sometimes home can be another person (PQ08)

maeve + dakota | prequest 08

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    «Torno subito» La labbra erano incurvate in un sorriso affabile, e prima di sparire dietro l'angolo Dakota portò due dita alla fronte in un buffo saluto militare, ammiccando in direzione dei ragazzini che erano appena stati ospitati in casa loro, profughi in tempo di guerra a cui Maeve e Dak avevano offerto un tetto sopra la testa, senza neanche bisogno di consultarsi ma d'accordo immediatamente sul da farsi. L'ex grifo entrò in bagno e ci si chiuse dentro, la serratura subito bloccata come da abitudine (l'aveva presa da bambino quando abitava ancora con i suoi genitori e non voleva farsi trovare da loro e poi a scuola quando scappava dai bulli; ormai lo faceva talmente istintivamente sia da Jaz che a casa propria che non se ne rendeva neanche più conto).
    Non avrebbe saputo quantificare, più tardi, quanto tempo stette immobile, la mano ancora ferma sulla chiave fredda, lo sguardo perso nel vuoto, il respiro che accelerava lentamente ma proporzionalmente sempre di più. Qualche secondo, forse più di qualche minuto.
    Fino a quattro anni prima, Dakota non aveva mai pensato che potesse esistere una vita diversa da quella che stava vivendo, una vita che non fosse semplice susseguirsi di minuti ore giorni settimane. Fino a quattro anni prima, non aveva creduto possibile un mondo non dominato dalla violenza e dalla paura. A scuola c'era violenza. Sui giornali c'era violenza. Per le strade c'era violenza. Persino a casa, il luogo in cui idealmente ti senti più al sicuro, sebbene non fosse fisica c'era un qualche tipo di violenza. I ribelli erano terroristi, il governo l'unica giustizia possibile per mantenere l'ordine e per non far sprofondare il mondo nel caos.
    Scoprendo la ribellione, quella vera, Dakota aveva trovato altro rispetto a quello che fino ad allora era stato il suo inesorabile quotidiano; aveva imparato cosa volesse dire voler sopravvivere, a lui che non era mai interessato morire. Aveva scovato degli amici, una famiglia, e non si era più ritrovato da solo ma, anzi, era diventato lui stesso per altre persone quello di cui loro avevano bisogno. Aveva trovato qualcosa per cui lottare. Aveva trovato non solo qualcosa per cui morire, bensì qualcosa per cui valesse la pena vivere. La ribellione gli aveva dato speranza quando neanche si era accorto gli mancasse in primo luogo.
    E ora se la stava riprendendo.
    Lafayette era morta.
    Dakota si portò la mano alla bocca, soffocando un primo singhiozzo tremante.
    Jeanine Lafayette, la colonna portante della rivoluzione (che la gente credesse in lei o meno), era crollata. Forse i suoi modi non erano sempre i migliori, forse era una stratega troppo spietata per i gusti di Dakota, ma era (era stata) una donna forte, l'alleato più potente della resistenza inglese. E ora era morta.
    Beaxbatons era sotto attacco.
    La scuola ideale, la scuola che gli studenti di Hogwarts potevano solo immaginare e forse neanche quello, dove non vieni schiaffeggiato per una risposta sbagliata in classe, dove non vieni frustato per una divisa stropicciata. La scuola dei desideri, la scuola idilliaca a cui Dakota stentava a credere era stata violata, e i suoi studenti, ragazzini innocenti fino a prova contraria, forse stavano lottano per mantenere la libertà, forse non si erano voluti inchinare a Vasilov. Erano stati picchiati? Uccisi?
    Il quartier generale inglese della resistenza era stato sfollato.
    Non avevano più una base. Non avevano più alleati. Se gli attentati in giro per l'Europa che già erano stati affibbiati ai ribelli non avevano fatto abbastanza per scalfire il credo della gente nella resistenza, questo ora avrebbe decisamente potuto distruggere tutto quello in cui Dakota e altre centinaia di persone credevano. In pochi mesi invece che fare passi avanti, la ribellione ne aveva fatti dieci indietro. Tutti quegli eroi senza nome caduti, tutti quei martiri per un mondo migliore in tutti quegli anni..? Morti inutilmente. Stava finendo. Alla resistenza non restavano che schegge di ideali, brandelli di sogni troppo grandi.
    Ed era colpa di un possibile nuovo signore oscuro che loro non erano stati in grado di riconoscere come tale in tempo. Ed era colpa di gente come Dakota che non aveva accolto la richiesta di aiuto di Jeanine. L'aveva ritenuta immorale, troppo lontana dai propri ideali (non era disposto a pagare il prezzo di vite umane per la libertà, non lo era mai stato), e non si era battuto per mandare qualche ribelle in Francia a darle manforte, per andare lui stesso, per fare qualcosa, affrontare Vasilov anche a costo di morire.
    Forse aveva le mani pulite dal sangue di innocenti uccisi da bombe Francesi, ma poteva dire che sarebbe riuscito a dormire la notte, sapendosi colpevole almeno quanto il Drago per la morte della donna, dei suoi soldati, di studenti di Beauxbatons?
    Ormai Dakota non stava più singhiozzando silenziosamente, stava gemendo senza riuscire a controllarsi, lacrime calde e grandi che rotolavano aspre sul volto arrossato. La mano era ancora davanti alla faccia, a coprirla, nasconderla.
    "«Siamo in guerra, inglesi, che vi piaccia o meno»"
    Nonostante avesse partecipato più volte a missioni mortali, Dakota non aveva mai davvero pensato di essere in guerra. Guerra erano i soldati in trincea, moncherini al posto degli arti per mine esplose. Guerra era la Germania Nazista contro l'Europa, i campi di concentramento che al solo pensiero lo facevano vomitare. Guerra era lo Stato Islamico che mandava ragazzi strafatti a uccidere famiglie, esplodere bombe, rapire bambini.
    Guerra era qualcosa di atroce, che lo faceva piangere guardando i servizi per tele o le foto in bianco e nero, ma che non pensava avrebbe toccato la sua quotidianità.
