make sure to get chips, then bring w e a p o n s

lydia x shot

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    20.04.17 | 09:10
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    Non dico che Lydia Hadaway avesse chissà quale disturbo dell’ordine, eh.
    Ma diciamo che non lo nego neanche.
    Nelle proprie cose, era precisa fino a sfiorare il ridicolo – la penna poggiata sul tavolo doveva sempre essere parallela al foglio, l’etichetta della bottiglia doveva sempre essere girata verso il proprio interlocutore, la matita doveva necessariamente essere sopra la gomma - ma, in convivenza con altri, tendeva ad essere più… flessibile. Esigeva comunque che ogni cosa fosse al proprio posto, e rispettava lo spazio che ogni oggetto doveva occupare con una venerazione quasi ossessiva.
    Ma era stata buona, Lydia. Era stata svezzata nel modo peggiore, dovendo fare da baby sitter assistente a Nathaniel (ve l’ho mai detto che una volta aveva trovato una benda, per un solo occhio eh, dentro l’acquario del pesce? e ve l’ho mai detto che Nate, un pesce, non l’aveva mai avuto?), di conseguenza era stata molto tollerante con il suo coinquilino – per diversi motivi, in realtà: uno, Shot possedeva davvero tante armi, e Lydia non voleva morire; due, soffriva troppo d’ansia sociale per intavolare una discussione con il Deadman, quindi s’era sempre morsa la lingua; tre, Shot era un ragazzo relativamente ordinato – nel senso che era proprio minimal, nei suoi possedimenti. Aveva poche cose.
    Ma aveva poche cose sparse ovunque, la cui natura le era poi spesso sconosciuta. Ogni volta che incontrava sulla propria strada una Cosa di Shot, semplicemente la circumnavigava: per quanto ne sapeva, e per il poco che conosceva il suo nuovo coinquilino, poteva tranquillamente essere una mina od un oggetto speciale della CIA che, se toccato, avrebbe fatto saltare in aria l’Empire State Building.
    E va bene. Okay. Si era perfino abituata alla guaina dentro la doccia; aveva cominciato a trovare normale l’odore di piombo e metallo che il ragazzo si portava sempre appresso. Aveva finto che trovare proiettili dentro il lavandino fosse una cosa del tutto normale, perseguitando nel sorridere al moro da sopra la propria tazza di tè senza battere ciglio. Vedete? Perfettamente tollerante. la coinquilina che tutti avrebbero desiderato – accomodante, pacata. Non aveva mai domandato a Shot perché girasse sempre con un’arma a portata di mano. Non si era chiesta perché DANNAZIONE ci fossero proiettili in giro per casa.
    Fino a che la situazione non aveva cominciato a diventare disturbante. Il giorno prima aveva trovato il divano particolarmente scomodo, e s’era detta: beh, sistemo i cuscini - non vi dico la sua immensa sorpresa nel constatare che, sotto i cuscini v’era un fucile.
    Un
    Fucile.
    Era finita lì? Certo che no. Volgendo al proprio ambiente domestico un’occhiata più attenta ( beh? Anche lei guardava CSI, se si sprecava a cercare non le sfuggiva nulla), aveva scoperto che… rullo di tamburi!, Chariton Deadman aveva ritenuto strettamente necessario spargere MALEDETTE ARMI IN GIRO PER TUTTA LA CASA. Da quant’era che vivevano insieme? Davvero, non lo so – avevamo detto inizio aprile? Facciamo di sì, dai? Due settimane? Quando s’erano incontrati per l’appartamento e lui le aveva detto lo sgabuzzino mi serve per le armi, la Hadaway aveva pensato fosse una battuta – l’aveva sperato. Le era bastato poco tempo in sua compagnia per rendersi conto che no, non aveva scherzato.
    Fino a quel momento, però, non s’era mai azzardata a guardare La Stanza – avrebbe preferito non farlo. Indossava ancora il suo pigiama preferito, quello color pesca leggero quanto un sogno, ed i lunghi capelli biondo fragola erano legati in una coda alta; nella mano sinistra reggeva una tazza di tè un tempo caldo, la spalla destra poggiata contro l’uscio dello stanzino. Sarebbe morta in quegli abiti.
    L’avrebbero ricordata, per sempre, priva di trucco ed in pigiama. Forse poteva lasciar scritto da qualche parte di non desiderare alcuna veglia, e di volere il feretro chiuso – non si sapeva mai, ecco. Da quanto era affacciata all’interno del ripostiglio specialeh di Shot? Non ne aveva idea. Poteva essere una manciata di minuti, come un paio d’ore.
    O forse era perfino già morta.
    Dopo un tempo davvero interminabile, Lyda Hadaway si schiarì la voce. «mh, shot?» strinse le labbra fra loro e reclinò il capo sulla spalla, gli occhi verdi a scivolare sull’esorbitante quantità di potenza di fuoco contenuta nei cinque metri quadri. «devi per caso, uh, dirmi qualcosa?» Così, eh.
    Giusto per sapere.


