In the night

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    you want to take the lead and hurt first.

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    bodie - 20/04 h.14:30
    londra - 20/04 h.22:30
    parigi - 20/04 h.23:30
    Do you see something real
    Accade di rado, ma accade.
    Qualcuno le definirebbe coincidenze, un peculiare ed ironico intersecarsi di eventi che nulla hanno realmente a che vedere l'uno con l'altro; slegati come palloncini al vento, e quei qualcuno a riderne quando questi, troppo vicini al sole, fossero infine esplosi con uno scoppio sordo ed asciutto. Casuali: perché la vita era tutta un susseguirsi di casualità, dicevano; perché i legami erano fili impiastricciati di zucchero dalle mani di bambini che volevano si legassero fra loro, che ne sforzavano le traiettorie come strette strade scavate nella sabbia per le biglie.
    Accade di rado che due persone, nel medesimo istante, dicano la stessa identica cosa: probabilità, avrebbero sussurrato i cinici. Coloro che al Caso credevano come in un cuore pulsante, perché il libero arbitrio era l'unica certezza della vita, compagna al tanfo già amaro della morte che perseguitava l'uomo dalla nascita. Non esisteva il Destino - non c'era posto, per il destino.
    Accade di rado che due alberi vengano colpiti da due differenti fulmini nello stesso momento. Accade di rado di sollevare lo sguardo ed incontrarne un altro, strappando un pezzo di vita e la cicatrice di un sorriso dalla vita di un perfetto sconosciuto.
    Accade di rado che due orologi rotti scocchino l'ora esatta in contemporanea, nel placido ma irrequieto incedere di lancette arrugginite. Accade di rado di guardare i numeri rossi sulla sveglia nell'esatto momento in cui scatta il minuto. Accade di rado di alzare la testa al cielo intercettando una stella cadente.
    Eppure quella stella, la possono vedere in centinaia - in migliaia. E può capitare, può capitare, che nello stesso momento vi sia un'altra stella cadente a centinaia di migliaia di chilometri di distanza - che siano gli occhi di un emisfero opposto a vederla.
    Oppure che si alzi la testa al frullare delle ali di un corvo, può capitare anche quello. Per il fischio della lavatrice del vicino al piano superiore.
    Qualcuno guarda il cielo e vede un aereo; qualcuno guarda il cielo e vede una nuvola; qualcuno guarda il cielo solo per domandarsi come possa essere così incredibilmente azzurro. Nello stesso istante in cui lo fate voi, può farlo chiunque altro: perché accade di rado, ma accade.
    Solitamente, si tratta puramente di una coincidenza. Di una casualità. Di statistica e probabilità.
    Ma talvolta, no.

    Nulla pare accumunare i tre, i cento, protagonisti di questa storia. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che il loro solo, miserabile, filo, potesse un giorno qualunque di una vita qualunque di un tempo qualunque trovare la propria via di fuga incastrandosi fra le crepe della realtà; nessuno avrebbe compreso come avessero potuto superare ogni barriera razionale, ogni ostacolo di senso compiuto - od il perché. Era bastato un istante, un quarto di battito di cuore, perché s'annodassero fra loro. Un insieme di coincidenze a costruire fallaci castelli di sabbia che non in quella vita, né in quella dopo, o quella dopo ancora, avrebbe mai avuto basi solide con le quali reggersi.
    Ma era bastato un istante. Una debolezza nel tempo e nello spazio. Accadeva di rado, ma accadeva; fragilità delle barriere colte come brividi, il sentirsi osservati senza alcun motivo apparente. Vi è mai capitato? Di sentirvi osservati, ma essere soli. Di sentirvi sfiorare, toccare - eppure non c'è nessuno. L'avete mai provata quella spiacevole ed inspiegabile sensazione che nel buio della vostra stanza non siate gli unici? O quando chiudete gli occhi, capita anche così. Ci avete mai pensato che, aprendoli, il mondo a dispiegarsi davanti al vostro sguardo potrebbe non essere lo stesso? Vi ha mai sfiorato, l'idea? Anzi, non l'idea.
    La percezione. La consapevolezza di quanto tutto sia fragile e sottile, di quanto poco conosciamo della realtà. Accadono di rado, momenti del genere - ma accadono.
    Il vuoto allo stomaco di un deja vu.
    Il ricordo a cui non lasciavate spazio da troppo tempo.
    Il sorriso al nulla; le lacrime a bruciare gli occhi di un dolore sconosciuto.
    Momenti del genere tendono a scivolare troppo in fretta. Guizzano fra le pieghe di coscienza ed incoscienza, di realtà e sogno, passato e presente. Ma capita, e capita, che qualcuno, per caso o per fede, ci si aggrappi più del dovuto. Che il filo s'inceppi incapace di tornare al proprio gomitolo. C'è bisogno di un insieme di fattori considerevole, senza dubbio; c'è bisogno della giusta emozione, della giusta disperazione, del medesimo vibrante odio a rimbalzare da una corda all'altra. C'è bisogno di una certa luce; di una certa cedevolezza emotiva.
    C'è bisogno di perdere tutta la speranza. C'è bisogno di quel pezzo di sé che non si scambia facilmente al mercato nero.
    C'è bisogno di un segreto.
    Due segreti.
    Tre segreti.
    Ed allora il filo si inceppa, e nodo su nodo crea un ponte.
    Due ponti.
    Tre ponti.
    Sfiorava l'impossibile. L'inconcepibile. Sfiorava un livello di armonia disarmonica che l'essere umano non era progettato per comprendere: ci si impazziva, di perfezione. E forse per questo, funzionò.
    Perché loro non erano perfetti. Perché i loro amici, le loro famiglie, i loro sogni ed i loro incubi, non erano perfetti.
    Perché il loro mondo, non era perfetto.
    Ed allora, un po' di quella perfezione non sua, poteva permettersela. Per poco - per meraviglia, per orrore. Per la sua intrinseca impossibilità d'essere.
    Accade di rado che -
    Il fiato corto. La fronte premuta sullo specchio, il fiato a condensarsi sulle labbra. Il cuore a pizzicare le costole come corde di un violino. E quella domanda, sempre la stessa. L'unica che non vorrebbero porsi, l'unica così patetica da disegnare sulle loro labbra quel che potrebbe essere scambiato per un sorriso:
    Perché
    Perché
    Perché


    Un verso di gola, forse una risata. I pugni a chiudersi, a scivolare sulla superficie dello specchio cercando appigli, cercando un motivo per non andare in pezzi - loro, lo specchio. Quella particolare sfumatura dell'iride che non mostravano mai a nessuno, che del colore - verde, bruno, azzurro - ha perso ogni traccia ed ogni memoria. Quell'odio che solamente loro, potevano capire e capirsi: quello accumulato come polvere ad indurire i propri tessuti rendendoli stopposi ed antichi sotto i denti. Quello che talvolta soffocava, e che a sua volta veniva affogato con altro: alcool, sangue, pelle e carne.

    Il cercare conforto nel contatto freddo sotto i polpastrelli, la guancia. Le preghiere a Dio di fare qualcosa - di toglierglielo, quel senso di apatico torpore; quelle domande a cui nessuno poteva rispondere, così banali da risultare tristi nella loro infima semplicità. Non sanno neanche loro chi stiano pregando; per cosa, stiano pregando. Se ci sia ancora qualcosa che ne valga la pena - se loro siano ancora qualcosa per cui ne valga la pena. Il senso di perdita, era il peggiore. Quelli da raggomitolarcisi, da quanto si facevano sprezzanti della loro astrattezza e rompevano le ossa nel petto: devi toccartelo, lo sterno, per assicurarti sia ancora intero. E poi stringertela, quella mano al busto: per orgoglio, per principio. Perché nessuno dovrebbe avere il potere di rendere il battito cardiaco così scellerato e poco guardingo, così stupido ed insensibile, men che meno
    Io
    Io
    Io


    La rabbia, a sostituire l'odio. L'impotenza. Il riconoscere la debolezza come propria ed il non volerla, il non saperla, accettare: la gola secca, allora. Arida di quel singhiozzo di cui non si sapeva il nome. L'aggrapparsi ad ogni cosa
    La superficie scheggiata dell'armadio
    Il ripiano di marmo
    L'ancora umido lavandino nero
    Pur di cancellare l'inebriante, tossica, sensazione di
    Vuoto
    Vuoto
    Vuoto
    Il rompersi regolare ma non ritmato del respiro in brevi rantoli
    Sbagliato
    Sbagliato
    Sbagliato
    Loro, per una volta. Quando sono da soli, possono permetterselo: possono guardarsi in faccia odiandosi, infuriandosi, agonizzando nel riflesso dei propri miserabili occhi. Possono lasciare le labbra a ricadere severe sul mento; possono serrare le palpebre senza aver paura, perché sanno che di nemico ne hanno solamente uno
    .

    E che i segreti vadano nascosti in bella vista, lo sanno bene. Un altro rantolo, risata o singhiozzo od entrambi. Il primo colpo, esattamente al centro di quel segreto. Quasi a saggiarne la superficie,
    La testa
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Sfiorano la superficie dello specchio una prima volta, un bisbiglio a farsi opaco
    Fra la polvere
    Nel buio
    Nel fumo
    Ed infinito sulle loro bocche: il segreto, il nemico. L'incubo, il perché. Un secondo colpo, questa volta più necessario della volta precedente; e
    La fronte
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Preme più forte, più urgente, gonfio e tronfio dal colpo precedente. La bocca continua a muoversi, per vizio o virtù od entrambi. Per rimuoverlo ed esorcizzarlo. Non possono fare a meno di domandarsi
    Perché
    Perché
    Perché
    Il mondo li abbia resi così, loro che così non lo erano; se fossero migliori, peggiori. Se fosse stato proprio d'obbligo. Si chiedono
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Mentre un altro colpo segue il secondo, ed un terzo ed un quarto. Mentre una
    Crepa
    Crepa
    Crepa
    Si apre un varco sibilando minacciosa, ridendo di loro - di loro che non capiscono, sempre loro: quei loro così schifosamente
    Umani
    Umani
    Umani
    Hanno problemi diversi. Hanno vite diverse in tempi e luoghi diversi - ma a loro, non importa. Loro, non lo sanno. Ed allora colpiscono ancora, la voce un riflesso ormai incondizionato. Ci si aggrappano, a quell'unica verità; a quell'unico segreto nascosto in bella vista. Quel segreto che sanno tutti, ma non tutti sanno che di un segreto si tratta.


    Lo ignorano o non gli importa. O forse non ci credono, che un Nome abbia potere. O forse ci credono troppo, perché ogni colpo si fa più
    Ruvido
    Ruvido
    Ruvido
    E la crepa non fa che allungarsi, sinuosa ed affascinante come una menzogna. Lo ripetono ancora, ed ancora; lo ricordano a loro stessi, forse. Si giustificano. Cercano un
    Motivo
    Motivo
    Motivo
    O più semplicemente hanno bisogno di sentirselo dire. Di alleviarsi dal peso dell'essere.
    E lo specchio comincia a frantumarsi - la loro pazienza, il loro controllo. Loro e basta. Lo dicono ancora una volta, ed ancora una volta colpiscono.
    Bisbigli violenti di animali in gabbia, sadici carcerieri di sé stessi - il segreto, il nemico.
    Due lettere.
    Tre lettere.
    Cinque lettere.
    Ancora. E sono al limite, e lo sanno.
    O lo ignorano o non gli importa o entrambe.


    Un ultimo bisbiglio. Un ultimo segreto ed incubo e nemico e condanna e redenzione e tutto quel loro che di lì non uscirà mai.
    Un ultimo -


    Accade di rado, sapete.
    Ma accade.

    Aveva freddo. Non sapeva come facesse a saperlo, con quale parte il suo cervello stesse registrando tale informazione: non provava freddo, CJ Knowles.
    Eppure aveva freddo comunque. Se lo sentiva nelle ossa, ad arrampicarsi pigro ma inesorabile su ogni muscolo fino ad intorpidirlo – ed era lì, oramai. Era in procinto di stringergli il cuore in una morsa gelida, soffocando con esso ogni possibilità di conoscere cosa calore significasse.
    L’avevi promesso.
    Ho mentito
    .
    Ed il ghiaccio si faceva più insolente e subdolo, più sottile e pesante. Lo sentiva avvicinarsi con la stessa netta percezione con la quale avrebbe saputo che, sotto il sole del mezzogiorno, abbassando gli occhi avrebbe incontrato il profilo della sua ombra. Era semplicemente, ed inevitabilmente, così.
    Siamo il rimedio, voi l’effetto collaterale.
    Cercava di ritrarsi, ma non aveva un corpo con il quale farlo. In trappola, in trappola, ed al freddo si mescolò il terrore di non avere alcuna via di fuga – in trappola. Ci sarebbe morto, lì.
    L’hai già fatto.
    Strisciò quanto potè, la schiena – o quello che avrebbe dovuto esserlo – a graffiarsi su cemento – o quello che avrebbe potuto esserlo – strappandogli ansiti e singhiozzi secchi. Era stanco di avere paura, CJ. Un qualunque CJ.
    Me l’avevi giurato.
    Emise brevi gemiti di dolore, ma non l’avrebbe mai saputo. Quando si fosse svegliato, non avrebbe compreso come mai gli dolesse la mascella - hai morso il cuscino - o per quale motivo la mano fosse arrossata e gonfia - hai colpito il muro - ed il lenzuolo attorcigliato attorno alle dita fosse umido - hai pianto. Quand’era cosciente, CJ Knowles, il ragazzino con la sindrome dell’iper memoria, non avrebbe ironicamente avuto ricordo di quei sogni – non avrebbe mai saputo cosa il suo subconscio elaborasse per tormentarlo anche quand’era privo di sensi. Probabilmente, era meglio così.
    Ed era il primo pomeriggio di un giorno qualunque in California, nella mite cittadina di Bodie, quando il più giovane della famiglia Shaw smise di respirare. Il fu Tassorosso aveva preso la forzata abitudine di trascinarsi in giro per quel paese del cazzo tutta la notte, pressandosi negli anfratti più remoti come il fottuto fantasma che una tale pittoresca ambientazione avrebbe meritato. Talvolta con i Freaks, talvolta da solo; rimaneva a guardare il cielo finchè il primo sole dell’alba non iniziava a pungergli gli occhi, ed allora si intratteneva ancora studiando i fili d’erba o le orme lasciate nel fango da qualche povero cristo che, nella notte, s’era avventurato nella cittadina vicina per un poco di fregna fresca, ed all’alba tornava al proprio umile covo per poter baciare in fronte i figli, e tornare infine ad arare la cazzo di terra fertile solo per le barbabietole da fottuto zucchero. Non capiva come Gwendolyn non potesse perderci la testa, Cristo Santo; non comprendeva come BJ potesse spazzolare così quietamente la criniera dei cavalli e far loro treccine incrociate, quando l’unica cosa che CJ, di tutto cuore, si sentiva di fare, era rinfacciare ai propri genitori di averlo messo al mondo. Di tanto in tanto, per quanto il Knowles cercasse di evitarlo, capitava che si ritrovasse a condividere la stanza con Gemes: doveva pregare più di un Dio, CJ, per trattenersi dallo sbattergli la testa contro il fottuto tavolo, pronto a pagare le conseguenza di tale sconsiderato gesto. Era più facile quando da incolpare aveva il mondo, e da odiare solo sé stesso. Eludeva la sua nuova pseudo (ma neanche troppo.) famiglia sparendo dalla circolazione per l’intera nottata, tornando quando in casa non c’era nessuno ed uscendovi quando rientravano; approfittava delle ore dedicate a messa, battesimi, e cresime dove il fratello rimaneva illuminato d’immenso in navate sprofondate nel buio, per poter dormire su un letto vero. Non ce la faceva, CJ. Si sentiva stupido e maledettamente giovane, come probabilmente mai s’era sentito, nel rimanere in silenzio attendendo di sentire i passi che uscivano dalla dimora per poter mettere piede fuori dalla propria stanza. Che lo credessero pure un ingrato stronzo, se gli andava: non era poi un pensiero così distante dalla realtà.
    Si svegliava dalle sue pennichelle per i motivi più disparati: un rumore troppo forte in cucina; il sole ad infiltrarsi dalle tende socchiuse della sua camera; il bussare frenetico di qualche fedele che aveva perso la retta via.
    Non gli era mai capitato di svegliarsi perché non fottutamente respirava, ma immaginava ci fosse una prima volta per tutto. Cadde dal materasso con un tonfo sordo, il lenzuolo pregno di sudore a pendere pigro da un lato del letto. Portò d’istinto le mani alla gola, al petto, ma non c’era nulla che gli impedisse di respirare: spalancò gli occhi e la bocca, i piedi a spingerlo contro il muro più vicino. Incespicò su sé stesso, chinò la testa fra le proprie ginocchia. La prima boccata d’ossigeno che riuscì a strappare dalla piccola stanza rettangolare, bruciò come acido in vena ed ebbe l’aspro suono di una ferita mai cicatrizzata. Gli strappò un singhiozzo prontamente soffocato con i denti a premere nell’incavo del gomito; reggendosi alla scrivania, si alzò in piedi – e cadde, e si rialzò di nuovo, e cadde ancora ma in piedi, Dio!, ci tornava sempre. Una condanna, quella sua asfissiante caparbietà. Spalancò la porta con un grugnito, i polmoni ad accartocciarsi nel petto come carta straccia. Non fece caso se in casa ci fosse qualcuno, né si preoccupò di controllare: sotto il denso ed acido sole del mezzogiorno, zoppicando e ripiegandosi su sé stesso, CJ uscì nelle deserte viottole di Bodie. Perché non riusciva a respirare? La vista appannata, un sapore amaro sulla lingua ed i denti. Lo riconobbe solo quando, ficcandosi una sigaretta in bocca, si rese conto di non riuscire ad accenderla a causa del tremore alle dita. Un attacco di panico. Quanto suonava male, panico. Sembrava così definitivo. Così privo di cura. Devi andartene da qui devi andartene da qui devi andartene da
    Doveva andarsene da lì.
    Senza una meta, senza un obiettivo. Senza un concreto CJ con il quale scendere a patti, il diciassettenne iniziò a correre. Gli sembrava di muoversi fra strati di gelatina e miele, ogni passo più denso e pesante del precedente – e quei due polmoni del cazzo che si ritrovava, usati ed abusati, continuavano a non fottutamente aiutarlo non fottutamente funzionando. Così non respirava, CJ Knowles, correndo per fuggire da tutti i CJ del mondo, sfrecciando davanti alle case senza neanche guardarle, né preoccuparsi di essere visto. Una bestia in gabbia, irrazionale ed illogico come solamente gli animali cresciuti in natura e lanciati di punto in bianco in cattività potevano esserlo. Era quel genere di paura che si alimentava da sé, capite; quella che cresceva gonfiando i polmoni di grida che alcuna corda vocale sarebbe mai stata in grado di evocare, e che allora distruggeva tutto ciò che trovava sul suo percorso. Superò i suoi amici; superò la sua famiglia, tagliando nei campi per tornare sui sentieri poco dopo. Perché non da CJ? Perché da lui non se ne andava mai? E dire che gli altri avevano sempre trovato così semplice, abbandonarlo. Perché lui non ci riusciva?
    Non si voleva più. Almeno per un po’, almeno quel tanto che bastava a –
    L’ostacolo lo colse d’improvviso, come sempre facevano gli ostacoli. Non aveva sentito le risa al suo passaggio, concentrato com’era a non implodere o svenire; non aveva visto il legno fatto ruzzolare davanti ai suoi piedi, e la forza dell’impatto gli strappò un basso ringhio di sorpresa. Non fece nulla per attutire la caduta, una stilettata alla caviglia con la quale aveva colpito il bastone - andava troppo veloce perché fermarsi non facesse male. Ed eccolo, il problema di CJ: era andato troppo veloce per diciassette anni, sempre in fuga da qualcosa o qualcuno. Per il resto dei suoi compagni, Bodie era un inferno. CJ non faceva eccezione, certamente: ma almeno era un inferno migliore del precedente. Non aveva una casa da anni; non aveva pasti assicurati ogni giorno da altrettanto tempo. Ma quel che più, che più, scuoteva l’animo antico del Knowles, era che nessuno volesse fargli del male. Qualche bullo di paese non era che mero spuntino, per CJ – erano tutti gli altri, a cui non era avvezzo. Era quel mondo.
    Era così che vivevano le persone normali? Non aveva creduto l’avrebbe mai saputo.
    E non era certo che avrebbe voluto farlo: preferiva non sapere cosa si fosse perso, piuttosto che sapere cosa avrebbe finito per mandare a puttane.
    Rimase a terra, i palmi contro il terreno ruvido ed il corpo a bruciare. L’udito gli tornò con un pop quasi fisico, come se fino a quel momento si fosse effettivamente trovato sott’acqua – il vento fra i radi cespugli, gli uccelli a cinguettare sulle cime degli alberi. Le voci. Non comprese cosa dicessero, e sinceramente non gli importava. Poggiò la guancia contro la nuda terra del sentiero, la fronte a sfregare contro qualche sassolino; quando sputò un grumo di saliva di troppo, lo trovò rosato. Le risate, quelle le sentì. Lo punsero come mille formiche rosse, un veleno ad insediarsi sotto pelle che, anziché paralizzarlo, lo resero recettivo e stabile. Deglutì sangue ed espirò fumi acidi.
    Non si rese conto d’essersi alzato finchè le nocche non si spaccarono contro i denti, ancora esposti in un riso isterico, di uno dei due popolani.
    CJ, non farlo.
    Eppure lo stava già facendo.
    Ed ancora.
    Ed ancora.
    E –
    «ti prego, fermati. Stavamo solo scherzando» sollevò un paio d’opachi occhi verdi sulle lacrime di un ragazzino. Si ritrovò seduto a cavalcioni dell’altro ragazzo, le gambe a bloccargli le braccia e la mano sporca di sangue a pochi centimetri dal volto tumefatto e quasi privo di sensi. Rantolò, CJ Knowles, schiavo di una furia disperata e rancida. Provò un moto di nausea, deglutì ancora.
    Si alzò in piedi, lordo di polvere e chiazze rosse. I pugni chiusi.
    Non si scusò, e continuò a correre. Testa bassa a tagliare l’aria, cuore alto a tagliare la carne facendosi strada verso gola e denti. Non sapeva, né poteva fottergliene di meno, di quale astruso giro avesse fatto per trovarsi infine in quel posto, ma quando alzò la testa si ritrovò ai piedi del Deposito CJ poco fuori la cittadina. Nei mesi trascorsi in California, ci aveva portato di tutto; cleptomane coscienzioso, aveva il vizio di rubare qualcosa in ogni luogo dove mettesse piede, e quello era il predisposto luogo dove accumulare quell’inutile cianfrusaglia. Una gazza ladra emotiva, CJ Knowles: i suoi furti non luccicavano per tutti, ma a CJ bastava lo facessero per lui. Le sue armi; le mazze che, nei mesi, aveva costruito con un fischiettante Barnaby Jagger.
    C’era un intero CJ, nella bettola mal assemblata poco fuori Bodie. Non si era mai domandato a chi fosse appartenuta quella casupola in legno, conscio che la risposta le avrebbe strappato tutto il suo fascino: la realtà non rendeva mai un ideale. Lasciò la porta aperta; erano in pochi a conoscere quel posto, ed ancor meno quelli ai quali poteva fottere qualcosa. Si addentrò, la luce del primo pomeriggio a filtrare fra le assi diroccate dei muri e dalle finestre che di finestra avevano solamente il vago sentore. C’erano parti di mobili, bottiglie il cui contenuto, dopo settimane, ancora restava ignoto al Tassorosso.
    Fu la sua immagine riflesso nello specchio, ad attirare le pigre pozze acquamarina del Knowles. Un vetro sporco - come te - spaccato in più punti - come te - eppure ancora in grado di osservare una realtà corrotta e riportarla in maniera poco piacevole e crudelmente veritiera agli occhi dei passanti - come te. Non riconobbe il CJ allo specchio, CJ. Non riconobbe i sottili occhi turchesi, i corti capelli biondi tagliati con gli attrezzi più impensabili perché altrimenti dov’è il divertimento?. Non riconobbe le spalle sottili e già screziate di viola, la canotta un tempo bianca stracciata e lercia. CJ si avvicinò a CJ consapevole che avrebbe fatto male; che da falena cosciente che il fuoco bruciasse, avrebbe dovuto starci alla larga.
    Ma il sorriso? Quello più del resto, era sbagliato. Gli mancava qualcosa.
    Gli mancava CJ.
    Quale CJ, CJ?
    14:26
    La fronte contro lo specchio. CJ
    14:27
    La gola secca, le palpebre serrate. CJ
    14:28
    Il naso a tracciare una scia umida sulla superficie impolverata, le dita a chiudersi attorno al mobile poco distante «cj»
    23:29
    Un primo colpo con il capo sul vetro, giusto per sentirlo concreto e freddo sulla pelle sudata. Ho tutto sotto controllo.
    23:30
    «solo cj» una supplica, lo specchio a frantumarsi sotto la sua fronte e le schegge a tagliare lo zigomo, il sopracciglio – ed il sangue a scivolare come le lacrime che CJ, ogni notte, non sapeva di versare.