    "«che vi piaccia o meno, che siate d’accordo o meno, siamo in guerra: questi sono i fatti»"
    Non era fatto per la guerra, lui. Nonostante tutte le cose che aveva visto in quegli anni, nonostante i morti e le ferite non gli facessero impressione, nonostante le vite che, a conti fatti, aveva tolto, e nonostante il sangue, la polvere, le grida degli ultimi mesi, Dakota ancora fino a quel mattino, alla notizia dei cancelli francesi sfondati, era rimasto convinto potesse esserci una soluzione migliore. Che la diplomazia avrebbe vinto, che le notizie arrivassero in Inghilterra ingigantite. Che gli uomini sarebbe stati umani.
    Arrivati a quel punto, però, non era sicuro sarebbero potuti tornare indietro.
    Era troppo tardi.
    Tardi per salvare vite, tardi per i morti, tardi per poter ancora sperare che la guerra fosse qualcosa di evitabile, per sperare che fosse qualcosa che si svolgeva lontano da casa sua, lontano dai suoi cari nel tempo o nello spazio. La guerra era lì, adesso, e bussava prepotentemente alle porte della casa di ognuno di loro. Non c'era un modo per scappare, perchè era già iniziata. Non si poteva fermare senza qualche vittima. Poteva solo andare peggiorando.
    Spalancò gli occhi e tirò su col naso sentendo dall'altra parte della porta delle voci indistinte.
    Reggia Makota era quasi sempre rumorosa, contando i vari ospiti che ci sostavano di tanto in tanto (Carrie, Isaac, persino Stiles o Niamh di volta in volta), ma ovviamente con tre nuovi coinquilini il chiacchiericcio si faceva più presente, e Dakota notò con una stretta al cuore di come sapesse di casa. Erin, Jess e Nate avevano perso dove vivere e Dakota, decidendo di ospitarli, aveva promesso a se stesso che avrebbe fatto di tutto per riuscire a strappare loro un sorriso stropicciato, per farli sentire i benvenuti (in quella casa e in quel mondo), perchè non dovessero più preoccuparsi di niente.
    Erin, Jess, Nate.
    Scott, Leaf, Byron.
    Maeve. Jason. Carrie.
    Deglutì, spostandosi dalla porta e dirigendosi al lavandino. Non si guardò nello specchio ma aprì soltanto l'acqua, ficcando la testa sotto il getto.
    Non aveva tempo per piangere, per disperarsi, per pensare a se stesso. Si era chiuso un capitolo della ribellione, ma come Jeanine aveva fatto notare qualche settimana prima, se n'era aperto un altro. Guerra o non guerra, Dakota non poteva arrendersi così. Gente migliore di lui non era morta seguendo gli ideali della rivoluzione perchè un diciannovenne qualsiasi si chiudesse in bagno come un bambino, a piangere e disperarsi. Qualsiasi cosa sarebbe successa adesso, doveva affrontarla, non c'era se, non c'era ma. Guerra? Avrebbe combattuto. Tenere un profilo basso finchè la resistenza non sarebbe riuscita a leccarsi le ferite, per tornare più forte di prima? Ok. Andare in Francia ad aiutare innocenti ingiustamente attaccati? Era quello che sperava. Keanu e gli altri grandi della ribellione avrebbero saputo cosa fare.
    "A undici anni ho scelto il coraggio", pensò rialzando con un gran respirone il viso dal getto d'acqua. Si tolse con una mano i capelli da davanti la faccia, guardandosi negli occhi cercando di capire se il rossore sarebbe andato via. "Ho promesso al Cappello Parlante che sarei stato coraggioso. E' il momento di rinnovare quel giuramento"
    Si asciugò rapido, e incurante dei capelli ancora umidi uscì dal bagno, affacciandosi alla camera di Maeve, dove i minireb+scott si erano preparati per la notte. Non erano tanto più giovani di lui, ma li sentiva ugualmente come propri figli. Era questo che provava maeve? Un calore al fondo dello stomaco, una forza ritrovata, la voglia di andare avanti e andare avanti e andare avanti? Forse lui e la bionda vivevano insieme da troppo, forse mai da abbastanza.
    Sorrise, nascondendo dietro i denti la paura di quello che sarebbe capitato, il terrore per il futuro, e fece un passo avanti portando le mani sui fianchi.
    «Allora! A qualcun altro va una cioccolata calda con marshmallow?»

    ❖❖❖


    «E quindi neanche stasera ci vediamo?»
    «Non è detto»
    «se non vieni tu da me, direi che non ci vediamo»
    «Se la metti su questo piano no... Ma mi piacerebbe dormire con te stanotte»
    «Vieni qui»

    Un sospiro. «Jaz...»
    «Ok. Ok. Forse passo dopo»
    Dakota restò col telefono attaccato all'orecchio anche dopo che Jason ebbe attaccato, gli occhi chiusi e la fronte calda contro il muro fresco. «Ti amo anch'io»
    Amava Jason per quello che era, e non voleva cambiarlo. Amava la loro relazione così, per come se l'erano costruita giorno dopo giorno dopo giorno in tre anni... ma a volte, solo a volte, Dakota si chiedeva se non avrebbe dovuto essere un po' più diretto col Maddox, e dirgli chiaramente che ormai che le cose fra loro erano chiare, che Dakota aveva fatto outing per lui, non era disposto a tornare indietro e ad accettare che Jason fingesse non gli importasse quando, lo sapeva, invece gli importava. Erano diversi, Dakota e Jason; il primo andava letteralmente a livelli, un po' come i Pokemon (era stato Stiles ad aiutarlo col paragone, in un'imbarazzante e amichevole seduta): se arrivava finalmente a fare qualcosa per la prima volta, da lì in poi la ripeteva con sicurezza. Era stato così per il sesso, per il ti amo, e pressapoco per qualsiasi cosa della sua vita. Jason invece era più... lento. Ammetteva o faceva qualcosa, ma poi c'era il rischio di dover aspettare mesi per vederlo ripeterla. C'erano tanti modi per dire ad una persona che la ami, e Jason amava Dakota, indubbiamente... solo che per qualche motivo ancora aveva problemi a dimostrarglielo. Ad esempio,
    quel giorno sarebbe stato carino a passare da casa di Dakota, distrutto per la notizia di Lafayette, invece che avere paura di quattro adolecenti.