    Edited by ‚soft boy - 4/2/2021, 12:00
     
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    Passò le dita della mano destra tra i ricci scuri ad appiccicarsi, ancora fradici della doccia appena fatta, sulla fronte – abitudinario e fin troppo speranzoso, nel cercare di spostarli dalla propria visuale: tanto lo sapevano entrambi che non avrebbero resistito alla forza di gravità ancora per molto -, mentre la sinistra si apprestava a far smettere di vibrare il telefono cellulare che, dopo pochi secondi che aveva aperto l’acqua, aveva iniziato a squillare insistentemente. Solo quel Dio in cui Chariton Deadman non aveva mai creduto, poteva sapere quanto poco avesse voglia di rispondere ad una qualsiasi chiamata di prima mattina; non solo la piccola sveglia del bagno (inutile, sotto molti punti di vista, ma non conosceva ancora Lydia Hadaway: erano piccole accortezze di uno Shot che di convivenza non sapeva davvero alcunché, quelle che puntavano a prendersi la briga di controllare quanto tempo passasse in quella stanza comune prima di divenire indiscreto o fastidioso; gli stava simpatica a pelle, la ragazza, e voleva evitare sia di incappare nei primi litigi da coinquilini prima del mese e mezzo, sia di farsi sfrattare in qualche modo) segnava appena le otto e cinquantacinque, ma era appena rientrato da un’ora di corsa nel vicinato ed da una di allenamenti nel tiro a canestro. Non che fosse stanco: semplicemente, preferiva meno del solito intavolare qualsivoglia conversazione telefonica. Le persone, gli stavano sul cazzo già quando era nel pieno delle proprie funzioni psico-fisiche: figurarsi allora.
    Senza contare che, una chiamata ad un telefono cellulare nella quale rubrica spuntavano a malapena dieci contatti – di cui poi sapeva per certo che la maggior parte stesse ancora dormendo, ed uno era nella sua stessa abitazione -, poteva significare soltanto una cosa. «phil» rispose monocorde, il telefono a qualche misurato millimetro dall’orecchio per evitare si bagnasse; dando per scontato si trattasse del Dottore non si era nemmeno accertato che sullo schermo apparisse il nome del padre adottivo di Murphy, e naturalmente dall’altro capo della telefonata questo non si prese il disturbo di negare. «MAI UNA TELEFONATA, EH!?» asciugandosi sbrigativamente e mettendosi un asciugamano in vita, il ventunenne non alzò gli occhi al cielo soltanto perché il vecchio non avrebbe potuto vederlo fare: si limitò ad un sospiro fin troppo marcato, che almeno quello era certo potesse sentirlo dal proprio auricolare. Per quanto l’uomo fosse una persona molto più calorosa, nei gesti e nelle parole, Shot aveva sempre preferito l’indiscreta figura di Jocelyn – una donna che gli dava i propri spazi, la madre, la quale non aveva mai avuto la necessità che il ragazzo la chiamasse costantemente per sapere se aveva mangiato qualcosa il giorno precedente; vedeva Phil come una sorta di presenza familiare nella propria vita, abituato com’era a vederlo più spesso di ogni altro giorno dopo giorno, ma era opprimente. Soprattutto quando fingeva importargli davvero di lui.
    Quando comprese (dopo poco, giustamente) che Chariton non avrebbe risposto a quella domanda, decise di palesare il proprio vero interesse celato dietro la chiamata. C’erano stati anche fin troppi giri di parole, per i suoi gusti. «ok, abbiamo bisogno di, mmmh…» mettendo il cellulare in vivavoce sul lavandino e vestendosi di una neutra t-shirt grigia, poteva quasi sentire gli ingranaggi muoversi rumorosamente nella testa del Dottore: dire “mi servono cavie da portare nei Laboratori” per telefono poteva risultare un po’, come dire?, rischioso. Il fatto che Shot capisse sia la situazione che ogni suo neologismo, non giustificava Philip dal prendere la prima cosa che gli capitava tra le mani per tradurre il termine essere umano. «sei piante di marijuana»
    Chariton Deadman, in arte (ed in quello specifico caso) Apollyon, chiuse gli occhi e respirò profondamente, il piede ancora alzato nell’intento di infilarsi una gamba dei pantaloncini.
    Perché a lui?
    Chissà perché aveva creduto fosse una buona idea, quella di chiedere al telefono uno spaccio di droga: tanto valeva parlare di rapimenti per gli esperimenti. «e per quando ti servono?» domandò, con lo stesso svogliato tono del saluto iniziale. «domenica» ed era giustamente giovedì.
    Calmo come una bomba, il telefono ancora pigiato contro il padiglione auricolare, uscì dal bagno. «come pretendi che ti porti sei fottute piante di marijuana in tre giorni?» «stupis-» «mh, shot?» «devo andare» gli attaccò il telefono in faccia; non si era minimamente accorto della presenza di Lydia poco distante da lui, in quieta ammirazione del suo ripostiglio. «lydia» il buongiornissimo dei campioni, per due introversi come loro.
    «devi per caso, uh, dirmi qualcosa?» le si avvicinò, braccia conserte ad osservare il proprio repertorio; ecco, si era fatto beccare dopo due settimane – ovviamente, non per le armi: quelle erano il sine qua non del contratto affittuario.
    Però, insomma.