    Un movimento colto con la coda dell'occhio, ed aveva reagito prima ancora di poter vedere: aveva recuperato una delle pistole - l'altra era ancora nel vano della doccia - e l'aveva sollevata di fronte a sé, rapido ed istintivo quanto un singhiozzo. Nulla - nessuno - si mosse per un minuto intero, i petti a sollevarsi spasmodici e gli occhi a studiarsi affamati.
    Animali in gabbia che non conoscevano libertà.
    Jamie piegò il capo sulla propria spalla, lo sguardo a saettare incuriosito dall'uno all'altro. Era abbastanza (abbastanza.) certo di non essersi avvicinato a Biancaneve quella sera, ma ehi, il cervello umano aveva un efficiente metodo di proteggersi da sé stesso chiamato rimozione dei fatti spiacevoli, quindi tutto poteva essere. «vi conosco» commentó, l'aspro sorriso alla Jamie a far brillare le iridi turchesi di morbida cortesia. Era un galantuomo, Jameson. Finse che la situazione non fosse esageratamente assurda; che nella sua vita fosse perfettamente normale battere le palpebre e ritrovare, laddove v'era stata una parete, un ampliamento che poco aveva a che vedere con l'architettonica: lo sentiva sulla punta della lingua, il cronocineta, che qualcosa non maledettamente andava, che non era un allucinazione né lo scherzo di qualche buontempone con un perverso senso dell'umorismo. La donna ed il ragazzo di fronte a lui, erano reali - e, soprattutto, quel che aveva loro detto era vero: li conosceva. Il fatto che non capisse come potessero essere lì, era un altro paio di maniche.
    Ma non bisognava mai far sapere a potenziali nemici che non si aveva la più pallida idea di cosa cazzo stesse succedendo. Quindi mantenne saldo il sorriso e la presa sull'arma, facendo scivolare la canna di questa dall'uno all'altro. Ruotò il polso, il muscolo a dolere ed il sangue a scivolare lungo il fianco dal taglio all'avambraccio - non ci fece caso, Jamie. Neanche quando si raccolse sul bordo superiore dell'asciugamano legato in vita fece segno di prestarci attenzione. Abbassò il capo incrociando gli occhi verdi del ragazzino, un opaco senso di déjà-vu nell'appiccicoso ghigno incollato alla bocca. «tu sei -»

    «- uno di loro» completò asettica la Hamilton, senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzino. Non c'era nota di dubbio nel tono piatto di Rea, non incertezza nella morsa ferrea delle dita attorno allo spillone - arma improvvisata: in una situazione di emergenza, tutto poteva essere usato come corpo contundente. Uno di loro. Corrugò le sopracciglia e deglutí cercando di trovare... Qualcosa, Rea. Se proprio non un senso, almeno un quarto di risposta sul perché la sua stanza paresse improvvisamente essere diventata un maledetto auditorium. Era accaduto senza che se ne rendesse conto, in un mezzo battito di cuore: prima c'era solo lei, la sua rabbia ed il suo odio a consumarla come un sassolino sulla spiaggia; e poi c'erano stati loro. Non c'era stato alcun preavviso, nessun rumore. Un cupo accumularsi di tensione non dissimile alle orecchie tappate in un viaggio ad alta velocità dentro le gallerie, nulla più - ma poteva anche non avere nulla a che fare con il fatto che le dannate pareti si fossero dilatate. Dilatate? Non era certa che fosse il termine adatto, ma era il primo che la sua mente fosse stata in grado di elaborare. Finestre, si corresse senza battere ciglio. Sono finestre. Li vedeva chiaramente, così com’era consapevole dell’ambiente che li circondava: vedeva le assi di legno della stanza nel quale si trovava il ragazzino, il marmo alle spalle del giovane con l’asciugamano bianco a coprirgli il ventre; poteva quasi sentirne il profumo, muffa e bagnoschiuma al pino. Sangue. Le davano la sensazione che se avesse allungato la mano, avrebbe potuto toccarli. Ma non farlo! Le gridò la sua mente, nella consapevolezza atavica che non dovesse toccarli. Indietreggiò istintivamente di un passo, gli occhi scuri a studiare i tratti taglienti di
    «christopher» le lunghe ciglia scure sfiorarono pesanti le guance, la confusione ed il dubbio a distorcere le labbra in un broncio. Uno di loro. «dovresti essere morto» una deduzione ovvia quanto poco credibile, perfino alle sue stesse orecchie: non aveva mai realmente creduto alle storie apparse sul Morsmordre, poco importava che fossero passati quasi cinque mesi da quando erano spariti. Lui non le rispose, limitandosi ad osservarla scettico a palpebre dischiuse. Rivolse allora lo sguardo sull’altro, e percorse pigramente il profilo scuro dell’arma stretta nel pugno. Si costrinse a sospirare, Rea Hamilton – poteva ancora avere un senso, quella situazione. Umettò le labbra ed aprì il palmo per rilasciare lo spillone, mostrandosi disarmata ed inoffensiva. «rea,» scandì lentamente, gonfiando il petto di un respiro antico. Le parve che la sua voce giungesse da molto distante, rimbombando opaca dalle costole ai denti. Perfino il cuore sembrava aver rallentato la propria andatura, vibrando letargico nel petto. Aprì la bocca e la richiuse, serrò le palpebre e chiuse i pugni lungo i fianchi. «rea hamilton.»

    Non aveva alcun senso. Doveva aver picchiato la testa più forte di quanto non gli fosse sembrato, perché quel che stava guardando, quel che stava sentendo, non era possibile. Aveva il timore che un minimo movimento potesse rompere l’incantesimo, CJ, quindi non si mosse di un millimetro: li osservò e basta, spingendo appena la lingua verso l’angolo delle labbra per raccogliere il sangue scivolato dal sopracciglio spaccato. Non conosceva Rea Hamilton, ma sapeva della sua esistenza.
    Semplicemente, non in quel mondo. In quel tempo. L’irrealtà della situazione l’aveva costretto ad un tale mutismo che non s’era neanche sprecato a correggerla quando l’aveva chiamato Christopher, pur vibrando nell’intimo di un ironico è charlie, ora. L’attenzione riservata unicamente alla donna nella cornice su una stanza che non conosceva, non vacillò neanche quando una risata, sembrava così vicina e concreta, giunse dall’altro interlocutore. Qualcosa in quella risata gli fece contorcere le budella e stringere maggiormente denti e pugni, le unghie già conficcate nei palmi. «jamie» e quindi? Nessuno gliel’aveva chiesto. «jamie hamilton» sia CJ che Rea si volsero nella sua direzione, incrociando il sorriso sbilenco e sfacciato del ragazzo. Si irrigidì per puro istinto, il Tassorosso, sforzandosi di ignorare come il cuore avesse cominciato a pompare nel petto invitandolo ad uscire maledettamente da quella stanza, da quella vita, da quel CJ. Si rese conto che lo stavano guardando quasi per caso; ricambiò la loro occhiata piegando la bocca verso il basso, sopracciglia arcuate ad enfatizzare i sottili occhi verdi. Beh? Credevano forse che si trattasse di un sito di incontri? Cos’era, poi, quella cazzo di moda di presentarsi a pezzi? «cj» rispose sbrigativo per levarsi dall’impiccio di quegli occhi, tentando un cauto ma azzardato passo laterale per avvicinarsi alle finestre: nessun calendario, nessun orologio. «cj e basta» fu un ringhio basso, il capo alzato repentino per sfidare uno qualsiasi dei due a continuare a guardarlo: non c’avevano cazzi loro da fare? Volevano forse una conferma della sua identità? Cristo Santo, era sparito insieme ad una trentina di persone, dubitava che i giornali non ne avessero parlato. Giusto? «che giorno è?» non sarebbe stato il primo a sbottonarsi, CJ: non li conosceva, il che li etichettava automaticamente come pericolo - e non voleva realmente credere che fossero lì, di chiunque si trattasse.
    Perché significava che
    Che qualcosa stava cambiando: non era certo di voler essere lì, quando fosse accaduto.
    «il venti aprile» attese, la vista offuscata. Il cuore batteva così forte da fargli a malapena udire il suo stesso respiro. «duemilacentodiciotto»

    «non è divertente» Jamie non aveva mai immaginato che il suo primo incontro con la sua prozia, sarebbe avvenuto così – anzi, a dire il vero, non credeva sarebbe mai avvenuto punto. Le sorrise cordiale, bello e piatto quanto un dipinto. L’Hamilton la ignorò, perché di lei sapeva: gli Eroi arrivavano tutti dallo stesso anno, il 2018; se l’apparenza e le maschere anti età non lo tradivano, la Rea Hamilton incorniciata dalla camera in pareti di finto legno, doveva avere meno di trent’anni. Anno più anno meno, era plausibile facesse parte della medesima epoca, e tanto bastava a Jamie per ritenersi soddisfatto.
    Era CJ-e-basta, ad incuriosirlo: perché non aveva risposto, non era trasalito. Lo osservava e basta, gli occhi acquamarina a pulsare di un già visto che spingeva i denti dell’Hamilton a scoprirsi in un sorriso del quale era solo vagamente consapevole. «da te?» domandò, zucchero e miele, nel tono basso dei sicari e degli amanti e dei Jamie; il tono figlio di quei discorsi a cui non credeva nessuno finchè non era troppo tardi per fare marcia indietro. Quelli che condividevano un segreto. Subito, CJ non rispose. Lo vide frugare all’interno della bettola nel quale si trovava sollevando nuvole di polvere, assi del pavimento prese a calci fino a rivelare un vano sottostante. Sentendo gli occhi di Rea su di sé, si limitò a stringersi nelle spalle, i pollici infilati fra i fianchi e l’asciugamano; la pistola l’aveva già riposta da un pezzo, ritenendola accessorio superfluo. CJ-e-basta riemerse tenendo una mitraglietta - una mitraglietta - fra le braccia. Anzichè puntare l’arma contro di loro, come Jamie aveva creduto più che plausibile, volse la canna verso l’esterno: «millenovecentodiciotto» e cominciò a far fuoco.

    Rea udì le detonazioni come se giungessero dalla camera affianco. Dovette sforzarsi più del dovuto per non portare le mani alle orecchie, ma non trattenne l’occhiata inviperita verso Christopher. L’iniziale sorpresa aveva da un pezzo lasciato alle proprie spalle la confusione, preferendo il più familiare terreno della rabbia. Il non sapere cosa stesse succedendo stava iniziando a mandarla fuori di testa, ed era a tanto così dal lasciare la camera, ed i suoi poco graditi ospiti, per un più piacevole bicchiere di vino in cucina. «cosa diavolo stai facendo?» latrò, inspirando dalle narici. Con la canna dell’arma incastrata nella cornice di quella che, in tempi migliori, era stata una finestra, CJ le rivolse un’occhiata da sopra la spalla: «scusa, principessa, se nel fottuto far west non funzionano i telefoni» e non le piacque affatto il tono d’ironica sufficienza quasi quanto non le piacque il riflesso di una quasi eguale ira negli occhi chiari. «chiamo gli altri» risposta che le giunse ovattata, dato che lui aveva già distolto bocca ed attenzione dalla sua direzione. Gli altri? «gli altri chi?» si sentì domandare, immobile al centro della propria camera da letto. CJ la guardò di nuovo, gli occhi chiari a saettare da lei all’altro Hamilton - l’altro Hamilton, quello che diceva di essere nel 2118. Una risata isterica scivolò dalla bocca dischiusa di Rea, le mani a stringersi incredule sulle guance. «affascinante» Puntò lo sguardo color cioccolato sul ragazzo ancora mezzo nudo, un imprecazione soffocata fra i denti. Lui le rispose con un sorriso caldo ed affettuoso, alzando un indice nella sua direzione per - per intimarle di tacere? Stava scherzando. Prese un cellulare - ma ne esistevano, di così sottili? - e digitò una serie di numeri, prima di premerselo sulla guancia glabra. «ehi, pà. indovina chi è passato a trovarci» strascicò pigro, lui, voltando poi il cellulare nella sua direzione. Nel dubbio, la Hamilton incenerì con un’occhiata anche l’apparecchio. «sì, sono a casa mia. A quanto pare c’è una falla nel tempo. Chiami te gli altri? bella lì. Sì, te la saluto. cià» chiuse la chiamata, le sorrise - bello e familiare. «ti saluta mio padre,» mh, okay? «tuo nipote»

    La situazione stava precipitando troppo in fretta. Volse una curiosa occhiata ai due Hamilton, ignorando il ghigno di lui e l’occhiata di lei per porre un quesito decisamente più rilevante: «quel cazzone di barry è con te?» doveva saperlo, CJ. Jamie si strinse nelle spalle, un cenno con il mento. « tu chi hai?» il Knowles sorrise sghembo, il peso poggiato sulla gamba sinistra e la mitraglietta adoperata per attirare l’attenzione dei Bodiotti usata come stampella improvvisata. Aveva tutto così poco senso che quasi rise, il buon Jebediah; dovette mordersi il labbro inferiore, la mano alzata di fronte a sé: era il momento dello scambio di figurine. Probabilmente se non si fosse trovato in un’epoca quasi contemporanea al Titanic ed al Grande Gatsby, non avrebbe preso così bene la faccenda del ritrovarsi di fronte due differenti linee temporali fantasma – duecento cazzo di anni avanti rispetto a lui. Ma tant’era. «shia» un’occhiata veloce a Rea. «jayson, aidan» si strinse nelle spalle ricevendo un sibilo di ammirazione da parte di Jamie, la lingua di lui a schioccare sonoramente sul palato. «shia! e io ho un alvaro. Che ingiustizia» sospirò e scosse il capo, il ragazzo del futuro con ancora indosso solo l’asciugamano. «aloysius?» «e io che ho detto?» Hamilton, cambiano il nome di battesimo di Aloysius Crane su ogni linea temporale. Ne seguì un lungo silenzio d’attesa interrotto solamente dal nervoso ticchettare dei tacchi di Rea sul pavimento, le braccia di lei conserte; talvolta si fermava e lanciava loro un’occhiata, trovando un CJ a guardare assorto l’esterno della casa, e Jamie con la schiena poggiata alle porte della doccia ed il telefono fra le mani. Nessuno di loro, a quanto pareva, si sentiva abbastanza coraggioso - o codardo, punti di vista – da lasciare il luogo d’incontro. Il Knowles abbandonò il sorriso, invaso ad ondate da una tristezza del quale non s’era accorto; una tristezza che, sinceramente, non sentiva fosse sua. Sollevò lo sguardo sentendosi osservato, ed a ricambiare la sua occhiata trovò le sottili iridi scure di Rea. «è vero? avete -» «viaggiato nel tempo» CJ non sorrideva più. Il sangue colato dal sopracciglio s’era ormai seccato sulla guancia tirando la pelle, l’adrenalina della corsa e dell’incontro iniziava a scemare facendo pulsare dolorosamente la spalla – ed i muscoli, e la milza, e CJ. Per liberarsi di quel senso d’oppressione al petto, si sporse fuori dalla finestra aprendo ancora il fuoco: qualcuno sarebbe arrivato. Qualcuno doveva arrivare. Voleva domandarle cosa fosse successo; cosa dicessero di loro. Ma non voleva saperlo, il Knowles, così si ritrovò a grattare le pellicine in prossimità delle unghie pensando a quanto Barrow Cazzone Cooper, il segui fregna per eccellenza, fosse stato fortunato ad avere le fottute macchine volanti piuttosto che un padre prete.
    Nessuno di loro sapeva quanto sarebbe durato quell’estato momento di stati, né se sarebbe durato. Se fosse vero, o se fosse un’allucinazione. O il perché fosse stato possibile. O il come.
    CJ non era neanche certo gli importasse di saperlo, a quel punto.
    «devo fare qualche chiamata.»
    or just some kind of mirror?



    Grazie oblivion per questi cinque anni insieme. ♥


     
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    « è come avere un cane »
    « ma dai, sono diversi »
    « mh... » effettivamente, una differenza sostanziale c'era «..il cane forse l'avrei preferito »
    Non fraintendetela: c'era stato un tempo, quando ancora andava a scuola e si divertiva a tormentare i primini smerciandogli salvia al posto dell'erba o obbligandoli a farsi leggere il futuro, in cui i bambini a Gwendolyn Markley piacevano sul serio. Un tempo in cui era la mascotte ufficiale del satan sitter club e si divertiva a trascorrere i pomeriggi facendosi carico del lavoro che avrebbero dovuto in realtà svolgere jay o aidan per salvaguardare l'incolumità di quelle creaturine così indifese dalla sbadataggine dei due amici. Ma poi era stata trascinata cento fottuti anni prima, e William Lancaster aveva deciso al posto suo cosa avrebbe dovuto fare per il resto della vita. Era diventata Mariel Simmons, e passare pomeriggi interi in compagnia dei bambini del catechismo era per lei l'unica alternativa al dover sopportare chiacchiere su chiacchiere di anziane frequentatrici della chiesa che avevano trovato in lei la più fidata confidente ogni qualvolta trovavano la porta di padre shaw, occupato in chissà quale altra attività, chiusa e credevano ingenuamente che confidarsi alla perpetua fosse praticamente la stessa cosa che farlo con il prete.
    Una rottura di palle
    Per un po' era stato divertente far ballare le vecchie, sia chiaro, ed anche aprire ai giovani fanciulli le porte del culto di satana. Ma erano passati quattro mesi, e Gwen sentiva la mancanza di casa. Dalle cose più sceme, come allungare una mano e girando una manovella avere subito l'acqua calda, o ascoltare il suo Daily Mix quotidiano comodamente sdraiata sul divano del quartier generale , fino alle cose più importanti di cui l'assenza era un peso che non riusciva ad eliminare, ma unicamente provare a mettere da parte e soffocare riempiendo le sue giornate di cose futili, di mille attività che nemmeno le piacevano, solamente per fare in modo di pensare ad altro. Ma le mancava non avere il suo cellulare con cui poter seguire le attività sui social di Taylor Swift. Le mancava trascorrere del tempo con Kieran, l'unica con cui per anni aveva potuto ciatellare sul futuro. Le mancavano Erin e Scott, i cugini che aveva potuto trattar come tali per così poco tempo da trovare quella situazione completamente ingiusta. Ed anche se, seppur con molta grazia, l'avevano praticamente cacciata di casa, i Markley le mancavano terribilmente : li aveva giudicati male per molti mesi, Gwen, odiandoli per averla allontanata dalla loro vita da un momento all'altro, eppure lì a Bodie, bloccata cento anni nel passato rispetto a loro, aveva quasi compreso la loro scelta. L'avevano fatto per lei, come del resto avevano fatto ogni cosa da quando l'avevano accolta in casa loro come una figlia anche se ad unirli non ci fosse alcun legame di sangue, perché la conoscevano meglio di quanto la ragazza aveva creduto. Solo trovandosi così lontana da loro, trascinata in una situazione in cui aveva dovuto imparare a cavarsela da sola in un modo o nell'altro, aveva compreso che l'avevano allontanata solamente per darle la possibilità di esprimersi al meglio: che se fosse rimasta con loro, Gwen probabilmente non si sarebbe mai data da fare sul serio, limitandosi a comportarsi da ragazzina ed adagiarsi sulle spalle della famiglia senza far nulla per cavarsela da sé. Erano stati drastici, i Markley, ma in fondo erano stati costretti dalle circostanze: essere schietti e diretti era l'unico modo per farsi capire dalla ragazza.
    «e poi mangia decisamente più di un cane» Toothless, Tooth per gli amici, Lessy quando Gwen voleva farsi portare una bottiglia di amaro ma non aveva voglia di alzarsi dalla poltrona, mangiava decisamente troppo per esser così piccolo. E più la ragazza lo osservava, più si convinceva del fatto che, prima di iniziare ad intrufolarsi di nascosto a casa Simmons, il bambino non avesse mangiato nulla per mesi interi. Perché non c'erano altre spiegazioni per giustificare le quantità sproporzionate di cibo che ingeriva. Nel giro di due giorni casa loro si era riempita: prima Tooth, poi Sandy.
    Quando avevano beccato Tooth in flagranza di reato, lei e Arci l'avevano osservato per un po', per poi lanciarsi un'occhiata eloquente. Era già chiaro ad entrambi che l'avrebbero tenuto lì con loro, solamente perché era impossibile non adorarlo all'istante; eppure Gwen voleva convincersi di non sopportarlo, consapevole del rischio che correva ad affezionarsi troppo. Lancaster aveva detto per sempre, certo, ma in lei la speranza non era ancora svanita: ci credeva ogni volta che scendeva nei sotterranei della parrocchia ed osservava la bacheca organizzata da Gemes, ci sperava quando leggeva il dolore negli occhi di Arci e la sua distanza, consapevole che non avrebbero potuto continuare così all'infinito.
    Sarebbero tornati a casa, prima o poi.
    Il compito che si era prefissata Gwen era semplicemente di provare a far sentire gli altri a casa anche lì.
    Di lei stessa non le importava molto
    Ma legarsi a qualcuno del posto? Ad un bambino? Sarebbe stato tremendamente sciocco ed irrazionale da parte sua. E, per una volta, Gwen voleva provare a comportarsi come una persona matura e seguire la testa piuttosto che l'istinto.
    Anche se, osservando Lessy mentre praticamente divorava i resti del tacchino preparato per pranzo, temeva che i suoi propositi sarebbero andati in fumo nel giro di qualche giorno. Sussultò quando udì il primo sparo: non era certo così comune a Bodie, lì dove prima del loro arrivo la cosa più interessante che accadeva probabilmente era quando nascevano due barbabietole attaccate, tutti i cittadini si riunivano lì intorno e il sindaco probabilmente dava al contadino che l'aveva trovata una qualche onorificenza speciale. Uno sparo a Bodie, dopo che Aidan le aveva insegnato che il far west e i duelli tra sceriffi e malviventi erano terminati secoli prima, per Gwen poteva significare una cosa sola: era successo sicuramente qualcosa di brutto.
    O in città era arrivato qualche cacciatore che aveva scambiato il gabbiano sulla fronte di BJ come una razza di valore inestimabile.

    «CHARLIE JEBEDIAH SHAW MA TI PARE CHE...- si pietrificò non appena vide il muro alle spalle del ragazzo. Era davvero..? No, non era possibile. Eppure... Spostò lo sguardo su Arci, Aidan e Jay alle sue spalle, leggendo nei loro occhi lo stesso identico stupore, per poi riportarlo sul CJ e la parete. E oltre quella che doveva esser una parete. «Rea?» E dire che non l'aveva neppure mai vista di persona, Rea Hamilton. Ma ovviamente sapeva chi fosse, e l'avrebbe potuta riconoscere tra mille altri volti dato che aveva ben chiare in mente le foto della sua famiglia nel futuro. E la sua presenza in quella stanza poteva significare una cosa sola: un modo per tornare a casa c'era sul serio. Nemmeno sapeva chi fosse l'altro ragazzo. Nemmeno le importava, in realtà: l'unica cosa che contava sul serio era il fatto che si trovassero lì.
    «Ma come..?» Nemmeno riuscì a terminare la frase. Quello che invece fece fu iniziare a ridere, ridere come non faceva da tempo. E continuò a ridere quando vide altri volti comparire alle spalle della Hamilton, volti familiari, che in alcuni momenti aveva temuto di non rivedere mai più. «CUGINETTI!» E nemmeno sentì il bisogno di correggersi o aggiunger qualcos'altro per far passare inosservata quella esclamazione: gli altri intorno a lei erano altrettanto stupiti o felici di rivedere i propri cari per far caso a ciò che diceva la Markley. «Come state?? JESS MICA LI STAI NUTRENDO SOLO DI PANCAKES???» Quel quadretto era talmente familiare, i Chips, Jess e Nate, che Gwen all'inizio fu convinta di veder spuntare la chioma corvina di Kieran da un secondo all'altro. Poi però si rese conto che la Sargent aveva preso parte alla missione proprio come lei. Ma allora dov'era? Fu solo quando spostò lo sguardo sul punto dove, appena entrata, aveva notato il ragazzo sconosciuto, che vide gli altri partecipanti alla missione di cui aveva perso le tracce da quando era stata spedita a Bodie, e che non vedeva da ancor prima.
    «Ma dove siete? Cosa diamine sta succedendo?»
    Era forse quella l'occasione che sognavano da mesi per tornare nel loro tempo? Il loro giorni da cattolici fedeli erano finalmente finiti??
    Ma ora Tooth come ce lo portiamo dietro?
    Merda, si era già affezionata
    I hope someday we'll sit down together
    And laugh with each other about these days, these days
     
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    Che di quella vita Aidan Gallagher non se ne facesse nulla era quasi scontato; i guanti da lavoro sporchi di terra calzavano scomodamente sulle mani curate di chi, come lui, era stato abbastanza fortunato da non conoscere mai il vero significato del sacrificio – o, nel suo caso, non fino a quel momento.
    L'abbracciava a fatica quella sua nuova identità, non comprendendone, suo malgrado, le varie sfaccettature che la componevano. E okay, l'impegno da parte sua era minimo, ma era migliorato. Innanzitutto aveva smesso di fissare con impassibilità chiunque osasse chiamarlo con quello che a lui piaceva definire, simpaticamente e per niente fuori luogo, il suo nome da schiavo; addirittura rispondeva al richiamo con un'alzata di mento che di amichevole, ahimè, aveva ben poco, ma che era sempre meglio del silenzio carico di sfida che più di una volta aveva rischiato di recargli guai.
    Era difettoso, senza dubbio. L'accento americano risultava ancora estraneo sulla sua lingua, troppo abituata a quel misto d'irlandese, o almeno ciò che ne rimaneva, e inglese posh che l'aveva caratterizzato per sedici anni della sua vita; le vesti dalla manifattura povera risultavano inadatte al portamento principesco con cui tendeva a sfoggiarle, quasi ruvide a contatto con la sua pelle. Portava una ciocca nodosa dietro all'orecchio e si sentiva nudo, privato della spessa maschera di narcisismo dietro cui si nascondeva abitualmente.
    E così cercava scappatoie, piccole distrazioni che lo aiutavano a ricordare e dimenticare al contempo – cercava familiarità tra le braccia di Gwendolyn, mentre la osservava muovere le carte sul legno consumato del parquet di casa Simmons, il labbro inferiore intrappolato tra i denti per la concentrazione. Poi ancora nelle conversazioni silenziose con Jayson, ostacolate talvolta dagli sguardi timidi di chi combatte una guerra tra l'orgoglio e il pesante senso di colpa – lo stesso che aveva tinto ogni ricordo riguardante quest'ultimo, e la notte in cui se l'era lasciato alle spalle in favore di qualche minuto in più da vivere. Persino le labbra di Sehyung riuscivano a riportarlo a casa; si lasciava inebriare dai sospiri leggeri che accompagnavano quei momenti di controllata debolezza, percorrendo quasi teneramente i tratti morbidi del suo viso con l'indice; era normale amministrazione prendersi gioco del Corvonero, oramai, eppure i sorrisi rilassati che era solito rivolgergli sotto gli spalti del campo da Quidditch erano stati sostituiti con qualcosa di più onesto – il velo di gentilezza sollevato per rivelare un bisogno di contatto che andava ben oltre la semplice attrazione e il mero sentimento, quest'ultimo evidentemente assente.
    Archibald, nel quadro allegro, ricadeva in una categoria tutta sua; il perturbante, l'unheimliche, estraneo e familiare in parti eguali. Lo riconosceva tra i banconi della panetteria locale, intento a servire ogni tavolo tranne che il suo; ne tratteggiava il ricordo nelle parole sprezzanti, gli occhi fieri seppur persi. Lo riscopriva, infine, quando l'alcol impastava la bocca a entrambi fino a farli zittire, dando una breve tregua a quel continuo scambio di veleni – non avevano mai parlato delle volte in cui i ruggiti s'erano trasformati in baci disordinati, o quando tutto diveniva improvvisamente troppo, troppo, troppo da sopportare e si rifugiavano in pagine consumate di Leaves of Grass e Delphine fino ad addormentarsi ai bordi del letto; e c'era forse qualcosa da dire, infondo? Era sicuro che dalle sue labbra sarebbero usciti solo rantoli sconnessi, in ogni caso, non dissimili a quelli di una bestia ferita. Non sapeva parlare di sentimenti, Aidan Gallagher: di solito lasciava che fosse Maple a strappargli le parole di bocca e a ricollocarle così da poterne tirare fuori qualcosa di concreto; e quando non c'era lei, semplicemente ignorava finché il fastidio al petto non si affievoliva fino a diventare solletico. Di quei tempi anche pensare alla Walsh lo lasciava senza fiato, e quindi incanalava tutto in rabbia repressa, respingendo ogni tipo di legame che andasse oltre quello fisico, oltre il superficiale, oltre il temporaneo; sicuramente non avrebbe cominciato a pensare razionalmente nei panni di Wood Kingsley, né tantomeno avrebbe smesso facilmente d'infatuarsi di ogni cosa bella che lo sfiorava. Doveva solo farsene una ragione, un po' come stava facendo per circa ogni evento che l'aveva portato a lavorare la terra a un secolo di distanza dal mondo che lui conosceva.
    Prima o poi avrebbe funzionato.



