we don't have a lot but we've got each other

chips

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    we'll be together again

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    kind·heart·ed
    erin therese chipmunks
    sheet | 16 y.o. | 18.06.17 | rebel | flower girl | radiate positivity | character
    Grattò nervosamente i bordi dei corti pantaloncini di jeans, le braccia strette al petto malgrado il termometro segnasse più di trenta gradi. Gli occhi verdi, una sfumatura più fosca ed al contempo brillante rispetto all’ambiente circostante, scivolavano timorosi su ogni passante, attenti nel cercare di cogliere ogni indizio di quel luogo a lei sconosciuto: non c’era nulla di familiare in quel paesino, poco fuori Londra, nel quale Phobos li aveva scaricati. Erin Therese Chipmunks, che di familiare aveva appena poche zone della City, non poteva che sentirsi turbata - ma non era certo quello a costringerla, palpebre semi chiuse, a squadrare ogni persona che le passasse accanto. E, sicuramente, non era in quel suo disagio il motivo che la spingeva ad abbracciarsi il petto sottile, gli sciolti capelli castani a scivolarle fino alla vita. «perché…» ma la domanda le morì sulle labbra, il capo chino verso i propri piedi. Perché Idem dovrebbe essere qui? Sapeva quale sarebbe stata la risposta dei suoi compagni di disavventura: perché non dovrebbe? Ed avrebbero avuto ragione. In quei mesi avevano ormai setacciato ogni zona di Londra e dintorni, ma senza cavar un ragno dal buco: la segretaria del quartier generale della resistenza, sembrava semplicemente sparita dalla faccia della terra. Si rifiutava, la Chipmunks, di credere che fosse realmente così: sapeva, che da qualche parte doveva essere, attendendo paziente il loro arrivo. Non aveva dubbi che l’avrebbero salvata, ovunque ella fosse. Non poteva averne. Vivere al QG della Resistenza, da quando la ragazza era scomparsa, era diventato pressoché impossibile: lo sguardo di Erin, che passava fra quelle mura quasi tutte le sue giornate, non poteva fare a meno di soffermarsi sulla scrivania deserta, il cuore a pulsare sulla lingua nella speranza che, fra qualche secondo, avrebbe fatto la sua eccentrica comparsa, cantando un nuovo motivetto inventato sul momento. L’aveva data così per scontata, che la sua assenza le pesava il triplo: non era abituata, Erin Chipmunks, a non averla. In molti non prestavano particolare attenzione alla Withpotatoes, ma era impossibile che le sue azioni, anche inconsciamente, non migliorassero la giornata di qualcuno: la boccia di caramelle sempre piena, i biscotti sempre caldi, le faccine disegnate distrattamente sugli appunti per le missioni. Cose sciocche, tovaglioli piegati ad origami o un sorriso quando pensavi non ti avesse notato, ma cose che facevano la differenza. Non poteva rimanere con le mani in mano, la Chipmunks, attendendo passivamente che varcasse la soglia di casa: per una volta, una volta, voleva davvero provarci. Deglutì, sollevando il capo per incontrare gli occhi verdi di Phobos Campbell. Era stato lui, armato di un camioncino volante che l’ho comprato per vendere gelati, ma ho finito per regalarli tutti e ora sono povero, a portare la sqwad nel nuovo luogo da esplorare; ed era stato lui, mesi prima, l’ultimo a vedere la donna. Dondolò sui talloni, deglutendo piano. «pensi che sia qui?» domandò in un sussurro, gli occhi a guizzare verso gli altri membri del gruppo: Stiles, poco distante, stava indicando un punto in lontananza a Nathan, che gesticolava freneticamente; Scott, esattamente dietro di lei, la osservava con grandi occhi grigio verdi spalancati, le labbra sottili strette fra loro. «SONO OTTIMISTA.» Lo era sempre, e sapevano entrambi che non valeva come risposta. Il fatto che entrambi ci credessero davvero, ci credessero ogni volta, non faceva che rendere più difficile tornare a casa a mani vuote. Si sforzò di ricambiare il sorriso, gli angoli della bocca a piegarsi appena. Qui dove, direte voi?
    Ebbene.
    Nello specifico, si trovavano in un parco giochi, non lontano dal centro della cittadella. Si trattava di uno di quei luoghi che avevano, e quasi in quest’ordine: cimitero, ospedale, case, scuola (una soltanto). Fine. Di quelli dove non accadeva niente, o dove ti aspettavi non accadesse niente: se l’erano fatto bastare, quel barlume di sospetto. «non vieni con noi?» domandò, vedendolo far ciondolare le chiavi del pullmino. Lui fece schioccare la lingua sul palato, spalancando la portiera del conducente. «naah, c’è una zona poco distante da qui che mi pare assai “colpevole”. tanto siete in buone mani» diede una pacca sulla spalla a lei e Scott, che al suo fianco rabbrividì ed indietreggiò di un passo, ed indicò con le dita a pistola i due adulti responsabili ai quali li stava affidando.
    Andrew Stilinski e Nathan Wellington. Entrambi Tassorosso, entrambi Special (ciascuno a suo modo), entrambi… così poco badger. Eppure, per Erin, erano ovviamente perfetti, impeccabili, e degni di fiducia. Annuì più convinta, un sorriso speranzoso a piegare le labbra. «OKAY, A DOPO» lo salutò con la mano mentre si allontanava, i piedi ben piantati al suolo. Prese quindi a braccetto Scott, la testa reclinata a poggiare sulla sua spalla. C’era qualcosa di confortante, e di familiare, e di caldo nel rimanere al fianco del ragazzo. Qualcosa di giusto - l’unica cosa, l’unico sempre. L’unico modo per aggirare il destino, e trovarsi e ritrovarsi malgrado tutto e tutti. Scott non conosceva Idem, ma non era certo stato un deterrente, per Erin, nel non includerlo nella faccenda: non c’era nulla, a meno che non si trattasse della Resistenza, nel quale non implicasse anche Scott. Facevano pacchetto unico, loro – prendevi uno, in omaggio c’era anche l’altro. «grazie» gli disse solamente, inclinando il capo vero l’alto per incontrarne gli occhi chiari. Grazie perché la seguiva in faccende che non lo riguardavano semplicemente per starle accanto, perché la seguiva in avventure che raramente si mostravano degne di quel nome. Grazie perché per lei c’era sempre, anche quando non lo sapeva. Strinse la presa sul suo braccio, trascinandolo verso il Duo Fortuna poco più avanti.
    «[…], nathan. Pensavo ci fossimo chiariti»
    «è più forte di me. siete davvero, davvero uguali»
    «sì, ma io sono più simpatico. GIUSTO?»
    Si ritrovarono con gli occhi di Stiles e Nathan addosso, il sorriso del primo a cercare, poco discretamente, di spingerli a mostrarsi d’accordo con lui. Erin aggrottò le sopracciglia, annuendo con aria greve. «giusto.» «ditegli che non può odiarmi. DAI» Si volse per mostrare loro la fascetta che aveva sul braccio, un piccolo ritaglio di stoffa su cui, con calligrafia disordinata, v’erano vergate tre parole: “NON SONO JAY”. «ho fatto pure la medaglietta! E POI HO UNO SVILUPPATO SENSO DELL’UMORISMO senti non so perché ne stiamo ancora discutendo. Get over it, io e jayson siamo uguali ma differenti. Come i gemelli diversi, hai presente? Il gruppo. “ideeeem è andata viiiia, l’hanno vistaaa…”» La canzone s’interruppe, l’espressione del Tassorosso ora seria e pensosa. «non so come continuare. Nessuno l’ha vista» e nonostante il sorriso sghembo con il quale accompagnò quella battuta, Erin non potè fare a meno di notare l’amarezza con la quale l’aveva sdrucciolata, lo sguardo più cupo ad evitare il contatto visivo. Si allontanò da Scott solamente per allungare, timidamente, una mano verso Stiles, prendendo quella di lui nella propria. «non conosco i gemelli diversi, ma scommetto che sono molto forti» tentò, inarcando un sopracciglio. Fu ricompensata da una risatina nervosa ed un cenno di finta modestia nell’aria, grugniti che potevano significare grazie quanto bella lì o osteoporosi. C’era qualcosa che non andava, in Andrew Stilinski. Ma la Chipmunks lo amava così tanto, nella maniera platonica e pura con la quale amava Scott, Skandar, o Nathan. Non perché fosse il padre (come? Non le era dato saperlo, ma lei si fidava ciecamente) di Stich, figurarsi: non era abbastanza machiavellica o subdola per fare un ragionamento del genere. In compenso, quello era il motivo che l’aveva spinta a spendere ore e ore davanti allo specchio alla ricerca dell’outfit adatto per la gita: doveva fare buona impressione.