    L’aveva appena sentito parlare di spaccio di droga.
    «no» rispose semplicemente, tiepido e pacato come solo uno Shot sapeva essere. Il fatto che la ragazza, la quale aveva sempre preferito tenersi alla larga da La Stanza, stesse ammirando l’armamentario del Deadman, sembrò un ottimo motivo per cambiare argomento.
    «vuoi una pistola?» che ne sapeva lui, che la gente “normale” non era così propensa alle armi da fuoco. «o un fucile, una mitraglietta – ho un po’ di tutto» concluse, stringendosi nelle spalle.
     
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    «no» così, semplicemente. Si fosse trattato di chiunque altro, la Hadaway avrebbe potuto interpretare quella risposta in molteplici modi - poteva significare che volesse liquidare la questione in fretta, o perfino che volesse intenzionalmente offenderla rispondendole apatico per evitarle un più rude, ma onesto, fatti i cazzi tuoi - ma si trattava di Shot, quindi quello per loro era l’equivalente di sorrisi e strette di mano segrete. Se le aveva detto no, Lydia sapeva lo intendesse sul serio: non aveva nulla da dirle.
    Il che, in una situazione come quella, era ancor più tragico e drammatico. Fece scivolare gli occhi dalla scorta al ragazzo, ramate sopracciglia arcuate ed allusive: come poteva pensare che non avesse nulla da dirle? Erano più armati delle squadre speciali in IRAQ? Per quale motivo? Pregò Dio che non si trattasse di uno di quei fanatici (Nate) delle apocalisse zombie: non avrebbe accettato né bunker né fagioli in scatola nel loro appartamento. «vuoi una pistola?» In che senso. Cosa stava…cercando di…comunicarle. Rimase ad osservare la canna scura di una pistola come avrebbe guardato un insetto particolarmente brutto ad una mostra di entomologia, labbra strette fra i denti e dita aggrappate alla tazza quasi ne andasse della sua vita (e forse era proprio così?). «o un fucile, una mitraglietta – ho un po’ di tutto» e con quanta naturalezza, il buon Shot! Come se… come se fosse normale. E la sapete la cosa assurda?
    Lydia, come Shot, non aveva assolutamente idea di cosa fosse o meno normale avere in un appartamento: Eugene e Jade avevano un tricheco, poteva davvero giudicare le scelte di vita del Deadman?
    Spoiler: sì. Perché poteva non avere alcuna memoria di una casa vera, ma il BUON SENSO le diceva che no, non avrebbero dovuto avere dei kalashnikov nascosti dietro al comodino (…un esempio, eh. Sperava non ci fossero? Doveva controllare? Preferiva di no). «dovrei?» domandò corrugando le sopracciglia, ruotando lentamente il capo fino ad incontrare gli occhi scuri del suo coinquilino. «perché…perché hai un po’ di tutto. cosa-» fai per vivere? Forse non voleva saperlo. Umettò le labbra incrociando un braccio sul ventre, la testa a scuotersi debolmente. Aveva affinato quell’espressione di stanca esasperazione con Nathaniel, ed oramai aveva raggiunto il livello Master del potersi permettere di tacere e comunicare comunque il proprio, infinito, disappunto confuso. Confuso, certo – la confusione non la abbandonava mai.
    A quel punto, perché avrebbe dovuto? Chiaramente la sua vita era (ri)nata per non poter essere compresa, a quale pro intestardircisi a farlo? «perché sono in tutta la casa» assottigliò le palpebre ed inspirò dalle narici, la testa abbassata contro il proprio petto. «e quella è una - è una granata Voleva davvero avere una risposta? «è…sicuro? Vorrei non…» come dire? Non era ancora certa che non fosse uno psicopatico, bisognava essere cauti. «morire, potendo scegliere.» sorrise perfino, seppur nervosamente e con un principio d’isteria. «non per farmi gli affari tuoi, figurati» ma quando mai lei si faceva i fatti di qualcun altro? (sempre) sì, sempre, okay, a ciascuno i propri passatempi: restava comunque una ragazza discreta ed amabile. «ma per caso…» Fece spallucce, un vago cenno con il braccio alla Stanza del Potere di fronte a loro. Agitò distrattamente le dita come a voler scacciare una mosca, schioccando la lingua sul palato come se domande del genere, Lydia Hadaway, le ponesse giornalmente. «sei un terrorista?» Forse avrebbe dovuto chiederglielo prima di andare a vivere con lui.
    Beh. Era pur sempre francese, e si sapeva che ai francesi piacesse il Brivido™ - altrimenti perché tenere le baguette sotto le ascelle?

     
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    Strinse maggiormente le braccia al petto, le labbra morse tra i denti e le sopracciglia corrugate; rimase immobile ad osservare la reazione della Hadaway, e sarebbe una menzogna dire che quella che la ragazza ebbe non fosse esattamente quella che si era aspettato Shot. Non che sperasse in salti di gioia o lacrime di commozione, sia ben chiaro - con suo immenso dispiacere, aveva appreso nel corso della propria vita che non era da tutti l’amore per il tiro con le armi da fuoco: un vero peccato per il mondo intero, a dirla tutta -, ma quello? Erano pur sempre i suoi bambini, quelli che Lydia stava ammirando con una punta di disgusto e disappunto. Non dico che Chariton fosse offeso da quell’atteggiamento, ma non lo nego neanche.
