We are not alone

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    only illusions are real

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    bodie - 20/04 H.14:30
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    Do you see something real
    Accade di rado, ma accade.
    Qualcuno le definirebbe coincidenze, un peculiare ed ironico intersecarsi di eventi che nulla hanno realmente a che vedere l'uno con l'altro; slegati come palloncini al vento, e quei qualcuno a riderne quando questi, troppo vicini al sole, fossero infine esplosi con uno scoppio sordo ed asciutto. Casuali: perché la vita era tutta un susseguirsi di casualità, dicevano; perché i legami erano fili impiastricciati di zucchero dalle mani di bambini che volevano si legassero fra loro, che ne sforzavano le traiettorie come strette strade scavate nella sabbia per le biglie.
    Accade di rado che due persone, nel medesimo istante, dicano la stessa identica cosa: probabilità, avrebbero sussurrato i cinici. Coloro che al Caso credevano come in un cuore pulsante, perché il libero arbitrio era l'unica certezza della vita, compagna al tanfo già amaro della morte che perseguitava l'uomo dalla nascita. Non esisteva il Destino - non c'era posto, per il destino.
    Accade di rado che due alberi vengano colpiti da due differenti fulmini nello stesso momento. Accade di rado di sollevare lo sguardo ed incontrarne un altro, strappando un pezzo di vita e la cicatrice di un sorriso dalla vita di un perfetto sconosciuto.
    Accade di rado che due orologi rotti scocchino l'ora esatta in contemporanea, nel placido ma irrequieto incedere di lancette arrugginite. Accade di rado di guardare i numeri rossi sulla sveglia nell'esatto momento in cui scatta il minuto. Accade di rado di alzare la testa al cielo intercettando una stella cadente.
    Eppure quella stella, la possono vedere in centinaia - in migliaia. E può capitare, può capitare, che nello stesso momento vi sia un'altra stella cadente a centinaia di migliaia di chilometri di distanza - che siano gli occhi di un emisfero opposto a vederla.
    Oppure che si alzi la testa al frullare delle ali di un corvo, può capitare anche quello. Per il fischio della lavatrice del vicino al piano superiore.
    Qualcuno guarda il cielo e vede un aereo; qualcuno guarda il cielo e vede una nuvola; qualcuno guarda il cielo solo per domandarsi come possa essere così incredibilmente azzurro. Nello stesso istante in cui lo fate voi, può farlo chiunque altro: perché accade di rado, ma accade.
    Solitamente, si tratta puramente di una coincidenza. Di una casualità. Di statistica e probabilità.
    Ma talvolta, no.

    Nulla pare accumunare i tre, i cento, protagonisti di questa storia. Nessuno avrebbe mai potuto pensare che il loro solo, miserabile, filo, potesse un giorno qualunque di una vita qualunque di un tempo qualunque trovare la propria via di fuga incastrandosi fra le crepe della realtà; nessuno avrebbe compreso come avessero potuto superare ogni barriera razionale, ogni ostacolo di senso compiuto - od il perché. Era bastato un istante, un quarto di battito di cuore, perché s'annodassero fra loro. Un insieme di coincidenze a costruire fallaci castelli di sabbia che non in quella vita, né in quella dopo, o quella dopo ancora, avrebbe mai avuto basi solide con le quali reggersi.
    Ma era bastato un istante. Una debolezza nel tempo e nello spazio. Accadeva di rado, ma accadeva; fragilità delle barriere colte come brividi, il sentirsi osservati senza alcun motivo apparente. Vi è mai capitato? Di sentirvi osservati, ma essere soli. Di sentirvi sfiorare, toccare - eppure non c'è nessuno. L'avete mai provata quella spiacevole ed inspiegabile sensazione che nel buio della vostra stanza non siate gli unici? O quando chiudete gli occhi, capita anche così. Ci avete mai pensato che, aprendoli, il mondo a dispiegarsi davanti al vostro sguardo potrebbe non essere lo stesso? Vi ha mai sfiorato, l'idea? Anzi, non l'idea.
    La percezione. La consapevolezza di quanto tutto sia fragile e sottile, di quanto poco conosciamo della realtà. Accadono di rado, momenti del genere - ma accadono.
    Il vuoto allo stomaco di un deja vu.
    Il ricordo a cui non lasciavate spazio da troppo tempo.
    Il sorriso al nulla; le lacrime a bruciare gli occhi di un dolore sconosciuto.
    Momenti del genere tendono a scivolare troppo in fretta. Guizzano fra le pieghe di coscienza ed incoscienza, di realtà e sogno, passato e presente. Ma capita, e capita, che qualcuno, per caso o per fede, ci si aggrappi più del dovuto. Che il filo s'inceppi incapace di tornare al proprio gomitolo. C'è bisogno di un insieme di fattori considerevole, senza dubbio; c'è bisogno della giusta emozione, della giusta disperazione, del medesimo vibrante odio a rimbalzare da una corda all'altra. C'è bisogno di una certa luce; di una certa cedevolezza emotiva.
    C'è bisogno di perdere tutta la speranza. C'è bisogno di quel pezzo di sé che non si scambia facilmente al mercato nero.
    C'è bisogno di un segreto.
    Due segreti.
    Tre segreti.
    Ed allora il filo si inceppa, e nodo su nodo crea un ponte.
    Due ponti.
    Tre ponti.
    Sfiorava l'impossibile. L'inconcepibile. Sfiorava un livello di armonia disarmonica che l'essere umano non era progettato per comprendere: ci si impazziva, di perfezione. E forse per questo, funzionò.
    Perché loro non erano perfetti. Perché i loro amici, le loro famiglie, i loro sogni ed i loro incubi, non erano perfetti.
    Perché il loro mondo, non era perfetto.
    Ed allora, un po' di quella perfezione non sua, poteva permettersela. Per poco - per meraviglia, per orrore. Per la sua intrinseca impossibilità d'essere.
    Accade di rado che -
    Il fiato corto. La fronte premuta sullo specchio, il fiato a condensarsi sulle labbra. Il cuore a pizzicare le costole come corde di un violino. E quella domanda, sempre la stessa. L'unica che non vorrebbero porsi, l'unica così patetica da disegnare sulle loro labbra quel che potrebbe essere scambiato per un sorriso:
    Perché
    Perché
    Perché