    «Cosa cazzo è stato.» Lo sguardo gli cadde su Jayson, che però non ricambiò: le iridi nocciola erano fisse sulla finestra impolverata, le labbra socchiuse, le spalle irrigidite dallo shock.
    Con la mano ancora stretta saldamente attorno al pomello della porta, seguì Gwen con la coda dell'occhio mentre gli si avvicinava rapida, per poi dirottare all'improvviso e scivolare accanto a una massa disordinata di ricci – e oh, quindi era stato Toothy (Woogie? Boobie? Nooky?) ad aprirgli e ad essere successivamente scaraventato a terra nella foga del momento. Povero cuore.
    «E cosa cazzo ci fa lui qui.» Dito puntato contro l'orfanello malcapitato, ovvio. Aveva sperato, inutile dirlo, che la storia del figlio acquisito fosse una gran stronzata montata sul momento, ma dopotutto era dei Simmons che si stava parlando – perché continuava a sorprendersi?
    L'inizio di una risposta venne soffocata dall'ennesimo colpo in aria, obbligandolo a spostare nuovamente la sua attenzione verso l'esterno; cercando d'ignorare il cuore in gola che minacciava di fuoriuscirgli ogni secondo che passava aprì lentamente la porta – abbastanza da poter sbirciare senza essere obbligato a scendere in un ipotetico campo di guerra, ecco. Dopotutto l'avevano già rapito e trascinato a combattere una volta, bisognava essere pronti a ogni evenienza.
    «Ascoltami, affarino.» E finalmente gli degnò di uno sguardo, una mano tesa verso di lui in attesa che questi captasse il messaggio e l'afferrasse: «segui. In silenzio.» Inarcò un sopracciglio, pentendosi già da subito di quel gesto da buon samaritano e rabbrividendo nel sentire il palmo sporco di cibo del bambino unirsi al suo. Che razza demoniaca.



    E quindi, insomma. «Si muore?» Di nuovo?
    Strinse involontariamente la mano attorno alla spalla di Toothless, forse per bisogno di sostegno, forse perché non riusciva ancora a scrollarsi le abitudini da Prefetto Salvatore Dei Primini™ di dosso; un mistero indecifrabile, davvero. Camminava piano, Aidan, la mandibola serrata e l'incertezza dipinta sul volto – ché, tanto per cambiare, lui non ci stava capendo un cazzo. Accelerò il passo giusto quando la voce della Markley smise di guidarlo tra i corridoi della casa in cui s'erano infiltrati senza troppi complimenti, avvertendolo automaticamente come un segno negativo.
    Inutile dire che ciò che gli si presentò davanti fece zittire anche lui, perché, beh. «Lui chi è?» Ma quale specchio, non scherziamo. Il Grifondoro aveva delle priorità, chiaramente.
    Sbatté le palpebre, cercando di capire come potesse essergli sfuggito uno così in mezzo ai puritani ottantenni di Bodie, perché dopotutto doveva essersi nascosto dietro a un cactus deforme di quel posto dimenticato da Satana, no? Sennò non spiegava assolutamente – «Jade?» fu quasi tentato di battere con le nocche contro la superficie dello specchio, fermato unicamente dalla sensazione che ci fosse qualcosa di sinistro in tutta quella storia. Dopotutto, lui era bloccato nel millenovecentodiciotto, no? Quella non poteva essere sua cugina. No?
    «Hey, Knowles.» Stava sussurrando, lo sguardo rivolto verso il vetro apparentemente vuoto che lo separava da una folla in crescita – di fatto, non era neanche del tutto certo che CJ potesse sentirlo. Ma qualcosa doveva fare, il Gallagher; più facce conosciute scorgeva, più il nodo alla gola si stringeva, e ancora, e ancora. «È uno scherzo?»
    Non poteva essere altro, non quando a fissarlo erano gli occhi sbalorditi di persone che si era lasciato alle spalle quattro mesi prima; era quasi del tutto certo che per sempre fosse un periodo più lungo.
    E quindi indietreggiò di qualche passo, decidendo improvvisamente che forse era meglio tornare a farsi gli affari propri per qualche altra oretta. Così, giusto per diminuire il traffico.
    And I was kissing strangers, I was causing such a scene
    Oh, the heart, it hides such unimaginable things


    AUGURI OBLIVION in ritardo di un'ora e con un post indecente e scusa swing tvb
     
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    起承轉結

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    Park Sehyung
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    butler | 19 y.o.
    BODIE - 20/04 H.14:30
    Poteva facilmente affermare di essersi perso, dopotutto. Di essersi allontanato dalla via mediana ed aver preferito, ad un certo punto, distanziarsi dalle sue stesse impronte, bramando la conoscenza di aree arcane, che erano facilmente fuggite a quello che doveva essere un desiderio spasmodico di portarsi sempre più avanti, come se la vita fosse solo un continuo avanzare fino al raggiungimento di un singolo obbiettivo.
    Ma sapeva, Sehyung, che quella città possedeva l'innata capacità di fagocitare qualsiasi cosa si ritrovasse sottomano. Persone, anime, sogni. Perfino le proiezioni speculari di ciò che un tempo doveva appartenere ad individui che avevano posseduto la pretesa di stanziarsi proprio lì, dove la calca di gente aveva la capacità, paradossalmente, di farti sentire ancor più fuori posto. Lui, perlomeno, si era sempre sentito in quel modo, ma al contempo si era ritrovato a sperare che tutti quei corpi, tutte quelle epidermidi, potessero accartocciarsi su loro stesse e proteggerlo, proteggerlo da qualsiasi cosa si celasse al di fuori di quello che doveva essere il suo regno. Ammesso che ne possedesse uno. Sinceramente, cominciava a dubitare perfino della consistenza stessa del suo ego, di quel barlume che era indice di una lucidità che un tempo gli era sembrata troppo lontana, ma ugualmente abbordabile, e che adesso non poteva che sembrargli un semplice luccichio come tutti gli altri.
    Non capiva neppure per qualche astrusa ragione si ostinasse a credere che quella condizione potesse cambiare, soprattutto quando possedeva la convinzione di stringere tra le mani qualcosa che riteneva di non meritare; un'anima che un tempo non si sarebbe mai sognato anche solo di sfiorare, troppo distante com'era da ciò che la vita lo aveva fatto diventare. Era un qualcosa di penoso, fors'anche pregno di un'ingiustizia di fondo, la quale faceva capo ad un principio immobile che, secondo i più, doveva aver dato origine a tutta quella merda che si posava sulla terra come la nicotina si ostinava ad annidarsi, densa, sui polmoni. E non sarebbe servito a niente, ancora una volta, urlare contro il cielo, le stelle e qualsiasi altra stronzata si annidasse lì sopra, semplicemente perché la sua voce, le sue imprecazioni, nulla, avrebbe potuto raggiungerla.
    Era tutto grigio, e quella consapevolezza, seppur agghiacciante, cominciava a stare stretta perfino a lui. Lui, che pur di adattarsi a qualsiasi cosa gli fosse capitata sottomano, avrebbe mangiato anche merda. Dio se era un emerito cretino e se si sarebbe preso a schiaffi anche solo per ricordare a se stesso di essere ancora vivo. Ansimante, forse anche allo stremo delle forze, ma vivo. Ed era ridicolo, a quel punto, ostentare una serenità che era divenuta quasi abitudine, ma di cui adesso era riuscito a scorgere le crepe più profonde, quelle che avrebbero potenzialmente condurre alla distruzione la bolla di vetro all'interno della quale aveva sempre preferito ripararsi. "Sei sempre così debole, Sehyung. Non riusciresti a salvare una farfalla nemmeno se lo volessi. "
    Glielo aveva detto suo padre qualche tempo prima, qualche goccio di troppo di alcool a graffiargli la gola e le palpebre distintamente pesanti, mentre il minore se ne restava semplicemente lì, il capo chino e la mascella serrata. Era quello il suo mondo. Quello che lo prendeva a schiaffi, quello che come una biscia si addentrava in meandri sempre più profondi soltanto per poi azzannarlo e, tramite quel contatto, risucchiare tutta la sua energia. Era lo stesso mondo che lo aveva visto crescere, urlare, macchiarsi le mani di crimini dettate dalla figura paterna che tanto amava e perfino cadere, sfiorare l'idea di porre fine a tutto e dire addio a qualsiasi cosa lo aspettasse. D'altra parte non era mai stato bravo a coglierle, le occasioni. Le aveva sempre ignorate, se le era sempre lasciate alle spalle, così come qualsiasi cosa potesse potenzialmente farlo stare bene, semplicemente perché gli riusciva molto più semplice autoflagellarsi anziché concedersi anche solo una cazzo di occasione, ed era quello il fottuto punto della questione. Run lo sapeva, Arci lo sapeva, perfino Games lo sapeva, lui lo sapeva, quelle cazzo di mura lo sapevano, ed era come se tutto, adesso, gli si incollasse addosso facendo perno su un moto spasmodico che altro non gli procurava se non ulteriore fastidio. Gli erano state insegnate altre cose. A sopravvivere, in primis. A fare qualsiasi cosa fosse in suo potere soltanto per assicurarsi, ore dopo, di riuscire ad aprire i propri occhi. A fare perno solo e soltanto su se stesso, perché era l'unica persona sulla quale potesse realmente fare affidamento e quella condizione non sarebbe mai cambiata. Forse era anche quello il problema. Il fatto che non fosse disposto a condividere. Aveva provato a farlo, eppure non ci era riuscito. Aveva fallito. Aveva fallito e non riusciva a capacitarsene, così come non riusciva a capacitarsi del motivo che lo aveva spinto a mordersi le labbra e soffocare tutto. Non era giusto, diamine.

    Non aveva mai pensato al fatto che, un giorno, potesse ritrovarsi a desiderare ardentemente che un paio di sconosciuti gridassero il suo nome mentre, uno dei due, era in lacrime.
    Avrebbe potuto facilmente cedere all’impulso di soffocare all’interno di quella piccola nube di speranza che si era andata a creare quando uno specchio, in realtà, non fu più un piccolo specchio in quella casupola dimenticata perfino da chi l’aveva eretta. Eppure, la consapevolezza che nessuno fosse lì ad attenderlo al di là di quella sottospecie di portare iper uper temposo buco temporale fosse ad aspettarlo se non a chilometri e chilometri di distanza, probabilmente impegnato con qualche caso al ministero della magia coreano, continuava a piovere su di lui come se fosse acido, mentre un tarlo continuava a battere fastidiosamente contro il suo cervello, inducendolo così a chiedersi quando quella situazione di scompiglio potesse continuare a permanere. Probabilmente sarebbe bastato perfino un nonnulla per accendere la fatidica miccia e porre fine a quella storia, nel bene o nel mare che fosse. Non lo sapeva, Sehyung, se dopo quell’evento sarebbe stato rapito di nuovo da un CAPPELLO PARLANTE ( davvero, un cappello parlante che sapeva di vecchio armadio ) o semplicemente sarebbe tornato a vivere la sua vita come Adam, il cameriere assassino.
    E sì, avrebbe ancora continuato a guardare da un angolino famiglie ricongiungersi, saluti venire scambi e lacrime di alcuni venire versate, Sehyung, o almeno fino a quando qualcosa – o meglio qualcuno – catturò la sua attenzione, costringendolo ad alzare la punta dei piedi ed allungare il collo per poter guardare al di là della folla piazzata davanti allo specchio ( ma chi erano, Alice nel paese delle meraviglie? ).
    «박승형 너 야? », “Sehyung, sei tu?”, disse il primo mentre cercò anch’esso di superare la calca di gente oltre lo specchio, imprecando più di una volta in coreano e strappando un piccolo sorriso al minore.
    «우리가 해냈어…» “Ce l’abbiamo fatta…”, rispose lui, le guance rigate dalle lacrime e la voce spezzate da esse.
    Sehyung si ritrovò poi ad innalzare un sopracciglio mentre le sue ciocche castane andarono a tramutarsi in piccoli filamenti argentati, simbolo della su attuale confusione. Fu solamente in un secondo momento che si accorse del calore all’altezza del petto, il fiato che gli venne a mancare mentre un singolo brivido percorse la sua spina dorsale facendogli in quel modo perdere un battito.
    Era abituato ai silenzi più cruenti, quelli che come delle lame di coltello s'infilavano sotto l'epidermide con il solo scopo di provocare più dolore; un malessere di cui una volta si sarebbe fieramente drogato soltanto per fare in modo che la sofferenza giungesse picchi tali da sovrastare la voce dei suoi stessi pensieri. Era abituato ai silenzi che ti facevano saltare il cuore nel petto per l'enfasi con la quale si tendeva a sottolinearne il momento successivo, quello in cui quasi sicuramente la realtà sarebbe stata così asfissiante da indurlo a boccheggiare, a ricercare sempre più ossigeno, un po' come un cocainomane era la costante ricerca del suo stupefacente preferito. La verità era che aveva sempre camminato sul bordo del precipizio, in bilico tra tutto ciò che avrebbe voluto ma che non avrebbe mai potuto stringere con veemenza con le dita, semplicemente perché era stato lui stesso ad imporsi un certo controllo in tali frangenti.
    E allora perché in quel momento una singola lacrima bagnò il suo dolce volte senza che ve ne fosse un motivo? Aveva accettato la sua sorte, Park Sehyung. Si era messo in ginocchio attendendo che la vita potesse decapitarlo con i suoi eventi.
    « 나는 너를 몰라, 너 누구야? 너 ... 내 아빠 한테 보낸거야? 괜찮아? 그가 나를 구하기 위해 왔습니까? » “Io non vi conosco, chi siete? Vi ha...mandati mio padre? Sta bene? E' venuto a salvarmi?”, un sorriso ingenuo sulle labbra di Park Sehyung mentre le falangi ebbero paura di toccare l’immagine di quei due ragazzi a lui sconosciuti.
    Suo padre era lì?
    Cercò di guardare alle spalle di essi per scorgere il volto severo di Namseok ma nulla, non vi era nulla.
    «형, 우리 야! 곽, 태, 어떻게 할 수 있니? - 그들이 너 한테 뭘 한거야? 괜찮아? 이번엔 어디 있었 니? 그들이 당신에게 무엇을 했습니까? 이 형!», “Hyung, siamo noi! Kook e Tae, come puoi - - - che ti hanno fatto? Stai bene? Dove sei stato tutto questo tempo? Pensavamo fossi morto, ti abbiamo cercato e - - - Che ti hanno fatto? Hyung!”
    Ma Sehyung a stento riuscì a schiudere le labbra, la sua fronte era corrucciate e le falangi strette in un pugno così saldo da fargli quasi sanguinare i palmi.
    «괜찮아요.하지만 ... 어떻게 저를 압니까? E - - - 죽은거야? 오, 조용해, 그들은 나를 죽이려고했다. 열 번이나, 나는 단단한 피부가있다! 하지만 당신이 틀린 사람이 아니라고 확신합니까?
    »
    “Sto bene, però...come fate a conoscermi? E - - - Morto? Oh no, tranquilli, hanno provato ad uccidermi...dieci volte, ma ho la pelle dura! Ma siete sicuri di non aver sbagliato persona?”.
    Le parole erano troppe ed il tempo, ovviamente, era fin troppo poco.
    Sehyung non fece in tempo a pronunciarle quelle parole che fu scaraventato indietro; non seppe bene da cosa, se dai suoi piedi o dal fatto che molte persone presero il proprio posto davanti allo specchio. Una cosa era certa, lui continuò a piangere.

    순결했던 날 찾아줘
    이 거짓 속에 헤어날 수 없어


    Non leggete, andate avanti, questa cosa non esiste EW.
     
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    «Remember this feeling. This is the
    moment you stop being the rabbit»

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    is confused in spanish
    1918: pepito "pepe" villalobos
    2018: joseph moonarie
    20.04.1918 / bodie
    "How did my life come to this?" No, questo non è il quesito che si sta porgendo (EDIT si stava porgendo ieri notte) arianna da due ore a questa parte dopo essere precipitata nel dark web dei meme incapace di uscirne, ma era ciò che si stava chiedendo Joseph guardandosi allo specchio, una mano sollevata per spostare dalla faccia i ciuffi biondi finiti sugli occhi. "Dovrei tagliarmi i capelli", pensò annoiato rendendosi conto di quanto fossero cresciuti; non voleva arrivare ad averli lunghi come le sopracciglia di BJ, facendo domandare alla gente che lo vedeva per strada se fosse una persona o un addestratore di gufi. Spostò la testa a destra e sinistra, per guardarsi meglio; non poteva esattamente dire di essere felice (quando mai), ma non era neanche del tutto insoddisfatto, del nuovo... look. Non era un capello che normalmente avrebbe indossato, nè era il suo amato cappuccio, ma ci si accontenta, diciamo. Tutto era meglio che girare a capo scoperto in quella dannata città; gli piaceva poter passare inosservato, e così conciato secondo Floyd si sarebbe mimetizzato meglio.
    «Gorro», mormorò facendo vibrare la lingua più del necessario sulla r per dare l'accento giusto. Non era sicuro che "gorro" fosse la traduzione giusta per coppola, ma faceva lo stesso. «esto es un gorro»
    Non sapeva esattamente neanche lui perchè un pomeriggio di parecchie settimane prima avesse chiesto al panettiere se potesse insegnargli lo spagnolo, sta di fatto che col passare dei giorni era diventato sempre un po' più bravo, sempre un po' meno tentennante - anche grazie agli esercizi che svolgeva da solo, parlando allo specchio per allenarsi o prendendo in prestito libri del colombiano. Una parte di lui pensava che il desiderio di conoscere una nuova lingua fosse derivato dalla semplice noia mista a curiosità di conoscenza che sempre aveva avuto, oppure dalla voglia di rendere quella recita per lo meno verosimile (insomma, si chiamava pepito fucking julio desiderio abel ulises virgilio villalobos-suarez-torres-navarro, la gente del paese si aspettava che parlasse quella lingua - ed era comodo poter fingere di non parlare inglese sbottando un «no hablo inglés» ogni volta che qualcuno gli faceva domande a cui non voleva rispondere cioè sempre), ma un'altra parte, tremendamente più fastidiosa, lo rimandava ogni volta che parlava in spagnolo all'immagine di un ragazzo sorridente seduto emozionato con il collo teso verso l'ennesima telenovelas; sunday e la sua stupida passione per i drammi spagnoleggianti. Sbuffò, cercando di scacciare il De13 dalla testa; nelle settimane precedenti si era quasi sentito giustificato dal pensare a lui - in fondo aveva passato tre mesi lontano dal freak, e non erano neanche riusciti a salutarlo, quindi era legittimato dal sentirne vagamente (ok, un sacco) la mancanza, nonchè immaginarselo meno fastidioso di quanto non fosse nella realtà - ma considerando che era ormai giunto a Bodie non ce n'era più motivo, no?
    Un'ultimo sguardo allo specchio, e uscì dalla camera dirigendosi verso il salotto, dove un Floyd si stava facendo allegramente i fatti suoi ma che ugualmente alzò lo sguardo per guardarlo. Joey non sapeva praticamente niente di lui, considerando che quando stavano insieme era solo per le lezioni di spagnolo o incantesimi che il ragazzo gli riservava (l'educazione era importante e Joseph non aveva intenzione di tornare a casa con le stesse conoscenze di quando era partito . aveva già perso un importante mese di vita in quello stupido universo alternativo, non poteva permettersi di perdere altro tempo), parlavano poco o niente e soprattutto non di cose personali... e forse proprio per questo gli piaceva un sacco e, dopo una settimana accampato in un capannone dismesso ai confini della città, aveva accettato mezzo congelato l'invito del Villalobos a dormire a casa sua (inizialmente «Solo finchè fa così freddo» e poi in pianta stabile).
    «¿has encontrado algo que te guste?» "hai trovato qualcosa che ti piace?" Joey aveva un livello molto base, elementare, di spagnolo, ma non per questo non aveva chiesto a Floyd di cercare di parlargli nella propria lingua quando erano in casa, per esercitarsi (e sebbene avesse detto al ragazzo di non prendersi la briga di parlare diversamente da quanto avrebbe fatto con un altro madrelingua, sapeva che la cadenza lenta e precisa di Floyd non poteva essere naturale).
    Annuì leggermente, precisando scadendo lento le parole: «es algo, mmh... prestado» E' solo un prestito. Aveva visto dal mobile del ragazzo quante fottute coppole avesse (le collezionava? Era solo pazzo??), e onestamente non poteva neanche dire con certezza che Floyd si sarebbe offerto di regalargli il cappello, ma meglio mettere in chiaro le cose fin da subito, prima che rovinasse tutto. «voy a correr y luego iré al salón» "Vado a correre e poi al saloon"
    Non c'era un Lèon a rompere le palle in quel mondo, ma non per questo Joey non si era preso la briga di trovarsi un lavoro poco dopo essere giunto a Bodie; non era capace a stare troppo a lungo con le mani in mani, e francamente un po' di cash gli faceva comodo (ogni tanto lasciava i soldi nel cassetto della camera del Villalobos, per pagare i conti e non sentirsi in debito con lui, altre volte si teneva i soldi pensando che se anche fossero stati magicamente sbalzati di nuovo nel 2017, forse avrebbe potuto vendere i pezzi vecchi di 100 anni a qualche collezionista). In più non l'aveva detto a nessuno, ma gli piaceva stare ad ascoltare la gente che suonava e cantava al saloon, pur non essendo esattamente il suo genere; aspettava sempre con ansia la chiusura del locale per potersi buttare sugli strumenti e vedere se riusciva a replicare.
    Sì, aveva un sacco di tempo da perdere.
    Non si era mai accorto di quanto la scuola e il Quidditch occupassero le sue giornate. Quidditch, fuck; perchè a Bodie nessuno sembrava interessato a quello sport? Gli mancava terribilmente volare, ma non aveva ancora trovato il coraggio di chiedere in giro se qualcuno sapesse costruire scope magiche (anche se aveva preso in considerazione il falegname amico di CJ) quindi nel tempo libero si limitava ad esercizi a terra, rompendo di tanto in tanto le palle a BJ e Sersha per allenamenti improvvisati.
    Non pensava comunque che a Floyd interessasse davvero sapere cosa il piccolo Pepito facesse della sua vita (tanto più che ormai sicuramente aveva imparato che il turno di Pepe al saloon doveva essere molto più tardi che non a quell'ora di mattina, quando il saloon era ancora chiuso), ma ogni scusa era buona per parlare in spagnolo. Uscì di casa ignorando da lì chiunque gli rivolgesse un saluto o un sorriso, e sistemandosi la coppola per non farla cadere (e soprattutto per nascondere il più possibile il viso) si diresse ai confini del paese per correre, dove nessuno lo avrebbe guardato, per poi iniziare effettivamente a farlo. Detestava non avere la musica a fargli compagnia, ma almeno il paesaggio Californiano non gli dispiaceva del tutto e, essendo deserto, poteva canticchiare fra sè e sè senza preoccuparsi della gente.
    Stava correndo da - quanto, mezz'ora? molto di più? Si era scordato di guardare l'orologio nuovo di pacca quando era uscito di casa - quando sentì gli spari. Confuso si fermò, cercando la direzione da cui arrivavano questi, e non avrebbe dato peso alla cosa se questi non fossero provenuti verso la dizione della cjcaverna, verso la quale riprese a correre immediatamente. Non che fosse preoccupato per CJ - era molto più probabile che gli spari li avesse fatti partire lui - ma quello era il 1918, e fosse mai che qualche contadino del cazzo avesse pensato di dare fastidio ad uno qualsiasi dei freaks senza pensare di ricevere il branco a fare da backup.
    Quando stava per raggiungere il capanno, però, rallentò indeciso sul da farsi, notando un po' troppe persone dirigersi nello stesso luogo (sicuramente ugualmente richiamate dai colpi di fucile). Il cuore che palpitava per la corsa e la fronte sudata (sì, avrebbe proprio dovuto togliersi la coppola ma capelli biondi, sole californiano, niente crema solare... nope, l'avrebbe tenuta e sudacciata tutta #sksfloydpoitelalavo) si avvicinò al gruppetto, fermandosi solo quando ormai era nel capanno, girandosi nel cercare gli amici mentre si sistemava le bretelle... solo che invece di BJ, sersha e Sunday, il suo sguardo finì su qualcun'altro.
    «...Cup?» facendosi largo fra le persone (spintonando forse Swing, forse no #ciao) si avvicinò a CJ, guardando prima lui poi nuovamente barrow fucking cooper. Ovviamente tutte le persone lì riunite volevano avere il loro momento per capire che cazzo stesse succedendo, e stavano parlando tutti un po' contemporaneamente, ma al ragazzino non interessava particolarmente. Stavano già chiedendo tutti che cazzo succedesse, quindi lui evitò, restando nel suo silenzio spiazzato condito di faccia deadpan («cosa ci fai in un bagno») ... almeno finchè gli occhi non incrociarono «CAPITANO!!» e niente, il suo visino si illuminò di immenso alla vista di Arabells, finalmente shokkato come avrebbe dovuto essere. Insomma, finchè vedeva Barrow poteva quasi sopravvivere allo spiazzo - erano stati rapiti da un cappello parlante, portati in un universo alternativo e poi nel passato - ma bells sembrava così estranea da tutta quella storia che averla lì che era strano. Cosa diavolo stava succedendo? «Come sta andando la stagione??????» #priorità poi continuò esponendo il terribile dubbio che lo aveva attanagliato nell'ultimo periodo «Vasilov è sopravvissuto al crollo di Salem? Non ha eliminato il Quidditch da Hogwarts, vero?» anzi, in effetti- «...che giorno è lì?» Poteva non essere passato neanche un giorno, poteva benissimo essere ancora inizio dicembre, come potevano essere trascorsi anni; il tempo è strano. Chissà se erano lì per salvarsi, e chissà perchè Bells non era al fianco di Barrow. Aveva sperato in quei mesi che i prescelti di Beuxbatons potessero essere tornati a casa - sebbene ci fossero ottimi motivi per credere che il loro Nos funzionasse in maniera opposta al Chro - ma al momento sembravano in due posti diversi. Rendendosi conto che nessuno aveva ancora detto - almeno da quando era arrivato lui - dove fossero loro, provvide lui a eliminare ogni dubbio; indicò con un pollice dietro di sè, poi aggiunse: «Bodie, California. 20 Aprile 1918»
    my neutral expression makes me look like i'm always in a bad mood
    which is convenient because it's usually true