    «Buon anniversario a te. Tre anni, wow. Chi l'avrebbe mai detto?» Tecnicamente l'anniversario era stato il giorno prima, ma Jaz non ne aveva fatto parola, e neanche Dakota sperando in una qualche sorpresa che non c'era stata (anzi, il Maddox era sembrato altresì sorpreso del messaggio a mezzanotte particolarmente caloroso di Dak).
    Dakota sbuffò, togliendo il cellulare dall'orecchio e cercando la chat con Jason, messaggiando veloce. "Quando entri fai piano, che i ragazzi dormono. Hanno avuto una giornata difficile". Forse lo avrebbe letto, forse si sarebbe ubriacato prima. Aggiunse un paio di cuori, per far vedere che non era arrabbiato e Jaz sarebbe stato davvero il benvenuto, l'avesse voluto. Anzi, Dakota sapeva di aver bisogno di tutto l'aiuto possibile per non crollare, e quando aveva detto a Jason che gli avrebbe fatto piacere dormire insieme, intendeva sinceramente solo dormire. Intendeva potersi coricare sapendo che anche se fosse riuscito a prendere sonno, Jaz sarebbe stato al suo fianco, e che avesse avuto brutti sogni o brutti pensieri, il ragazzo sarebbe stato lì a scacciarli per lui.
    Infilò il cellulare in tasca, e rientrò senza far rumore in sala. Maeve era ancora sul ciglio della porta di camera propria.
    Dakota fece piano, abbastanza per non svegliare i ragazzi accucciolati sul materasso come quando li aveva lasciati, ma non troppo perchè Maeve si spaventasse quando le arrivò di fianco, cingendola dalla vita e posando il mento sulla sua testa. Non c'era niente di romantico, in quel gesto, e non c'era niente tuttavia che non fosse amore. Puro, semplice, platonico. Che Dakota amasse Maeve, ormai era chiaro a chiunque li vedesse insieme.
    Un sussurro: «Che cosa ne pensi?» Ovviamente, non si stava riferendo al fatto che quattro adolescenti, di cui tre inesistenti o morti per il sistema mangiamorte, fossero raggomitolati nel suo letto. Dakota stava parlando di tutto quello che non avevano avuto ancora occasione di affrontare, con l'arrivo dei ribelli a casa loro e quei sorrisi di facciata, quei "andrà tutto bene".
    Si staccò dalla Winston, lasciandola ancora a guardare i visi sopiti (per davvero, per finta? Difficile capirlo) dei quattro, le coperte ben rimboccate e la luce notturna accesa (erano abbracciati a Mr. Unicorno o Mae se l'era preso? Dakota non era riuscito a vedere), e si diresse verso la cucina, dove accese la lampadina dei fornelli, a creare un po' di luce soffusa, e preparò la teiera con l'acqua prima di andare a cercare dal mobile i tè preferiti dei due. I marshmallow usati per la cioccolata qualche ora prima erano ancora aperti sul tavolo, e Dakota ne prese uno infilandoselo in bocca. Masticando e gustandosi il sapore troppo dolce della caramella, si abbandonò su una delle sedie, le mani a nascondere il volto. Sapeva che Maeve l'aveva seguito. Lo faceva sempre.
    «"distruggerò ciò che resta del governo francese, e mi prenderò la nazione"», mormorò, con un filo di voce. «"andrò a far visita a lancaster prendendo ciò che mi spetta di diritto - con le buone, o con le cattive. quando avrò finito con loro, voi sarete i prossimi."»
    Ricordava le parole perfettamente, Dakota, anche troppo bene per qualcuno che le aveva sentite solo attraverso la bocca di altri. Non era stato in quella sala del consiglio, sebbene in quanto purosangue ne avrebbe avuto il diritto senza sembrare sospetto, non ne aveva avuto il coraggio, eppure poteva immaginarsi Vasilov pronunciarle mentre le ripeteva. Il tono della voce, il cipiglio dello sguardo... Doveva a quell'uomo la vita, dopo Brecon, ma ad un anno di distanza non riusciva a non pensare che era stato uno stupido a pensare che nel Drago ci fosse del buono, abbastanza da salvare degli innocenti (sebbene solo maghi) da quel capanno. Era possibile che addirittura tutto il piano dei Cacciatori babbani fosse in realtà stato architettato da Vasilov, con tanto di bomba finale. Avrebbe avuto senso.
    Aprì le dita, sbirciando attraverso di esse verso la bionda. «Come si sconfigge il nuovo Der Fuhrer, senza chiedere a centinaia di persone di andare contro ad una morte semi certa?» Il fatto è che erano pochi, ora senza alleati, e senza sostegno pubblico più che mai. Forse quelle parole avevano spaventato qualcuno nel governo inglese, e un paio di ministeriali avrebbero lottato contro Vasilov, ma Dakota era cresciuto abbastanza in quel regime, circondato da ricchi mangiamorte, da sapere che la maggior parte dei politici e dei potenti inglesi avrebbero barattato quella poca libertà che gli rimaneva per avere qualche vantaggio nel nuovo regno di Vasilov. Non gli sarebbero andati contro. Gli special invece? forse qualcuno, ma anche lì non tutti... senza contare che non erano abbastanza, e che Vasilov aveva un'arma che colpiva gli impuri.
    Erano fottuti.
    Si alzò sentendo la teiera che iniziava a fischiare, spegnendo immediatamente il fuoco e versando l'acqua calda nelle due tazze, per metterci poi il tè e lo zucchero come al solito. Porse una delle due a Maeve, e si tenne l'altra fra le mani. Non ne aveva neanche voglia, voleva solo qualcosa di caldo fra le mani, qualcosa che gli ricordasse che la vita andava avanti, che sarebbe sempre andata avanti. Qualcosa che gli dicesse "sei a casa, e andrà tutto bene". Restò in piedi, appoggiandosi al bordo del bancone della cucina. «Sono fottutamente spaventato, Mae» Vivendo con Maeve aveva iniziato a controllare il proprio vocabolario colorito, ma non era qualcosa che potesse tenere a freno, quando dentro di lui tutto voleva gridare e rompere cose e piangere e gridare e gridare. Non voleva che Maeve gli dicesse "non devi esserlo", voleva che fosse sincera. C'erano sempre stati l'uno per l'altra e viceversa, l'uno con l'altra e viceversa. Dakota non avrebbe mai lasciato Mae volontariamente, e sapeva che per quanto le cose andassero male, per quanto tutto sembrasse sprofondare, neanche lei se ne sarebbe mai andata. Era pretenzioso, forse, a sperare una cosa simile, ma ci credeva davvero.