    Sorvolò soltanto perché sperava di avere abbastanza tempo nel contratto d’affitto per farla ricredere - e perché sinceramente, di voglia o capacità di mostrarsi oltraggiato il ventunenne non ne aveva affatto. Schioccò la lingua sul palato, fece scivolare lo sguardo castano dalla giovane alla cucina alle sue spalle; avrebbe volentieri continuato quello studio antropologico e sociale sulla costernazione della coinquilina, ma «c’è ancora del tè?» non aveva ancora messo nulla nello stomaco. La domanda cadde lenta e misurata nel silenzio, così decise di prendere il tacere di lei come un cenno d’assenso. Aveva come l’impressione che se fosse andato nell’altra stanza a prendersi una tazza, riempiendola d’acqua che sperava essere ancora bollente ed attendendo che l’infuso di tè aromatizzasse la bevanda, tornando avrebbe trovato Lydia ancora ferma, intenta a studiare con minuzia e confusione lo stanzino.
    Così, più o meno, accadde. «è fredda» commentò - triste o frustrato che fosse, non ci è dato saperlo: una mera constatazione, la sua, nel stringere tra le dita il bollitore ormai nemmeno tiepido. Il che, nel mentre che si prestava a riempire nuovamente il recipiente e rimetterlo sui fornelli, lo insospettì.
    Le ipotesi, potevano essere soltanto due. O aveva turbato Lydia a tal punto da lasciarla in una catatonica stasi davanti alla stanza così tanto da far raffreddare il preparato, oppure avevano un bollitore di merda. Lo lasciò a scaldarsi, tornò dalla ragazza – ancora confusa, perplessa. Onestamente parlando, Shot protendeva più per la seconda considerazione tra le due papabili: insomma, l’avevano comprato dal bangladino sotto casa, non potevano pretendere un isolamento termico degno d’essere osannato.
    Senza contare che riteneva assurdo che quell’infimo quantitativo d’armi potesse scioccarla a tal punto. Se avesse visto l’armadio che aveva nei Laboratori, probabilmente le sarebbe venuto un infarto.
    «dovrei?» arcuò le sopracciglia, poggiandosi allo stipite della porta. «sì» rispose, secco ed onesto - nella sua modesta opinione chiunque avrebbe dovuto volere una pistola, se ne aveva la possibilità. E diciamolo: quel mondo non era proprio un’utopia nella quale girare disarmati e felici. «perché… perché hai un po’ di tutto. cosa- perché sono in tutta la casa» chissà se la ragazza era realmente consapevole del fatto che fossero davvero, in tutta la casa; ne dubitava, dato che non l’aveva ancora mai sentita urlare per il lanciagranate che aveva nascosto sotto al suo letto, per le due semiautomatiche nello scarico del water o per il C4 dietro lo zucchero in dispensa. Era un tipo previdente, Chariton Deadman: non si può mai sapere dove si potrebbe aver bisogno di un arma.
    «e quella è una - è una granata? è…sicuro? Vorrei non… morire, potendo scegliere.» «non morirai» sospirò arrendevole, gli occhi a roteare al cielo: aveva così poca fiducia in lui? Se avesse voluto metterla in pericolo, avrebbe avuto altri diecimila modi per farlo.
    «non per farmi gli affari tuoi, figurati, ma per caso… sei un terrorista?» assottigliò lo sguardo, si umettò le labbra. «razzista, da parte tua» andiamo, solo perché la sua carnagione era un po’ più scura? Si avvicinò alla ragazza di un passo, non dovendosi sforzare nemmeno troppo per sembrare minaccioso: la sua faccia era un perenne broncio, difficile a dirsi quando sinceramente costernato e quando mera abitudine. Come se glielo potesse dire, se fosse con Al Qaida. «ora dovrò ucciderti» piegò la testa, sospirando mesto. «peccato, mi eri simpatica»
    Se avesse saputo come esprimere dei sentimenti, Shot avrebbe anche riso; purtroppo era certo che nel caso lo avesse fatto, sarebbe parso persino più preoccupante. «sto scherzando» scivolò all’interno dello stanzino, sfiorando le proprie armi mentre ci passava dinnanzi prima di soffermarsi sull’anta di un armadietto, quasi irriconoscibile a causa dei due ak-24 appesi sul legno.
    «eredità» mentì atono, aprendo l’anta. Non poteva di certo raccontare alla prima sconosciuta di turno del suo ruolo nei Laboratori Estremisti, o del proprio mestiere: era poco professionale. Dopotutto, però, non poteva nemmeno sorvolare sull’argomento: doveva darle un motivo per il quale teneva tutte quelle armi. Se non ci avesse creduto, amen - se ne sarebbe liberato.
    Di Lydia, non delle armi - mai, delle armi.