    grazie al solito amiko reversocontex CIAO GENTE scusate non sapevo cosa scr
     
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    Tell me, how hard will I fall if I live a double life?
    I cittadini di Bodie parevano essere diventati più permissivi nei confronti di Barbie, abbastanza da concedere al buon Jagger di sedersi al loro unico, solitario, pub, senza fuggire come topi da una scatoletta di tonno. Non che a Barnaby potesse fottere una sega della loro opinione, figurarsi - anzi, se sloggiavano, tanto meglio per lui. Da quando era stato esiliato in quella landa desolata dove le barbabietole erano venerate quasi quanto Nostro Signore Gesù Cristo Amen Veglia Sempre Su Di Noi, nessuno si era mai chiesto chi, quell’assurdo soggetto con il denso accento inglese, fosse; un disertore, sussurravano i più caritatevoli alle sue spalle.
    Un disertore, lui? Era così che quei pannocchiari rendevano omaggio a un eroe nazionale? Era quella la meritata gloria che gli avevano promesso al suo rientro in patria? Ripensava al Barnaby più giovane ed al suo braccio appeso alle spalle dei suoi futuri commilitoni, il sorriso pregno di orgoglio all’idea di poter fare la propria parte per proteggere la patria; ricordava il battito folle del cuore il giorno in cui si era arruolato, e come vanesio avesse osservato quanto bene l’uniforme cadesse sulle spalle. Sembro un uomo, il poco più che ventenne Barbie s’era detto – ancora privo di balbuzie, quindi con un certo sentimento. Privilegiato, ecco come l’avevano fatto sentire al primo cadetto Jagger pronunciato all’appello, quando gli ebbero consegnato l’arma con un rispettoso cenno del capo. Nessuno, nessuno, aveva preparato i soldati a quel che si era rivelato essere il fronte. Gliel’avevano spacciata come una robetta da niente; cosa da due giorni, ragazzo, e poi tutti a casa a trombare con la moglie e la vicina di casa che prepara la torta alle pesche – magari insieme, eh ragazzo? E Barbie aveva annuito, perché capiva: certo, se la Nazione aveva bisogno di lui, sarebbe stato in prima linea; certo, sarebbe durata poco, perché loro erano i Giusti e la Giustizia vinceva sempre; certo, sarebbe tornato a Londra in tempo per sposare Rosemary e veder nascere il figlio che portava in grembo. Sicuro. Aveva tutta la vita davanti a sé, perché preoccuparsi di, cosa potevano essere, un paio di mesi? Era ubriaco di gioventù, il ventun enne Barnaby Jagger.
    «la g-g-uerra…» iniziò, arcuando un sopracciglio verso il suo pubblico. Intinse l’ostia corretta con la cochina, proveniente dalla panetteria Villaballacomeseibellas del suo amigo Floyd, nel quadrato bicchiere di bourbon. Tanto all’inferno già ci doveva andare, no? Che almeno il corpo di Cristo avesse un buon sapore: peccato in più o peccato in meno, aveva la fedina penale più sporca dei capelli di Agata, la Perpetua magicamente sostituita (riposa in pace amen, sorella) dalla Simmons. O Markley. O Leroy Gallagher. Era ancora confuso in proposito, ma come enunciava la Saggia Ornella nel nuovo Vangelo secondo Sara, il silenzio ai sentimenti. «f-fa» paura. Dio, se non m’è venuto un Cristo mentre ero in trincea, probabilmente è solo perché non sono un uomo religioso. Vivi in trappola sapendo che morirai, perché te lo senti nelle ossa, ma senza sapere quando. Lo sai, che creperai sul campo di battaglia. Lo vedi ad ogni tuo compagno caduto, ad ogni granata esplosa, ad ogni scheggia di bomba a spaccare carne ed ossa. Lo vedi nelle M1895/14 a tranciare a metà i nemici come bustine di tè lasciate troppo in ammollo. «s-schifo» piegò la bocca verso il basso, gli annebbiati occhi scuri ad osservare un punto imprecisato sul pavimento in legno del saloon. Schioccò sonoramente le labbra fra loro, si strinse nelle spalle ficcandosi in bocca l’ostia santificata nel whiskey. «e» ti fottono con le parole lasciandoti con il culo sanguinante senza neanche un grazie di cortesia; si dimenticano di te non appena scendi in campo, perché sanno che le probabilità di rivederti, sono pari a zero; ti giurano che se farai il tuo dovere, Dio penserà alla tua famiglia al tuo posto, proteggendoli finchè non sarai tornato per compiere l’onero personalmente. «p-p-puzza» l’odore della morte è impossibile da dimenticare: carne maciullata, sangue rancido, intestini a riversare il loro contenuto come bambini dopo l’ultimo suono della campanella; l’urina ad asciugarsi sui pantaloni, il sudore ad incollarti la canottiera alla schiena fino a diventare una seconda pelle. «m-ma» alzò un dito attirando su di sé gli occhi chiari di Banana Simmons ed il tatuato che non era il padre di Gwen né Banana Simmons (sì, per Barbie i 2018 erano un po’ come i coreani per Lele: un mistero irrisolvibile); secondo Barbie aveva la faccia da Carter, ma non sapeva quanto la sua opinione in merito contasse dato che Carter era la sua versione di John Doe. Picchiettò l’indice sul casco mimetico, il sorriso ad ampliarsi ebbro e fallace sulle labbra turgide. «ti d-danno dei c-c-aschi b-b-bellissimi» e ritenne d’aver parlato abbastanza, nello spingere la sedia all’indietro (il più rumorosamente possibile, ovvio) congedandosi dai suoi compagni di bevuta: s’era mostrato per il saggio oratore qual non era, il suo karma era a posto per un altro paio di mesi, e chi s’era visto s’era visto – ciaone, l’hotsy totsy di Bodie era out. Stringendo il suo sacchetto di ostie cochinate nel pugno, stabile sui piedi come un armadio BiJLoFu (nda: Il nome IKEA BIJEILOFU è l'acronimo delle iniziali del suo fondatore Ingvar Kamprad Barnaby Jagger e di Elmtaryd Londra e Agunnaryd Fuck, la fattoria città di nascita e il villaggio la sua imprecazione preferita. – ©wikisara.) Barbie si avviò verso l’usuale strada di perdizione ch’era la sua esistenza, ossia un qualunque itinerario di Bodie: tutte le vie portavano all’inferno, da quelle parti. Il fatto che fosse ubriaco e sotto effetto di stupefacenti come un leggendario emù, non significava nulla: non c’era niente di particolarmente triste nel brillante sole della California, o nell’usuale ed inquietante canto del Condor perduto (sì, cercava le montagne e mannaggia la sottana s’era trovato a Bodie: join da club, dude) che sempre sollevava allegri pensieri di morte e vecchiaia. Quel venti aprile non era un giorno speciale per cui dover affogare i propri dolori in alcool e droghe: era così tutti i giorni, lo sbilenco guaritore. Barnaby Jagger non beveva per dimenticare qualcosa, ma perché non aveva un cazzo da ricordare. Canticchiava fra sé le future glorie di Madonna e David Bowie, strimpellando l’aria fra un corpo di Cristo e l’altro, quando - «m-m-ma cosa f-fai??&&»

    Poggiò il mento sopra la testa irsuta di Geronimo, le palpebre socchiuse seguendo il testo mentre il bambino leggeva – o, almeno, cercava di farlo. Il perché avesse deciso di impegnare il suo tempo libero nella caritatevole arte dell’insegnare ai fanciulli di Bodie a leggere, era piuttosto semplice ed intuibile. Non perché fosse sempre stata una ragazza particolarmente altruista, o perché fosse sinceramente interessata all’accrescere la cultura dei coltivatori di barbabietole; non perché avesse davvero tanto tempo libero, né perché poteva trattarsi di un modo come un altro per ingraziarsi il Signore (eh, a quanto pareva – assurdo – non bastava farsi il prete per entrare nelle grazie della Trinità: shocked and upset) e strappargli qualche giorno in più da vivere. Qualche californiana anima pia avrebbe potuto osservare che oh, la signora Fay – Shaw passa un sacco di tempo all’oratorio della chiesa, che creatura celestiale!, laddove qualche malfidato della sua epoca avrebbe additato e sottolineato la questione con un allusiva alzata di sopracciglia; era credenza comune che Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso e Martha Fay all’occasione, approfittasse di scuse più o meno lecite per commettere atti impuri sotto lo sguardo diretto e severo di Nostro Signore – ma vi pare plausibile? Sì, certo, Santo cielo. Almeno quello.
    In ogni caso, non era per quel motivo che Run, in un afoso primo pomeriggio d’aprile, si ritrovava a stringere fra le braccia un bambino guidando l’indice di lui sul foglio per tenere il segno della lettura. Aveva uno scopo più grande, più illustre, e poco importava che nessuno comprendesse. Sapeva che il suo destino era sempre stato quello: venire spedita a calci nel culo in un posto di merda, quasi cent’anni prima della sua nascita? Previsto. Essere circondata da hamish? Previsto. Sposarsi a ventun anni? Sicuro. Morire prima dei ventidue? Assai plausibile. E tutto per cosa?
    «leggi bene questo passaggio, è importante»
    «non….c’erano….fiori….nemmeno….un r-raggio…di luna….»
    Ne valeva la pena?
    «si….incammina….con la sua….polly – chi è polly, martha?» «la sua pecora» «lungo…la…strada…di…casa…quando…un….aratro…fermo…gli fa segno….con…le…torce….»
    Quasi.
    Fra il letamaio ch’era Bodie, Heidrun era riuscita a trovare la perla rara - quella agognata e cercata da ogni pirata che si meritasse la propria bandana. Non appena aveva messo gli occhi sul (chiaramente.) best seller di Ornella, aveva compreso quale fosse il suo scopo nel mondo: diffondere il verbo. «vai marcelin, tocca a te» il bimbo s’impettì e gonfiò il petto, le dita così strette alla carta da incresparla. «“ti …do un… passaggio”… gli dice l’uomo…sfiorandole il…seno» Chi avesse avuto da ridire sul materiale trattato a lezione, avrebbe dovuto leggere i manoscritti precedenti: la Crane si era certamente ridimensionata. Oramai i bambini di Bodie avevano più conoscenze sessuali dei loro genitori – non che ci volesse molto, per carità; la sua donnina preferita, Carmela, praticava rapporti anali da anni e tutte le sere domandava a Dio di concederle un figlio: già detto, né? Mai abbastanza. I pargoli, invece, le davano più soddisfazioni: da quando aveva insegnato loro che la parola orgasmo indicasse qualcosa di bello e del tutto lecito da augurare (embè? Bisognava togliere certi tabù, meglio portarsi avanti negli anni ’20 che trascinarsi simili turbamenti nel ventunesimo secolo), ogni volta che le si congedavano anziché insistere su Gesù sia con te!, la deliziavano oramai con sentiti l’orgasmo sia con te! Gli voleva quasi bene, Heidrun.
    Se avessero smesso di ricordarle tutto quello che aveva perso, avrebbe perfino potuto affezionarsi sul serio. Anche Bodie, vista in maniera oggettiva, era bella: una cartolina impolverata d’altri tempi, caratteristica e densa. Tutto aveva un odore preciso, una forma precisa, un colore; artisti della loro epoca ci sarebbero impazziti per quei toni che la tempera non sarebbe mai riuscita ad eguagliare. La trovava poetica, con quelle stelle a brillare come braci.
    Idealmente, perlomeno. Non da viverci nel 1918.
    Non da viverci punto.
    L’esistenza della Crane era ormai mero margine di paragrafo, sempre sul limitare del foglio in procinto d’uscirne. Sentiva la propria sanità sfilacciarsi ad ogni canto del gallo, ad ogni astro che non aveva mai notato in quel profondo blu del cielo di montagna; sentiva la sua pazienza, di per sé poca e sottile, venir scheggiata di ora in ora. Sapeva che sarebbe stata solo questione di tempo, prima che ci perdesse completamente la testa. Cercava di non pensare, di vivere alla giornata; ignorava il proprio personale conto alla rovescia con svogliatezza, così come ancora si illudeva, unendo le mani sul ventre, che quella non fosse la sua vita, ma quella di qualcun altro. Avere un’altra identità aiutava. Heidrun, nei panni di Martha, poteva permettersi di fingere che fosse tutta una recita – e, si sapeva, in ogni recita che si rispettasse il sipario sarebbe prima o poi calato. Quanto avrebbe ancora potuto reggere quella farsa? Quanto sarebbe riuscita a contenere l’eccentrica, caotica, Heidrun Ryder Crane, evitando così di mandare tutto a puttane?
    Poco. Ma nel salutare con un cenno del capo la madre di Marceline, la signora Grandson, ancora non poteva saperlo. Quel che accadde dopo il primo «signora shaw -che aveva causato non pochi brividi a Run: poco importava che fosse sposata da ormai quasi cinque mesi, signora un bel belino.- può ingannare tutti gli altri, ma io lo so chi è veramente» sarebbe sempre rimasto confusionario, nella memoria della mimetica. Doveva aver criticato i suoi metodi d’insegnamento, le pareva; qualcosa sul fatto che suo figlio si fosse prodigato a descrivere, e sillabare in un perfetto francese, cosa fosse un ménage à trois: certe conoscenze, le aveva detto, potevano derivare solamente da Satana in persona.
    Martha l’aveva ascoltato silente, sorridendo con biasimo e tristezza, per almeno (almeno.) dieci minuti.
    Poi Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso, si era rotta il cazzo della signora Grandson – e di tutta quella cittadina di merda. Si era perfino, perfino sprecata ad usare termini politicamente corretti, Martha; ad insegnare ai bambini tutto quel che poteva, finchè poteva, così da evitare che da adulti diventassero come i loro genitori: uguaglianze, diritti, parità dei sessi; che quando fossero stati grandi, avrebbero potuto decidere da sé chi tenere per mano senza che fosse la società a dettare loro i termini. L’educazione sessuale era chiaramente parte del programma dato che, a quanto pareva, solo i bambini la prendevano sul serio - ed in maniera del tutto accademica: i pre adolescenti non la smettevano di ridacchiare, ed agli adolescenti bastava pronunciare la parola capezzolo perché avessero un erezione. Quindi, vaffanculo signora Grandson, sto cercando di creare una società migliore.
    E Lancaster, con il suo non cambiate nulla, poteva attaccarsi a quel gran cazzo che gli pareva.
    Si tolse una delle infinite forcine che tenevano ordinata la massa di capelli scuri, una quiete pacata che poco aveva a che vedere con la sua indole; sollevò il suo sorriso migliore verso la madre di Marceline, ridenti occhi verdi e fossette sulle guance.
    Quindi le piantò la forcina in un occhio. «mi dispiace deluderla, signora agata» gli tappò la bocca con la mano libera, avanzando fino a trovarsi ad un soffio dal suo naso. Strinse le dita sulla sua mandibola respirando affannosamente. «ma sono decisamente peggio di quanto lei creda» quindi, con un colpo secco, le sbattè la faccia contro il banco. Cadde priva di sensi sul pavimento, la signora Agata Grandson; Run si prodigò solamente di nasconderla sotto la scrivania, fosse mai che tornasse qualche bambino. Se, ed era un grande se, le fosse passata l’incazzatura, magari le avrebbe ridato la vista cancellandole ogni memoria di quell’avvenimento. Fino a quel momento, piangesse pure sangue e cornea. Uscì dall’edificio come una furia, bruciando di rabbia in ogni gesto misurato con troppa lentezza. Si tolse le forcine una ad una, imprecando ad ogni ciocca liberata un nuovo, fantasioso, insulto verso quei mungi vacche di merda. Quando la chioma scura le scivolò sulle spalle, infilò una mano dentro la camicetta bianca e la strappò con un sibilo, ignorando il bruciore dello strattone sulla pelle. Come aveva o s a t o una c a m p a g n o l a di c e N T’ A N Ni più vecchia di l E i dirle che fosse una p O c O Di B u O no? Voleva vedere cosa fosse una poco di buono? Solamente Sciaia poteva darle della sgualdrina (1). In secondo (2) luogo, se realmente fosse stata quel che la signora Agata diceva fosse, non avrebbe cortesemente declinato le avance del signor Grandson: in momenti come quello rimpiangeva di essere sposata impegnata, perché a giurar su Dio c’erano ben poche cose che la tentavano di più in quel momento rispetto al fotterle (letteralmente. Poi se lo poteva tenere) il marito. Nella sua santificata e benedetta dal signore cucina. «inGRAti» ringhiò liberandosi degli ultimi pezzi tirandoli bruscamente, la pelle arrossata. «m-m-ma cosa f-fai??&&» con oramai indosso solamente il reggiseno (quel CAZZO di attrezzo demoniaco che nei quasi anni Venti osavano definire reggiseno) e le mutande, ed in procinto di togliersi almeno (almeno.) il primo, Heidrun sollevò i furenti occhi chiari su Barbie. «prendo il sole» commentò caustica, senza fermarsi. «n-n-non p-puoi girare in città c-c-conciata c-così» eh, Barnaby Jagger, buon falegname di fiducia. Dopo tutti quei mesi doveva aver compreso che non bisognava mai dire a Run cosa non fare, perché a costo di morirci (sempre.) l’avrebbe fatto: così inarcò un sopracciglio nella sua direzione, le dita ad armeggiare dietro le spalle. «tu dici?» e se le braccia di lui non l’avessero bloccata, non c’era mezzo dubbio che avrebbe concluso il suo spogliarello. Invece, l’ingenuo Barbie, ritenne perfino opportuno spingerla verso una zona d’ombra poco distante. Sentì pungerle sulla lingua un non sei il mio tipo, ma si morse il labbro superiore prima d’infierire sul cucciolo Bodiotto – anche perché era abbastanza cristallino che anche lei non fosse il suo tipo: bastava rimanergli intorno abbastanza da vedere come guardasse Floyd #plot twist! Gwen. Non che potesse dargli torto, eh. «s-s-sei imp-p-pazzita?» le sibilò, e Run sentì nel suo alito il dolce profumo di whisky. Ormai faceva parte dell’eau di Barbie quasi quanto l’odore di segatura e di acqua benedetta. Forse per quel motivo, il Jagger le piaceva tanto – abbastanza da spingerla a placare la propria isteria:- in un certo senso, tutto particolare, le ricordava casa. Si accendeva facilmente, ed altrettanto semplicemente si spegneva, Heidrun: rimase immobile fra le braccia di Barbie afflosciando il capo sulla sua spalla, un sospiro tremulo a svuotarla della piccante rabbia per riempirla con la più agrodolce nostalgia. «sono stanca, barbie» deglutì, chiuse gli occhi quando li sentì pungere di lacrime. Non era mai stata il genere di ragazza che piangeva in pubblico – od in privato, ad essere onesti – e non avrebbe lasciato a quella landa deserta della California di strapparle quel briciolo di amor proprio. «sono solo» era tante cose, Run: era disperata ed al limite della follia; era allergica al 1918 ed i suoi abitanti, privata dei beni materiali che l’avrebbero aiutata ad uccidere il tempo; era stremata dalla capacitò di Bodie di insinuarsi nelle vene contagiando il circolo sanguigno con il proprio gusto antico. Era «stanca.» e chiuse maggiormente le palpebre, i denti a strizzare la lingua.

    Non esattamente quello che s’era aspettato, anche se, con il senno di poi, avrebbe perfino potuto arrivarci. Inutile dire quanto il Jagger si sentisse a disagio, stringendo a sé le spalle sottili della ragazza; non era bravo come un tempo con le persone, ed un buon supporto emotivo non ricordava di esserlo mai stato. Umettò le labbra ed osservò il cielo sperando che il Famoso Condor gli desse indicazioni su come uscire da quella situazione. Una persona normale, forse, avrebbe invitato Martha Fay a sedersi e l’avrebbe lasciata sfogare, rompendo il ghiaccio con un ti capisco: i millenials credevano di essere gli unici in America ad aver perso tutto, ma non era così. Non tutti coloro che vivevano a Bodie erano effettivamente di Bodie e, come Barbie, non potevano – o non ne avevano più motivo – tornare a casa. Era un limbo di anime perdute, sospeso e bloccato nel tempo. «v-vuoi un’ostia?» disse invece; senza attendere risposta, prese il proprio sacchetto di cochine e ne infilò una in bocca della Crane. Eh, come diceva il detto quale se non potevi domarle, drogale. Probabilmente non un gran detto, non insegnatelo ai vostri bambini. «dai, ne vuoi un’altra? M-mangia, così cresci s-s-sana e f-forte» ed una manciata di ostie bianche finirono fra i denti di Heidrun, mentre Barbie si guardava attorno alla ricerca di…vestiti, ma anche aiuto. Fu tentato di iniziare a gridare come una qualunque fanciulla in pericolo che meritasse tale nomea, ma non poteva sapere quale anima sarebbe giunta in suo soccorso: meglio non rischiare. «andiamo a c-c-asa, su» tentò qualche fallimentare passo in avanti, ma senza collaborazione dalla millenial. Si scostò abbastanza da lanciarle un’occhiata. «ce la f-fai a camminare?» «sì» eppure continuò a non farlo. Corrugò le sopracciglia, piegò gli angoli della bocca verso il basso. «…q-q-quindi…» «ma non ne ho voglia.» beh, certo. Barnaby schiaffò una mano sulle proprie labbra, occhi sollevati al creato. Doveva davvero imparare a farsi i cazzi propri. Sospirò drammatico, quindi si allontanò di qualche passo. «un s-s-ek» un minuto dopo, tornò alla base stringendo trionfante una tenda che, giuro, aveva solamente preso in prestito dalla casa dei Simmons. Pragmatico, iniziò ad avvolgerla attorno alla mimetica con la cura che avrebbe riservato alla sfoglia di un burrito (esistevano già negli anni 20? Beh, noi fingiamo di sì) e quando infine ella parve un misto fra una foca ed un sopracciglio (-cit) potè sorridere soddisfatto del proprio operato. Così soddisfatto, vi dirò, che fu tentata di lasciarla lì come un’opera urbanistica così che tutti potessero guardarla.
    Invece. «solo q-q-uesta v-v-olta» ritenendo che fosse l’idea più brillante (beh? Era ancora fatto ed ubriaco, insomma) si caricò la ragazza sulla spalla come avrebbe fatto fatto fare a qualcun altro, ma ahimè in circolazione c’era solamente lui con un sacco di patate, ed iniziò la difficile, affannata, camminata verso la magione dei Fay.
    Boom.
    Ma porca merda. Sentì il bruco Crane irrigidirsi, la voce di lei giungergli ovattata: «cos’è stato?» doveva essere onesto?
    Certo che no. «t-t-ubature»
    Dio quanto pesava. Sembrava tanto sottile, ed invece gli aveva già quasi slogato una spalla, se lo sentiva – fortuna che era un Guaritore.
    Boom.
    Che… cazzo di delfino.
    «cosa sta succedendo??&&» avrebbe voluto non avere una risposta, Barnaby Jagger. Se lui non fosse stato lì, avrebbe creduto si trattasse di un altro contadino che, cercando di compiere il proprio dovere morale, tentava di porre vita alla sua vita, ma dato che nessuno gli stava sparando addosso, la triste risposta poteva essere solo una. Sospirò ancora, stanco come solo un Sinclair avrebbe potuto esserlo.
    «c-cj» asserì, arricciando il naso. Avrebbe potuto essere qualcun altro, eh, ma se proprio doveva fare un nome. «come fai a saperlo?» piegò il capo di lato così da riuscire ad incontrare gli occhi verdi della ragazza, sopracciglia arcuate. Davvero gli stava facendo quella domanda? Lei, poi! L’ironia della vita era davvero… come dire: ironica. «c-c-ome fai a non s-saperlo?»

    «al v-v-olo!» cosa? Non ebbe realmente tempo di domandarlo, perché meno di un secondo dopo stava cadendo - ed ebbe ancor meno tempo per reagire, passivamente consapevole che nessuno l’avrebbe presa. La tenda le ostacolò le braccia, ma fu anche l’unica cosa che le impedì di sfracellarsi l’osso sacro sul pavimento in legno della bettola: grazie Simmons, la vostra tenda ha salvato una vita. Non verrà dimenticato. «rude» biascicò, rotolando sulla schiena per guardarsi attorno. Incredibile (ma forse neanche troppo) Barbie aveva avuto ragione: dalla sua posizione svantaggiata seguì il profilo di un’arma da fuoco fino a giungere alle dita sottili, e sporche di sangue e terra, di CJ. «cos’hai fatto?» un grugnito secco a prudere in gola, palpebre socchiuse. Non capiva perché (Gemes) nessuno in quel posto avesse ancora preso in considerazione l’idea di legarlo in cantina e dimenticarcelo. Carino, eh, per carità, ma creava più problemi di lei- il che era un nuovo livello di rudezza: perché lui poteva e lei no? Dov’era la giustizia. Ci mise più del dovuto prima di rendersi conto che non fossero i soli all’interno della stanza; probabilmente la decina di piedi che le ostacolarono la vista avrebbero dovuto essere un indizio sufficiente, ma non era mai stata una cima a Cluedo. Alzò gli occhi su Barbie, ma Barbie non stava guardando lei.
    Nessuno, stava guardando lei. E c’erano troppe voci? «hamilton?» tentò, nel dubbio. Le pareva di aver visto le sue scarpe – o forse erano quelle di Jay? di Arci? O forse tutte.
    «sì?» «così pare» non… non le voci che si era aspettata. Una le era sembrata addirittura - addirittura! quella di Rea! Assurdo cosa facesse la distanza di cent’anni, le mancava perfino lei. «…gemes?» specificò, liberando un braccio ed alzandolo per attirare l’attenzione. Con la solita grazia per la quale lo amava così tanto, tenda ed Heidrun furono finalmente tirati in piedi. Un secondo. Due secondi. Sopracciglia corrugate, e dita strette spasmodiche sulla spalla del suo parroco di fiducia. «le ostie» commentò apparentemente a caso in un sussurro roco, senza avere davvero il coraggio di distogliere l’attenzione dallo spettacolo di fronte a sé. Dovevano essere le ostie, continuò a ripetersi.
    Ma a quel punto, non le importava più di tanto che fosse illusione o realtà. «li vedi anche tu?» bisbigliò appena, poco certa di riuscire a rimanere in piedi senza un sostegno. Si sentiva il cuore in bocca, Heidrun, a soffocare una qualunque parola che potesse avere più o meno, ma soprattutto meno, senso compiuto. Fece guizzare lo sguardo dall’una all’altra delle…finestre? E scosse il capo a ritmo del proprio battito, perché non era possibile. La bocca secca, i sensi ovattati ed un fastidioso fischio alle orecchie. «lo sapevo che eravate vivi, piccoli bastardini.» Assottigliò le palpebre e soffocò un singhiozzo. Per poco, per poco, non abbracciò la tentazione di nascondere il viso sulla spalla di Gemes supplicandolo di portarla via. Per poco e per pochi.
    «jeremy? Todd?» praticamente scivolò in avanti inciampando sui suoi stessi piedi, aggrappandosi a quello o quell’altro pur di giungere più avanti, pur di vedere meglio. Erano – erano davvero loro? Non lo sapeva, Heidrun. Non le importava. Prima che il suo cervello potesse comprendere, e certa che non l’avrebbe fatto in ogni caso, azionò la bocca «mi dispiace» farfugliò, sentendo le parole accavallarsi fra loro. «mi dispiace così tanto, io – euge? Jade? – ci hanno rapiti e - » un senso di nausea e vertigini le oscurò la vista. «sin? Murphy -» murphy? Al? Umettò le labbra e spostò gli occhi poco distante, la voce ormai un fischio. «non capisco?»