    Sorrise debolmente, e non si impegnò a rendere quel sorriso vero; era Maeve, avrebbe capito ugualmente che ci stava provando soltanto per lei, che stava in piedi solo per non far crollare gli altri e cercare di dar loro coraggio, come loro lo davano a lui. «Non so più a cosa pensare»
    Dakota non era sicuro di ricordare cosa volesse dire perdere i genitori, perchè tecnicamente i suoi erano vivi, sebbene non andasse a trovarli praticamente mai, ma era sicuro che a nove anni si fosse sentito più o meno così, come quel giorno in cui aveva ricevuto la notizia della morte di Lafayette e dell'evacuazione del Quartier Generale.

    healer, 1998's
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    be brave and be kind




    eeeeee avevo tanti headcanon, mi ero fatta tanti trip sui mini reb, su cose, ma meh, alla fine non li ho scritti, già. e non saprei dove metterlo senza annoiarvi ancora di più a morte *giggles*
    davvero, esistesse il fantomatico pc che scrive i post mentre camminiamo, ci docciamo, dormiamo (??) sarebbe più bella la vita, e voi (si parlo al plurale istintivamente CIAO CIATL) non vi beccheresti quesi abomini.
    Ah, Mae secondo me risponde ovviamente fra una frase e l'altra (?????) a tua scelta Sarett
    CIA'


    Edited by ‚soft boy - 6/10/2017, 08:30
     
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    darling, didn’t you know?
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    Guardò il proprio riflesso finché i tratti non si fecero sfocati, opachi. Maeve Winston rimase ad osservarsi finché la ragazza nello specchio non divenne che un'ombra senza nome, uno di quei volti che intravedevi nella folla e pur sapendo di conoscerli, non riuscivi a comprendere dove li avessi già visti. Perfino i muri sembravano parlare una lingua familiare ma sconosciuta - un brusio di sottofondo a sfiorare appena il limite della coscienza, richiamando ricordi che a malapena sapevi di aver archiviato.
    Non entrava in quella casa da troppo tempo, Maeve. Affollata di memorie che non desiderava, aria pesante ad incastrarsi nei polmoni; neanche chiudere gli occhi riusciva a cancellare la sensazione che ci fosse qualcuno, malgrado la Winston fosse certa di no.
    Non ci sarebbe più stato nessuno, lì.
    I suoi genitori erano morti.
    Distolse lo sguardo dallo specchio per posarlo sulla carta da parati smeraldo del corridoio, le dita a scivolare lente sui muri cercando di imprimersi sulla pelle le screpolature a cui un tempo non aveva mai fatto caso - appena accennate, dopotutto i Winston erano sempre stati minuziosi perfezionisti.
    Non sarebbe dovuta tornare, non da sola. Della villa che era stata dei suoi genitori, quella dov'era cresciuta, non era rimasto che uno spettro di ciò che un tempo aveva rappresentato: conforto, sicurezza.
    Attesa.
    Maeve Winston era sempre stata brava ad aspettare. L'aveva fatto così a lungo, i polmoni sempre in apnea, da non sapere come si vivesse senza il languore allo stomaco di chi si affacciava alla finestra per veder spuntare all'imboccare del sentiero le chiome bionde e ramate dei suoi genitori, o quella castano dorata di suo fratello. Un modo come un altro per occupare il tempo fingendo che le cose potessero migliorare.
    Era il due ottobre, e la Corvonero preferiva credere di essere in attesa di qualcosa, piuttosto che affrontare la realtà dei fatti: qualcosa non andava - più di un qualcosa. La Francia stava capitolando, le armate nord europee avanzavano raccogliendo territori come bambini margherite in un prato. Ad ogni rumore troppo forte sobbalzava temendo potesse trattarsi di un attacco; anche i babbani avevano deciso di peggiorare il già precario equilibrio della Gran Bretagna, altre morti a far spiccare il rosso sulla bandiera.
    Ed Aidan se n’era andato. Non sapeva dove fosse, perché l’avesse fatto, ma se n’era andato. Poteva illudersi quanto voleva di essere comprensiva ed accomodante, di capirlo, ma non riusciva realmente ad accettarlo: se n’era andato. Avrebbe voluto fosse più vicino e presente, quando Dakota rimaneva a dormire da Jason e lei restava sola con Scott – Byron era a scuola, Leaf era adulto, ormai. Perché non sapeva cosa fare, chi essere o come comportarsi, con quel ragazzino neo maggiorenne dai grandi occhi chiari ed il sorriso impacciato. Dio solo sapeva quanto la Winston fosse felice di averlo sotto il proprio tetto, e sempre lui unico consapevole di quanto Maeve, pur preoccupandosi di tutti loro, non avesse la più pallida idea di come relazionarsi. C’erano i suoi cugini, i suoi amici, . Aveva una famiglia, Maeve, lo sapeva: non significava che non le mancasse suo fratello.
    Aveva sperato di trovarlo lì, in quel piccolo cottage a Tralee: era il due ottobre, ed era il compleanno di Aaron Winston.
    Ma lui non c’era.
    Gli occhi scivolarono sulle cornici senza soffermarcisi, i piedi a trascinarla già verso l’uscita. Non voleva essere il tipo di ragazza che stringeva fotografie al petto incapace di fermare le lacrime, e non aveva bisogno di guardare i loro sorrisi replicarsi sulla pellicola per averli cristallini nella memoria: se avesse voluto, avrebbe potuto sprofondarci in qualunque momento.