    Stiles sfregò le mani fra loro, schioccando rumorosamente la lingua sul palato. «okay, ciurma. Io e nathan da quella parte, voi rimanete qui» Frugò nel marsupio stretto in vita, emergendone con due walkie talkie. Ne lanciò uno a Scott, mentre l’altro lo tenne per sé. «rimarremo sempre in contatto. SEMPRE.» Erin neanche lo guardò, concentrata com’era a guardare il punto indicato da Stiles dove lui e Nate avrebbero iniziato le ricerche. Non aveva nulla di promettente, quella lontana villetta inerpicata su di una collina, probabilmente disabitata da decenni. Le ricordava vagamente la magione de “La casa dei Fantasmi”, il film con Eddie Murphy. Rabbrividì, le braccia nuovamente allacciate al petto. «non penso sia una buona idea, separarci.» mentre il cielo sopra di loro brillava di un ironico blu cobalto, sopra la villa pareva esserci una concentrazioni di nuvole temporalesche non da poco. Si umettò le labbra, riportò lo sguardo su Stiles e Nate, e non si fece sfuggire l’occhiata che passò fra i due: in un istante, Erin comprese. Aggrottò le sopracciglia, imbronciò la bocca carnosa, e rivolse uno sguardo furente ad entrambi. «non è come pensi» si affrettò il Wellington, ormai perfettamente in grado di riconoscere i sintomi che indicavano l’avvento di evil!Erin – o come la chiamava lui, Tessa.
    Stavano cercando di escluderli dalla partita, lasciandoli in luogo (relativamente?) sicuro. Aka, dove non avrebbero mai trovato Idem Withpotatoes, a meno che per tutto quel tempo non fosse rimasta nel parco a costruire formicai per gli imenotteri in difficoltà.
    … non così improbabile, a dire il vero.
    «ah no?» avanzò, inarcando entrambe le sopracciglia. Stiles guardò Nathan, un velo di sudore a inumidirgli la fronte. Vi passò rapido il dorso della mano, piccoli e rapidi respiri a sgusciare dalle labbra dischiuse. «voglio fare qualcosa anche io, nathan. Sono qua per questo.» Incrociò risoluta le braccia sul petto, la schiena dritta e lo sguardo determinato. Perché poteva apparire come il più fragile dei boccioli, Erin Chipmunks, e di cuore lo era, ma sapeva sfoderare gli artigli, se necessario. Non c’era alcun bisogno che la proteggessero, era in grado di farlo da sola. Nathan assottigliò le palpebre, quindi le si avvicinò di un passo poggiandole le mani sulle spalle – e ripetendo il gesto quando lei, stizzita, se lo scrollò di dosso. «davvero, erin. Dobbiamo cercare ovunque, questo è un luogo come un altro. non hai la magia, e…» Il grande fardello della Chipmunks: non aveva una bacchetta. Ancora. A conti fatti, era utile quanto un mestolo in alto mare; per quanto ci provasse, senza la giusta attrezzatura non poteva essere brava quanto Nathan, o Stiles, o perfino Scott. Era semplicemente troppo limitata, con quella sua mancanza. Lo sguardo di Erin però non si addolcì, rimanendo offeso e distaccato (per quanto una Erin potesse mostrarsi distaccata, almeno). «non posso rischiare di perdere anche te – perdere letteralmente. Sei la mia miglior amica» Lecchino. Sapeva che non poteva resistere, neanche volendo!, ogni qual volta le ricordava quanto fossero amici. Era ancora scioccante per la strega rendersi conto che le persone fossero in grado di ricambiare i suoi sentimenti, offrendole relazioni stabili e sincere: Murphy, Nate, Jess, Amalie. Scott e Skandar ormai non contavano neanche più. Aveva così poco da offrire, che ogni qual volta qualcuno le dimostrava quanto fosse abbastanza, il suo cuoricino non riusciva a reggerlo: così, anche quella volta, si sciolse in un sorriso intenerito, le mani a premere sulle proprie guance. «sì, okaay, ma vale anche per te.» ribadì seria, lanciando un’occhiata in tralice a Stiles. «walkie talkie sempre accesi, mh. SEMPRE ACCESI – scott, guardi se funziona per favore?» fece un cenno al ragazzo, invitandolo a testare il trabiccolo poco moderno con il quale Stiles li aveva accessoriati.
    E fu così che Erin e Scott Chipmunks, del quale ancora Therese non conosceva il cognome, rimasero soli in una zona a loro sconosciuta. Lo zainetto di Erin conteneva ogni strumento del quale potessero avere bisogno (bussola, cannocchiali, mappe, biscotti, caramelle, acqua, kit del pronto soccorso, altre caramelle, ancora biscotti), eppure sapevano entrambi, nel profondo del loro cuore, che si sarebbero persi.
    Almeno, l’avrebbero fatto insieme.
    Quando Stiles e Nathan non furono più a portata d’occhio, la Chipmunks si volse sorridente verso Scott, il solito barlume di eccitazione che le illuminava lo sguardo ogni qual volta si trovassero ad esplorare, a far luccicare le iridi verdi – sognava, un giorno, che insieme avrebbero potuto fare il giro del mondo: perché non iniziare il loro viaggio in ogni più piccolo luogo che la quotidianità loro offriva? «BENE, prima cosa:» nonché unica della lista, ma quello non lo specificò. Alzò un dito, pronta ed enumerare un elenco che non possedeva. «ci servono dei nomi in codice per la missione.» asserì, serissima, cominciando a camminare attraverso il parco giochi. «io sarò… hopeless romantic. Anzi no,» ticchettò l’indice sul labbro inferiore. «ti amo in tutte le lingue del mondo. Anzi, no. happy hamster i meant, gangster - no i didn’t» intrecciò le dita dietro la nuca, il capo reclinato verso le fronde degli alberi. «anzi, no. che ne dici di chipslove2000?» espirò con un sorriso entusiasta, ruotando gli occhi su Scott. «2000 – la mia data di nascita. Love, beh, non te lo spiego neanche. Chips – patatine, chipmunks. È PERFETTO.» Battè le mani fra loro, molleggiando sulle ginocchia come le aveva insegnato Murphy (a cui l’aveva insegnato Run, a cui l’aveva insegnato Holt, a cui l’aveva insegnato il Signore Oscuro in persona.).
    «ti piace? Ti piace.» perchè aveva sempre bisogno di conferme, Erin.
    E fu così, nel modo più innocente e puro possibile, che Erin si presentò ufficialmente al suo miglior amico – dopo tutto quel tempo, quegli anni, quelle vite fra risate. Erin Chipmunks.
    Come lui, e come sempre.