    «mio padre era un fanatico e paranoico sostenitore delle teorie del complotto» si schiarì la voce, soppesando una Browning con entrambe le mani, prima di puntarla davanti a sé, contro il muro. «a cinque anni mi ha chiuso dentro un poligono di tiro per dodici ore, senza cibo: potevo uscire solo se gli mostravo cinque sagome perforate al centro. a sei anni sapevo già lanciare una granata senza perdere le dita nel mentre» non che fosse tutta una bugia, in fin dei conti. «quando è morto mi ha lasciato la metà dei suoi armamenti» uscì dalla stanza con la pistola tra le dita, tenendola per la canna. «lo odiavo, ma è tutto ciò che mi ha lasciato – quindi, insomma» si strinse tra le spalle, il labbro inferiore sporto all’infuori. Alzò la mano, porgendo alla ragazza il calcio dell’arma. «allora, ripeto: vuoi una pistola?» perché , secondo lui era quello il motivo per il quale era ferma lì da… ore? «posso insegnarti a sparare»
     
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    20.04.17 | 09:10
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    Dondolò nervosamente sui talloni, la presa ferrea sulla tazza di tè ormai freddo fra le mani. Nel corso degli anni aveva imparato a controllare le emozioni, sarebbe stato alquanto demotivante per uno studente alle prime armi con il proprio potere incappare in una crisi di panico da parte dell’assistente, ed il solo fatto che lasciasse trapelare un briciolo di nervosismo avrebbe dovuto essere indice di due fattori: il primo, non credeva realmente che il Deadman volesse ucciderla; il secondo, che non credeva realmente il Deadman volesse ucciderla, ma quella quantità di armi restava alquanto preoccupante. Non era solita mettere il naso in affari che non fossero suoi, troppo discreta per azzardarsi a tanto, ma si trattava pur sempre di un appartamento nel quale convivevano. La questione la riguardava in prima persona, e per quanto di natura fosse più propensa a infilare la roba in valigia e trasferirsi altrove pur di non fare domande scomode al suo coinquilino, Lydia Hadaway preferì provarci: le piaceva, Shot. Era convinta che avesse delle… motivazioni accettabili, buone sarebbe stata una parola troppo grossa. Dubitava che al mondo esistesse una buona spiegazione per tenere roba del genere entro il proprio appartamento. «razzista, da parte tua» Corrugò le sopracciglia ramate gli occhi verdi a scivolare sul profilo del ragazzo. Si strappò l’in che senso stampato in faccia quando si rese conto dei tratti vagamente orientali del ragazzo. Evitò il commento acido a pruderle sul palato, riconoscendo nella lingua velenosa un tratto che non le apparteneva più - ma in parte, diplomaticamente, avrebbe voluto fargli notare che con un viso del genere, una più logica supposizione al terrorismo sarebbe stata un’infanzia da bambino soldato in Cambogia. «ora dovrò ucciderti.» Sollevò lentamente, molto lentamente, le iridi foresta in quelle scure del coinquilino. Appiccicò sulle labbra un sorriso isterico: stava scherzando, giusto? Per forza. Stava sicuramente scherzando. Il tutto, la Hadaway cercò di dedurlo (fallendo miseramente.) dall’espressione impenetrabile di lui. Rimase vigile, le spalle irrigidite e la bocca costretta in un ghigno sofferto - ti prego dimmi che stai scherzando non capisco NON CAPISCO.
    «peccato, mi eri simpatica» Mission abort. Mission super abort. Fece guizzare la lingua sulle labbra sentendo la gola secca, lo sguardo a spostarsi dalle armi al moro. Sentì morire un anche tu sul palato, poco propensa, come il suo collega, alle battute di spirito: sapeva di non essere divertente, quindi evitava di provarci ed apparire ridicola. Annuì solo una volta, come se quella conversazione fosse del tutto normale per lei. Abitudinaria. Un classico.
    Sicuro. «sto scherzando» Ha. Haha. «hahaha» rese concreta la nevrotica risata mentale scuotendo le spalle, la testa piegata sul fianco ed il sollievo a svuotarle i polmoni. «meglio, mi sei simpatico anche tu» si fermò a metà di un pugnetto amichevole sulla spalla, lasciando appesa la mano nell’aria mentre lui entrava dentro lo stanzino.
    Passava troppo tempo con Nathaniel Henderson. Spostò il braccio sulla fronte nascondendo tatticamente il gesto nell’asciugarsi la fronte dal sudore.
    «eredità. mio padre era un fanatico e paranoico sostenitore delle teorie del complotto»
    Non disse peggio del previsto, ma lo pensò così intensamente che dovette averlo dipinto negli occhi. Abbassò il capo per impedirgli di vederlo, fingendo di guardare con interesse l’interno della tazza. «a cinque anni mi ha chiuso dentro un poligono di tiro per dodici ore, senza cibo: potevo uscire solo se gli mostravo cinque sagome perforate al centro. a sei anni sapevo già lanciare una granata senza perdere le dita nel mentre» Cosa
    Cosa stava succedendo. A parte che mai, neanche alla firma del contratto, lei e Chariton Deadman avevano mai scambiato più di sette parole di fila – era cristallino che nessuno dei due fosse particolarmente loquace; compensavano con le visite quasi giornaliere di Nathaniel e Murphy. Inarcò ambedue le sopracciglia cercando di capire se quello fosse il comportamento normale di un genitore: lo era? non lo era? Non credeva lo fosse, ma per quanto ne sapeva il proprio poteva averla tenuta in una fattoria cospargendola di cibo per galline giusto per insegnarle la Legge del Più Forte. Dedusse che mostrarsi impressionata non fosse la reazione giusta, quindi si nascose (ancora) dietro la tazza. Talvolta credeva che l’abitudine del tè, piuttosto che da Nate, l’avesse presa dall’esigenza di avere le mani impegnate e facili scappatoie per evitare lo sguardo altrui. «lo odiavo, ma è tutto ciò che mi ha lasciato – quindi, insomma» Annuì come se la cosa avesse senso, malgrado non la avesse.