    Quello, non era uno di quei momenti.
    Doveva tornare a Londra, a casa - quel che casa lo era diventata giorno dopo giorno, colazione dopo colazione, tendina colorata dopo tendina colorata. Qualcosa di suo, che aveva scelto e costruito con persone che l’avevano scelta e costruita: era fiera di quel che era diventata, e non avrebbe permesso al dolore di vanificare i suoi progressi.
    Non di nuovo.
    E non sarebbe servito a niente. Inspirò chiudendo gli occhi, profumi stantii ad incastrarsi nelle narici.
    Aveva bisogno d’aria.
    Si trascinò fuori dalla dimora irlandese trattenendo nei polmoni quegli odori, temendo che se solo li avesse espirati, avrebbe potuto dimenticarli. Ma fu costretta a sputarli fuori, la mano ancora stretta sulla cornice della porta. La sputò fuori con un sospiro secco e doloroso, il petto a stringersi e la gola a soffocarla. Le iridi azzurre indugiarono sulla forma delle spalle, larghe ma delicate, prima di scivolare sul collo arrampicandosi con lentezza sulla mandibola squadrata e le labbra morbide, lo sapeva che erano morbide, il naso dritto ed elegante ed i peculiari occhi scuri dalla forma orientale. Li evitò preferendo sollevare lo sguardo sulla chioma ramata, ignorando l’oro pallido dell’epidermide.
    «lo sapevo che ti avrei trovata qui»
    Non avrebbe dovuto farle ancora quell’effetto. I ricordi si affollarono prepotenti e confusi, miscela di sogni e realtà dalla densa ed asfissiante cremosità del caramello – ma di dolce, non avevano più nulla. Un tempo, forse. Quando ancora non era morto, quando ancora non le aveva taciuto di non esserlo, quando ancora non se n’era andato – più di una volta, più di cento. Maeve Winston, dopo tutti quegli anni, avrebbe dovuto essere preparata alle altalenanti apparizioni di Liam Callaway nella sua vita. Dopo tutto quel tempo, avrebbe dovuto semplicemente lasciare che fosse la ragione a prendere le redini della sua coscienza - avrebbe dovuto odiarlo, la risposta più sensata e logica a quella situazione.
    «sei sempre così…» Maeve strinse i denti e raffreddò l’occhiata, le braccia incrociate sul petto. Al vago cenno con la mano di Liam, inarcò un sopracciglio: «intelligente? Bellissima? Responsabile?» lui arricciò il naso, le labbra ad incresparsi in quella che per Liam era sempre valsa come una risata - di scherno, di battute che poteva comprendere solamente lui. «…prevedibile.» Non sembrava un complimento, ed il Callaway non fece nulla per renderlo tale. Era riuscita ad evitarlo tre mesi prima, al funerale – quando, ovviamente, era riapparso senza che nessuno gli avesse chiesto assolutamente nulla, e con la pretesa di parlarle. Di parlarle! Dopo tutto quello che le aveva fatto, aveva perso ogni diritto di poter pretendere alcunchè.
    Perfino da Maeve Winston, che per lui avrebbe fatto quasi qualunque cosa.
    «mi conosci troppo bene» ed avrebbe voluto essere un commento caustico ed acido, spillato dai denti serrati. Ma era anche terribilmente vero, a graffiare il palato con i lati appuntiti che solo l’onestà possedeva. Cercò di superarlo, ma lui la fermò prontamente chiudendole la strada con un braccio. Oh, oh, oh: quello non avrebbe dovuto farglielo. Inspirò profondamente contando fino a dieci. «sei ancora arrabbiata.» se era- non poteva averlo detto davvero. Si umettò le labbra, il sorriso un ghigno sbilenco. «affatto.» mentì, le ciglia bionde a sbattere sugli occhi cerulei. Come poteva non esserlo? Eppure quella vicinanza ancora riusciva a turbarla, scaldandole i polmoni come una fiaccola prossima all’incendio. Sapeva, Dio se sapeva!, che non era giusto – non era normale, quel morboso attaccamento. Che in fondo Liam Callaway non le aveva mai dovuto nulla, che Maeve non aveva alcun diritto di essere arrabbiata con lui. Erano stati amici, un tempo – le amicizie finivano, e non sempre in modo lieto. Avevano preso strade differenti, non era colpa di nessuno dei due.
    Ma lo sapevano entrambi, che non era vero - che l’aria aveva sulla lingua un sapore sempre un poco diverso, quand’erano insieme; che le parole, pur non avendo voce, vibravano sulla pelle come tatuaggi.
    Che la loro amicizia non era mai stata a doppio senso, perché Maeve l’aveva amato un po’ troppo da sempre. «togliti.» chiuse gli occhi e smise di respirare, stanca perfino di provarci. «sono seria, spostati» ringhiò bassa. Non avrebbe fatto ricordo alla violenza fisica, ma che bisogno ne aveva quand’era l’insegnante di incantesimi? Una piccola e labile soddisfazione avrebbe anche potuto prenders- «mi dispiace» -ela.