    E se non capiva Heidrun Ryder Crane, figurarsi Barnaby Jagger. Il sorriso gli era morto sulle labbra prima ancora che avesse il coraggio di accennarsi, sopracciglia corrugate e cuore denso sul palato. Fu stranamente abbastanza sveglio e recettivo dal non domandare cosa cazzo stesse succedendo, ma in compenso: «g-gwen?» irrazionale ed istintivo, Barbie; si pentì nell’esatto momento in cui la sua voce trovò uno spiraglio fra le decine di bisbigli, un misurato passo all’indietro sperando di passare inosservato. Rubò solo uno scorcio di quegli specchi, sicuro al mille per mille di non voler vedere. Un conto era ritrovarsi i Millenials catapultati nel far west, un altro trovarsi costretto a guardare tutto quello che non poteva avere, sapendo non l’avrebbe mai conosciuto. Un secondo passo all’indietro sperando di essere inghiottito dalla folla, magari di sparire direttamente da quella dimensione e chi s’era visto, s’era visto. Perché sapeva cosa avrebbe voluto domandare alla Custode con la stessa, bassa, certezza con la quale sapeva di non volerlo fare – perché non era giusto nei propri confronti, capite; Barnaby Fucking Jagger si amava troppo per ridursi così. Tenne per sé l’interrogativo, retrocedendo fino a trovare un altro, familiare, viso confuso: l’ondata di affetto che provò per Floydito fu così intensa che quasi gli baciò la fronte ringraziandolo di esistere. Quasi. Si strinse invece nelle spalle, confortato dalla presenza di un vecchio quanto lui: «giovani» fu l’unico aspro commento del falegname. (Ci sono anche Juno e Ray? Posso vederli? Me li saluti?)

    20/04/1918 | 14:30
    mimesis | 21 y.o.
    healing | 23 y.o.
    2018: heidrun crane
    2043: sander b.
    martha fay
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    Le era capitato più volte di imbattersi in un certo tweet, quello dove qualcuno di lamentava perché non avrebbe mai potuto guardare tutte le serie tv uscite dopo la sua morte. In quegli ultimi giorni era successo che Darden ci pensasse di tanto in tanto, tra il tempo passato a lanciare coltelli agli spaventpasseri e le soste al bordello saloon. C’era così poco da fare in quel posto sperduto che era Bodie, da farle mancare la sua vecchia vita. In effetti, se avesse potuto, avrebbe scambiato una Logan Fay per una Darden Larson tutti i giorni, e invece le toccava rimanere lì. Non aveva mai letto il Grande Gatsby, ma poteva dire di aver visto il film e, francamente, gli anni ’20 non le sembravano così meravigliosi.
    Le ragazze che infestavano Tumbr e affermavano di essere nate nel secolo sbagliato? Non avevano idea di che cosa stessero dicendo, la Larson poteva assicurarglielo.
    Quante serie erano uscite nel 2018 che si stava perdendo? Trump aveva distrutto il mondo, o erano stati Vasilov&Friends? Una April le avrebbe detto di abbandonare quella presa ossessiva sul passato (futuro?), ma come poteva? Erano passati mesi, eppure non c’era volta che nella silhouette di Run non cercasse una Idem, per poi accorgersi di quanto fosse stupido. Non ne aveva bisogno, si ripeteva, anche quando le sembrava di star perdendo la testa, doveva trovare qualcosa di concreto a cui aggrapparsi. Ma cosa c’era di concreto in quella realtà? Non la brutta copia di Logan Fay, o la maggior parte degli sguardi che incrociava per le strade. Finalmente capiva a cosa si riferisse la gente quando diceva che sembrava di vivere in una simulazione – sì, quell’ assurda teoria – perché lei la viveva ormai così. Cristo, era finita in Westworld senza saperlo? Sempre meglio che in Game of Thrones, quello doveva concederlo a Lancaster.
    Sapete qual era diventata la sua ancora, in quel posto di merda? «ernest, devi tenerla più alta quella pannocchia!» corresse il ragazzino, sollevando le braccia oltre la sua testa per mostrargli come fare. Recuperò il coltello dalla pannocchia per l’ennesima volta, porgendolo a una Margaret che stava già sudando freddo. «tranquilla, basta prendere un respiro profondo e concentrarsi sull’obbiettivo» «più facile a dirsi che a farsi» le rispose l’altra, adocchiando il bersaglio come se al suo posto vi fosse un bambino satanico – che sarebbe stato meglio, a detta di Logan.
    Le Fay avevano trovato un nuovo hobby nel salvare i ragazzini delle cittadine vicine che venivano considerati diversi, discriminati per il loro orientamento sessuale o perché volevano essere una Margaret e non più un George. Avevano una casa troppo grande per tre persone, si erano dette, e troppo tempo da perdere. A Darden non bastava far finta di dirigere l’attività di famiglia, aveva bisogno di qualcosa che la facesse sentire in qualche modo vicino al suo vecchio mondo: così aveva deciso di torturare i suoi bambini. O meglio, allenarli. Non era sicura che Margaret ed Ernest ne fossero entusiasti, però McKenzie sembrava sempre più felice di accoltellare barbabietole.
    «va be- ma che cazzo» si voltò all’istante, lo sguardo ad assottigliarsi per capire cosa stesse succedendo «q-quelli sono spari?» l’aveva detto, lei, che si trovavano in Westworld.

    Era sorprendente il quantitativo di peli che un umano potesse crescere, e di come quel pavimento ne fosse costantemente ricoperto. Insistette con la scopa sul legno, cercando di pulirlo dalla barba di Mr Elliott, rendendosi poi conto di quanto quella scopa fosse inutile. Abbassò lo sguardo per terra per scoprire che si trattava di foglie di banano essiccate, perché il signor Torres avrebbe dovuto avere qualcosa del genere? Non ne aveva idea, non le sembrava di essere finita su un’isola polinesiana. «torres, non hai qualcosa che assomiglia a una scopa?» si sporse da dietro la sgabello, ignorando lo sguardo sofferente del vecchio – sì, gliel’aveva già ripetuto di non urlare, ma non gliene fregava davvero un cazzo. Anzi, dato il suo pessimo udito doveva solo ringraziarla. «non so, vedi se da maureen hanno qualcosa» un modo elegante per dirle di controllare al bordello, insomma. Gliel’aveva già detto che non si scandalizzava a parlare di prostitute, sarebbe stato bello se l’avesse ascoltata. Se Torres avesse avuto idea della metà dei passatempi con cui si intratteneva la bionda, non credeva che sarebbe stato così candido – o forse sì, era pur sempre un pidocchioso bodiotto. «e comunque, quella scopa non ha niente che non vada» Kentucky si limitò a scrollare le spalle e ad uscire dal negozio, non senza prima averlo sentito lamentarsi della gioventù odierna.
    Non v’era ora in cui il bordello non fosse affollato di forestieri, o mariti scappati dalle grinfie delle mogli pancine, eppure quando mise piede nel locale non poté fare a meno di notare una certa quiete nell’aria. Poi, quando spostò lo sguardo su un tavolino poco distante dall’entrata, ne comprese il motivo. «BABETTE» esclamò, correndo incontro all’amico peloso. Dovette sgomitare tra le varie signore, tutte impegnate a fissare le sue sopracciglia pensili, ma alla fine riuscì ad affacciarsi sul tavolo «che stai facendo?» era indecisa tra lo sbavare sulla scollatura delle giovani e il tentare di allunfare la mano, ma si astenette dal commentare: chi lo sa, quali poteri omicidi potevano avere le sue amiche del piano di sopra. «sto controllando i conti di maureen? Mi paga, sai» «in natura? Perché ci potrei stare anche io» sempre meglio che pulire capelli dal pavimento, eh. «te che dici?» la bionda si sporse in avanti, sguardo malizioso ad ammiccare al ragazzo: che ne diceva lei? Perché gliele serviva su un piatto d’argento, non c’era gusto in quel modo. Aprì la bocca per replicare, quando degli spari risuonarono alle loro spalle «cristo, era ora» finalmente un po’ di casino e intrattenimento, dopo l’arrivo di Sandy non aveva avuto granché per cui essere eccitata. Prese BJ per il braccio e lo trascinò fuori, verso il capannone da cui proveniva il rumore.
    Ora, partiamo dalle cose importanti che successero. «BARRY, BRUTTA TROIA» si avvicinò al resto dei freaks, ignorando come suo fratello fosse in un bagno; un ghigno curvò le labbra sottili della bionda, mentre controllava che il Cooper fosse ancora tutto intero: aveva quasi pensato fosse morto. «dove cazzo stai?» perché non sei con noi? ma quello non glielo chiese, dopotutto conservava ancora una dignità.
    Poi, si ritrovò a dover ficcare una gomitata sul costato dell’altro fratello, quello speciale. «MAMMA, PAPA’!!» «ma sei scemo?» «intendevo: MAMMA MIA!!! - credo? Boh CIAO» alzò lo sguardo sul suo volto, domandandogli con lo sguardo se stesse bene, sembrava ancora più ubriaco del solito. Finalmente, trovò il coraggio di guardare i suoi genitori, uno più figlio di puttana dell’altro. Non si domandò perché potesse vederli attraverso uno specchio – aveva visto cose molto più strane, in diciassette anni di vita – quanto perché il Barrow li stesse fissando, e la Beaumont sembrava sull’orlo di infarto. «quindi…» e papà fece qualcosa di strano con le mani, che non capì molto bene – aw, era spastico come Sandy «davvero?» ma che bella riunione di famiglia, le veniva da vomitare. Aspettò che gli altri dicessero qualcosa, e quando nessuno si degnò di intervenire, imprecò sottovoce – le toccava pure il lavoro sporco «sorpresa» esordì, con lo stesso entusiasmo di un impiegato del McDonald’s «quindi voi due scopate già?» disse, indicando la Beaumont con un cenno del capo. Insomma, erano cose importanti da sapere.

    Non aveva idea del perché qualcuno avrebbe dovuto incominciare a sparare a Bodie, insomma, erano in anticipo di un paio d’anni per sfoderare gli AR-15 e far fuoco sulla gente. Quando era entrata nel capannone non v’era più nessun rumore, quanto più una folla di vacche ad affollarsi intorno alla struttura – che rottuta di palle, i bodiotti. Si era dovuta fare strada tra i loro corpi deformi e cuffiette per i capelli, ma alla fine era riuscita ad arrivare nel centro della stanza, e incredibilmente era ancora più confusa di prima. «questo è il momento dove escono le telecamere» si sporse oltre la parete, sperando che il cameraman si palesasse da dietro quel vaso a forma di pene, perché quella doveva essere una candid camera. Nel 1918? Certo, anche loro avevano i loro programmi trash. «nessuno?» lei ci aveva sperato, visto che non riusciva a dare una spiegazione alla situazione in cui si era immischiata. Fece un passo in avanti quando da dietro Rea Hamilton scorse un paio di figure familiari, gli occhi a sbattere increduli a quello che aveva davanti «idem? Jericho?» in quel momento non le importava del ragazzo semi nudo e del resto della folla dall’altra parte della stanza, c’erano questioni più importanti in ballo – le sue, per inciso «siete voi, cazzoni?» o era una presa per il culo, in fondo non erano già stati sfottuti abbastanza.

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    1918: danihel simmons
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    20.04.1918 / bodie
    Arci si allungò oltre il lavandino, la mano sulla maniglia della finestra per aprirla e cambiare l'aria. L'odore della città lo investì subito, e il giovane uomo si fermò un secondo a respirarlo, il collo allungato verso la brezza che sapeva già di estate, che sapeva di sabbia e stalle. Un tempo il profumo di Bodie lo trovava aggressivo, disturbante e troppo diverso oltre che invasivo, ed era strano adesso rendersi conto di quanto gli apparisse normale, soprattutto contando quanto l'aveva odiato i primi giorni in confronto al ricordo dell'aria azotata di Londra. Ora sarebbe stato sconvolgente affacciarsi oltre la finestra e non riconoscere i rumori quieti di una città per lo più disabitata nonchè il profumo secco che l'accompagnava. "Stai calmo", doveva dirsi, le dita tese verso la finestra a tremare leggermente così che la ferita della mano accuratamente fasciata pizzicasse leggermente. "Niente cazzate. Tanto non cambierebbe nulla". Chiuse gli occhi, espirò, tornò a voltarsi verso la saletta dove stavano Gwen e il bambino riccio. «è come avere un cane»
    «ma dai, sono diversi» rispose mettendosi a braccia conserte per nascondere il tremito leggero. Si posò al piano cucina mentre si obbligava a fare un sorriso "Respira. Inspira, espira. Hai già dato di matto ieri; datti un contegno".
    «mh...il cane forse l'avrei preferito... e poi mangia decisamente più di un cane»
    «Non mi piacciono i cani, puzzano» , fece notare (l'immagine di Aidan e di quel dibattito di in una serata qualsiasi, in cui difendevano l'uno i canini e l'altro i gatti), per poi fare una pausa meditativa «Anche Toothy, in effetti»
    «Io non puzzo» sibilò il riccio a bocca piena (e non sibilò in senso cattivo, ma perchè letteralmente ogni sua parola usciva simile a un fischio, con i buchi in bocca che si ritrovava; topino. Arci e Gwen dovevano decisamente portarlo da Barbie e chiedergli se fosse una malattia o cosa).
    «Te lo dico io che puzzi, solo che ormai sei così abituato alla tua puzza che non la senti più» Non era ovviamente colpa del bambino se aveva la pelle pregna dell'odore della stalla che - a quanto pareva - aveva chiamato casa per un sacco di tempo, ma questo non lo rendeva comunque più profumato; diversi bagni e vestiti (troppo larghi) puliti dopo, ancora Arci non riusciva del tutto a non notare il suo profumo pungente.
    "Sto davvero pensando a che odore abbia un bambino pur di non pensare a lui?". Sì, sì lo stava facendo. Da quando si era svegliato (ancora un po' brillo di rabbia e di whisky) non aveva fatto che cercare di annegare il ricordo della notizia ricevuta il giorno prima in qualsiasi azione che potesse tenerlo impegno, in qualsiasi novità casa Simmons avesse da offrire - andare a svegliare Toothy con uno strofinaccio bagnato in faccia, preparare da mangiare a lui, Gwen e il nuovo arrivato Banana, cercare in giro nuovi vestiti che potessero andare al bambino... era tremendamente patetico, così temerario nel cercare di fare cose e cose e cose quando sapeva perfettamente che non sarebbe bastato per cancellare quello che ormai sapeva. Gli veniva da sghignazzare all'idea. Cole non sarebbe tornato solo perchè lui non ci pensava, o come ringraziamento divino perchè con Gwen si stavano prendendo cura di un piccolo senza tetto (che forse, senza di loro, sarebbe finito morto di fame entro la fine dell'anno). Cole non sarebbe tornato e basta (tornato dove, poi, è un'altra questione: era più che probabile che Arci non avrebbe mai rivisto nessuna delle persone che amava in ogni caso).
    Allungò una mano per arruffare i capelli ricci di Toothless. Non voleva pensare al fratello, non voleva pensare a come fosse morto mesi prima senza che nessuno avesse pensato di dirglielo (probabilmente dando per scontato lo sapesse o non gli importasse), e senza che lui potesse aver fatto nulla per salvarlo. Non erano forse in ottimi rapporti, non era Lydia, ma era Cole, dannazione. Un'entità, più che una vera e propria figura familiare nella sua vita, pure dopo aver scoperto il loro legame di sangue, con il quale una relazione se l'era inventata più che viverla (quante volte aveva detto «questo? Ah sì, un regalo di mio fratello, sai, Cole Baudelaire...» quando invece tal qualcosa se l'era comprato da solo o l'aveva fregato da casa di Belladonna?), ma sebbene non fossero mai stati i fratelli di una pubblicità Mulino Bianco, non era comunque più facile tenere il controllo. Forse era peggio, perchè non riusciva a fare a meno di pensare a quello che con lui avrebbe potuto avere, se solo gliene fosse stata data una possibilità, se solo l'esercito di Vasilov non l'avesse trivellato di colpi. Forse era peggio, perchè era nel fottuto 1918 e per mesi aveva sperato che coloro che non erano lì con loro stessero bene, fossero felici. Almeno loro. Un'unica certezza in quel mare di merda.
    Allontanandosi leggermente mentre Toothy riprendeva a mangiare come un'animale affamato («Guarda che cena la facciamo» ) , andò a riempirsi un bicchiere di scotch che bevve tutto d'un fiato, una smorfia per il bruciore in gola quando staccò il vetro dalle labbra. Iniziava a dimenticarsi cosa volesse dire essere sobri, e non gli importava particolarmente se doveva essere sincero. Quando neanche Danihel lo aiutava a staccare, c'era l'alcol a soffocare le sue giornate rendendole più veloci e sopportabili. Vedeva come Gwen fosse dispiaciuta per lui, come avrebbe preferito non restare da sola in quella casa e cercasse in tutti i modi di rendere migliori le loro vite con questo o quell'accorgimento (l'idea di tenere un bambino l'ultima geniale trovata - geniale davvero, non in senso ironico), ma lui non riusciva ad essere soltanto Arci (l'Arci con cui lei era andata a scuola, l'Arci che era stato suo amico per anni) per più di qualche minuto; neanche per lei. Se non era Danihel, era l'Arci alcolizzato e viceversa; il vittimismo faceva parte di lui. "Bells saprebbe come rimettermi in riga". E via un'altra ondata di nausea che cercò rapido di scacciare.
    Tutto quello che voleva in quel momento era avere qualcosa a cui pensare come un orfanello appena adottato, una sbronza da smaltire o gli ingredienti della pizza da cercare (se potevano fare la pizza i coloni inglesi in Tacchini in fuga, poteva farla Arci a Bodie .); qualsiasi cosa che non fosse riflettere su quanto aveva perso, su quanto non avrebbe mai riavuto.
    Gli spari furono quasi una felice novità.
    «Che ne pensi?» guardava Gwen, il bicchiere di vetro posato sul mobile e la mano verso la tasca dove teneva nascosta la bacchetta. In quattro mesi non aveva mai sentito molti colpi di pistola a Bodie, ma quei pochi erano quasi sempre stati scaturiti dall'allegra compagnia del futuro (più precisamente dai ragazzini psicopatici CIAO CJ) o diretti al maggiko soldato Jagger; insomma, niente che riguardasse i Simmons. «Dovremmo..?» erano genitori, adesso. Avevo BlueTooth a cui badare, non potevano certo far passare inosservata una sparatoria; dovevano prendervi parte e insegnare al riccio a sparare e a cavarsela.
    Quando si sentì un colpo alla porta, Toothy fu il primo a trotterellare veloce con l'intento di aprire (forse curiosità, forse abitudine visto quante volte Arci e Gwen gli facevano fare il lavoro sporco), e subito dopo - pace all'anima sua - a venir buttato a terra da un frenetico Aidan Gallagher. Una parte di Arci era tremendamente dispiaciuta di non essere arrivato prima lui alla porta.
    «Non ucciderci il bambino» sgridò con un tono così distratto che non poteva essere preso sul serio, e quando Aidan chiese perchè mai Tooth fosse ancora lì, Arci - sopracciglia aggrottate - non potè che sentirsi mortalmente offeso. Forse non erano stati abbastanza chiari quando, una sera, lui e Gwen avevano spiegato con parole concise e semplici che ora quel bambino era di loro proprietà sotto la loro supervisione? Forse il grifondoro si era perso il senso della parola "figlio"? Certo, in mezzo avevano accennato alla potenzialità di sacrificarlo a Satana per chiedere favori in cambio (magari il ritorno nel 2017!!&&), ma in quel caso avrebbero invitato il Gallagher per prendere parte al rito in quanto membro dei Phanes, no?? Aidan doveva proprio essere il tipo di persona che abbandona un cane in autostrada se questi non è tenero come si era aspettato. «E' nostra responsabilità» cercò di dire, ma la voce venne zittita da un altro colpo. "E però che cazzo" Arci rivolse lo sguardo verso la porta lasciata aperta, dove stanziava anche un confuso (strano!) jayson a cui rivolse un'occhiata interrogativa. Ne sapeva più di loro? Meh. Di certo, tutti sembrano condividere la certezza che dovessero andare a controllare cosa diavolo stesse capitando.
    «Toothy, le scarpe» disse con un tono che non ammetteva repliche (da bravo orfanello senza casa, Toothless era particolarmente abituato a viaggiare come un poraccio scalzo e con vestiti bucati; «Not under my supervision», era stata la replica di Arci la prima volta che il piccolo si era lamentato; se voleva vivere con Mariel e Danihel e probabilmente non voleva non poteva sembrare agli occhi del paese un gatto randagio - poi le vecchie parlano!!!). Arci ebbe giusto il tempo di girarsi verso Gwen per chiederle di piazzare la trappola l'antifurto (un conto era adottare Toothy e non ucciderlo anche se li derubava; un conto era lasciare la dispensa - soprattutto quella degli alcolici - a disposizione di tutti i ladruncoli della zona) quando il suo occhio cadde, inesorabilmente, sulla mano del Gallagher.
    Stava-... davvero-... lui ??????????? «segui. In silenzio.» Aidan Gallagher che teneva per mano un bambino ??????? Un bambino con le mani ancora sporche di pollo????????? Chissà se avevano adottato inconsciamente anche il Gallagher, ora. Con un sopracciglio arcuato, Arci studiò tutte le persone presenti (immaginandosi anche Bananina, non a casa Simmons in quel momento ma sempre presente nel kuore e nei pensieri). Sorrise mentre Aidan spintonava usciva con Toothless e Jay seguiva dicendo la propria. Si voltò verso Gwen. «Cosa? Cosa c'è?» Per quattro mesi Arci non aveva fatto altro che pensare a cosa aveva perso, senza mai concentrarsi su cosa avesse trovato e costruito a Bodie. Si era trovato una famiglia (lui Arci, non Danihel), e non se ne era neanche accorto. «Niente. Andiamo a vedere cosa vuole l'Isis del far West»

    Non poteva essere. Non poteva... essere. Oppure poteva?
    Era?
    Esalò una risata, le gambe molli, un sorriso ebete sulla faccia. Una parte di lui si chiese se fosse l'alcol, la stanchezza, ma un'altra voleva crederci e affogare in quella speranza fino a non uscirne più. «Li vedete anche voi?» a giudicare dalle reazioni degli altri, dal chiacchiericcio sempre più forte che si susseguiva, , li vedevano anche loro - sebbene fosse un dubbio salito anche a Run. «Loro vedono noi?» poteva sembrare una domanda stupida, ma non era così ovvio. Dopo aver viaggiato nel tempo, tutto pareva possibile, anche un enorme - super mistico - specchio gemello unilaterale.
    E invece la gente parlava, si chiedeva cosa accadesse, dove gli altri fossero, e mentre il disagio regnava sovrano Arci posò la mano sulla spalla di Tooth, trovandone con sorpresa un'altra; non spostò le dita da quelle del Gallgher, ma si limitò a spingere leggermente in avanti il bambino mentre il pollice accarezzava il dorso di Aidan prima di staccarsi. Gli occhi vagavano freneticamente fra i mille volti apparsi, alla ricerca di quelli che più voleva vedere, che aveva bisogno di vedere. Non era forse un passaggio verso casa (non osava illudersi tanto), non era una risposta alle mille domande dei Prescelti, ma era qualcosa. Anche solo la possibilità di dire addio, quella che non avevano avuto per colpa del Cappello Parlante e chi per lui. Se anche fossero dovuti morire o restare bloccati lì, era felice che quelli dell'altra parte avrebbero saputo che non era stata una loro scelta.
    «Chi sono?»
    Non abbassò lo sguardo verso il bambino ma si limitò a sorridere, gli occhi puntati sulle stanze magicamente apparse; aveva notato il tono incuriosito e per niente spaventato di Toothless, e in un attimo pensò che avrebbero proprio dovuto raccontagli chi davvero fossero, se avevano in mente di tenerlo con loro (e già lo avevano in mente, anche se non lo ammettevano ad alta voce). Chissà, forse era pure un mago o uno special, e quello era anche il suo mondo. «La nostra famiglia» disse senza pensarci due volte
    Si umettò le labbra, la bocca incurvata in un sorriso stanco e insieme eccitato guardando i catafratti. Dio, erano così belli, gi erano mancati così tanto. "Ho visto una volpe l'altro giorno, ti ho pensata. Ci sono anche tanti procioni e topi. Non giocano a Quidditch, dovreste insegnarglielo voi. Vi divertireste un sacco a raccontare palle ai bodiotti, sono così sempliciotti. Bells, odieresti e ameresti questo posto. Jer, sai che le barbabietole si possono fumare. Signore, quanto vi amo, quanto mi siete mancati, quanto devo raccontarvi, quanto vi amo. Ho bisogno di voi. Vi sono mancato?". «Finalmente ce l'avete fatta a trovarmi, cazzoni» Sapeva di essere leggermente diverso dall'ultima volta che Jeremy e Bells lo avevano visto. In quattro mesi si era lasciato nuovamente crescere i capelli, superando ancora una volta la lunghezza di quelli della corvonero, e grazie al sole californiano era tornato un kebabbaro come raramente a Londra riusciva a diventare.
    «ti odio» Non sapeva se era più vicino a ridere a crepapelle o a piangere. Sapeva solo che sentiva il desiderio di avanzare, stringere fra le braccia Bells che si sarebbe rannicchiata come sempre contro il suo petto, la testa infossata e le labbra di arci posate appena sui suoi capelli. aveva così tanto da dire, che non sapeva cosa dire. Non sapeva neanche se ne avrebbe avuto il tempo.
    «Vi state prendendo cura della mia piccola? La lavate almeno una volta a settimana?» La sua baby, l'amatissima macchina comprata con i sudati risparmi, rimessa a nuovo nelle afose settimane estive per farla tornare ruggente come ai tempi d'oro. Chiunque avesse ascoltato avrebbe pensato a quanto fosse materialista Arci, ma solo perchè non sapevano cosa significasse quel pick up per lui, la prima sua grande scelta, e co protagonista di alcuni dei momenti più belli della sua vita. Le gite senza meta con Lydia, le corse in campagna con Bells e Jeremy stretti con lui nell'abitacolo, le pause di notte coricati nel cassone a guardare le stelle passandosi una canna dicendo fesserie. Cristo, stava per mettersi a piangere.
    Avrebbe voluto guardarli per sempre, imbambolato da quanto gli sembrassero più belli che mai (Bells era sempre sembrata così adulta? Le spalle di Jeremy si erano fatte più larghe?), ma giustamente anche loro volevano vedere gli altri, salutare chi conoscevano, e mentre loro si prodigavano a guardare chi l'uno chi l'altro, Arci fece vagare lo sguardo nel resto degli specchi, sorridendo al limite delle lacrime quando trovava un volto conosciuto. Akelei, Will, Murphy e Shot, dall'altra parte Euge, Amos, Maple, Charles, Sin, Lydia...
    Non potè evitare lo sguardo della sorella a lungo. L'aveva tenuta per ultima, convincendosi che così facendo, prendendosi il suo tempo, sarebbe stato più facile... ma non lo fu. Quando la guardò, si sentì sprofondare. Si umettò le labbra, arrischiando un sorriso. «Ehi» Non poteva tirarla per le lunghe, ma doveva dirlo, voleva dirglielo lui; non sapeva se a Beauxbatons avessero recuperato il corpo del fratello, se fosse finito in luoghi mistici con altri Prescelti o se fosse stato trovato dai soldati di Vasilov e magari riportato in patria in onore del servizio che il Baudelaire aveva reso al regime dei mangiamorte, e neanche sapeva se Lydia già sapesse, ma aveva bisogno di parlarne con lei, che lo sentisse pronunciato dalle sue labbra. Era loro fratello, e lei non era Annie: il suo rapporto con Cole, lo sapeva, era pari al suo. Quante volte ne avevano parlato davanti ad una tazza di tè? quante volte non lo avevano fatto, sapendo esattamente cosa l'altro stesse pensando? "Non mi lascerai anche tu, vero?" «Cole è morto» senza giri di parole, senza addolcimenti della pillola. Deglutì la bile. «Lui non tornerà» strinse i pugni, una nuova determinazione che, si rese conto, negli ultimi mesi il sole californiano gli aveva portato via. «Ma io sì.» Basta giornate fatte di autocommiserazione, basta notti passate a girovagare per la cittadina per scappare da un incubo o dallla claustrofobia che creava attacchi di panico. Si tornava a cercare un modo per tornare a casa, questa volta davvero. Per lei, per i cata, per Gwen, per Jay e Aidan, per tutti. Per se stesso. «Ti voglio bene» aggiunse frettoloso mangiandosi le lettere, perchè non era sicuro di averglielo mai detto, perchè era tutto quello a cui era riuscito a pensare in settimane di reclusione in quel posto «Sono felice di essere tuo fratello»
    Ed era un po' troppo simile ad un addio, più di quanto si fosse immaginato, quindi provvide in fretta a schiarirsi la voce e tornare con l'attenzione sulla Dallaire, che stava narrando di Londra 2018 (oh dio, era già il 2018? E lui che aveva sperato di non perdersi davvero del tempo lì ma tornare al tre dicembre 2017). William aveva spiegato la sua parte di storia, idem Bells. Toccava a Bodie: «Tanto per iniziare, Dallaire, togliete di mezzo Van Lidova: è Vasilov, ed è colpa sua se siamo in questo macello... ah sì, è stato anche lui ad aiutare i Cacciatori lo scorso anno, nazista di merda; se non è morto sotto le macerie di Salem, dovreste proprio ucciderlo voi con la sua stessa cazzo di malattia infilandogliela- giù per la gola. Il tre dicembre noi eravamo con Lancaster a Salem, e lui grazie al Chro - un'altra giratempo - ci ha biddibuati qui a westworld - stai zitto aidan, è il far west - pur di non farla avere al re dei cazzoni russi» Si umettò le labbra, facendo vagare lo sguardo sulle persone nello specchio del 2018, sui suoi amici, sulla sua famiglia, fermandosi poi su Bells e Jeremy dopo aver guardato più del necessario Lydia. «Non è colpa nostra se siamo qui» "Non vi avrei mai lasciato indietro"
    Ah già, mancava un'altra cosetta. «Lui è Toothless, l'abbiamo adottato io e Gwen. DI' CIAO AGLI ZII DEL VENTUNESIMO - e... ventiduesimo? - SECOLO TOOTHY» No, non lo avrebbero sconvolto con così poco. Viveva con i Simmons da poco ma per Dio, se non lo avevano shokkato loro in quei giorni con riti satanici, letture delle carte e bottiglie che come per magia venivano svuotate, non lo avrebbe fatto più nulla.
    How can I say this without breaking How can I say this without
    taking over I loved and I loved and I lost you And it hurts like hell
     