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia
     
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    scott noah chipmunks
    sheet | 17 y.o. | trainee lawyer | haphephobic | nerd deatheater | pensieve
    18.06. Scott Noah Chipmunks non si mosse, le iridi grigio verde immobili sul walkie talkie mentre Stiles e Nathan se ne andavano, lasciandoli lì. Non ebbe la forza di protestare, né in quel momento né quando una piccata Erin in precedenza, con le mani sui fianchi morbidi ad enfatizzare il suo - il loro! - disappunto, aveva espresso la propria voglia di aiutare in quella missione disperata: non sapeva nemmeno se protestare contro di lei, o contro i due ex tassorosso; gli occhi spalancati e le labbra dischiuse, il sedicenne si era soltanto voltato alla ricerca di Phobos Campbell, nella speranza che il professore ed il suo fido camioncino dei gelati fossero ancora lì, così che lui potesse precipitarcisi sopra e nascondersi sul sedile posteriore, la visiera del cappello il più possibile a coprirgli lo sguardo e le braccia conserte sul corpo esile. Spesso, al serpeverde, sfuggivano delle cose - nozioni basilari ed accorgimenti un po’ più mirati, le fondamenta della fisica quantistica tanto quanto l’abc dell’algebra: tante volte era come se il suo cervello andasse in standby, il più lento e rognoso dei processori a spegnersi nel bel mezzo della partita più importante a World of Warcraft lasciandoti impotente, e semplicemente si assentava, lo sguardo chiaro perso su punti fissi nello spazio mentre la mente viaggiava di fantasia in luoghi che, con quanto stava accadendogli fisicamente attorno, non c’entrava nulla. La maggior parte del tempo, nemmeno lo faceva apposta: deficit dell’attenzione lo chiamavano, che per lui era sempre e comunque riassumibile con un “scusa, non ti seguivo”, od un “perdonami, mi ero perso, dicevi?”. Stupido però non lo era mai stato, e quel giorno non si era mai disconnesso: aveva capito perfettamente, cosa stavano facendo. «ci hanno abbandonato» mugugnò al dispositivo, così tanto flebile che la ragazza al suo fianco non poté neanche sentirlo – che se solo avesse potuto udirlo, avrebbe capito nel sottinteso non verbale la febbricitante necessità di andarsene di lì al più presto: non espresse le proprie volontà, Scott, solo perché non avrebbe mai fatto un torto del genere ad Erin. Chi fosse Idem Withpotatoes, lui, non lo sapeva. Ne aveva sentito il nome dalla migliore amica, quando questa con le guance arrossate e gli occhi sognanti gli raccontava dei suoi amici, vicini di casa; aveva letto la targhetta che la identificava una volta di sfuggita al San Mungo, quando sotto il pressante invito dei Quinn era andato in cerca di un consulto psicologico per parlare della sua ansia sociale, convinti che parlare con estranei di cose a caso avesse potuto in qualche modo aiutarlo: per inciso, così come era entrato all’ospedale altrettanto celermente ne era uscito, la coda tra le gambe e tra le braccia fascicoli che solo Merlino sapeva cosa potessero contenere. Glielo avesse chiesto qualcun altro, chiunque altro, di prendere parte a quella ricerca, avrebbe rifiutato immediatamente: avrebbe fatto di tutto per i propri amici, e se si trattava di situazioni un po’ più blande si sarebbe azzardato ad uscire dal proprio guscio protettivo nel qual caso fosse stata strettamente indispensabile la sua presenza, ma il Chipmunks non era mai stato un altruista. Tuttavia, si trattava di Erin - quando entrava in gioco lei, era incapace di dire di no. La ragazza poteva mettersi in testa di scalare l’Everest, di fare bungee jumping dalle cascate del Niagara, di provare il peyote in Arizona o di votarsi al buddhismo e partire per fare sette anni in Tibet: lui sarebbe stato sempre al suo fianco, pronto a dirle di non farlo – perché avrebbe fatto di tutto con lei, e non sapeva nemmeno il perché, ma quasi mai se la sentiva di seguire i grandiosi sogni della mora. Non era coraggioso come lei, Scott: fantasticava sempre, il biondino, su un mondo futuro nel quale sarebbe stato in grado di portare a termine tutti i progetti che aveva sempre iniziato o anche solo pensato, in cui non avrebbe avuto il terrore di entrare in contatto con le persone ed il mondo esterno, ma con gli occhi rivolti ad un cielo che delle sue chimere se ne faceva beffe ed un forzato sorriso ad increspare le labbra sottili era perfettamente consapevole che una cosa del genere non sarebbe mai davvero accaduta. Aveva sempre desiderato essere un po’ più come sua sorella, Noah - intrepida e valorosa, che quel mondo utopico dalle tinte pastello sarebbe stata in grado di prenderlo tra le dita, sollevarlo e dire a tutti che era il suo mondo. Dove lui si limitava, si era sempre limitato, ad immaginare, lei prendeva l’iniziativa.
    Non voleva deluderla, Scott.
    Non avrebbe mai voluto deluderla, Noah.
    Era lì per lei, sempre e solo per lei.
    Se resisteva all’istinto di gettarsi a terra, le braccia attorno alle ginocchia e strette al petto mentre rotolava sul terreno alla ricerca di un segnale («erin… non prende il telefono… NON C’È INTERNET!»), nella spasmodica speranza che qualcuno venisse in loro soccorso per riportarli a casa, era soltanto per lei.
    Per loro.
    Senza contare che, dopo tutte le storie narrategli dall’amica, voleva davvero trovare Idem: era così ingiusto che persone come la Withpotatoes scomparissero dai radar senza motivo, mentre gente come i Larson se la cavava sempre. Non c’era giustizia in quel mondo - più metteva piede fuori dalla propria camera, più si rendeva conto di quanto quel pianeta facesse schifo.
    Deglutì aria e saliva, alzando lo sguardo appena in tempo per vedere le silhouette di Nathan e Stiles sparire all’orizzonte: li avrebbe odiati per averli lasciati lì, se solo non fossero stati loro. Con il Wellington non aveva avuto modo di scegliere se volergli bene o meno - l’aveva costretto, con tutto quel contatto umano a Brecon che aveva contribuito, assieme al trauma dell’esplosione delle mani di gente a caso e del capanno, a tenerlo sveglio per notti intere; poi, se era il secondo (ovviamente, il primo era lo stesso Chipmunks) migliore amico di Erin, non poteva far altro se non amarlo. Lo Stilinski lo conosceva di meno, incontrato di sfuggita ad Hogwarts per i corridoi – letteralmente, di sfuggita: il tassorosso stava scappando da gente che voleva picchiarlo, ed a quanto aveva sentito dire non era stata la prima volta -, eppure. C’era qualcosa di familiare, nel ragazzo, più della semplice faccia già vista al party in piscina o sugli schermi dei cacciatori. Che cosa fosse quel più, Scott non poteva saperlo – ad ogni modo era stata Run a presentarglielo, assemblando quei malandati Avengers dei poveri, e della mimetica si fidava ciecamente: se lei diceva che era a posto, lo era davvero. Con lo sguardo assorto, rivolto ancora in lontananza, avvicinò la radio al volto, il dito premuto sul PTT. Inspirò profondamente e gonfiò il petto, mentre dal microfono usciva il tipico ronzio dei walkie talkie – quello metallico e raccapricciante che ti fa pensare che non funzionerà mai, e che forse mai aveva funzionato prima di allora, ma che i film ti insegnano essere parte della norma. «mi ricevete? passo.» domandò, la voce un suono il più basso e greve possibile – sicura, in quell’insicurezza che gli faceva tremare terribilmente le gambe. Se non fosse stato una talpa alta un metro e ottanta, avrebbe potuto notare le figure dei due membri della sqwad fermarsi appena, quell’infinitesimo di secondo che serviva a rendersi conto del rumore e ricollegarlo alla ricetrasmittente, prima di ripartire – e ne sarebbe stato sollevato Scott, prima ancora di udire la risposta dall’altoparlante: invece non vide una ceppa, e volle un po’ più morire. «sì scott, ti riceviamo, non andare già nel panico» «io non vado nel panico, passo.» mentì stizzito. «e dite passo quando passate, passo.» «sì ok ciao, passo e chiudo» Stronzetti. «ci servono dei nomi in codice per la missione» «bene, funzio- cosa» si immobilizzò di punto in bianco, il Chipmunks, la radio felicemente alzata nel palmo della mano ed un sorriso allegro sul volto. Che nomi in codice. Quale missione? Scott era fermamente convinto li avessero lasciati lì per non farli muovere – magari per fare la guardia ad un cespuglio particolarmente bello e curato -, non per incitarli ad intraprendere una missione secondaria da soli. Non sapeva se era pronto (sì che lo sapeva: non era pronto). Mantenne il sorriso, un po’ più nevrotico rispetto all’inizio, fino a quando non si scontrò con la faccia seria di Erin. Faceva sul serio. Ascoltò tutti i nickname con autentico interesse, iniziando a riflettere su ciascuno di essi prima ancora che l’amica potesse bocciarseli da sola, fino a quando. «anzi, no. che ne dici di chipslove2000?» qualcosa lo turbava, ma non disse nulla; rimase a guardarla, le sopracciglia arcuate e la più sincera delle confusioni dipinte sul volto. «2000 – la mia data di nascita. Love, beh, non te lo spiego neanche. Chips – patatine, chipmunks. È PERFETTO.» alzò un dito, la perplessità a piegare le labbra in una O perfetta, prima di abbandonarsi ad una soffice risata – di quelle piene e pure, niente di isterico o montato a muovere il diaframma. «che coincidenza» commentò, umettandosi le labbra con la lingua. «ti ho per caso mai detto che chipmunks è il mio cognome?» sarebbe stato così divertente, così divertente!, se l’idea per il nome in codice le fosse venuta per quello stesso motivo. «ma sicuramente tu hai pensato ai chipmunks di Alvin, no?» agitò una mano in aria, ignorando volutamente sia l’espressione allibita di Erin, sia le sue opposizioni in merito. «ma certo, è sicuramente come dico io»
    Non era come diceva lui, affatto.