    Aprì gli occhi per squadrarlo, certa di non aver sentito bene. Conosceva Liam da più di dieci anni, ed era certa di non averlo mai sentito pronunciare quelle parole. Sicuramente aveva frainteso. «cosa?» «ho detto che mi dispiace.» ribattè a mascella serrata, strappandosi le parole dalla bocca dischiusa. Indietreggiò rapido lasciandole lo spazio adeguato per ricominciare a vivere, una sigaretta fra le labbra ad accendersi con un nervoso movimento della mano. «ti…» corrugò le sopracciglia e reclinò il capo, lo sguardo ancora puntato dove fino ad un attimo prima c’era Liam. «dispiace?» sbuffò una risata atona e nient’affatto divertita, incredulo sospiro a dilatarle i bronchi. «ti dispiace.» ripetè, masticando con lentezza le parole. Come se potesse bastare, dopo tutto quel tempo. Dopo tutte quelle Maeve. «ti dispiace di essere stato un idiota? di essertene andato molteplici volte senza neanche salutare? Di essere stato un egoista, manipolatore e -» «per i tuoi genitori, maeve.» Maeve. Non l’aveva mai chiamata Maeve. Alzò gli occhi al cielo, la Winston: ad Aaron e Wynne, Liam non era mai piaciuto, e mai l’avevano nascosto. Il Callaway non si era degnato neanche di presenziare al loro funerale, come poteva apparire dopo mesi per dirle che le dispiaceva? «un po’ tardi, non credi?» non ci provò neanche a sorridere. «non credevo che-» «cosa?» «uno: smettila di interrompermi, biondina, sei seccante. Due, piantala di fare la stronza – non ci provare, winston, il mio turpiloquio è intoccabile – . ti avevo detto che me ne sarei andato» sollevò l’indice verso di lei. «cristo, ti avevo pure chiesto di venire con me.» soffiò il fumo verso l’alto, la testa reclinata all’indietro. Rimase in quella posizione anche quando di fumo da sputare non ne ebbe più, gli occhi chiusi e le spalle contratte. «non essere stupido, c’è tutta la mia vita, qui» la risposta giunse lontana ed ovattata, sussurrata in un Irlanda sorda e muta. «non tutta.» Finse di non udire il sorriso in quelle parole, e si illuse che le guance non fossero avvampate.
    Egocentrico.
    «non saresti dovuto venire» «lo so» Spostò lo sguardo scuro su di lei, osservandola serio ed impenetrabile. Un angolo della bocca si sollevò appena, ma non abbastanza da essere definibile ghigno. «ma l’ho fatto comunque».
    Tacquero entrambi. Non c’era più nulla da dire, nulla che valesse la pena di essere detto. Tacquero ma rimasero lì, l’uno di fronte all’altro: con Maeve ancora sul portico e Liam sul sentiero erboso, erano perfino alla stessa altezza. Ingoiò saliva e rimpianti. «mi sei mancato» sussurrò appena, la voce sottile della bambina che attendeva le vacanze natalizie per vederlo tornare a casa – e l’adolescente che tornava a Tralee sorridendo, consapevole che l’avrebbe ritrovato. Una confessione che le svuotò i polmoni ed il cuore, lasciandola fragile e nuda. Non le piaceva ammettere quel che provava, ma era stanca di fingere che non provasse nulla. Era stanca di dire addio senza neanche un ultimo arrivederci. Si era ripromessa, dopo la morte dei suoi genitori, che non avrebbe più lasciato nulla nella grigia linea del rimorso. «lo so» e lo sapeva davvero, Liam. «mi dispiace» Si umettò ancora le labbra, evitò il suo sguardo. Indietreggiò istintivamente quando lui fece un passo in avanti, costringendosi poi a rimanere immobile: non sarebbe stata così codarda - giusto? Il Callaway certamente non le avrebbe mai uccisa, santo cielo.
    Almeno, non così.
    «per?» domanda sciocca, futile – giusto per riempire il silenzio, per evitare che la soffocasse. Non credeva le avrebbe risposto. Lui scosse il capo spegnendo la sigaretta sotto lo scarponcino. Era abbastanza vicina da notare, una volta aperti gli occhi, la screpolatura del sole sulla pelle della fronte. «lo sai che non -» Si rifiutò di ricambiare l’occhiata, ingoiò il cuore a battere frenetico sulla lingua. Non avrebbe dovuto farle quell’effetto - non più, non mai. «che non ci riesco. Non sono come te.» e com’era, lei?
    Cocciutamente tenne le braccia strette al petto, gli occhi fissi sulla camicia troppo leggera per quell’inizio di ottobre. «non farlo» che suonò come un fallo, ma s’illuse di no.
    Voleva credere di essere meglio di così.
    Avrebbe voluto esserlo.
    Le mani di lui si chiusero gentilmente attorno al suo viso, e Maeve lo odiò per essere così maledettamente bipolare – e per quelle dita così calde, così familiari da far male. Si morse l’interno della guancia obbligandosi a respirare, odiandosi per quell’eterna debolezza che trasformava il rancore in bisogno. Volle incolpare la vulnerabilità di quell’assurdo anno, piuttosto che accettare di essere sempre così, quando aveva a che fare con lui. Ecco perché non andavano bene, loro due – ecco perché non l’avevano mai fatto: Maeve voleva essere Maeve tutti i giorni dell’anno, a tutte le ore. Perdersi, anche se per pochi minuti, faceva caracollare il castello di carta del maniacale controllo.
    «se ne fossi stato capace, avrei amato te» avrebbe voluto suonasse patetico, anziché sincero. Avrebbe voluto essere furiosa, anziché triste. Avrebbe voluto non credergli, ed invece lo faceva sempre. Annuì, ma quando lui si fece più vicino, poggiò una mano sul suo petto per allontanarlo - mossa sbagliata. Doveva pur fingere di mantenere un contegno. «è l’ultima volta?» di loro, di quei saluti rimasti appesi come scarpette un tempo amate. Non ne voleva più, Maeve. Non ne poteva più, e non gliel’avrebbe più lasciato fare. Lui sospirò esasperazione, fiato caldo a carezzarle languido le labbra. Represse un brivido, gli occhi nuovamente aperti a cercare quelli del Callaway. Una volta, una sola volta. Niente più rimpianti, giusto? «se ti dico di sì, posso baciarti?» Corrugò le sopracciglia, un’occhiata in tralice che nulla aveva da invidiare al veleno più raro e letale. «no.»
    Ma lui lo fece comunque, le mani a scivolare sui fianchi.
    E lei glielo lasciò fare, le dita ad intrecciarsi dietro la nuca per spingerlo contro di sé e respirarlo un po’ di più, prima di chiudere la porta dietro le loro spalle.