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    Shia Ryan Hamilton < Gideon Kingsley

    Shia era una divinità, ma non era nato come tale; eppure come un vero eroe, in stile Hercules (viva la modestia), per esserlo aveva intrapreso un difficile cammino dato che la sua vita non era sempre stata rosa e fiori. Aveva affrontato delle imprese che chiameremo le dieci fatiche di Shia. Ad esempio era nato sbagliato, il gemello difettoso senza magia in una famiglia di purosangue; spesso i suoi genitori gli dicevano che non doveva neanche nascere e che il fato non era stato giusto con loro perché non era stato mangiato dal fratello nella sacca come dicevano le legende romane.
    Ma non per questo si poteva dire che fosse una persona che si piangeva addosso o che si lamentava e di motivi ne aveva avuti. Non aveva fatto la vittima quando l'unico legame con il mondo, lo specchio magico che gli permetteva di comunicare con sua cugina Rea gli era stato portato via. Insomma lui era sempre stato l'emarginato, lo strano ed era cresciuto praticamente da solo; ma alla fine era venuto su comunque bene perché quando uno era perfetto c'era poco da fare ma era stata dura diventare la persona che era, eppure quel posto, e quel periodo stavano demolendo tutta la sua autostima. Il far west non gli piaceva, gli stava decisamente stretto; non era per la frustrazione sessuale, che si ragazzi lo devo dire, c'era, ma era anche la solitudine il suo problema. Non era solo in quel posto, lo sapeva anche lui, dato che aveva la sua sgualdrina preferita lì tra le tante persone, da quando erano arrivati Bodie sembrava essere tornato in vita grazie a loro. Ma la verità era che a Shia mancava Shane e Aloysius (anche se la player non sa scrivere il suo nome) e non perché avevano quel legame che li univa, ma si poteva dire che il suo vero amico, avevano condiviso per mesi una cella e i dolori del cambiamento; non lo aveva riportato in vita (letteralmente) solo perché era il padre della sua sgualdrina preferita, gli voleva davvero bene a quello stronzo. Oddio da quando era così sentimentale. Nonostante la lontananza quel legame era ancora prepotente. Ed era sicuramente colpa dell'amico se si sentiva così depresso, neanche si riconosceva da quanto era giù di morale, neanche l'alcool riusciva a tirarlo su di morale, e ne stava bevendo davvero molto, con tanto di sbornia. Erano la da quanti mesi? Oramai erano quattro ed era inutile pensare che passato il primo, quel posto sarebbe poi diventato casa perché si sbagliava, quella situazione era solo una brutta vacanza e non sapeva neanche quando sarebbe finita.
    Guardò l'ora annoiato, di lavorare non se ne parlava, quella piantagione se la stava cavando benissimo anche da sola, lui al contrario non stava bene e la miglior cosa era stare all'ombra dell'albero e morire lentamente; erano solo le due e mezzo del pomeriggio quasi e lui aveva giù una bottiglia di birra, proprio come il suo Al. Poi qualcosa cambiò in quel di Bodie, Cj arrivò con una grande notizia, c'era Rea in uno specchio? O in un vetro. Ok non aveva ascoltato davvero le parole del ragazzo ma alla parola Hamilton gli si illuminarono gli occhi e come il resto del gruppo si recò alla grandissima reggia, in poche parole in una casa abbandonata. Una meraviglia insomma. Si guardò intorno con una discreta noia, non c'era nessuno d'importante come ad esempio Shane; che non fosse stato interessato a lui? Probabile, anche se lui ci sperava ancora nel suo interesse, avevano condiviso qualcosa ( non chiedete cosa, rimarrà un mistero). Si avvicinò, lentamente facendosi spazio tra le persone, se avesse voluto li avrebbe uccisi tutti all'istante ma per loro fortuna non aveva voglia e il potere soprattutto sembrava essere assopito da quando beveva; stava iniziando a capire davvero i due Crane.
    Poi vide Maeve, la bionda strana che se la faceva con Al, che fossero insieme? Sicuramente. Una volta nel mezzo, notò Swing che parlava con due sosia dai capelli diversi, anche loro avevano dei bei capelli e non li aveva toccati, davvero che avevano di magico gli orientali? Poi posò gli occhi sulla bionda, era ingrassata o incinta? Era di Al per caso? Dove aveva trovato il tempo per farlo eh? quel ragazzo procreava più di un coniglio, doveva insegnargli qualcosa. Che poi non fosse del Crane lui non poteva saperlo e alla fine non era un suo problema, aveva altro per la testa al momento. «Ehi bionda. Sei con Aloysius? Sta bene?» chiese con una strana ansia, cioè sapeva che non era morto, lo sarebbe stato anche lui, ma aveva bisogno di sapere se era ancora in forma, per quanto un Crane poteva esserlo, bastava guardare quella sgualdrina di Run per capire che avevano dei seri problemi a rimanere in vita #wat. Ma on lo vedeva in giro ed era leggermente preoccupato per il suo amico; già potete non crederci ma l'Hamilton non era così freddo come voleva mostrarsi e a qualcuno voleva bene. Non era circondato da amici, anzi il contrario probabilmente li poteva contare sulle dita di una mano, ma di sicuro ci sarebbe stato Al.
    Poi Rea, la sua bellissima cugina «Sono tornati gli altri? Shane è tornato?» sapeva che alla mora non gliene poteva fregare assolutamente niente del ragazzo, ma tentar non nuoceva a nessuno, doveva chiedere e sperare che fosse vivo o che stesse bene ovunque lui fosse in quel momento.

    non voglio essere un Contadino
    27 y.o
    #Fatemitornareacasa
    1917
    Ci ricorderanno così
    insieme e felici



    Che schifo ahah ignoratemi...
     
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    Ci voleva davvero un grande quantitativo di coraggio, nonché una pazienza non indifferente, per sopravvivere alla vita di Bodie. Dopo cinque mesi, Gemes Hamilton di tanto in tanto ancora si ritrovava a chiedersi se ad infondergli quella smisurata tolleranza nei confronti degli altri fosse davvero l’intervento divino: non aveva effettivamente preso i voti, né il suo animo era mai stato così nobile da potersi elevare quel tanto che bastava a sfiorare i dogmi ecclesiastici che, in teoria, avrebbero dovuto santificare gli abiti talari che era obbligato a vestire ogni fottutissimo giorno, ma forse Dio (o chi per essi) aveva deciso di chiudere un occhio. Forse, dalla nuvoletta sulla quale sedeva prendendosi gioco delle loro vili vite terrene, aveva capito quanto fosse insostenibile tutta quella farsa, ed allora aveva ben pensato di dargli una mano.
    Cazzate, naturalmente; momenti di blanda debolezza come quello lo facevano pentire persino di essere nato in un mondo che, com’era ovvio agli occhi di tutti, non lo meritava: mai, in tutta la sua esistenza, il telecineta aveva ritenuto opportuno riporre nelle mani di terzi le proprie decisioni. Nemmeno tutta quella messinscena poteva fargli credere che il proprio fato fosse stato stabilito da altri – per quanto, buon Dio, avrebbe decisamente preferito evitarlo. Ogni cosa che accadeva nel corso della propria vita era merito, e di rado colpa, suo: senza ombra di dubbio una reazione a catena non preventivata e difficile da immaginare se non la si viveva in prima persona, ma che in ogni caso era nata da qualcosa che lui aveva fatto.
    Tuttavia, doveva riconoscere che la resistenza con la quale si costringeva a non spezzare l’osso del collo di ciascun californiano con cui si ritrovava a dialogare amabilmente, o che veniva a confessarsi nella sua chiesa senza previo avviso, non gli apparteneva: in un altro tempo, in tutti i sensi possibili ed immaginabili, quella sarebbe diventata una città fantasma ancor più in fretta del previsto – nonostante, secondo alcuni, già lo era da tre anni. Non era nemmeno merito di Run o di Eugene, quello: era abbastanza certo che anche i due avrebbero avuto difficoltà nel non avere pensieri omicidi (e suicidi) in quel paese, se avessero vestito i suoi panni. Voleva credersi, voleva illudersi, di essere entrato davvero nell’ottica del gioco; si ripeteva che un attore per quel tipo di commedie lo era sempre stato, il migliore che il regista potesse ingaggiare, e che stesse semplicemente recitando la sua parte; si convinceva che, alla fine, si era abituato. Si era abituato a tutti i sabati sera in cui era costretto a celebrare l’ennesima messa, a tutte le domeniche mattina che gli facevano ripetere la stessa litania del giorno precedente, a tutte le confessioni scabrose degli abitanti peccaminosi; si era abituato alla mondanità del passato, alle piccolezze, allo stantio odore che ogni oggetto sembrava emanare; si era abituato a salutare facce sconosciute, a sorridere sempre un po’ più sincero a quelle poche alle quali si sentiva di donare quel piccolo gesto; si era abituato alla vita di padre Abraham Shaw, così tanto da non saper più quand’era il parroco e quando il vero sé stesso.
    Ed a volte, era vero. A volte, credeva di essersi davvero assuefatto a quella nuova vita, tanto da farsela andare bene – tanto da non odiarla, non odiarla, perché per piacergli gli ci sarebbero voluti anni che non aveva intenzione di passare lì; anni che probabilmente non sarebbe riuscito a passare lì.
    Solo a volte, quando con un pretesto o l’altro la famiglia Shaw sedeva allo stesso tavolo senza un vero motivo per essere lì, nonostante ciascuno avesse voglia di essere altrove. O quando dopo aver annunciato che la messa era finita, poteva prendersi del tempo per sé e sgusciare nella sala parrocchiale, imbandita di enormi bacheche in cui, santo cielo, ancora voleva credere di aver ragione di guardare, quasi la soluzione prima o poi decidesse di apparirgli di sua spontanea volontà. O quando padre Shaw bussava alla porta dei più grandi proprietari terrieri di Bodie, con scuse che tanto nessuno aveva bisogno di sentire per presentarsi lì; quando, silente e calmo, metteva piede nella magione, e dietro l’uscio richiusosi poteva spogliarsi degli abiti talari in un ambiente più amichevole. Quando quelle vesti giacevano sul pavimento assieme a tutte le altre, e nella notte si attardava nella camera patronale di Martha Fay.
    La realtà, però, era che Gemes Hamilton era solo stanco - così tanto, da non voler più sprecare fiato e forze con stupida gente bigotta ed insulsa. Era arrivato al punto che la sopportazione aveva superato la poca pazienza che gli era stata concessa alla nascita: forse era per quello, che riusciva a trattenersi così tanto dal non sospirare ad ogni naso soffiato e dal non rigirare gli occhi nelle orbite ad ogni nuova parola interrotta dall’ennesima crisi di pianto isterico.
    Forse era per quello che, alla villa dei Carter, si era portato dietro il Villalobos.
    A dire il vero, ed era una qualità che l’Hamilton apprezzava molto in Floyd, il colombiano aveva una sfera emotiva poco più ampia di un calzino sgualcito: entrambi peccavano in maniera imbarazzante di empatia nei confronti della perdita che gli americani avevano subito solo due giorni addietro, ma almeno il biondo ci credeva di più. O almeno così diceva ogni volta che, nonostante sapesse che Gemes non era un vero fottuto prete, tentava di elemosinargli una confessione. Quel giorno, il ventisettenne aveva colto la palla al balzo: con il puntuale arrivo dell’amiko di suo figlio durante la celebrazione del funerale, era stato inevitabile spostare l’evento - inevitabile per la casta del duemiladiciassette; ai Bodiotti, naturalmente, non fregava un cazzo e volevano continuare con la sepoltura ma indovinava chi decideva quando cazzo chiudere la bara? Abraham fottuto Shaw, esatto. Questo, tuttavia, aveva comportato oneri che il parroco non poteva denigrare.
    Come, appunto, il decidere una nuova data, lo scusarsi per l’inconveniente, la consolazione per l’empio gesto compiuto dal figliol prodigo dei Simmons… insomma, una marea di cazzate spiritual burocratiche di cui Gemes avrebbe volentieri fatto a meno.
    Ragion per cui, era sceso a patti con il panettiere: si era detto abbastanza certo del fattoche Nostro Signore lo avrebbe assolto da tutti i suoi peccati, se avesse fatto un’opera di bene.
    «signora carter…» l’Hamilton si schiarì la voce, emulando il sorriso più dolce che ben s’addiceva al viso beato di un vicario di Dio: gli venne più semplice, immaginandosi mentre sbatteva la testa della donna e del marito, ripetutamente e fino alla dipartita dei due, contro il basso tavolino di cristallo che separava divani e poltrone del soggiorno. «ah!, se solo quel bastardo figlio di una sgualdrina russa non avesse profanato la tomba del mio Tom!!» chiuse gli occhi, le spalle abbandonate contro lo schienale della poltrona e le dita della destra a premere sulle palpebre. Era la decima volta che insultava il ragazzo, e la decima volta che il marito annuiva silenzioso prendendola tra le braccia. Una scena commovente, se solo all’Hamilton fosse fregato un cazzo di Tom Carter; anzi, più continuava ad insultare uno dei loro, più si sentiva incapace di promettersi di rimanere quieto. «signora carter, la prego» nonostante il consueto tono deadpan del Villalobos, Abraham decise di osservare la sua tattica di far star zitta quella megera. Il mimetico aveva ben pensato di sporgersi in avanti, prendendo con moderata forza le mani della donna tra le sue: Gemes dovette trattenere il sorriso, quando notò la smorfia ad arricciare il naso e le labbra di Floyd mentre si prodigava in un tale atto colmo di amore per il prossimo.
    Che schifo. «siamo davvero dispiaciuti per l’inconveniente» non lo erano; anzi, lo avevano trovato tutti molto esilarante. «come le abbiamo già ripetuto più volte, ma la chiesa di bodie si assicurerà che domani non accada nulla di spiacevole» ovviamente, Gemes aveva già chiesto ai freaks se non avessero un cazzo da fare l’indomani. In qualche modo dovevano pur divertirsi.
    Questo, altrettanto ovviamente, Floyd non lo sapeva – ma non è questo l’importante. «ora diamoci la mano» si schiarì la voce, il ragazzo, cercando di richiamare l’attenzione del viaggiatore, il quale dal canto suo aveva reputato più interessante la tappezzeria della parete opposta. «così pregheremo per l’anima di tom» ripeté lo stesso tentativo, ma tutto quello che ricevette in cambio fu un’occhiata torva da parte dell’Hamilton.
    Lo odiava. «padre shaw»
    Padre Shaw fece per tirarsi avanti, le labbra strette in un sorriso che di cordiale non aveva nemmeno l’accenno, quando… «oh mio dio cos’è stato»
    Floyd roteò gli occhi verso il soffitto, Gemes si trattenne dal sospirare di sollievo e dire che quella era la sua salvezza. «non saprei, forze i nazisti» così, a caso. «ma è meglio che io vada a controllare. voi due, pregate pure senza di noi»
    «davvero, i nazisti chiese Floyd quando furono usciti dalla casa dei Carter, con un tono d’accusa che al più anziano non piacque. «beh, ci ha liberato dall’inghippo» «??? è il tuo lavoro???» «se hai finito di lamentarti, possiamo andare a vedere cos’ha combinato cj»
    Perché, sinceramente, non aveva dubbi fosse opera sua: gli voleva bene così, sociopatico e sparatutto.

    Nell’introdurre il ruolo di Sunday De Thirteenth, altresì conosciuto in quel di Bodie come Bogdan Aleksej Nikolaj Avksentiy Nazzareno Avksenslov Rasputina-Simmons (in arte, Banana), nel capanno da cui provenivano gli spari, c’erano da specificare alcune cose. Prima di tutto, in vita sua - giustamente - non aveva mai provato l’ostia alla cocaina intinta nel whiskey; in secondo luogo, era ancora pesantemente confuso dal jetleg spazio-temporale: non solo si era spostato, solo mezza giornata prima, da Londra alla California in un battito di ciglia, ma si era apparentemente perso cinque mesi di vita, il suo diciassettesimo compleanno, ed era tornato indietro nel tempo di cento fottuti anni. Terzo: ho già detto che non aveva mai provato l’ostia alla cocaina intinta nel whiskey? Bene, perché fino a dieci minuti prima di sentire gli spari a Westworld ne aveva decisamente abusato, recuperando tutto il tempo perso senza aver mai assaggiato una tale prelibatezza. Già voleva bene a suo cugino, ma diciamo che mantenere alta la concentrazione mentre Barbie si prodigava in mistici racconti balbettanti sulla sua esperienza in guerra non era così facile – e Sandy, a dirla tutta, era uno che si annoiava fin troppo facilmente. Per carità, riconosceva che non fosse colpa del Bitchinskarden se per dire a lui e Shia che la guerra puzzava ma che gli elmetti erano belli – letteralmente: ricordava solo quello – ci aveva messo mezz’ora, però era stato comunque… stressante.
    «COSA SUCCEDE???» ed avrebbe desiderato che la casa abbandonata adibita a rifugio dal Knowles avesse le ante di legno tipiche dei saloon del Far West, così da rendere più scenografica la propria entrata in scena: invece, fu solo confusa – come il grifondoro, dopotutto.
    Si avvicinò alla marmaglia di gente, facendosi largo tra i corpi immobili intenti a studiare un dipinto. Solo quando fu abbastanza vicino, le palpebre pesanti sui brillanti occhi azzurri, si rese conto che quello non era un dipinto, ma uno specchio. Sinceramente, non si stupì così tanto nel vedere gli altri dietro quella che avrebbe dovuto essere una superficie riflettente: devo ripetere che era stato appena protagonista di un viaggio interdimensionale? Ed era fatto, quindi era tutto nella norma. «BARRY??» aveva sentito i suoi amici chiamare il nome di suo fratello, ma sinceramente tra le tante teste a fare capolino dal bagno del tipello non vide quella platinata del Cooper. «testina di merda, dove sei FATTI VEDERE» che si fosse già andato a suicidare? Possibile: sarebbe stato perfettamente in linea con il suo personaggio. Ma lo continuò a cercare, ancora e ancora, sperando di fottutamente vederlo; perché non era nel west side con loro?
    Provò a non pensarci, mentre spostava lo sguardo nello stesso scenario, fino a quando non li vide – ed allora non si trattenne, Ronan Beaumont-Barrow, non ce la fece. «MAMMA, PAPÀ!!!&&» invidiava sinceramente la forza di volontà con la quale i suoi amici avevano evitato di far trapelare le informazioni del duemilaquarantatre, ma d’altra parte si preferiva così. Vaffanculo, probabilmente non avrebbe mai rivisto quelle facce. Forse era l’ultima occasione che gli era stata data, e allora perché non dirglielo? «ma sei scemo?» la risposta, era Sersha Kavinsky. «intendevo:» quello, intendevo fottutamente quello. «MAMMA MIA – credo? boh CIAO» ed in ogni caso, avrebbe avuto la scusa che era fatto.
    «quindi…» Banana piegò appena la testa, osservando il Barrow gesticolare – parlava con lui? «davvero?» alludeva a… quello? «quindi voi due scopate già?» «serscia, ma insomma!» ora: fintanto che era lui a cagare fuori dal vasetto, andava bene. Poteva permetterselo - e non soltanto per mera superbia. Poteva continuare a chiamare William Barrow ed Akelei Beaumont mamma e papà, il sorriso sghembo e gli occhi affilati, eppure dubitava che lo avrebbero preso sul serio. Cristo santo, non lo faceva mai nessuno. Non che gli andasse bene, sia chiaro, ma poteva prendersi la briga di marciarci sopra senza rischiare conseguenze che non aveva intenzione di preventivare. Ma Sersha? Era una piccola cocainomane dalla dubbia integrità (e l’amava follemente per quello), ma già era più… affidabile.
    Lo era sempre stata, Meara. «beh… davvero cosa?» perché , Sandy ancora si prendeva il beneficio del dubbio. «quel piccolo bastardino traditore di un cooper ti ha detto qualcosa?» lo sapremo mai?
    Forse. Nel frattempo, lo sguardo del ragazzo era già scivolato sull’altra parte dello specchio. «oh, santi grigi e rettiliani» (ovvio, la divinità dei De Thirteenth sarebbe sempre rimasta quella aliena: tanto, sempre negli altissimi dei cieli si trovavano, no?) «siete ancora vive, quasi non ci speravo più» la piega delle labbra si fece più sottile, più morbida, nel vedere Fray e Wendy: perché Barry e Sersha potevano essere i suoi veri fratelli, Will ed Akelei i suoi genitori; CJ, BJ, Joey potevano essere la famiglia che non aveva mai avuto bisogno di cercare, tutto ciò di cui aveva sempre avuto bisogno.
    Ma erano le gemelle, ad averlo cresciuto.
    Loro, per prime in quella vita, ad averlo accettato: senza di loro, non sarebbe mai potuto essere quel Sunday.
    E loro, senza di lui, era sicuro sarebbero morte in due giorni – perché sentivano la sua mancanza, naturalmente, ma anche perché… insomma. Erano Fray e Wendy.
    L’avevano sorpreso di nuovo, assurdo.
    «amalie…? Le ho… le ho portato eskild… è c-con voi, giusto? O – è lì? deve…» Sunday voltò lo sguardo sulla cugina, un’ostia allucinogena a penzoloni tra le labbra. Si costrinse a deglutire, a cercare il suo sguardo. Aveva il diritto di rispondere lui a quella domanda? No; sebbene Tessa fosse sua cugina, in quella… linea temporale, i due non avevano avuto dei grandi dialoghi di alcun tipo.
    Eppure in quei pochi giorni si era affezionato alla Shapherd, e lì era stato l’ultimo a vederla. «amalie è… credo sia ancora un po’ impegnata nel sottosopra» si guardò velocemente attorno: nessuno l’aveva ancora menzionato? Che scemi. «sì insomma: siamo finiti prima in una specie di universo alternativo del cazzo dove gli special sono al potere e sottomettono i maghi, ma, ehi!, stiamo tornando» in un certo senso. «insomma, ho visto ieri shapherd e stava una bomba, poi puff, sono finito nel far west. Però è una ragazza in gamba, magari sta aiutando gli altri in difficoltà insieme a dakota» non sapeva essere rassicurante, Sunday. «sta benone, tranquilla»
    Ma almeno ci provava.