    25.09. Guardò l’orario cambiare nell’angolo superiore del telefono, lo schermo così vicino da essere facile da leggere anche senza occhiali – rilesse un’ultima volta il messaggio prima di inviarlo, chiudere gli occhi e sorridere tenue nel riceverne uno subito dopo , il dispositivo a vibrare tra le dita. «auguri scott» sussurrò piano, tra le pieghe delle lenzuola. Quello scambio immediato di auguri era l’unica costante di Noah durante il suo compleanno: ormai da nove anni a quella parte, i ritrovati gemelli non avevano alcun bisogno di mettersi d’accordo in precedenza per essere puntuali in quei “buon compleanno!”, sempre arricchiti di epiteti e particolari diversi – sempre nuovi, nel loro essere sempre gli stessi. Era l’unica cosa che gli piaceva di quel giorno: per il resto, lo aveva sempre detestato. Aveva preso l’abitudine di rintanarsi sotto le coperte quando ancora viveva con i Larson, lui che di notte viveva meglio – tra giochi stupidi ed internet, tra momenti di riflessioni filosofiche assurde e braccia conserte sul davanzale della finestra, gli occhi a sfiorare stelle che non avrebbe mai raggiunto -, prima ancora della mezzanotte nella vana speranza che così facendo, almeno quel giorno, lo avrebbero lasciato in pace – che non era nemmeno certo lo ricordassero, quando gli era stato detto che era nato. Aveva imparato a non aspettarsi torte, né regali d’alcun genere, da alcuna famiglia: laddove i primi genitori affidatari sicuramente se ne sbattevano, i Quinn erano sempre indaffarati oltremodo, impossibilitati dalla vita sociale a sobbarcarsi di un peso che era capitato loro per sbaglio – nemmeno poteva contare su Eleanor, che da Hogwarts poteva fare ben poco se non scrivergli una lettera al volo tra una lezione e l’altra. Si era sempre accontentato degli auguri di quei pochi amici, un tutto che gli bastava a farlo assopire immediatamente dopo lo scoccare del venticinque dicembre – aspettava sempre un po’ di più, nella speranza che arrivasse qualche messaggio in più rispetto a quelli già previsti; quell’anno attese di più, il Chipmunks, invano: com’era possibile sparire dalla vita delle persone così rapidamente, senza lasciare più traccia? Perché faceva ancora male? Qualche istante dopo averlo tenuto inutilmente contro il petto sospirò tenue, facendo scivolare il cellulare sul comodino. Non ricordava nemmeno di aver detto a Maeve e Dakota, a Leaf e Byron, che sarebbe diventato maggiorenne a giorni – magari lo sapevano già da sé, magari no: non era certo di volere che lo sapessero. Sarebbe stato tutto nella norma se non lo avessero fatto, e lui non avrebbe dovuto aspettarsi nulla da loro.
    Quando la porta cigolò, istintivamente Scott si strinse un po’ di più sotto le coperte – si era convinto, da piccolo, che così facendo nessuno avesse il diritto di sgusciare tra le lenzuola, di sdraiarsi sul suo stesso materasso, di toccarlo in alcun modo: non aveva mai davvero funzionato, ma ai più piccoli rumori ingiustificati della notte gli permetteva di dormire sonni più tranquilli. Allentò la presa quando sentì le ormai familiari voci dei due coinquilini, bisbigli tenuti sottovoce ma amplificati dal silenzio della stanza. «ma… già dorme?» «… abbiamo sbagliato giorno?» «no no, sono sicura sia oggi» «forse oggi è il ventiquattro…» «no, dai… mi rifiuto.» allarmato, nonché confuso, il Chipmunks rotolò sul letto, volgendo lo sguardo alla porta: senza lenti, poté a malapena distinguere la luce a filtrare dall’uscio socchiuso. Accese l’abat-jour, inforcò gli occhiali. «AUGURI SCOTT!» rotolò – letteralmente – giù dal letto, colto di sorpresa sia dal tono elevato dei due sia da… quello. Socchiuse le labbra, ma restò immobile, mentre i due si avvicinavano a lui, ciascuno con in mano una torta. «non sapevamo bene come ti poteva piacere, quindi ne abbiamo una al cioccolato e una ai frutti» non guardò il Wayne, gli occhi chiari fissi sui dolci, sulle candeline. «ora sei un vero adulto, dovevamo-» non guardò la Winston diminuendo la distanza che li separava, chiudendoli in un abbraccio – impetuoso, qualcosa che il Chipmunks non avrebbe mai fatto; gli occhi chiusi, la testa sulla spalla della bionda.
    Non se l’era aspettato, quel contatto che lui stesso aveva cercato.
    Non se l’era aspettate, quelle candeline a danzare flebili.
    Non se l’era aspettate, quelle lacrime a scivolare sulla guancia.
    Non se l’era aspettata, una famiglia come quella.

    h. 18:30. Tamburellò irrequieto ed eccitato le dita sul fascicolo chiuso, le iridi grigio verde volte altrove. Il panorama di quel piccolo parco fuori città sembrava diverso, ora. Erin Chipmunks, la sua migliore amica, sua sorella!, sembrava essere diversa, su quella panchina: aveva appena scoperto che condividevano lo stesso sangue, che erano sempre stati più che semplici amici – se non fosse stato vero? Teneva quel dossier fermo sulle ginocchia, timoroso ed al contempo curioso di sapere quel che v’era al suo interno: aveva ascoltato con sincero interesse tutto quello che aveva avuto da dirgli Kieran, ma aveva deciso di non crederci davvero. Era troppo assurdo - era un sogno ad occhi aperti. Probabilmente aveva soltanto fatto incetta di dolci a casa makota, era andato in overdose di zuccheri ed era entrato in coma; tutto quello che aveva scoperto, era stato solo frutto del suo subconscio. Non poteva seriamente essere altrimenti. Aveva letto libri e fumetti, visto film e giocato a videogiochi che quel tema lo trattavano a sproposito e continuamente, tanto da farlo appassionare come avevano fatto con qualsiasi altro giovane adolescente di quel pianeta; conosceva e praticava la magia, sapeva che c’era un mondo intero che la maggior parte della popolazione mondiale non poteva conoscere e che era in grado di fare cose teoricamente impossibili, ma quello? Quello era di un altro livello, assolutamente. Lui, proprio lui!, Scott Noah Chipmunks, avrebbe preso parte nel futuro duemilaquarantatre ad una missione potenzialmente suicida e che implicava viaggi nel tempo, tutto soltanto per salvare una generazione che era sull’orlo dell’estinzione? Davvero. Ma l’aveva visto, l’aveva conosciuto, prima di raccontargli quella storia? Ci si era appassionato, com’era ovvio e prevedibile che accadesse, ma era rimasto fantascientificamente meraviglioso fino a che non aveva tirato in ballo lui e la gemella. Si conosceva abbastanza bene, il neo diciassettenne, da sapere che non avrebbe mai fatto una cosa del genere. Solo un motivo, solo una persona, sarebbe stato in grado di spingerlo a fare tanto, e quel motivo era seduto esattamente accanto a lui.