    Immagina che i gusti fossero gusti.
    Indietreggiò quando lui le porse un’arma. «allora, ripeto: vuoi una pistola?» No? Decisamente NO? Scongiurò di apparire allarmata mantenendo lo sguardo fisso sul calcio della pistola. «posso insegnarti a sparare» in quel momento non riuscì, né volle, a trattenere un timido sorriso sulle labbra. Era disposto ad insegnarle a sparare - forse per altri sarebbe stato ovvio, ma di certo non lo era per chi nella sua (breve) vita aveva ricevuto più porte chiuse in faccia che non inviti ad entrare. Sollevò il capo verso Shot, azzardando un sorriso più sollevato. «magari prima posso venire con te al poligono a » tenerti compagnia? Non gli sembrava il tipo da averne bisogno. «guardare» concluse. Umettò le labbra invitandolo con un cenno in cucina, dove il tè era ancora sul fuoco. «devi ancora fare colazione?» domandò, ignorando gli stili di vita del ragazzo. Per quanto ne sapeva, poteva essersi svegliato all’alba ed aver già mangiato tre colazioni in tre città diverse. Si sarebbe offerta di preparagliela? Sicuramente no. Ancora non era certa di saperlo fare, e prima di avvelenarlo preferiva testare le proprie doti culinarie su se stessa. Se nel giro di qualche mese non fosse morta, avrebbero potuto riparlarne. Si schiarì la voce imbarazzata, indecisa su come affrontare la…vita - le relazioni, le persone. Il fatto che lui si fosse aperto, per quanto messo all’angolo, significava che dovesse farlo anche lei? Si trattava di fiducia?
    Come si faceva amicizia? Non ne aveva idea, ma decise comunque di ricambiare la sincerità del ragazzo QUALE con l’informazione più importante della sua esistenza – nonché quella che avrebbe spiegato molte cose. «qualche anno fa ho perso la memoria» iniziò distrattamente, fissando il soffitto. «tabula rasa. in teoria mi chiamo annie baudelaire» portò gli occhi su di lui con un sorriso mesto ma sincero. «ma nessuno è mai venuto a reclamarmi, quindi insomma» più o meno: sua zia l’aveva fatto. «per quanto ne so, potrei essere stata una cecchina» indicò l’armamento nello stanzino e si strinse nelle spalle, la base della schiena poggiata contro il lavandino. «o una terrorista.» sorrise inarcando complice un sopracciglio. Visto che non sono razzista?
     
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    Sollevò le sopracciglia roteando tra le dita l’arma così da avere saldo il calcio della pistola nella propria mano, le labbra una piega inflessibile e gli occhi scuri costantemente puntati sul viso della Hadaway. In quelli più chiari di lei, in costante bilico tra l’arma, l’armadio ed il Deadman, non voleva leggere alcuna reazione: ch’ella fosse turbata dalla sua scorta a Shot era ovviamente noto sin dal principio, e gli pareva abbastanza inutile continuare a ridere sotto i baffi dei vari sguardi sbigottiti ed allarmati della ragazza – per quanto effettivamente esilarante, lasciateglielo dire: aveva d’altronde vissuto un’intera esistenza al fianco di persone come Murphy ed Heidrun, le quali di gioie simili non gliene davano mai.
    Voleva soltanto carpire, in quel titubante sorriso, se si fosse bevuta la favola che gli aveva propinato. La verità le era preclusa, almeno per qualche decennio, e benché sapesse di essere un abile bugiardo aveva bisogno di una conferma – o, almeno, di una non smentita. Doveva ammettere che la storia di un padre fissato con le teorie del complotto ed armato fino ai denti per scongiurare un possibile attacco alieno non era questo grandissimo ed articolato elaborato, frutto di una mente creativa e sopraffina; tuttavia non si allontanava così tanto dalla realtà dei fatti, ed era pur sempre mattina presto. Aveva bisogno della sua razione quotidiana di caffeina o teina per iniziare ad essere uno Shot DOC, ovverosia scazzato nei confronti del mondo e degli esseri umani, nonché incapace di tessere rapporti di alcun genere, di dialogare in maniera corretta: prima dell’assunzione era privo dei filtri necessari alla propria sopravvivenza in un pianeta sociale come la Terra, ma già, e decisamente, annoiato da ogni cosa e persona – soltanto, incapace di applicare adeguatamente il proprio mutismo selettivo.