    Floyd, in tutto quello, non ci stava capendo un cazzo: era entrato insieme a Gemes, si era affacciato appena nello specchio, ma… lui non c’entrava nulla. Trovò conforto nello sguardo confuso di Barbie, anch’egli apparentemente capitato lì per puro caso, ma non sapeva esattamente cosa fare. «millenials» sospirò, retrocedendo e tenendosi in disparte mentre gli altri proseguivano con le loro chiacchiere. Che, a dirla tutta, al Villalobos la cosa prudeva un po’. Perché per anni, per una vita intera, non aveva mai avuto nulla; non conosceva ancora bene i viaggiatori, si teneva sempre in disparte, ma cristo santo - egoisticamente parlando, era felice fossero stati catapultati nel loro tempo. Era felice, di sentirsi sempre un po’ meno solo.
    Da una parte, il nuovo Floyd era entusiasta di quella comunicazione: magari poteva dare una speranza, magari era uno scorcio di un qualche tipo di… passaggio? Era stato un mago, certo, ma quella era roba futuristica che non voleva ancora capire. D’altra parte, il colombiano avrebbe quasi preferito che quella speranza non gli fosse mai stata data.
    Sospirò, avvicinandosi al Jagger ed odiando un po’ quel suo pensiero. «conosci qualcuno di questi tíos si inumidì le labbra, un’occhiata fugace alle persone concitatamente riunite. «pensi riusciranno a tornare a casa loro?»
    O speri anche tu che non se ne vadano?

    «beh,» biascicò, gli occhi cerulei ad osservare ogni singola figura a sovrapporsi frenetica. «devo dire che l’ha presa meglio di ogni mia più rosea aspettativa» non s’aspettava altro, da Jericho Lowell: fosse stato in lei, avrebbe fatto lo stesso. Li avrebbe odiati, li odiava, e si odiava ancor di più – e sinceramente, nemmeno lui voleva rimanere a guardare quelle figure a salutare con le lacrime agli occhi. Non era fatto per i convenevoli, Gemes Hamilton; non era fatto per dire addio, per abbracciarsi, per quelle sdrucciolevoli parole ad echeggiare in una stanza vuota. Era più facile credere fosse per quel motivo, che non voleva rimanere lì.
    Invece si fece un po’ più avanti, cercando di identificare le facce degli altri. «se non è ancora qui…» arcuò le sopracciglia allusivo, gettando uno sguardo alle proprie spalle. «direi che sta ancora lucidando la criniera dei suoi pony» non ci provò nemmeno, a sorridere a Lydia. Che c’entrava, lui, nella vita di suo fratello? Di certo, non poteva permettersi di parlare al posto suo – però, insomma: non voleva la Hadaway credesse fosse morto. C’era andato vicino, e tanto bastava.
    Posò lo sguardo su di Rea, ma non fu in grado di mantenerlo tanto a lungo: taluni avrebbero definito quel comportamento come un malsano distacco emotivo causato da sensi di colpa ed affetto; l’Hamilton, tuttavia, doveva ancora sviluppare tali concetti nel proprio campo delle emozioni che gli umani accettavano di provare. Per questo, gli fu più facile credere che fosse l’odio a spingerlo a cercare gli occhi più chiari di Idem, l’ombra di un sorriso antico e stanco a sporcare le labbra: era più semplice, credere di odiare la nata babbana per non essere lì, per rendere quel malato legame che condividevano più debole; era più normale, pensare che anche lei lo odiasse per averla lasciata da sola in mezzo ad un branco di imbecilli. Piuttosto che dirsi che le mancava, che gli mancavano tutti, preferiva ammantarsi di astio e rancore comune. «pensi davvero mi sarei arruolato per qualcosa che potesse portarmi a diventare un prete, idem?» e nonostante fosse serio, per un attimo Gemes sorrise genuino alla Withpotatoes. Era semplicemente impossibile non farlo, con lei.
    «vi aspetto a casa, okay?»
    Fino a che possibile, non lo era più.
    20.04.1918 • h. 14:30 • bodie • But you will remember me for centuries
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    bodie, CA | 20.04.1918
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    «Let me hear you say, this shit is bananas.» Sandra era giunto da poco in quel posto dimenticato da dio, ma già possedeva una spundtrack tutta sua, privilegio del quale il ragazzino non sembrava affatto essere grato. Jayson comprendeva le sue occhiate truci, senza comunque fare nulla per alleviare il fastidio che Sandy sicuramente provava, scaraventato nell'assolata Bodie pre-estinzione: il Freak aveva perso qualcosa, come tutti loro. E dopo cinque mesi di quella vita priva di scopo, a Jayson Matthews non fregava più il cazzo delle sofferenze altrui, fossero anche quelle di un gruppetto di bambinetti cresciuti troppo in fretta loro malgrado. Aveva provato qualcosa per loro, sotterrati insieme nei cunicoli bui di Salem, lacrime a rigare i volti sporchi di sangue e sudiciume, ma quel sentimento era andato seccandosi nel cuore del telecineta come qualunque altro mai assaporato prima. Non poteva più permettersi di sentire qualcosa, se quel qualcosa finiva per lacerargli il cuore impedendo ai polmoni di funzionare come avrebbero dovuto.
    Lo faceva per se stesso, egoista di merda, in nome di una sopravvivenza ogni giorno più sopravvalutata.
    « B-A-N-A-N-A-S!» deadpan, occhi fissi sul tavolo in mogano, mentre le ultime quattro carte calavano sul ripiano simili ad un'aquila sulla preda: tris di re e una nel mucchio degli scarti. «eeee ho chiuso.» Erano lacrime quelle che si intravedevano negli occhi del Leroy? «non avevo ancora aperto, bestia!» E Jayson, in arte Myles fottuto Shaw, lo aveva capito sin dal principio che l'amico non sarebbe mai riuscito a trovare i quaranta punti necessari per scendere; glielo si leggeva in faccia, quando iniziava ad accumulare carte cambiando continuamente la posizione delle stesse. «paghi cento e sei fuori. Banana?» Il jolly tra le mani di Sandy parve quasi ridacchiare, mentre il diciassettenne sospirava facendolo ricadere sul tavolo insieme ad un 2 di cuori. «tanto lo sanno tutti che i millennials barano.» Un dejavu potente, quella conversazione. Che per Jay si era interrotta nell'istante in cui aveva recuperato il suo cappello dall'appendiabiti di casa Simmons e se l'era filata alla chetichella, come spesso gli capitava di fare: non rimaneva mai troppo a lungo in un posto, mai oltre il tempo massimo prestabilito in compagnia dell'unica famiglia che gli rimaneva. Perché i loro sguardi, i sorrisi sinceri, le mani poggiate con naturalezza sulle spalle, non facevano altro se non aumentare l'ampiezza di quel cratere che gli bucava lo stomaco, impossibile da sanare. Ci aveva provato, ma invano. La mente tornava sempre lì, alle persone lasciate indietro, alle parole non dette, ad una vita mancata; una vita che, con il senno di poi, Jayson Matthews avrebbe certo apprezzato di più, e di cui sarebbe stato grato.
    Un'altra possibilità sfuggitagli tra le dita prima ancora di accorgersi di averla.

    «è come avere un cane»
    «ma dai, sono diversi»
    «mh...il cane forse l'avrei preferito... e poi mangia decisamente più di un cane»
    «Non mi piacciono i cani, puzzano. Anche Toothy, in effetti»

    Fino a quel momento, Myles aveva giustamente optato per tenersi fuori dalla discussione, il busto reclinato all'indietro e braccia incrociate contro il petto. Avrebbe potuto dar loro un consiglio, sottolineare come l'idea di adottare illegalmente un orfanello fosse del tutto folle ed irrealizzabile a lungo termine, invece le labbra del telecineta erano rimaste ben sigillate dal momento esatto in cui Tooths aveva messo piede per la prima volta in casa Simmons; dopo tutto, quella non era casa sua. Jayson ci passava la maggior parte del suo tempo, quando il bisogno di condividere aria con un altro essere umano diventava impellente, ma non gli apparteneva. Niente, tranne forse il sangue a scorrere nelle vene di Gemes Hamilton, gli apparteneva più. Forse nemmeno quello: suo fratello aveva Run a cui pensare, qualcuno con cui condividere il dolore del quale il ventunenne sembrava non riuscire a liberarsi. Ammesso lo volesse ancora. «cos'hai contro l'odore di sterco, Leroy?» un unico commento, giusto per rendersi partecipe prima di tornare ad osservare fuori dalla finestra, oltre i vetri opachi bisognosi di una bella ripassata e tanto olio di gomito. Ci guardava spesso attraverso, il telecineta, a volte con un Toothless arrampicato sulla sedia accanto a lui, il visetto incollato alla superficie trasparente e occhi troppo grandi intenti a capire cosa ci fosse di tanto interessante dall'altra parte; non glielo poteva spiegare, Jayson, che in cuor suo sperava sempre di vedere il paesaggio cambiare, mutare e dissiparsi come un sogno finalmente pronto a lasciare spazio alla realtà. Ma la strada rimaneva quella, polverosa e assolata, i campi di barbabietole distesi a perdita d'occhio, il campanile della chiesa stagliato all'orizzonte. Cristo - nel vero senso della parola -, odiava tutto di quel fottuto posto.
    La voce di Archibald si perse sotto il frastuono del portone spalancato all'improvviso, ed il tonfo misurato di un piccolo sedere che impattava contro il pavimento sbalzato dall'eccessivo entusiasmo con cui Aidan Woody Gallagher pensò bene di fare il suo ingresso in scena; non era la prima volta che il ragazzo si precipitava in quel modo a casa Simmons, reagendo in modo estremo a questo o quell'avvenimento («IL GRANDE GATSBY!» «cos-» «[high pterodactyl screech] È IL MOMENTO DEL GRANDE GATSBY!!»), ma nel caso specifico aveva una buona ragione. Jayson quasi non si era accorto degli spari, la mente persa in chissà quale pensiero depresso di morte e perdizione, ma bastò quell'ultimo rumore improvviso a riportarlo con i piedi per terra.
    «Cosa cazzo è stato.»
    E lo chiedeva a lui?

    Se la stava facendo sotto.
    Jayson Matthews, Myles Shaw del vecchio mondo, tremava da capo a piedi, un brivido incontrollabile di paura allo stato puro capace di scuoterlo dall'interno con la potenza di una scarica elettrica; al pari della letale 220, gli entrava nel cervello e percorreva l'intero corpo fino alla punta dell dita, senza riuscire a scaricare a terra. L'adrenalina rimaneva lì, nel sistema circolatorio, andata e ritorno verso il cuore senza via d'uscita.
    E non poteva fottutamente muoversi.
    Gli stavano tutti davanti, un grappolo di persone divenute la sua unica famiglia in un mondo sconosciuto e dimenticato, spalle e teste chinate in avanti, occhi spalancati e fissi su qualcosa che non poteva davvero esistere. Aveva aspettato un momento simile per mesi, il telecineta, e adesso che ci si trovava nel mezzo era pietrificato; incapace di farsi strada, reclamare la sua parte, assimilare quanto più possibile i tratti mai dimenticati delle persone lasciate indietro e di quelle che certamente lo avevano creduto morto. Non lo sono. avrebbe voluto solo urlare. Sono vivo, lo giuro, sono qui, non ho mai smesso di pensare a voi. E non lo aveva mai fatto, nemmeno per un istante: si svegliava ogni mattina ricordando il sorriso lieve di Lydia, quella fossetta appena accennata all'angolo destro della bocca, passava ore sfiorando con la mente le innumerevoli volte in cui Stiles gli aveva fatto venir voglia di imparare a svenire a comando, e quelle in cui lo sguardo omicida di Xav li aveva fatti sentire legati ben oltre ad inutili parentele. Si addormentava con loro, la voce di Nathaniel e quella di Elijah nelle orecchie, le pacche sulle spalle che Aloysius gli riservava nei momenti difficili - aka sempre.
    «jay?» bastava quello.
    «se non è ancora qui… direi che sta ancora lucidando la criniera dei suoi pony»
    Che testa di cazzo, Gemes Hamilton. Non poteva ammetterlo pubblicamente, esponendo i propri sentimenti più di quanto non avesse già fatto quando entrambi erano convinti di morire, ma arrendersi con se stesso a quel punto era inevitabile: gli voleva bene. Satana mi perdoni, lo amava proprio. Come si fa? Come se ne esce da un casino simile? Qual era il modo più semplice e rapido per tornare ad odiarlo provando rancore e repulsione spuntati dai recessi della sua memoria danneggiata? Era facile e, soprattutro, indolore. Amare qualcuno, di questo Jay aveva avuto prove sufficienti, richiedeva troppo impegno, fatica immensa e nessuna ricompensa. «con tutto rispetto, Padre Shaw, vaffanculo.» sentì la tesione che gli aveva paralizzato le gambe sciogliersi, mentre già compiva qualche passo avanti, la mano destra a posarsi sulle spalle di chi gli stava di fronte per prendersi finalmente il suo spazio. Il suo momento. Non era pronto a guardare attraverso lo specchio, posare finalmente lo sguardo sui volti sbiaditi riflessi nel cunicolo spazio-temporale, ma lo avrebbe fatto comunque; poteva essere l'ultima occasione, per ogni cosa.
    «credevo..» che non ti avrei mai più rivista. che sarei morto, ricordando i tuoi occhi fino all'ultimo istante. Non era mai riuscito a formulare una frase intera, il Matthews, soggiogato da quelle iridi simili a radure incontaminate, il verde intenso che aveva scandito i momenti migliori della sua vita. E i peggiori insieme. Li avevano affrontati entrambi, li avevano affrontati tutti dal primo all'ultimo, e quello sguardo in cui perdersi ancora e ancora non lo aveva mai abbandonato. Lui, a lei, un milione di volte: contro la propria volontà, per codardia, perché lo esigeva il destino, quando Lydia ne aveva più bisogno. Eppure stava lì di fronte agli occhi di un Jayson terrorizzato all'idea di vederla svanire da un momento all'altro, sempre pronta a sussurrare il suo nome. «non lo so cosa credevo. Lydia? Avrei dovuto fare qualcosa, ma--» ma cosa? A nessuno di loro era stata concessa una scelta, tranne forse quella tra provare a sopravvivere o lasciarsi morire. «non sono stato capace.» concluse, ma mano destra allungata timidamente verso l'immagine riflessa della Hadaway, dita sospese ad un soffio; immobili, perché lo sapeva in cuor suo di non poterla toccare. Lo sapeva, che erano ancora soli, nonostante le forme tanto familiari da sembrare quasi vere, tangibili. «mi dispiace, tanto.» gliel'aveva già detto? Esistevano troppe cose per cui Jay, e prima ancora Frederick Hamilton, doveva chiederle perdono. Troppe anche solo per tenere il conto. Avrebbe potuto aggiungere che la amava, ma non lo fece. Che almeno quello - almeno quello, Lydia lo doveva già sapere; non voleva suonasse come un addio, anche se quello sembrava, a tutti gli effetti.
    «1918, uh? sembra carino» Aveva deciso di darsi la possibilità di amare Gemes Hamilton come un fratello, il Matthews, tenendo fede al patto di sangue stretto da due bambini ancora innocenti in un'altra vita, ma di rifiutare il legame con Stiles Stilinski non gli era mai stato concesso: nemmeno quando credeva che allontanando il fremello, tenendolo a debita distanza, i dubbi e le paure sarebbero scomparse; nemmeno quando credeva ancora fosse lui la causa dei suoi incubi, e non l'unica cura. Con un battito di ciglia le iridi caramello si posarono sul ragazzo, le labbra piene premute con forza tra loro ad impedire un singulto, il verso strozzato appartenente ad una voce non sua. «una meraviglia. aidan sostiene il contrario, ma praticamente è come nel far west.» dai, lo era. Cavalli, saloon, pannocchie danzanti e spettacoli di cabaret, arbusti che roteavano per le strade, lo scenario perfetto per un film spaghetti western con Clint Eastwood. «ti piacerebbe. so che non dovrei dirlo, ma.. vorrei che fossi qui. non distolse lo sguardo da Stiles, non quella volta, un sospiro a raddrizzare le spalle cercando per un istante oltre quelle del fremello. «e anche xav. però non dirglielo. dov'è lo stronzino? daisy e atlas stanno bene?» magari non sembrava, ma anche Jayson aveva delle priorità.
    La famiglia, alla fine era sempre la famiglia.

    oh, i always let you down, you're shattered on the ground. but still i found you there, next to me


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    Mads era confusa. Insomma, sì che tutti i viaggiatori del 2017 (!!!!) (duemilaediciassette, non so se mi spiego) la confondevano semplicemente respirando e avrebbe preferito forse mai scoprire della loro esistenza, vivendo trulla trulla nella sua ignoranza, ma quello, tutto quello - dagli specchi, alla gente e com'era vestita, alla stanza completamente bianca e in simil ceramica... - era semplicemente... troppo. Non era certa di poterlo sopportare.
    Si portò la mano al viso, massaggiando come nella speranza di far sparire il mal di testa, come aspettandosi che riaprendo gli occhi, PUFF! tutto sarebbe apparso più chiaro. Non funzionò, ovviamente.
    "Ci vestiremo così, nel futuro?" una smorfia nel guardare la mise di chi stava dall'altra parte dei vetri, chi commosso, chi solo stranito come lei (bella lì, almeno non era la sola a chiedersi che cazzo stesse succedendo); non sembravano abiti molto pratici, e i colori sgargianti di certo non aiutavano nella mimetizzazione... per non parlare di quanto dovevano essere costati a chissà quanti lavoratori. "Sempre che ci siano ancora, i lavoratori. Magari le macchine hanno sostituito la forza lavoro ?????????????" insomma, dopo 200 anni chi lo sa l'uomo cosa sarebbe riuscito a fare?? (ma anche solo dopo 100: a quanto aveva capito, nel 2017 il mondo era parecchio avanti, e avevano delle minuscole scatoline che permettevano alle persone di avere a portata di mano la conoscenza su qualsiasi argomento) Chissà se la guerra era finita, chissà se dedicare la propria vita ad una causa aveva dato i suoi frutti e c'era ancora il comunismo, se la rivoluzione si era allargata a tutto il mondo e ora vivevano tutti in pace. Chissà se fra quelle persone c'erano suoi parenti lontani, o di Dimitri, o di Lev.
    Aveva un sacco di domande, alcune di cui poteva immaginare la risposta (qualcuno sapeva come si era aperto il varco? Potevano entrarci, e tornare al loro mondo?), e altre meno scontate (lei poteva entrarci e andarsene da Bodie, scappando definitivamente ai suoi persecutori?). Cavoli, era difficile essere senza magia in quel mondo. e arianna era presa bene per scrivere altro, aveva davvero le idee e sciocca lei che ha fatto prima heather, ma sua madre è arrivata minacciandola non di morte ma quasi QUINDI la finiamo qua. Almeno mads, in un angolino appoggiata ad un muro a braccia conserte, c'è, e osserva in silenzio #cos #perchè scusate STRATEGIA!
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    20/04/2118 | 14:30 forse
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    Edited by parrish‚ - 1/5/2018, 12:23
     
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    Lo capite subito che c'è qualcosa di strano; un fischio fende l'aria, acuto e sottile come fosse nella vostra testa (ma non è così), dopodiché è questione di attimi. Infida unità di misura, l'attimo. Non hai tempo di comprenderlo, che è già concluso. Lo specchio sembra flettersi verso di voi, gonfiarsi come il cuore di una creatura preistorica a pompare sangue denso come miele nell'organismo. Tu-tum, Tu-tum. Inutile cercare di uscire: provandoci, scoprirete che siete bloccati in quell'angusta stanza rettangolare - in quel bagno, in quel salotto diroccato. Non a Londra, però: lì le immagini arrivano semplicemente distorte, una linea di comunicazione disturbata. Lo specchio non accenna alcun movimento.
    Voialtri potete ancora vederli quasi chiaramente, i superstiti del 2018. Potete ancora osservare le loro bocche muoversi, le loro mani tendersi senza sfiorarvi - e la pressione aumenta, ed il fischio diventa sibilo, ed il pulsare della parete diventa impossibile da ignorare.
    Smette d'improvviso com’è iniziato, e davanti a voi è buio.
    Laddove il Presente aveva bussato alla porta della vostra realtà, non c'è più nessuno.
    Non c’è nulla.
    Potete incrociare brevemente gli occhi dal futuro e dal passato, sopracciglia corrugate mentre, invano, cercate di arretrare: perché è buio, e non dovrebbe. Perché è vuoto, e non potrebbe.
    Perché nulla rimane vacante a lungo
    (questione di equilibrio)
    ed ormai lo sapete.
    Un secondo, o forse solo mezzo, in cui il silenzio si fa quasi viscoso nelle orecchie.
    Poi la parete esplode verso di voi.

    Non che si tratti realmente di un’esplosione, ma così, a primo acchito, appare: qualcosa - qualcuno - sfreccia dalla parete con un agile balzo, atterrando con un ginocchio a terra e l’altro piegato sotto di sé, alle vostre spalle. Solleva un paio di cristallini occhi azzurri, l’unica parte visibile del suo volto che non sia celata dietro un passamontagna, verso di voi. Il caschetto rosa pastello pare estremamente fuori luogo, in quel dì Bodie. Schiaccia qualcosa, qualcosa di azzurro e luminescente, sul pavimento: non potete ancora saperlo, ma ha appena neutralizzato ogni genere di magia all’interno della bettola. «via.» è il suo unico commento accompagnato da un rapido cenno con il capo.
    E spera davvero che seguiate il suo suggerimento, perché i cinque secondi successivi colgono una sagoma - un grosso animale? - scura, coperta da una sostanza viscosa e nera, perforare la parete dove poco prima avete visto gli altri per scivolare molle al suolo. Schiantandosi contro il muro opposto, stride sul legno sollevando una nuvola di polvere. Dal foro d’entrata della bestia, lo specchio, giunge il suono ritmato di piedi calzanti un paio di tacchi; qualcun altro entra in scena, le mani a battere fra loro per liberarsi di cenere e sangue. «ma tu pensa che modi.» sbuffa annoiata una voce femminile, una voce familiare, avanzando all’interno della stanza. Porta i capelli, un castano ricco e brillante, raccolti ordinatamente sulla nuca; una camicetta ancora impeccabile spicca in tutto il suo biancore sotto la giacca scura ed elegante poggiata distratta sulle spalle, pantaloni morbidi e del medesimo colore a scivolare come inchiostro sulle gambe sottili.
    «guess who’s back», strimpella una voce lontana. Lei passa il pollice sotto il labbro inferiore sistemando una sbavatura del rossetto porpora, quindi solleva pigramente l’indice verso di voi. «frankie ringhia piano, passando da una mano all’altra un solitario sai. «back again» Non vi guarda ancora mentre, a palpebre dischiuse, studia il povero e blando ambiente che vi circonda; conficca uno stiletto nel fianco ormai immobile della creatura, e con un suono umido estrae l’altro sai.
    È questione d’istanti e battiti di cuore.
    «frankie è quasi back» le corde di una chitarra a stridere più vicine, a vibrarvi nelle orecchie, ed una voce trattenuta fra i denti ad ansimare. «TELL A FRIEND» ed allora appare, le cosce abbarbicate attorno al corpo di un’altra Bestia, lo strumento musicale ancora stretto fra le braccia ed una giallo-nera cravatta a tenere indietro ribelli capelli castani. «guess who’s back, guess who’s back» rimane piantato sulla creatura senza accennare a volerne scendere, ignorando lo sguardo di biasimo della ragazza con i Sai, ed i ridenti occhi chiari di quella con la chioma color bubble gum. Ignora anche voi, per inciso: stava suonando (-cit).
    «guess who’s back, g-woo» i sai tranciano al volo il ventre della Bestia dalla forma felina, ma non ne esce alcuna goccia di sangue. Il ragazzo viene sbalzato via, ed atterra malamente poco distante.
    Quando si rialza, gli occhi scuri nascosti dietro un paio di lenti da sole rotonde, solleva verso di voi quella che si rivela essere un’arma. Istinto, sapete. «porca merda,» sbotta d’un fiato Franklyn Cobain, bocca spalancata in direzione di un simile, troppo simile, Barnaby Jagger; i tre nuovi arrivati si trovano ora l’uno affianco all’altro, armi spianate per mera precauzione. «avevi ragioni, g-kee» e GKee abbassa il passamontagna rivelando un sorriso allegro, prima di stringersi modesta nelle spalle. «come sempre.» Jericho Lowell inarca un sopracciglio facendo guizzare lo sguardo da Frankie a voialtri. «se avete finito di fare…» ed una diversa, troppo diversa, Heidrun Crane, gesticola nell’aria con la punta dell’Uzì. «…qualunque cosa stiate facendo,» rotea gli occhi al soffitto, uno sguardo fugace e bollente sui suoi compagni. «gkee, frankie» un ghigno le piega appena le labbra, mentre i due ragazzi alzano un braccio accennando un saluto. «roy» una mano al petto ad indicare sé stessa, una piega ironica sulla bocca. «ora dobbiamo parlare.»