    Che ne poteva sapere, che era stato solo perché glielo aveva chiesto lei se aveva acconsentito ad essere un messaggero? Che ne poteva sapere, che aveva voluto farlo?
    Quando fantasticava sui viaggi nel tempo, sognava sempre un futuro ipertecnologico nel cui inciampare, macchine volanti ed altissimi palazzi di marmo bianco – aveva sempre scartato il passato, troppo brutale per i suoi gusti. Non aveva mai creduto potesse accadere seriamente – o che, come in quel caso, fosse già veramente accaduto. Non lo accettava.
    Che regalo strano, quello dell’amica di Erin: forse era solo la descrizione di un parco divertimenti per cui aveva regalato loro dei biglietti, elegantemente chiusi nella busta color pergamena. «tu ci credi?» domandò all’improvviso, lo sguardo fisso su di una quercia all’orizzonte. «io no… non lo so» continuò, sistemandosi la montatura degli occhiali sul naso. Non voleva crederci: sarebbe stato terribile se quella fosse stata la realtà, e non come se lo aspettava dai racconti di Asimov. Tornare indietro, senza memoria, senza idea di chi fosse o chi erano stati i suoi famigliari, per poi essere sbattuto in una casa di sociopatici violenti e pedofili? Era davvero di pessimo gusto. Sapeva che avrebbe smorzato, così, l’entusiasmo della ragazza al suo fianco – tuttavia, non fece poi così tanto per contenersi; che la sua, di smania, non era altro che nervosismo. Lesinò dall’accendersi una sigaretta, soltanto perché non era certo ad Erin piacesse – cercando di non pensare a quando, sul cornicione di un palazzo in costruzione, aveva provato il primo cilindro di tabacco con Skandar: così, tanto per fare qualcosa di “estremo”. Si morse le labbra, voltò lo sguardo di giada sulla Chipmunks. «lo apriamo insieme?» domandò, seppure non vi fosse davvero la necessità di domandarlo.
    Non avrebbe mai fatto nulla, se non fosse stato fatto insieme a lei - non aveva mai fatto nulla, senza di lei.
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia


    Edited by insomniac; - 27/9/2017, 02:21
     
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    erin therese chipmunks
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    2043. Guardò il proprio riflesso allo specchio, l’indice a scivolare sulla morbida curva del collo seguendo le linee della ragnatela ivi tatuata. Dovette trattenere il respiro, Tupperware Armstrong Jackson, mentre i colori parevano farsi più vividi - ed al contempo, dentro le consapevoli iridi verdi, meno permanenti. Aveva sempre creduto che quelle tracce d’inchiostro sarebbero rimaste fino al giorno, indubbiamente prematuro, della sua morte. Erano parte di lei quanto i capelli ora lilla a solleticarle la base della schiena, quanto le labbra morbide ed a forma di cuore perennemente imbronciate. Erano Tupp, quei segni – ciascuno, a suo modo, un simbolo.
    Li avrebbe persi. Anche loro. Era complesso da accettare, che la sua pelle sarebbe nuovamente stata illibata e perfetta, priva di ciò che AJ era stata per sedici anni; il primo tatuaggio, una fiamma sul costato, risaliva ai quattordici anni. Era sulla soglia dei trenta, Tessa Hamilton, e faticava a ricordare cosa si provasse a non aver fatto del proprio corpo una tavolozza, unica espressione che si fosse concessa per essere quel che era: troppo ostinata, troppo orgogliosa per ammettere le proprie debolezze, o la propria innocente frivolezza. Aveva lasciato fossero loro, a parlare per lei.
    Avrebbero dovuto farlo sempre. Con il condizionale, però, avrebbe potuto costruirci un universo intero – l’aveva fatto. Delilah e Neil avrebbero dovuto rimanere abbastanza da darle consigli sul suo stile di vita; Lydia e Jayson avrebbero dovuto rimanere abbastanza da prendersi cura di lei, quando i suoi genitori erano morti.
    Ma Delilah e Neil erano morti quando Tupp aveva diciott’anni. Lydia e Jayson erano morti poco dopo, lasciando Erin e Scott fra le inesperte mani di Tupp e Cash: erano le loro sorelle, avrebbero dovuto occuparsi di loro.
    Avrebbero dovuto. Ed invece, inevitabilmente, erano state trascinate nel violento uragano della vita dei Volontari: un viaggio di sola andata verso le fiamme del fottuto inferno – e lei, lei, voleva solamente bruciare. E lei, lei, era stata egoisticamente felice della loro scelta: Erin Therese Chipmunks non sarebbe cresciuta con la sua famiglia, ma un giorno avrebbe potuto ritrovarli. Avrebbero potuto costruire qualcosa, consapevoli di essere giunti a quel punto grazie ad un loro sacrificio: che quella storia da vivere e sopravvivere, era merito loro.
    Che un po’ di felicità, in quella vita, se l’erano guadagnata.
    Ma li avrebbe persi. Anche loro: Erin, Scott, Noah. Dominique, Danielle, Jessica. Lynch, Ronan, Meara. BJ, CJ, Ade. Uran, Rude. River, Grey, Hemingway, Jekyll e Hyde. EugeJadeNathaniel.
    Mabel.
    «perché sei sveglia?»
    Leia Skywalker.
    Non rimpiangeva di aver accettato di essere una Volontaria, ma non significava che la situazione dovesse piacerle per forza. Razionalmente, e quando era necessario dovesse parlarne con qualcuno, sapeva che non si trattava di perdite – che tutti i Messaggeri ed i Custodi, li avrebbe ritrovati.
    Ma c’era poco da prendersi per il culo, che la ragione in certi casi aveva poco a che vedere con la fottuta realtà dei fatti: Tupperware Therese Armstrong Jackson Hamilton, il 15 Gennaio 2043, sarebbe morta. Sarebbe morta, portando con sé tutti i ricordi che aveva di loro: il primo fallimentare tentativo di cucinare di Erin, il primo esperimento con la colla a caldo di Scott, il primo naso sanguinante – a causa di un suo pugno – di Noah; avrebbe dimenticato il sorriso di Danielle quando le aveva regalato il suo primo casco; avrebbe dimenticato l’espressione piacevolmente confusa di Dominique quando aveva riconosciuto nel suo quadro le forme corrette, ed avrebbe dimenticato di quella volta in cui, dopo una gelata particolarmente rigida, aveva accompagnato Jessica alla radio nel bosco su un maledetto slittino.
    Avrebbe dimenticato la prima volta in cui lei e Mabel si erano appiattite sul divano per guardare Mulan, le prime lacrime, quelle ancora buone e dolci, asciugate pigramente l’una sulle spalle dell’altra.
    Avrebbe dimenticato cosa casa significasse. Si sarebbe sentita vuota, e non avrebbe saputo spiegarsi il perché – avrebbe probabilmente incolpato sé stessa, trovandovi l’errore laddove invece c’era l’unica cosa giusta che mai avesse avuto.
    Avrebbe dimenticato il primo bacio con Leia – e ricordava tutto, Tupp: ricordava ch’erano sempre state in competizione, loro due; ricordava il brillante sguardo di sfida della Skywalker nel provocarla a valicare l’ennesimo limite, e l’irruenza con cui la Jackson aveva trovato troppo dolce la vittoria sulle sue labbra, abbastanza da non volerne fare a meno. Non poterne, fare a meno.