    «come ti pare» infilò l’arma tra la schiena ed i pantaloncini, in caso di emergenza, e chiuse la porta dell’armadio con un colpo di tacco. «ma non vado spesso al poligono» nel caso fosse stata un’altra persona, avrebbe aggiunto che poteva fare un’eccezione per una volta. «preferisco sparare» alle persone «all’aria aperta». Aveva passato vent’anni di vita nascosto nel seminterrato di un laboratorio, conoscendo il mondo che c’era all’esterno solo per sentito dire fino al suo dodicesimo compleanno – e vivendolo, da quel giorno in poi, ventiquattro ore alla volta, e solo quando gli veniva affidato un incarico. Per tutta la sua giovane esistenza, era stato obbligato a fare tutto ciò che amava dentro le bianche, asettiche mura dei Laboratori: non avrebbe continuato a rinchiudersi in dei buchi, conoscendo il mondo che c’era al di fuori d’essi.
    Annuì alla ragazza, seguendola nella cucina ed avvicinandosi al bollitore messo sul fuoco poco prima. Si sentì terribilmente a disagio, per la prima volta in vita sua, a versare l’acqua calda nella tazza in tutto quel silenzio – lui, che nella quiete ci sguazzava e che le troppe parole preferiva metterle a tacere con un proiettile d’avvertimento (nella gamba dell’interlocutore) contro il muro. Dio, il mattino gli faceva un brutto effetto.
    Forse era Lydia Hadaway, a fargli un brutto effetto. Non aveva mai incontrato nessuno con cui non parlare, ed a quel punto era… assurdo, immaginare di poter rimanere in tranquillità.
    Ad ogni modo, decise di attendere che fosse lei a riprendere la parola; dal canto suo, Chariton aveva già usato troppi vocaboli. Probabilmente, tutti quelli che avrebbe dovuto smaltire nel corso della giornata.
    «qualche anno fa ho perso la memoria» alzò lo sguardo su di lei, dall’altra parte della cucina, sorseggiando il proprio tè come se l’amnesia totale della ragazza fosse una cosa del tutto normale, non meritevole di particolari attenzioni. Dopotutto, non era la prima persona che vedeva perdere ogni ricordo della propria persona – esempio lampante, quel deficiente di un Dallaire. «tabula rasa. in teoria mi chiamo annie baudelaire» ah, ma pensa. Per quanto fosse caldo Shot continuò a nascondersi dietro la tazza ed il suo contenuto, celando ogni possibile reazione.
    Anastasie Baudelaire, l’Adescatore, la conosceva fin troppo bene. Non personalmente, ma per quanto Murphy aveva parlato di lei e dell’Hamilton era come se fossero stati un suo caso. «ma nessuno è mai venuto a reclamarmi, quindi insomma. per quanto ne so, potrei essere stata una cecchina, o una terrorista.» soffiò sulla bevanda calda, tornando a guardare la rossa. «non me ne stupirei, sinceramente» invece sì, avendone letto la cartella: una ragazza della borghesia francese, vissuta in un contesto diametralmente opposto a quello che condividevano in quell’appartamento, sarebbe stata l’ultima persona ad immaginarsi in uno dei due ruoli. «sono sempre quelli che lo sembrano di meno: serve a mimetizzarsi nella folla» sollevò un sopracciglio allusivo tentando quello che avrebbe dovuto essere un sorriso, ma che sulla pelle olivastra del Deadman, poco avvezzo ad una simile convenzione, stonava terribilmente. In compenso, era stato onesto.
    Immaginava che, in linea del tutto generale, avrebbe dovuto sentirsi in colpa per quanto accaduto alla coinquilina, o che almeno si sarebbe dovuto dimostrare dispiaciuto per l’oblivion che le era stato probabilmente lanciato. Non sarebbe stato da lui fare nessuna delle due cose, sia perché non era stato il moro a portarla dentro (e anche fosse stato, quello era il suo lavoro: non si sarebbe scusato per averlo fatto), sia perché per quanto ne sapeva l’incantesimo non era stato lanciato nei Laboratori.
    E, a suo parere, era meglio non ricordasse nulla della sua vita: un nuovo inizio, per chi lo sapeva cogliere.
    «e tu non hai mai cercato nessuno» constatò semplicemente, arcuando un sopracciglio. Ok, bello il nuovo inizio, ma… insomma. L’unico Baudelaire di cui aveva sentito parlare era stato preside di Hogwarts: chiedere un po’ di soldi, a quel punto, non sarebbe stato male. Ciononostante, non volle interferire nelle sue scelte di vita. «sai come hai perso la memoria?» domandò vago, ritenendo quello fosse un normale argomento di conversazione. «trauma o incantesimo?» oh, era pur sempre stato cresciuto da scienziati: la curiosità accademica faceva (quasi) parte del suo DNA.
    Mica voleva accertarsi non ricordasse niente dei Laboratori.
    Figurarsi.