    Dieci minuti prima.
    «perché siamo qui?» CJ Hamilton, mani abbandonate nelle tasche della mantella nera, inarcò un sopracciglio verso Franklyn Cobain. Il Tassorosso, la divisa (come sempre.) in disordine ed i capelli castani ancor più caotici, si strinse nelle spalle. «saltiamo un giorno di scuola?» sottolineò la sentenza graffiando le corde della chitarra appesa al collo. Era il venti aprile duemiladiciotto, e la vita era… strana da mesi, ormai.
    Seth era impazzito. La sua già sottile sanità mentale era andata completamente allo sfacelo, ed il severo Capo di Stato era diventato semplicemente sadico - un sadico folle; per intenderci, a metà Gennaio aveva riunito tutti gli studenti con un’insufficienza in Poteri Fisici, e li aveva soffocati sotto cumuli di macerie. A Febbraio aveva costretto famiglie estratte casualmente di Londra a sterminarsi a vicenda. Non gli importava neanche più se ad essere trucidati fossero Indegni (i maghi), Scelti (coloro che avevano acquistato un potere nei Laboratori) o Eletti (coloro che special, c’erano nati).
    Non c’era più alcuna gerarchia. Solo caos.
    Il primo marzo, aveva decretato i Medium una razza pericolosa: quelli che aveva trovato, li aveva sterminati tutti. Il quindici, alla lista s’erano aggiunti i Chiaroveggenti; il venti, era stato il turno dei telepati e di qualunque mago o strega ancora in grado di praticare l’antica arte della Legilimanzia. Il loro non era mai stato un mondo perfetto, ma era stato ordinato: la legge era dura, ma era la legge.
    Qualcosa era cambiato. Erano arrivati loro - quelli dell’Altra Parte. Seth credeva che oramai chiunque, perfino i suoi fidati collaboratori da anni, non fossero parte di quel mondo – ed uccideva a vista, lui. Gli bastava schioccare le dita. Schioccare le dita. Qualche anima già sulla gogna aveva detto loro che Seth aveva paura; che aveva avuto una Visione – che sarebbe morto per colpa di qualcosa che non era giusto fosse lì.
    Non poteva permetterlo. Lui esisteva da secoli.
    «intendevo al carrow’s. so perché siamo qui, cobain» masticò a denti stretti, intrecciando le dita dietro la nuca. Non riusciva ancora a credere, l’Hamilton, di essersi fatto trascinare in quella storia. Di essere diventato un ricercato; che la sua pelle – la sua limpida e perfetta pelle chiara – fosse ora screziata dai tagli rosa delle volte in cui Seth aveva voluto un bersaglio vivo: comodo usare un CJ Hamilton incapace di sentire alcun male ( insensibilità congenita al dolore con anidrosi), non si lamentava mai quando i coltellini sferzavano la carne e ivi rimanevano incastrati. «non hai letto il messaggio? Tipico.» Billie Dallaire, occhi chiari circondati da lividi cangianti, indossava ancora la divisa da Quidditch dei Blu Bronzo. Per puro principio, CJ non guardò il proprio telefono; per pura testardaggine, il Dallaire gli sbattè sotto il naso il proprio: «gi ha scritto a tutti. il portale dovrebbe aprirsi…» sospirò, una mano ad aprirsi e chiudersi. «…in giro» concluse, strappandosi un sorriso a metà. Non che il (la.) Dallaire non fosse entusiasta di poter fare finalmente qualcosa, figurarsi; odiava quel mondo da tutta una vita, e quando aveva avuto una concreta possibilità di cambiare le cose, era stata fra le prime ad unirsi alla Resistenza, sempre che così potesse essere chiamata. Ciò che lo (la.) turbava, era il non essere riuscito a prepararsi in tempo. Poteva anche essere stata maledetta con un dannato pene, ma in cuor suo era ancora la ragazza che passava ore ed ore in bagno ad agghindarsi prima di uscire – quindi scusate tanto, se aveva le balle girate. Che senso aveva vedere il futuro se poi non davi ai tuoi compagni di squadra un maledetto, dannatissimo, preavviso? Normalmente la questione non l’avrebbe turbata, ma - «siete arrivati» - ma. Il cuore le si sciolse in una pozza d’amore e adorazione, quando incrociò gli occhi color cioccolato di Andy ”Tre” Stilinski. Aveva una cotta platonica per l’inglese espatriato da quando era stato uno dei più giovani, e fenomenali, giocatori dei Quiberon Quafflepunchers. Talvolta credeva di volerlo sposare, altre di farsi adottare come figlia. Dipendeva dalla giornata. «eravate gli ultimi» Bells (Billie. Loro) si sentì morire. Chinò lo sguardo sulla punta dei propri piedi, tornando a volare solamente quando la mano di Stilinski gli si poggiò sulla spalla. «mentre non c’eravate abbiamo fatto le squadre.» Le squadre? Andy annuì, un sorriso luminoso che le ammorbidì l’anima. «e se osate fallire» le bastò il tono per capire che, uh-uh, non voleva sentire. Non comprendeva perché fra i tanti lavori esistenti al mondo, suo fratello e la sorella del suo migliore amico dovevano per forza avere dei maledetti Laboratori dove giocavano con le vite degli altri come fossero state loro. Vendere giornaletti porno su internet non andava più di moda? «vi troverò.» non ebbe bisogno di aggiungere altro, grazie a Dio - anche perché non aveva davvero idea di come concludere la sentenza, Roy. La sua fama era decisamente più crudele (scelta di marketing, facciamole causa?) della reale Heidrun Harvelle: mantenerla su un piano ideale era semplice, ma dovendo scendere nel concreto… meh, gli avrebbe tolto internet per una settimana? Gli avrebbe scuoiato la famiglia? Non sapeva quale delle soluzioni potesse essere ritenuta un esemplare ed equa condanna. Magari avrebbe fatto un sondaggio su Instagram.
    Comunque. «dovrebbe mancare poco» Gkee strinse fra i denti la manica del maglioncino, un’occhiata nervosa al Parco. Era pieno di famiglie in gita, ma riusciva a riconoscere i profili dei ”ribelli”: mentre loro avrebbero attraversato (forse. Molto forse. Avevano il 45% delle possibilità di fallire – okay, 72. Non aveva detto agli altri quanto poco fosse certa delle sue visioni: quando si mostrava ottimista e sicura, gli altri tendevano a crederle abbastanza da rendere quel futuro concreto) i portali, gli altri si sarebbero occupati di…controllare il perimetro, ecco. Disperdere le tracce, cose così. Saltellò sul posto, il cuore a mille nel petto. Fare le squadre era stato quasi (quasi) semplice: Billie, Andy e CJ parlavano francese, quindi avrebbero dovuto cercare il Portale per la Francia (o…beh….quella che credeva fosse la Francia, e che pensava si trovasse nel…futuro? Quisquiglie) mentre lei, Roy e Frankie, si sarebbero occupati dell’Altro Portale (di cui…non….sapeva nulla, ad essere onesti. Poteva essere il far west quanto una Roadhouse od un Old Wild West del 3072 dopo Cristo); tutti gli altri sarebbero stati nei dintorni pronti ad intervenire se le cose fossero andate male, o a recuperare i possibili (ostaggi? Alleati? Li aveva visti in entrambi i modi, quello dipendeva da loro) compagni quando fossero rientrati. Lineare, giusto? Una meraviglia. Un piano impeccabile.
    ….Al…38%, sì, ma quel 38% era perfetto.
    «voi andate…lì, sì, lì» indicò un tendone poco distante. «noi dobbiamo andare…là» si avviò verso il retro della ruota panoramica. Si volse verso gli altri ancora sorridendo, Jericho “Gkee” Lowell, pollici sollevati nella loro direzione: «ci siamo tutti?»
    Sì, c’erano tutti.
    Comprese le Bestie di Seth, che proprio in quel momento schizzarono verso di loro a fauci spalancate.

    «si chiamano -»
    «- variopinti draghi dell’ammazzonia di seth»
    «no, i -»
    «- maestosi pezzi di tenebra provenienti da un universo dove il catrame ha bocca con cui parlare ed i delfini parlano cinese»
    «f r a n k l y n.» Frankie alzò un sorriso verso il Portale opposto mimando di serrarsi le labbra con una ZIP. Aveva lasciato spiegare la situazione a Roy ed Andy, occhi a scivolare costantemente sull’orologio temendo un precoce arrivo dell’ora X. Aveva imparato più cose sul loro mondo in quel sunto che vivendoci per diciott’anni, assurdo. Non che fosse riuscito a rimanere attento per l’intera (lunghissima. Infinita. Ben quattro minuti e mezzo) spiegazione, quando mai; non soffriva di ADHD, era semplicemente… così, Frankie. Pigro, principalmente. Se non si parlava di lui, che senso aveva ascoltare? Guardava il far west e pensava alle costoline con salsa barbecue. Guardava Barnaby Jagger e si chiedeva se fosse solo una sua impressione, o se apparisse come la sua (brutta) copia, seppur invecchiata (male). Guardava il soffitto e si chiedeva se Goku, in quel preciso momento, avesse bisogno della sua energia.
    Insomma, era un ragazzo impegnato. Con quel lanciafiamme nascosto dentro la chitarra stretto fra le mani, era credibile quanto un t-rex con un mazzafrusto.
    «segugi di seth.» concluse la Harvelle in tono piatto, fremendo di una rabbia al quale Frankie era avvezzo da quasi sei anni – ed al quale era oramai impermeabile. «quanto rimane?» la domanda fu diretta all’altra parte, un fugace sguardo agli occhi del(la? Era ancora confuso in merito) Dallaire. «poco più di cinque minuti»Tsk? «cinque minuti e trentun secondi» specificò distratto, osservando le proprie lancette. «trenta» scrollò la chitarra spara fiamme. «ventinov-» «poco.» lo mise a tacere il suono sottile e vibrante della voce di CJ; l’Hamilton non lo stava guardando, gli occhi sempre fissi sugli altri. Lui sì che era un ottimo soldato. Un Frankie sarebbe morto subito, se Roy non avesse fatto abbastanza (paura.) sul serio per entrambi – anzi, per tutti e tre. Gkee continuava ad appoggiare l’assurda idea del fronte francese sul fatto che le armi non fossero necessarie: «collaboreranno» continuava ad insistere, gli occhi a sfiorare il profilo della mimetica. «fidati» quando mai Heidrun Harvelle si era fidata di una Lowell?
    Sempre, dannazione. Ma in quel frangente, non poteva rischiare. Non così, non dopo tutti quei mesi.
    Non quando stavano azzardando il tutto per tutto. Aveva perfino impugnato un Uzi per mano: minor precisione, ma indubbiamente più potenza di fuoco. Il fatto che loro non potessero usare i poteri, non significava che fossero innocui (malgrado il suo primo caustico commento fosse stato: «questi sono contadini, lowell. Dove sono i soldati che mi avevi promesso?»). Le facevano senso, in quegli abiti da poraccy. Le sembrava una di quelle iniziative in cui talvolta, per pura immagine, veniva incastrata dalla Caritas per andare alla mensa dei meno fortunati a servir loro sbobba incolore ed insapore. «tu diglielo. vedrai» perseverò la Bic Rosa, il labbro inferiore morso fra i denti.
    Non voleva vedere. Voleva che muovessero il loro culo da cowboy, perché lei non aveva tempo da perdere. «abbiamo i vostri compagni» iniziò cauta, sillabando piano ogni parola. «possiamo…» inspirò dalle narici. Non avrebbe mai completato la frase, se Gkee non avesse ritenuto necessario colpirla con una gomitata alle costole. «…aiutarvi a tornare a casa.» ed in caso quegli incentivi non fossero bastati - ah, finalmente si passava alla sua parte del piano preferita! Sorrise di un sorriso che alla Lowell piacque poco, gli occhi cerulei della chiaroveggente a cercare quelli di Stilinski nel Futuro. «oppure» oh, no. Perché doveva sempre fare così? Non aveva seguito i corsi che la Lowell le aveva consigliato sul gestire le proprie emozioni?
    «posso crivellare la metà di voi. non mi servite tutti» evidentemente, no. Gkee si trattenne a stento dal spalmarsi la mano sulla fronte, un verso strozzato in gola. «né interi, a dir la verità» puntellò l’arma contro la carne dei più vicini senza mai abbassare la guardia. «quanto, ancora?»
    «heidrun, non -» «chiudi quella cazzo di bocca, stilinski. non è uno dei tuoi maledetti campionati di quidditch» sibilò, tentata di premere il grilletto solamente perché Stilinski l’aveva infastidita – ma come si faceva a lavorare in quelle condizioni? Santo cielo.
    «due minuti e quindici secondi. Quattordici. Tredic- »
    «dobbiamo attraversare il portale ora
    «per favore. aiutateci»
    «otto, sette -»
    Heidrun non vacillò. Umettò le labbra stanca, nervosa. Non lo vedevano che, buon Dio, nessuno di loro voleva essere lì? Che non avevano avuto scelta?
    «decidere spetta a voi.»
    Almeno, a loro, l’avevano data.
    Che poi non gli piacesse, non era un suo problema.
    this is a war - the phantoms
    When you kill a king, you don't stab him in the dark. You kill him where the entire court can watch him die
    20.04 | h: 15:00
    upside down
    au: duty calls



    //: SURPRISE BITCHES, BENVENUTI UFFICIALMENTE ALLA MINI QUEST.
    – trama. la dimensione alternativa che, sin dal principio, ha diviso il 2018 come un cuscinetto accogliendo le anime disperse di Salem e Beauxbatons, ossia l'universo nel quale avete conti in sospeso, ha bisogno di voi. È scritto nelle stelle, in un disegno da sempre più grande di qualunque Prescelto o Burattinaio: avete cambiato la storia, ed ora il loro mondo sta collassando su sé stesso. Dovete rimediare ai vostri ed ai loro errori; il vostro compito, è quello di riportare l’equilibrio. La giustizia. Sistemare una volta per tutte il Vero Conto in Sospeso di quella realtà. Perché dovreste volerlo? Semplice: in caso la gentile persuasione non bastasse, avete la possibilità di recuperare tutti i dispersi nell’AU, nonché… *rullo di tamburi* scoprire come tornare a casa – la vostra vera casa. Cos’avete da perdere?
    – breve storia upside down. ossia le informazioni di cui avete bisogno per creare il vostro fittizio facente parte dell’AU. Prendete tutto quello che conoscete dell’oblivion, e ribaltatelo. Gli Special esistono da secoli, sia come Mutazioni (quindi dalla nascita) che come Esperimenti; a inizio ‘900 vengono introdotti i primi Laboratori, ufficialmente in uso pubblico da metà del secolo. Il diventare esperimento è un onore, e può capitare in due modi: pagando (rikkanza) come si trattasse di mera chirurgia plastica; venendo scegli dagli Eletti (coloro che sono Mutati dalla nascita ed hanno da sempre un potere) in modo del tutto casuale. La gerarchia è ben delineata: gli Eletti sono al comando, possiedono potere e denaro; la fascia (ossia il bracciale di stoffa che per tutti è obbligatorio portare) che sono tenuti a portare, è di colore viola. Gli Scelti sono uno scalino inferiore rispetto agli Eletti, e la loro fascia è bianca; non hanno privilegi di base come gli Eletti, ma possiedono la più completa autonomia. Gli Indegni, infine, sono i maghi – indifferentemente dal loro stato di sangue; per avere un lavoro dovranno avere un Garante Special che li raccomandi, e la loro fascia è arancio. Scelti ed Eletti frequentano Hogwarts, e qualunque altra scuola magica, insieme agli Indegni; sono state introdotte le materie Poteri Fisici e Poteri Mentali a cui partecipano tutti gli studenti (chi attivamente per imparare ad usare il potere, chi passivamente imparando a difendersi). Come nel nostro oblivion, esiste la Sala delle Torture (ovviamente ad andarci sono, solitamente, gli Indegni – ma, ehi!, le eccezioni sono ovunque). Tutti gli insegnanti Indegni, quindi di materie che richiedono l’uso della bacchetta, sono accompagnati da un Assistente Capo Scelto o Eletto. I babbani non sono a conoscenza dell’esistenza del Mondo Magico. La Francia è più tollerante verso gli Indegni, l’est Europa al contrario è più rigido – l’America, nel dubbio, tende a farsi i fatti propri. Il potere è incentrato in Gran Bretagna, e tutti rispondono ai comandi di Seth (che, come detto, è a capo di…tutto.). In caso di domande, sapete dove trovarci (ad ogni ora del giorno o della notte, SEMPRE.).
    – tempistiche. avete tempo per iscrivervi fino alle 23:59 del 06.05.
    – regole. bando alle fasce PE, siamo ribelli: tutti avranno 15 PA/PD indipendentemente dal potere / reale fascia di punti esperienza. Valgono le solite regole a cui, lo so, siete particolarmente affezionati: (1) l’attacco vale 48 h, dopodiché se non vi sarete difesi né alcuno l’avrà fatto per voi, perderete tanti PS quanti PA offensivi. (2) sono ammesse combo in difesa, ma non combo in attacco. (3) potete fare combo con voi stessi a patto che siano due post differenti. (4) potete scegliere l’arma che preferite, e non avrete le limitazioni su proiettili / granate / quant’altro. (5) se avete ancora pg nell’au (dakota, amalie, jason, ritter & co) potrete iscriverli, ma a) solamente se avete fatto un minimo di cinque post e/o avete indovinato la questione in sospeso b) varranno come pg dell’upside down, non come principali.
    – iscrizioni. qua si giunge alla parte complessa. Potete iscrivere solamente (ed obbligatoriamente) personaggi appartenenti all'epoca 1918 o 2118, ma ciascuno di questi personaggi dev'essere accompagnato da un personaggio facente parte dell'au. Durante la mini quest i personaggi saranno insieme, quindi potrete usare indifferentemente l'uno o l'altro pg. Es: iscrivo Heidrun Crane, devo iscriverla legata Heidrun Harvelle. Non è obbligatorio che il personaggio sia effettivamente lo stesso in entrambi gli universi (né che siano pg con una scheda già fatta: possono essere fittizi, in ambedue i mondi) ad esempio Ari può iscrivere Madeleine come 1918, ma dovrà accompagnarla ad Archibald Baudelaire dell’AU – e poi ruolarli entrambi insieme: varranno come un unico personaggio. In che senso? Nel senso che verrà attaccato Arci O Mads, non entrambi (così come a difendere ed attaccare potranno essere Arci O Mads, non tutti e due). A vostra disposizione ci sono tre (3) gruppi in cui dovrete iscrivere i pg, i quali dovranno essere più o meno equilibrati (e sì, dovrete scegliere a scatola chiusa). All’interno di uno stesso gruppo, varrà come PG vero il player, ossia: se Ari iscrive Madelaine (+AU arci) e Arci (+ au Jade) nel gruppo 1, verrà attaccato solamente uno dei quattro personaggi – ma ciascun personaggio /principale/ avrà un nemico (quindi Ari ne avrebbe due, uno per Mads/AU Arci e uno per Arci/AU Jade) che attaccherà solamente quando il primo sarà morto. Se non avete personaggi nel 1918 o nel 2118… beh, create fittizi, è il vostro momento! Ricordate che non dovrete necessariamente ruolarlo, ad esempio: Eve non ha alcun pg “a spasso nel tempo”, quindi può creare un Ciccio Pasticcio del 2118 ed accompagnarlo ad AU Ringo (il Kook dell’upside down, il quale, anche se per piccoli particolari, sarà diverso dal Kook del presente) ruolando solamente il secondo mentre il primo fa da mero accompagnatore.
    Per iscrivervi dovrete postare in questa discussione. Potete fare un post, oppure rispondere semplicemente sotto SPOILER. Compilate il seguente modulo:
    CODICE
    [color=#334E58]<b>&#10141; nome pg (principale):</b>[/color] (1918/2118)
    [color=#334E58]<b>&#10141; nome pg (bonus):</b>[/color] (upside down)
    [color=#334E58]<b>&#10141; gruppo:</b>[/color] (1 / 2 / 3)
    [color=#334E58]<b>&#10141; armi:</b>[/color] (scegliete quella che preferite, può essere diversa da un pg all'altro)
    [color=#334E58]<b>&#10141; sei pronto ad accettare le conseguenze?</b>[/color] (certo che sì / ovviamente)
    [color=#334E58]<b>&#10141; incoraggia i tuoi compagni:</b>[/color] (ossia campo a caso ed assolutamente non necessario)
     
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    «porca» «m-merda» era indubbiamente il commento più adatto alla circostanza. Avrebbe dovuto rimanere scioccato dal Portale, Barbie; dalla Power Ranger Rosa, dalla Bestia o dalla Heidrun versione classy. Barnaby Jagger, nato nel lontano milleottocentonovantaquattro, avrebbe avuto almeno (almeno) un centinaio di motivi per rimanere a bocca spalancata e gola secca, occhi strabuzzati e cuore immobile dietro le costole, ma solamente uno fu quello che lo portò oltre il proprio limite di tolleranza, strappandogli infine una colorita esclamazione. Fece perfino, perfino!, un istintivo passo avanti, le dita a stringersi frenetiche sul braccio del povero (ma neanche troppo) Floydito. Quando si rese conto dell’oltraggio verso il suo cucchiaio d’empatia preferito, lasciò la presa ed alzò la mano in segno di scuse: voleva bene al VillaBolleBlu, ma di tanto in tanto nei suoi occhi leggeva una certa interpretabile vacuità morale che avrebbe potuto significare chissà come ti starebbe bene un rastrello nei denti quanto chissà come saresti karino con il velo nuziale che lo faceva sinceramente temere per la propria virtù incolumità.
    Ne erano capitate di cose strane, assurde, nella vita di Barbie: aveva partecipato ad una missione per salvare il mondo, scoperto di poter guarire da qualunque ferita, fatto la pipì a testa in giù senza orinarsi addosso ed aveva visto il tentato accoppiamento fra un’oca ed un piccione (ah poi beh, sì, certo, erano apparsi dal futuro dei mistici soggetti fra cui sua madre), ma quello superava ogni sua possibile immaginazione. Perché, ceerto, avrebbe potuto essere una coincidenza; non sarebbe stato così strano che il suo egocentrismo gli mostrasse qualcosa che, effettivamente, non c’era, ma dubitava di essere così megalomane da essersi inventato la propria somiglianza con Frankie. Anzi, non somiglianza: Frankie era maledettamente identico al sedicenne Barnaby Jagger. Neanche se fosse stato suo nipote avrebbe potuto ereditare i medesimi, identici, tratti – credeva? Non conosceva davvero la biologia, tutto poteva essere. Corrugò le sopracciglia cercando gli occhi scuri del ragazzino, notando (con immenso disappunto) che lui fece lo stesso; si spostò nervosamente una ciocca di capelli dalla fronte, imitato contemporaneamente dal mini Barbie. Le cose erano due: o lo stava prendendo per il culo, o «sei s-strafatto anche t-tu?» perché oh, si sapeva come fossero i Millenials. La situazione sfuggì in breve da ogni minima parvenza di controllo - in così breve tempo, che Barbie a malapena se ne accorse: perdonatelo se s’era un attimo distratto, considerando che aveva tre (3) genitori su quattro (4) ad un palmo dal naso e bonus sé stesso (perché dai, era chiaramente un mini Barnaby) nel pieno dell’adolescenza. Così, quando giunse il «posso crivellare la metà di voi. non mi servite tutti», si sentì … confuso, non avendo seguito lo scambio di battute fra loro nuovi…amici? No, forse non erano amici. Meh, erano armati, ma che significava? Anche CJ si era presentato armato come un soldato bambino del Bangladesh, eppure era diventato il figlio dello stimato (ma mai quanto don Rodrigo, sks) padre Shaw. «per f-fare c-che» sperava in un po’ di sano decoupage, ma aveva come la sensazione che non fossero interessati a piatti dipinti e lanterne di carta. «per f-f-f-f-f-f-are c-c-c-c-che»
    .
    In che senso. Cosa stava succedendo. Aprì la bocca turbato, gli occhi scuri a cercare Shelly: lo stava davvero, davvero, sfottendo per le balbuzie? Con quale – con quale…«sei s-s-serio.» Frankie spinse il labbro inferiore all’infuori, petto gonfio d’aria e sopracciglia arcuate. «s-s-ei s-s-s-s-s-s-serio?»

    Sì, dannazione. Certo che era serio. Che razza di domanda era? Lo vedeva forse ridere? «non hai sentito quello che hanno detto?» lo accusò, puntandogli direttamente contro il lanciafiamme. Barbie si strinse nelle spalle, e Frankie imprecò a denti stretti: ma porca paletta per cani, neanche lui aveva seguito. Non aveva idea di cosa avessero detto gli altri, di conseguenza non sapeva quale risposta fosse…politicamente corretta. E se gli avesse fatto spoiler? Non aveva neanche ascoltato quel che Roy aveva esplicitamente detto loro di non dire, quindi figurarsi – e sapeva che se avesse sgarrato…niente, Heidrun non gli avrebbe mai fatto del male, però non era un buon motivo per fare continuamente il cazzone ingrato. La Harvelle era o non era l’unica famiglia che Frankie avesse? Era. «allora sono cazzi tuoi» rispose quindi facendo spallucce. Nella vita di Franklyn Cobain, era un po’ la risposta a tutto – il suo jolly. «g-g-grazie t-tante» vabbè, ma se le andava chiaramente a cercare. «p-p-p-p-p-pp-p-pre» «S-S-SMETTILA» «S-S-S-SMETTILA»

    «SENTI R-R-RaGaZzInO» puntò un indice nella direzione di quell’ingrato nano psicopatico ed avanzò di un passo ritrovandosi ad abbracciare la canna dell’Uzi di Run 2.0. «…c-c-come sei b-bello» rettificò (onesto, perlomeno) alzando un pollice in direzione di Frankie. «decidere spetta a voi.» a Barbie decidere non piaceva, e sicuramente gli piaceva ancor meno quando non aveva la più pallida idea di quali fossero le sue scelte, ma nei quasi ventiquattro anni di carriera come Nulla facente, era ormai certo che «n-non so se me la s-sento» fosse la risposta per eccellenza a (più o meno) qualunque domanda. «codardo» Frankie lo osservò abbassando le lenti scure degli occhiali, un sorriso giovane e particolarmente incline al suicidio (per forza, o Barbie non se lo spiegava) sulla bocca. Non ricordava di essere stato un così «p-p-piccolo p-pezzo di m-merda» alla sua età (e invece lo era stato), e soprattutto non riteneva corretto che uno sgagnetto del duemilastaminchia desse a lui, eroe di gUErRA!, del codardo. «c-come osi» Non che avesse tutti i torti: non era propriamente un vigliacco, il Jagger, semplicemente non… vedeva perché dovesse sbattersene il belino di altri sociopatici viaggiatori del tempo. Non erano un maledetto problema suo, neanche se a supplicarlo erano gli occhioni azzurri di mamma ed a tentarlo il sorriso morbido di papà. Perché avrebbe dovuto interessarsene? Rischiare di perdere tutto, poi?
    Sì che non aveva un cazzo, in realtà, ma contava il pensiero. Moriva dalla voglia di battere una pacchetta sulla spalla a tutti, stringere poi le mani fra loro e, in un sibilo, salutarli e ringraziarli per la compagnia. Barbie non era più l’emozionato ragazzino che si lanciava in situazioni troppo più grandi di lui, aveva imparato la lezione a sue spese: quindi, grazie tante, ma – aspetta.
    Aspetta.
    Perché gli altri si stavano muovendo. Cosa facevano. Stavano…sul serio?
    «m-ma voi d-dove andate?»
    Cioè. Lo stavano abbandonando? Lo stavano facendo sul serio? Non gliene fotteva mezzo testicolo che Shelly lo reputasse codardo, ma non poteva certo permettere ai suoi amiki di andare a visitare un universo alternativo (…perché era quello che dovevano fare, né? O era ancora aperta l’opzione centrini fatti a maglia?) senza di lui. Se CJ faceva il KAZZONE come al solito, significava che Pepito, Banana e Ken (la sua Ken!) l’avrebbero seguito, e Barnaby Jagger non<s> aveva un cazzo da fare e si annoiava poteva permettere che i suoi giovani sociopatici si lanciassero all’avventura senza un adulto responsabile a far loro da baby sitter. Mai.
    Quindi: «f-f-floyd, t-tocca a te» con tanto di spintarella al VillaBrillanoLeStelleNelCielo. No? Sì? «D-DAI V-VA B-BENE HO C-CAPITO.»
    Che sbatti la vita.
    «E PORKY PIG è NEL TEAM UPSIDE DOWN.»
    Che culo.



    barnaby "barbie" jagger
    Up, down, but the world keeps spinning 'round and 'round
    I see this place ain’t big enough for me
    I want you to take me away
    I don't like the music other people tend to share
    Hate your loser lyrics, middle fingers in the air
    1918 vs au 2018
    healing (x) factor
    1894's | 2001's
    upside down: frankie cobain



    ➝ nome pg (principale): barnaby jagger
    ➝ nome pg (bonus): franklyn cobain
    ➝ gruppo: 3
    ➝ armi: mazza chiodata | lanciafiamme
    ➝ sei pronto ad accettare le conseguenze? sempre.
    ➝ incoraggia i tuoi compagni: NON SI MOLLA UN C-C-CAZZO

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