    «stavo pensando» rispose distratta, il capo reclinato da un lato. Dovette serrare le palpebre quando le dita di Leia si strinsero alla sua vita, il mento di lei a trovare l’incavo perfetto sulla spalla della Armstrong - ed inspirò, perché avrebbe dimenticato anche il suo profumo. «promettimi che sarai tu» dovette socchiudere le palpebre, la mano a cercare quella di lei per spostarla, delicatamente, verso il proprio viso. Non era mai stata una ragazza fragile, Tupp, e di lei si potevano dire tante cose tranne che fosse delicata – ma con Leia? Era diverso. Poteva permettersi di essere umana, di sentire il battito accelerare quando la mimetica posava le labbra sul suo collo, di sorridere mentre con la bocca percorreva ogni assurdo e meraviglioso brandello di pelle della Skywalker. L’aveva ammorbidita senza neanche provarci, burro fra le mani tiepide di un bambino. «ho diversi scenari per la tua affermazione, ma la risposta – spero? – è comunque sì» guardò il loro riflesso allo specchio, Tupperware.
    Faceva male un po’ ovunque. Si chiese se fosse normale.
    «a dirmelo, un giorno. a darmi la lettera» sentì la Skywalker irrigidirsi, cercare i suoi occhi sulla superficie riflettente. Avrebbe potuto domandarle perché, ma non lo fece – la risposta a quella domanda, la sapevano entrambe. Ed avrebbe potuto non specificarlo comunque, Tupp, ma con il tempo a scivolarle fra le dita sapeva di non poter più essere pretenziosa. «ho bisogno che sia tu» si volse per dare le spalle alla cornice, i polpastrelli ad arrampicarsi sulle spalle nude di Leia, prima di sfiorarle delicatamente gli zigomi. «mi fiderò sempre di te.» «non-» «non avere ricordi e dimenticare è diverso, leia» umettò le labbra, deglutì. «non ricorderò un cazzo, ma non potrei mai dimenticare che -» che sei stata la mia migliore amica, la mia confidente. Che in questa vita del cazzo, con il dolore a comprimere i polmoni ad ogni respiro, sei stata la mia unica fottuta luce. Che sei una delle cose più belle della mia vita, Leia Skywalker.
    Che ti amo.
    «che i miei tatuaggi sono più belli dei tuoi» e non aggiunse altro, premendo le labbra su quelle di lei - sempre troppo dolci.
    E si odiò, Tupperware Armstrong Jackson, per quei baci che sapevano già d’addio.

    ora. Erin Therese Chipmunks non aveva mai, neanche una volta, dubitato della sanità mentale di Kieran – chi era lei per giudicare? Leggevano le stesse fanfiction (!!! Si erano scoperte fan di ff che non ricordava più neanche l’autore!) erano entrambe ribelli, ed avevano un evidente problema con il rapportarsi alle persone: dire che avessero stretto subito amicizia, sarebbe stato un eufemismo. Eccentrica? Sempre. Stravagante? Il più delle volte. Strana? Quanto bastava.
    Ma mai pazza.
    Credeva?
    Lanciò un’occhiata di traverso a Scott, un sopracciglio inarcato dall’alto dei suoi freschissimi diciassette anni di vita. Quando Kieran li aveva invitati alla tavola calda, accennando loro di far incetta di quel che preferivano, non aveva dubitato delle pure intenzioni dell’amica – anzi, l’aveva trovato un regalo di compleanno meraviglioso - ma la situazione stava … come dire, evidentemente sfuggendo di mano. «hai di nuovo esagerato con gli zuccheri, kier?» domandò battendo le palpebre, stroncando a metà una particolarmente estasiata sentenza della mimetica. Il sorriso di lei le disse che , aveva esagerato con gli zuccheri, ma no, non erano loro (non erano mai stati, loro) a farle quell’effetto. «sto parlando di viaggi nel t e m p o» Erin annuì, addentando distrattamente un pancake alla fragola. Non era certo la prima volta che lei e Kieran affrontavano argomenti simili (avevano o non avevano bingwatchato Sailor Moon, d’altronde? Discorsi su universi alternativi erano alla base dell’anime) ma… perché Scott? Non doveva neanche guardarlo per sentire il suo palese disagio in quel momento; lo sentiva rigido al proprio fianco, ne percepiva gli occhi chiari a fissarle intensamente la nuca. «pensate se fossero possibili» Interessante. Ottime base per la sua prossima storia. Accartocciò la bocca attorno alla cannuccia del milkshake alla vaniglia, sopracciglia corrugate. Quando Kieran si sporse sul tavolo, potè percepire l’hype crescere esponenzialmente – ed il proprio battito, rispose di conseguenza accelerando il ritmo. «pensate se io ne avessi fatto parte» e c’era qualcosa negli occhi scuri della Sargent, e c’era sempre qualcosa negli occhi scuri di Kier, che esigeva … qualcosa. Attenzione? Comprensione? Le pareva uno sguardo un po’ troppo denso, per una metafisica conversazione sugli universi paralleli.
    Ed allora perché il cuore continuava a battere così veloce. Ed allora perché i polmoni sembravano aver dimenticato come funzionare.
    Perché mi fiderò sempre di te.
    «pensate se voi, ne aveste fatto parte» e quando la ragazza drizzò le spalle in un respiro tremulo, la schiena eretta sulle poltroncine cremisi, Erin seppe con assoluta certezza che qualcosa non andava - che qualcosa lo faceva un po’ troppo. «kier?» supplicò flebile, all’occhiata dispiaciuta della mimetica. Perché dispiaciuta? «sarebbe buffo, vero?» tentò di accennare un sorriso, ma v’era una nota d’inesplicabile tristezza nella curva di quelle labbra.
    «non vi siete mai sentiti diversi? Se questo mondo vi va stretto, un motivo c’è» Gli occhi della Chipmunks scivolarono sulle buste color crema poggiate sul tavolo, tornando poi a cercare lo sguardo stranamente adulto della Sargent. «non è il vostro. Non è il nostro» Kieran allungò le mani verso di loro. Erin le lasciò passivamente prendere la propria nella sua, e perfino Scott glielo permise - probabilmente, troppo confuso e/o sotto shock per reagire altrimenti.
    Perché c’era qualcosa.
    Perché c’era qualcosa - nell’aria più densa, nel sangue più liquido, nei contorni meno netti, negli occhi della stesso sfumato verde del fratello gemello.
    C’era sempre, qualcosa.
    Erin smise di respirare. «abbiamo accettato di farlo» «cosa?» Kieran spinse le buste verso di loro. «viaggiare nel tempo. Veniamo dal futuro, Erin»

    «tu ci credi?» Ancora non era certa di aver appreso come tornare a vivere, Erin. Non sapeva da quanto, spalla a spalla contro Scott, fosse rimasta seduta nella medesima posizione – gambe incrociate sulla panchina, sguardo distratto a posarsi sui passanti. Non sapeva neanche se in quei minutioregiorni avesse respirato e vissuto, o se semplicemente avesse smesso di farlo per un po’. Fu una tortura quasi fisica ruotare gli occhi chiari sul Chipmunks, sopracciglia arcuate e liquido giada a minacciare di sciogliersi in pianto ad ogni movimento del capo. «io no… non lo so» Continuò a guardarlo, Erin. Suo fratello - il suo migliore amico. Rimase ad osservarlo per un tempo infinitamente lungo, mentre il racconto di Kieran Sargent continuava a ripetersi, ed a ripetersi ancora, nella sua mente – turbinavano, quelle parole. Seguivano percorsi che la Chips non ricordava di aver tracciato, univano fili e punti che non s’era resa conto potessero essere connessi.
    Dovevamo cambiare la storia. Volontari. Memoria cancellata. Mai provato un deja vu? Credi così tanto, alle coincidenze?
    La storia. Missione. Ricordi.
    Sì, conosceva i dejavu. No, non credeva alle coincidenze.
    «no» rispose troppo in fretta all’innocente domanda di Scott, le dita a torturare il bordo della busta. Scosse il capo, affossandosi maggiormente sulla panchina. «aprirle insieme, ora.» corrugò le sopracciglia, si schiarì la voce. Divenne improvvisamente consapevole di essersi assentata per troppo, Erin, ed era ora incapace di formulare ad alta voce una frase coerente. «non so se voglio aprirle» specificò abbassando lo sguardo, il cuore a rimbalzarle sui denti. «proprio perché…» serrò le palpebre, inspirò tremula dalle radici.