     
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    lost in the echo

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    20.04.17 | 09:10
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    Vorrei dire che Lydia Hadaway fosse abbastanza sicura di se stessa da non sentirsi mortificata alla fredda replica del suo coinquilino, ma andiamo, oramai dovreste conoscere abbastanza le vostre pecore da riconoscere una palese menzogna – e anche come la Hadaway reagì alla propria cocente umiliazione, rapida nell’abbassare lo sguardo sulle proprie mani, e mordersi l’interno della guancia. Ma come le era venuto in mente di domandare ad un semi perfetto sconosciuto, di cui aveva appena scoperto la non troppo segreta alcova d’armi, di poterlo seguire come una stalker al poligono di tiro (od assumere che ne fosse un frequentatore)? Quando mai - quando mai - proposte del genere andavano in porto? Si sentì molto stupida e molto patetica, stretta nel proprio pigiama leggero, a fare small talk con qualcuno che, chiaramente, avrebbe preferito una compagna di stanza muta e cieca. Anche io, Shot. Anche io. Possibilmente, nel suo caso, anche sordo, così non avrebbe avuto modo di sentire le imbarazzanti parole incespicanti della rossa. A quanto pare non solo non si poteva avere tutto dalla vita, ma non si poteva avere niente. «no beh,» fece spallucce aggrottando lievemente le sopracciglia, le labbra sporte all’infuori con non curanza. «era solo un’idea» liquidò, felice che il discorso avesse preso una piega differente. A quel punto avrebbe preferito interloquire sul colore di mutande della Regina Elisabetta, piuttosto che continuare a farsi – chiaramente – odiare dal moro. C’era un motivo di fondo se Lydia Hadaway girava solamente con persone come Nathaniel (il quale, in momenti simili, s’infilava nella conversazione togliendola dall’impiccio), Amos (con il quale, disagiato quanto lei nei contesti sociali, poteva applicare uno studiato panic moonwalk) o Jay (bastava vedere la sua faccia per capire che non fosse qualcuno che amava chiacchierare, quindi la gente era solita tenersi alla larga).
    Insomma. Al tentativo di Lydia di ammorbidire la tensione con (poco.) plausibili scenari riguardo al suo passato, Shot replicò con un «non me ne stupirei, sinceramente. sono sempre quelli che lo sembrano di meno: serve a mimetizzarsi nella folla» che la Hadaway, appellandosi a davvero (davvero…) qualunque grammo di buon cuore, decise di interpretare come un complimento. Annuì come se la constatazione avesse perfettamente senso, labbra strette fra loro e candidi occhi verdi a cercare una via di fuga. Aveva concluso la sua word pool giornaliera, se non settimanale, e non era certa che il proprio corpo potesse accettare altre parole provenienti dalla propria bocca senza causare un trauma permanente. Era brava ad ascoltare, la migliore, ma non era solo l’imbarazzo a tenerle sigillata la bocca quando circondata da persone: era l’incapacità di sostenere una conversazione, partendo dagli argomenti per giungere alla giusta durata dei silenzi (quando diventavano troppo imbarazzanti, e quando invece erano piacevoli? non ne aveva idea). «e tu non hai mai cercato nessuno» Non poteva negare il vero, e non essendo una domanda, decise di non rispondere. Invece, sollevando un sopracciglio ramato, replicò con un interrogativo: «tu l’avresti fatto?» che avrebbe potuto apparire polemico, ma da Lydia altro non si trattava che curiosità. Voleva davvero sapere come avrebbero reagito gli altri – se ella avesse errato, se ci fosse un modo giusto ed uno sbagliato. Non avrebbe cambiato il passato, né le proprie scelte, ma era accademicamente interessante sapere cosa, in linea teorica, avrebbe fatto qualcun altro nelle sue stesse scarpe.
    Linea teorica, chiaramente: la pratica, era tutta un’altra roba.
    «sai come hai perso la memoria? trauma o incantesimo?» Lo sapeva, Lydia? Sara non ne è affatto sicura, quindi diciamo che la Hadaway si limitò a fare nuovamente spallucce, curvando ironica gli angoli delle labbra verso l’alto. «ha importanza?» chiuse la questione, socchiudendo le palpebre e distogliendo lo sguardo dal suo interlocutore. Sara non ricorda neanche se si sono già spostati in cucina o meno, quindi – ciao Pidi – noi fingeremo di sì. Incrociò le caviglie e seguì con il dito alcune venature sul tavolo, un bianco accecante e chimico che suggeriva Ikea ad ogni centimetro. «e tu…» cosa, Lydia – cOSA. Deglutì, poggiò il mento sul palmo quasi, quasi, decidendo di lasciare la frase in sospeso. Dubitava che a Shot, in ogni caso, avrebbe dato fastidio: morivano tutti e due dalla voglia di lasciar cadere qualunque discorso, e tornare ai propri loschi affari.
    Ma è il tuo coinquilino, Lydia. Provaci – dannazione, provaci sul sERIO a fare amicizia.
    Doveva proprio?
    Doveva proprio.
    «hai altri hobby oltre a, mh, sparare all’aria aperta?» Avvicinò la tazza di tè, nuovamente riempita pochi minuti prima, alle labbra. «magari abbiamo qualcosa in comune» tenne per sé la risata isterica, e ne fu così fiera che per poco non si diede una pacca sulle spalle. «oltre al mutismo non troppo selettivo» sussurrò appena, quasi impercettibile alle sue stesse orecchie, bevendo un sorso bollente di teina.
     
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