «migliore?» e con quel fremito di risata ironica nel concludere l’interrogativo, sollevò gli occhi chiari a cercare quelli di Al. Non ci sarebbe stato alcun bisogno di concludere la sentenza, una risposta già cristallina nella beffarda piega della bocca, ma Heidrun lo fece comunque, la lingua ad umettare distratta il labbro superiore. «non sarei mai cresciuta con te, o con mia madre» distolse lo sguardo per posarlo sulla porta verde dell’uscita di sicurezza, il tono distante di chi raccontava una storia dalla camera attigua. «mi avrebbero tenuta gli harvelle, ed avrebbero ucciso jo. Non avresti mai saputo della mia esistenza» un ticchettio dell’indice sulla sigaretta, la cenere a dissiparsi prima di scivolare al suolo. «non avrei mai conosciuto i milkobitch» mordicchiò l’interno della guancia, le iridi verde bosco appesantite da una stanchezza più antica del sangue a scorrerle nelle vene. Era sempre stata più grande della sua età in un modo differente rispetto ai suoi coetanei, i quali parevano doversi sforzare di acquistare un anno o due in più per poter ordinare da bere al banco; matura abbastanza da sapere quando matura poteva non esserlo affatto, quando un capriccio infantile aveva il peso e la densità di una muta preghiera adulta. Aveva un modo tutto suo di affrontare il tempo, Heidrun.
    Perlopiù, non facendolo mai. «i miei amici» fece una pausa, le palpebre socchiuse e le labbra strette fra loro. «la mia famiglia» concluse con un sorriso bieco, includendo nell’ultimo insieme le sotto categorie già citate. «ci saremmo persi tutti comunque» distrattamente fece spallucce, il tono ovvio di chi considerava che anche prendendo la metro, avrebbero perso il treno. Non c’era di che rammaricare, non c’erano rimpianti: nel peggio e del peggio, Run aveva sempre avuto il meglio. «ed una volta che avessi scoperto di avere un padre, sarebbe stato troppo tardi» di nuovo, ma un po’ di più. «e mi avrebbero già insegnato ad odiarti» ancora scontata, tornò a sorridere lasciando cadere la sigaretta ancora accesa sotto di sé, le dita ora intrecciate pigre sul ventre. «non stata un errore da ragazzini, al. Non ero un -» River, ma ebbe abbastanza tatto da non dirlo. «- imprevisto» piegò la bocca, perfettamente consapevole che Al avesse comunque colto l’esitazione ed affatto imbarazzata da sé stessa – anzi, lusingata dall’essere riuscita a chiudere la bocca prima di dare al nuovo crane!involtino primavera dell’aborto mancato. Cinica? Sempre più del necessario. Cattiva? Mai più del dovuto. Non era colpa di Heidrun se la sua sincerità veniva fraintesa - lo diceva, lei, che non c’era nulla da interpretare: difficile che avesse loschi secondi fine; le uniche frecce piccole che apprezzasse, erano quelle con un bersaglio nei peggiori bar di Caracas. «ero un esperimento, e voi le cavie. Non esiste un e se» Non che le dispiacesse; per quanto potesse apparire incoerente dato i suoi atteggiamenti suicidi, a Run la sua vita piaceva.
    Il novanta percento delle volte. «mi dispiace tu ti sia perso la possibilità di imboccarmi con un cucchiaino pieno di cose, ma… per te» corrugò brevemente le sopracciglia, un sorriso sghembo a rendere le sue parole per quel ch’erano – un dato di fatto. Non c’era malizia, non c’era arroganza. «non per me.» e dato che immaginava quanto potesse suonare equivoca una sentenza del genere, si sentì in dovere di schiarirsi la voce e riderne, le guance calde d’imbarazzo. Heidrun Crane non aveva alcun genere di pudore, ma con un paio di sentimentalismi a sgusciarle fra le mani, tornava ad essere l’impacciata dodicenne di Londra a cui Benjamin Gunther, il ragazzino più carino della classe, aveva regalato una gomma da masticare. «tu c’eri nella mia vita. principalmente hai addestrato un sacco di draghi, ed ucciso diverse principesse» beh? Non le erano mai piaciute le principesse – voleva i loro vestiti, i loro castelli ed i loro principi, ma la loro presenza era assai superflua. Se anche i Principi delle favole di sua madre avessero avuto gonne a tulle color cielo stellato, probabilmente a morire sarebbero stati loro, e lei avrebbe avuto il suo happy ending con la principessa.
    Una bambina particolare, Roy. «è normale che un po’ mi scazzi per river, è…» come poteva spiegarglielo? Non facendolo Cercò le parole in un prolungato sospiro, occhi chiusi e pollici a premere sulle guance. «la natura umana.» tentò, piegando le labbra verso il basso. Probabilmente l’avrebbe presa meglio se non fosse stato concepito mentre lei era tenuta in cattività; probabilmente le sarebbe piaciuto di più, se l’utero non fosse stato quello di Charmion Hamilton. Ma Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, aveva imparato a sue spese che con gli e se non si faceva un cazzo – era così, che andava. Sottolinearlo sarebbe stato stupido e superfluo: voleva bene ad Al, ma era indubbio fosse una sgualdrina per i sensi di colpa. Ne fiutava mezzo nell’aria, e zac subito lì a succhiarlo come una mignotta in tangenziale. «non è colpa tua» si sentì sottolineare, arcuando ambedue le sopracciglia, sollevando le iridi su suo padre.
    Ma non è neanche colpa mia.
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