    «proprio perché ci credo» solo un filo di voce, appena udibile sopra il morbido traffico intorno a loro. Aprì le palpebre cercando lo sguardo del fratello, mani abbandonate in grembo. «mi fido di kieran» ciecamente, più di quanto razionalmente avrebbe dovuto – ma le pareva così giusto, capite? così naturale. «e se quello che c’è dentro non ci piace?» quasi uno squittio, il vibrante tono di Erin. «non possiamo più tornare indietro, Scott»
    Ma quella possibilità, i Chipmunks, non l’avevano mai avuta.
    Non l’avevano mai voluta - che facesse male, non importava: andavano sempre fino in fondo, Erin e Scott.
    Tupperware e Noah.
    L’avevano sempre fatto.
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    scott noah chipmunks
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    Corrugò le sopracciglia, confuso e sconcertato, quando il secco diniego della sorella si fece eco sordo nelle proprie orecchie. Sinceramente, non aveva pensato che la situazione potesse prendere una simile piega: Scott che proponeva di fare qualcosa, ed Erin l’Entusiasta che, senza nemmeno pensarci due volte, si rifiutava di andargli dietro? Avvenimenti simili potevano accadere soltanto in qualche mistico universo parallelo, tanto lontano da loro da non poter essere considerato altro se non ridicolo; era lui quello che tentennava, quello che aveva bisogno di dire almeno dodici volte di no prima di farsi convincere. Mai era stato il contrario, e secondo il modesto parere di Noah mai lo sarebbe stato.
    Non poteva esserlo.
    Idealmente parlando. In pratica, invece, Scott comprendeva perfettamente quell’iniziale rifiuto, schietto e senza ripensamenti, e non soltanto perché era lo stesso che gli prudeva sulla lingua e che era sicuro, al centodieci per cento, sarebbe saltato fuori immediatamente nel qual caso la Chipmunks gli avesse posto lo stesso quesito – frenato, lui, soltanto da un tiepido barlume a suggerirgli che strappare i lembi all’estremità della busta fosse la cosa giusta da fare; non di certo curiosità, o spirito d’avventura, a far danzare il tiptap alle dita sui bordi opachi della carta di pergamena: se si fosse dovuto affidare a quelli, e se non fosse che la missiva era stata recapitata anche a sua sorella, non avrebbe esitato più di venti minuti di sana riflessione esistenzialista prima di raggiungere la pattumiera più vicina e gettare quanti più dubbi e quesiti poteva tra i rifiuti.
    Era tutto, eccessivamente, troppo, ed Erin poteva essere dieci volte più forte del fratello sotto ogni punto di vista, ma erano entrambi soltanto dei ragazzini di appena diciassette anni con già troppi trascorsi a gravare sulle spalle: personalmente parlando, scoprire di essere parte di un programma interspazio-temporale volto alla salvaguardia del mondo affinché non si autodistruggesse di lì ad una ventina d’anni, per quanto ipoteticamente bellissimo e fantascientifico, era un colpo leggermente pesante, da assimilare.
    Avevano appena scoperto di essere gemelli!, gli serviva almeno un po’ di tempo per assimilare la faccenda prima di essere catapultati in un’altra storia del genere.
    «aprirle insieme, ora. non so se voglio aprirle» Scott deglutì fin troppo sonoramente, sprofondando appena di qualche centimetro sulla panchina; spostò le iridi verde chiaro dalla sorella alla busta, senza proferir parola. Era inutile specificarle che non solo nemmeno lui voleva, ma che se non lo avessero fatto insieme non avrebbe nemmeno più ritenuto necessario portare a termine quel percorso: non voleva metterla nella scomoda posizione di doverlo fare solamente per lui. Sentiva che avrebbe potuto sopravvivere all’ignoranza per il resto della propria vita – l’aveva fatto per diciassett’anni, in fin dei conti. «okay,» annuì piano, senza distogliere lo sguardo. «allora -» «proprio perché… proprio perché ci credo. mi fido di kieran» mosse nuovamente il capo, lasciando che un sospiro tremulo scivolasse dalle labbra. Se lo aspettava, glielo aveva chiesto apposta se ci credesse o meno: aveva bisogno che lei sfatasse i suoi dubbi, rendendo più possibile e più bello quello che tendeva all’inverosimile.
    Se Erin credeva a Kieran, per quanto lui non la conoscesse affatto e fosse più propenso a darle il minimo credito necessario, tanto gli bastava a riporre un po’ di fiducia in quella storia, a dargli un po’ di forza.
    «e se quello che c’è dentro non ci piace? non possiamo più tornare indietro, scott» si permise ancora di non guardarla negli occhi, le medesime sfumature d’ematite e smeraldo a scambiarsi tutto ciò che le parole non avevano mai avuto la necessità di proferire. «non dobbiamo…» umettò le labbra con la lingua, i polpastrelli a titillare ancora la busta. «non dobbiamo tornare indietro.»
    Non potevano, ma non ne avevano comunque bisogno.
    Andavano semplicemente avanti, Noah e Therese – e lo facevano insieme, e lo facevano sempre.
    «cioè, insomma…» deglutì stringendosi nelle spalle con innocenza, togliendosi gli occhiali e pulendoli in un automatico tic nervoso con un lembo della t-shirt. «se non dovesse piacerci cosa c’è scritto, potremmo fingere sia tutto finto.» potrebbe davvero esserlo. «sai, soltanto una delle fanfiction di kieran.»
    Si rimise le lenti sul naso, spingendole appena un po’ sulla radice; alzò gli occhi puntandoli su una siepe in lontananza, una qualunque e priva di alcun significato. «non cambierebbe niente in alcun caso, no?» sì, che cambierebbe tutto.
    A partire dal fatto che avrebbero potuto vivere insieme da sempre, essere la famiglia che non avevano dato loro la possibilità di essere; l’avrebbero saputo per certo, che qualcuno sapeva e se n’era comunque lavato le mani – ed era diverso, dallo scoprire semplicemente di essere gemelli abbandonati su due portici diversi.
    Avrebbero potuto leggere di odiarsi a vicenda, e che per quel motivo non erano stati messi nella stessa casa.
    Avrebbero potuto… tante cose. «siamo sempre io e te contro tutti, giusto?» decise a quel punto di cercare il sorriso di Erin, piegando la bocca in una piega calda. «qualsiasi cosa ci sia dentro, lo affronteremo insieme,» posò il palmo sul dorso della Chipmunks, stringendo appena la mano di lei. «te lo prometto.»
    murdered remembered murdered -- ms. atelophobia
     
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    prelevi? // i panic at a lot of places besides the disco
    Morse nervosamente l’interno della guancia, abbassando lo sguardo sulla busta abbandonata in grembo. Non aveva mai pensato che una lettera terrorizzarla così tanto – aveva sempre dato per scontato che per quanto le parole avessero un peso e fossero importanti, quando impresse su carta fossero più…astratte, come se non potessero realmente essere lo specchio della loro realtà. Come se non potessero intaccarla. Era certa che qualunque cosa ci fosse all’interno di quel pacchetto, avrebbe cambiato la loro vita; non sapeva perché, e si rendeva conto che quel timore alla bocca dello stomaco non avesse senso, ma il raziocinio non bastava a frenare il tumultuoso battito del cuore a pulsare oramai fra i denti. «non dobbiamo…non dobbiamo tornare indietro.» Alzò gli occhi verso Scott, suo fratello, cercando il conforto che la busta sulle ginocchia pareva toglierle di secondo in secondo. Pesava più di quanto avrebbe dovuto; pesava a livello di ventre e costato, in un paio d’occhi che credeva di conoscere a memoria, e che in quel momento vedeva in modo diverso. Sapeva che dal tronco degli alberi era possibile stabilire quanti anni avesse, e non poteva fare a meno di pensare che lo stesso ragionamento potesse, e dovesse, essere applicato agli occhi di Scott: osservandolo da vicino, poteva quasi - quasi - vedere gli anelli di una sfumatura più scura a scandire gli anni persi assieme, più vecchi di quanto quelli di un diciassettenne avrebbero dovuto essere. «se non dovesse piacerci cosa c’è scritto, potremmo fingere sia tutto finto. sai, soltanto una delle fanfiction di kieran.» Accennò l’inizio di una risata nervosa che non giunse mai realmente in bocca, le dita a superare la lettera per raggiungere, esitanti, la mano del Chipmunks. La strinse nella propria, più forte di quanto fosse necessario, serrando le palpebre per concentrarsi solamente su quel tocco. Mio fratello. Abbiamo viaggiato nel tempo. Ci siamo ritrovati. Siamo dove dobbiamo essere. Quando socchiuse gli occhi, li lasciò nuovamente guizzare verso l’altro, mostrandogli quanto apprezzasse il tentativo e quanto poco ci credesse: non avrebbe mai potuto fingere fosse tutto falso.