    «maeve?» Maeve Winston rallentò l’andatura fino a fermarsi, le sopracciglia corrugate ed il capo reclinato verso destra. Era sabato pomeriggio (sera, oramai) ma neanche l’assenza di lezioni poteva tenerla lontana da Hogwarts - specialmente in quel periodo. «signora shapherd?» fu stupita del suono della sua stessa voce, dubbioso ed irriverente al tempo stesso. Innanzitutto, la madre di Amalie non aveva alcun diritto di chiamarla per nome, omettendo poi il suo titolo - chi credeva d’essere? In secondo luogo, non poteva rimanere ad Hogwarts. In terzo luogo, Maeve la odiava. Così, a pelle. Non comprendeva come una ragazzina meravigliosa come Amalie potesse essere stata cresciuta da una creatura del genere – lungi dalla Winston farlo notare ad alta voce all’interno delle mura scolastiche, ma più di una volta aveva allietato Dakota con le sue lamentele sulla signora Shapherd. E neanche la conosceva - ben felice che la situazione rimanesse tale. Per sottolineare il proprio disappunto, drizzò la schiena ed incrociò le braccia sul petto, uno scettico e biondo sopracciglio arcuato. «no, non è come s- » la donna si raggomitolò su sé stessa tossendo, le mani strette al petto. Maeve fece un passo per raggiungerla, gli occhi a saettare verso i corridoi per cercare soccorso, ma- «…ERIN?» «maeve maeve maeve è successa una cosa!!1» Erin Therese Chipmunks, la ragazzina che teoricamente avrebbe dovuto rimanere sotto custodia al quartier generale ventiquattro ore al giorno, le strinse le braccia alla vita affondando il tremante viso sul suo petto. «ero con amalie, abbiamo – vabbè, e siamo andate da vasilov, e-» «voi COSA?» «- aspetta, sì scusa volevamo – comunque, e lui ha detto-» «siete andate da dragomir vasilov DA SOLE?» «non arrabbiarti, è stata una mia idea giuro NON DIRE AD AMALIE CHE TE L’HO DETTO» «erin therese chipmunks» «dopo potrai farmi la ramanzina, davvero. Avremo un sacco di tempo – più o meno» La allontanò per poterla guardare negli occhi, le mani fermamente strette attorno alle sue spalle. C’era qualcosa che non le piaceva, nella sua voce. C’era una nota sbagliata, ed una sensazione di nausea le chiuse lo stomaco e le vie respiratorie. «in che senso?» Erin ricambiò l’occhiata, lo sguardo gonfio di lacrime.
    «jeanine…» Il cuore a picchiare contro le costole, il tempo a rallentare avvolgendosi su sé stesso. «jeanine è morta: noi siamo i prossimi»

    Sweet
    Christmas.
    Aprì la bocca, la richiuse. Rimase impassibile con lo sguardo distante e distratto, una mano a porsi meccanica davanti alle labbra. Scosse il capo cercando di riordinare le idee, sperando che il fiume in piena del discorso di Erin cominciasse ad avere senso - non lo faceva mai. Oh, buon cielo.
    Oh,
    buon cielo.
    «potete – potete venire a stare da me e dakota, se volete.» e voi direte: davvero fu quello il primo pensiero sensato di Maeve? Certo che sì: aveva letto tutto il regolamento (quale) e sapeva come dovevano comportarsi i ribelli in caso di presunto o plausibile attacco.
    Dovevano evacuare il Quartier Generale, abitanti compresi. «c’è anche Scott» rivolse l’ombra di un sorriso alla Chipmunks. Prima che la ragazzina potesse rispondere, un rumore di passi - trascinamento? - le fece voltare entrambe.
    Subito, non capì. Non comprese la forma, il vociare strascicato – né perché Erin si fosse portata le dita alla bocca, o il motivo dei piedi già a muoversi verso di loro. Poi li vide – Arabells, CJ.
    Il sangue ed i tagli.
    Annullò la distanza fra loro, sguardo critico a studiare la gravità della situazione. Tentò di sfiorare il viso del Prefetto per controllare le ferite sugli zigomi, ma lui si ritrasse. «chi ti ha ridotto così?» «la vita» Le palpebre pesanti, CJ Knowles cadde a peso morto su Bells. Erin reagì prontamente ponendosi dalla parte opposta del Tassorosso, le dita strette attorno alla camicia della divisa per tenerlo in piedi. «maeve…?» lei si inumidì le labbra, il palato arido. Guardò Tessa, la voce della ribelle incrinata e dubbiosa – sia la Chipmunks che la Dallaire conoscevano abbastanza medimagia da sapere che si trovavano in una brutta situazione, non avevano realmente bisogno di conferme da parte della Winston: allora perché la guardavano?
    Lei era l’adulta, ed a lei toccavano le scelte.
    «ha detto di non voler andare in infermeria perché l’ultima volta gli hanno ingessato il braccio sbagliato» Guardò la Dallaire, gli occhi di Bells puntati su CJ – e se non riprendeva conoscenza con quello sguardo assassino a puntellargli la nuca, la sua condizione doveva essere più drammatica del previsto. Espirò greve, la bacchetta a muoversi sollevando dal peso del Knowles le spalle delle ragazzine. «portiamolo direttamente al san mungo.»

    «che cosa ne pensi?» Lasciò che la tensione della giornata venisse alleviata dal sospiro che dedicò alla stanza, un braccio a stringere istintivamente Dakota a sé. Si volse appena per sfiorare i capelli di lui con un bacio, prima di tornare a guardare i quattro ragazzini arrotolati sul letto della sua camera. Razionalmente si rendeva conto che non erano così piccoli, ma la ragione aveva sempre poco a che fare, almeno in quelle occasioni, con Maeve Winston: Nathan Wellington, Jessalyn Goodwin, Erin Chipmunks. Non avevano più una casa, e diveniva più sottile anche la causa. Fece languire lo sguardo su Scott, il braccio allungato davanti a sé per stringere le dita di Erin. Si erano addormentati sopra il piumone, e mentre Dakota era in bagno Maeve si era prodigata ad allungare sopra di loro una spessa coperta di lana. Sfiorò appena la fronte di ciascuno di loro, ricambiata da bassi grugniti o brevi sorrisi compiaciuti figli del dormi veglia. A malapena riusciva a respirare, lei. A malapena riusciva a guardarli, loro che erano l’eredità di quel che la società era diventata. «cerco di non farlo» rispose in un sussurro, l’altro braccio stretto attorno alla propria vita. Cercava davvero di non pensarci, la Winston - cosa avrebbero fatto? Non ne aveva assolutamente idea. Non era brava nell’essere un soldato, non era in grado di comprendere una guerra, a meno che non fosse descritta nero su bianco su di un libro.