    Neanche se lo fosse stato. Si conosceva troppo bene, Erin – e si fidava che Kieran la conoscesse abbastanza da saperlo, e non farle mai uno scherzo simile. «siamo sempre io e te contro tutti, giusto?» Non ebbe bisogno di pensare, o di incamerare l’ossigeno che stava cercando di far giungere ai polmoni, prima di rispondere. «sempre» perché di quello, in qualunque vita e qualunque Erin, sarebbe sempre stata sicura. Il loro legame andava al di là del tempo e dello spazio, dell’allineamento o del loro passato; tutto quel che avrebbe dovuto avere importanza, fra loro on lo aveva. Potevano tagliare fuori tutto il resto e chiudersi nel loro piccolo universo, affrontando l’esterno come ennesimo livello di un videogioco a doppio controller. «qualsiasi cosa ci sia dentro, lo affronteremo insieme, te lo prometto.» Deglutì, annuì piano. Lo so, avrebbe voluto dirgli – ma lo sapevano entrambi. Fece scivolare le dita oltre il sigillo della busta; quando lo spezzò, percepì qualcosa rompersi anche in lei, e d’istinto si avvicinò ancor di più a Scott. Con una lentezza estenuante, aprì la lettera. «ho paura» ammise infine in un soffio di voce, sentendo il cuore tamburellarle sulla lingua.

    2043.
    «io non ho paura» corrugò le sopracciglia, dondolando indolente sulla sedia. Noah non si sprecò neanche a guardarla, avendo occhi solamente per la propria lettera. Onestamente? Tupp era convinta che il fratello stesse solamente facendo finta di scrivere su quella pergamena, giusto per metterle la giusta pressione così che lei iniziasse a farlo – beh, non stava funzionando. «sicuro, sorellina» vide il sorriso pungere ironico gli angoli della sua bocca, ed ebbe bisogno di tutto il proprio autocontrollo per non lanciargli contro una sedia.
    Hamilton infame.
    E quello che più le faceva girare il cazzo, era che – ovviamente, come sempre: la conosceva meglio di chiunque altro, dopotutto – avesse maledettamente ragione. Non la preoccupava dimenticare; non la preoccupava il pensiero di dire addio a tutto quel che conosceva, ai suoi amici, o a Leia. Non era neanche atterrita all’idea che non avrebbe mai rivisto Erin e Scott, o almeno non abbastanza da fermarla, e non perdeva il sonno al pensiero che la missione potesse non andare a buon fine. Sarebbe morta, Tupperware Armstrong Hamilton, per quello in cui credeva.
    Era sapere che non sarebbe più stata lei, a strozzarle il fiato in gola. Non era esattamente una morte; avrebbe ucciso se stessa, certo, ma una parte di lei avrebbe continuato a vivere. Da lei - da quella parte di sé – era fottutamente terrorizzata. Avrebbe potuto essere chiunque; avrebbe potuto crescere con l’ossessione per il trucco e per gli smalti; avrebbe potuto sviluppare qualche disturbo della personalità, ed entrare in una scuola ad armi spianate. Non aveva controllo sulla futura Erin Chipmunks. La sua paura, era maledettamente giustificata – e non significava ch’ella fosse pronta ad accettarla. «devo proprio?» lamentò, per quella che doveva essere la centesima volta, spingendo le labbra all’infuori ed alzando lo sguardo per cercare quello di Leia Deadman. Confidava sempre che l’espressione da cucciolo bastonato avrebbe funzionato. Lo faceva sempre - ma non in quel caso, a quanto pareva. «TUPPERWARE» Con tanto di pugno sbattuto sul tavolo. Le sopracciglia corrugate di lei le fecero comprendere che il colpo non fosse previsto, e si fosse fatta più male di quanto non desse a vedere. Spense un sorriso fra i denti, prendendo la mano della ragazza fra le proprie. Ne baciò il dorso, ed il sospiro di Leia le fece quasi credere di aver vinto. «è importante. Non vuoi avere la possibilità di dire la tua?» ma no, non aveva fatto altro che addolcirne il tono – la situazione, però, rimaneva quella. «servirebbe a qualcosa?» Non le avrebbe ridato le sue sorelle; non avrebbe fatto comprendere a chiunque avesse letto quella cazzo di lettera, quanto sangue e lacrime ci fossero dietro. Erin Chipmunks non avrebbe sentito il dolore di aver perso i genitori; non avrebbe saputo cosa si provasse a baciare Leia, o a rimboccare le coperte di una Erin mai troppo grande, o a far arrossire Scott con pensieri impuri e peccaminosi (beh? A ognuno i propri passatempi); non avrebbe avuto alcuna maledetta idea delle notti insonne passate al fianco di Noah, dei dubbi e le domande su come avrebbero potuto crescere due ragazzine. Non avrebbe conosciuto la paura - non avrebbe saputo quanto, ogni giorno, facesse maledettamente male. Non avrebbe saputo un cazzo, di Tupp. «non puoi saperlo» Battè le ciglia, sciolse la presa da Leia per prendere nuovamente la penna fra le dita. «e se mi odiassi?» Mise ancora un forzato broncio, ignorando le occhiate di Noah e Leia. E nello stesso momento in cui la Deadman le soffiava un «impossibile» fra i capelli, suo fratello sollevava un cinico ed amaro sorriso verso di lei. «mi toccherà volerti bene anche per te».


    «questi…» Con il cuore in gola, Erin aveva afferrato la pergamena con l’albero genealogico, il dito a scorrere leggero sui nomi. Aveva la vista leggermente appannata, e dovette battere le palpebre più volte prima di poter distinguere i nomi. «sono i nostri geNITORI?» squittì, alzando il tono di voce di un’ottava, stritolando il braccio di Scott nel proprio. «frederick hamilton e annie baudelaire» Lo disse con voce sognante e distratta, ma quel che realmente pensava, era: «tu li conosci?» perché lei era abbastanza certa di no, anche se i nomi le suonavano familiari.
    Come avrebbero non potuto.
    «quanti cugin-gWEN!!& scott - gWEN» indicò frenetica il nome della ragazza sul foglio, stritolando le guance fra le mani per soffocare un gridolino davvero poco appropriato. Non riusciva neanche a guardare il tutto in maniera oggettiva; le sembrava di avere fra le mani un foglio con tutti gli spoiler delle sue serie preferite. «SHILOHABBOT» tutto d’un fiato, con la bocca premuta sulla spalla del Chipmunks per impedire alla voce di giungere alla luna. «è tutto vero? No assurdo – vero? No assurdo – scOTT??» e seguì infine le linee vicine a loro, sentendo l’entusiasmo scemare mano a mano che l’indice giungeva ai nomi. «abbiamo…» ma c’erano solo due nomi, senza alter ego.
    Due nomi dolorosamente familiari che le strinsero gola e petto.
    Erin e Scott.
    «…avevamo» Le iridi verdi della Chips si fermarono sopra la pergamena che aveva lasciato da parte, di cui aveva solo brevemente riconosciuto la calligrafia. La sua. «due sorelle?»
    We both where we've been And we won't go back there again
    (tupperware)
    erin
    25.09.2017
    17 y.o.
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