    Non la capiva. Non la voleva.
    Quando Dak si allontanò, sentì il posto prima occupato da lui terribilmente freddo e vuoto; agganciò la vestaglia con entrambe le mani e se la strinse sul ventre, gli occhi chiusi e la tempia contro la cornice della porta. Da quando c’era stato l’attentato di luglio, nulla era più stato lo stesso. Viveva in uno stato di costante allerta, sospiri calibrati e battiti veloci sul palato. Cercava fra le righe dei notiziari risposte, fra i visi dei caduti un perché.
    Non lo trovava – e se lo trovava, non lo comprendeva.
    «rimani con noi?» curvò le labbra in un sorriso triste, le palpebre socchiuse verso un assonnato Scott. Deglutì, inspirò dalle narici. «vi raggiungo più tardi, ora dormi» lo sguardo a scivolare sulla poltrona poco distante, dove sapeva avrebbe preso posto: figurarsi se sarebbe riuscita a dormire. Figurarsi se li avrebbe lasciati soli. Socchiuse la porta per non disturbarli, le mani a sprofondare nelle tasche. Non fu in grado di cancellare l’espressione angosciata dal proprio viso, quando giunse infine in cucina. «Come si sconfigge il nuovo Der Fuhrer, senza chiedere a centinaia di persone di andare contro ad una morte semi certa?» Si sedette raggomitolandosi su sé stessa, i piedi poggiati sul perno di legno della sedia e le ginocchia raccolte contro il busto. «non lo si fa.» chiuse ancora gli occhi, le palpebre a pesare di una stanchezza che nulla aveva a che fare con il sonno. «siamo noi contro di loro, ora. non sarà una richiesta, ma un dato di fatto: abbiamo scelto noi di essere soldati di questa guerra» il solo dirlo le fece seccare la gola e prudere il palato di pianto.
    Maeve Winston non era un soldato. «non possiamo più fingere non sia la nostra» e ci aveva provato, Dio se ci aveva provato. Pur essendo tutti addestrati a quell’eventualità, dubitava che ci fosse qualcuno realmente pronto ad una guerra; se i ribelli fossero stati abbastanza in forze da permettersela, dubitava che ai piani alti avrebbero atteso così a lungo prima di attuare una strategia offensiva.
    Se tanto le dava tanto, erano in inferiorità numerica. Drastica, inferiorità numerica – e di armi, e di risorse.
    «Sono fottutamente spaventato, Mae» Fu sollevata dal fatto che il primo a dirlo fosse stato lui. La faceva sentire meglio, più coraggiosa – perché per lui, per Dakota Wayne, avrebbe voluto esserlo. Non poteva promettergli che tutto sarebbe andato bene, ma poteva allungare una mano verso di lui invitandolo a stringerla: «sarebbe assurdo il contrario, grifolagna» un mezzo sorriso, le sopracciglia arcuate.
    Almeno erano insieme. Non riusciva neanche ad immaginare come sarebbe stata la sua vita senza di lui, in quel momento. Ma anche sempre: Dak l’aveva resa la parte migliore di sé, quella che lui aveva sempre visto anche quando lei non sapeva di possederla. Aveva scelto, Maeve, di diventare il genere di persona che quella cieca fiducia, e quell’affetto, potesse realmente meritarselo.
    Almeno, ci stava provando.
    «immagino dovremo mantenere un profilo basso…» bisbigliò, grattandosi distrattamente un sopracciglio. Studiava già dinamiche difensive, la Winston: non era fatta per l’attacco. «non fare nulla per un po’, magari vasilov-» si interruppe senza sapere come concludere la frase. Magari Vasilov cosa? Non li avrebbe visti? Avrebbe ignorato Hogwarts, i suoi studenti, solamente perché la Resistenza aveva battuto in ritirata?
    «non ne ho la più pallida idea, dak» fu ancora più sottile, quel sussurro.
    Odiava non capire, ed odiava ammetterlo ad alta voce.
    Appoggiò la schiena alla sedia, la tazza fra le dita. Soffiò sul tè cercando di raffreddarlo, lo sguardo distante. «dovremmo evacuare anche new hovel e different lodge – non sono al sicuro lì» pensava a Jade, Maeve. Al fatto che malgrado Eugene Jackson fosse un mago, ancora vivessero lì - era giunto il momento che il padre di Uran tirasse fuori la bacchetta, possibilmente metaforica perché un figlio le pareva già abbastanza, e li trascinasse il più lontano possibile dal quartiere riservato agli esperimenti.
    Non dubitava che sarebbero stati i primi obiettivi di Vasilov.
    Grugnì frustrata, i denti a masticare l’interno della guancia. «non riesco neanche a capire se sono più arrabbiata o, santo cielo, frustrata» con stizza poggiò la tazza sul tavolo per raccogliere la testa fra le mani, i capelli color oro pallido ad intrecciarsi alle dita sottili. «ci mancava pure la sindrome pre mestruale» osservò abbattuta, scivolando anch’ella sul tavolo – braccia allungate davanti a sé, guancia poggiata contro la superficie fresca, e broncio pronunciato verso Dakota. Il suo sfortunato coinquilino era perfettamente consapevole di quanto la Winston fosse amareggiata dal funzionamento dell’organismo femminile – troppo bello per essere perfetto anche sotto quel punto di vista, lo sapeva, ma non significava che riuscisse ad accettarlo. Era stata quasi sollevata quando il mese prima era riuscita ad evitarlo: lo sapeva che tutto quello stress, un giorno, le sarebbe servito.
    Pregava che non si vendicassero a Dicembre, altrimenti avrebbe fatto harakiri molto prima che Vasilov potesse varcare il confine della Gran Bretagna.
    «mi lanci un marshmallow?» aprì la bocca e la indicò con l’indice.
    Come si poteva dir di no a quegli occhioni tristi?
    02.12.17 | h. 23:30
    charms master | rebel
    ravenclaw
    mama bird | 21 y.o.
    i care. i care a lot
    it's kinda my thing
     
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