    Un verso di gola, forse una risata. I pugni a chiudersi, a scivolare sulla superficie dello specchio cercando appigli, cercando un motivo per non andare in pezzi - loro, lo specchio. Quella particolare sfumatura dell'iride che non mostravano mai a nessuno, che del colore - verde, bruno, azzurro - ha perso ogni traccia ed ogni memoria. Quell'odio che solamente loro, potevano capire e capirsi: quello accumulato come polvere ad indurire i propri tessuti rendendoli stopposi ed antichi sotto i denti. Quello che talvolta soffocava, e che a sua volta veniva affogato con altro: alcool, sangue, pelle e carne.

    Il cercare conforto nel contatto freddo sotto i polpastrelli, la guancia. Le preghiere a Dio di fare qualcosa - di toglierglielo, quel senso di apatico torpore; quelle domande a cui nessuno poteva rispondere, così banali da risultare tristi nella loro infima semplicità. Non sanno neanche loro chi stiano pregando; per cosa, stiano pregando. Se ci sia ancora qualcosa che ne valga la pena - se loro siano ancora qualcosa per cui ne valga la pena. Il senso di perdita, era il peggiore. Quelli da raggomitolarcisi, da quanto si facevano sprezzanti della loro astrattezza e rompevano le ossa nel petto: devi toccartelo, lo sterno, per assicurarti sia ancora intero. E poi stringertela, quella mano al busto: per orgoglio, per principio. Perché nessuno dovrebbe avere il potere di rendere il battito cardiaco così scellerato e poco guardingo, così stupido ed insensibile, men che meno
    Io
    Io
    Io


    La rabbia, a sostituire l'odio. L'impotenza. Il riconoscere la debolezza come propria ed il non volerla, il non saperla, accettare: la gola secca, allora. Arida di quel singhiozzo di cui non si sapeva il nome. L'aggrapparsi ad ogni cosa
    La superficie scheggiata dell'armadio
    Il ripiano di marmo
    L'ancora umido lavandino nero
    Pur di cancellare l'inebriante, tossica, sensazione di
    Vuoto
    Vuoto
    Vuoto
    Il rompersi regolare ma non ritmato del respiro in brevi rantoli
    Sbagliato
    Sbagliato
    Sbagliato
    Loro, per una volta. Quando sono da soli, possono permetterselo: possono guardarsi in faccia odiandosi, infuriandosi, agonizzando nel riflesso dei propri miserabili occhi. Possono lasciare le labbra a ricadere severe sul mento; possono serrare le palpebre senza aver paura, perché sanno che di nemico ne hanno solamente uno
    .

    E che i segreti vadano nascosti in bella vista, lo sanno bene. Un altro rantolo, risata o singhiozzo od entrambi. Il primo colpo, esattamente al centro di quel segreto. Quasi a saggiarne la superficie,
    La testa
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Sfiorano la superficie dello specchio una prima volta, un bisbiglio a farsi opaco
    Fra la polvere
    Nel buio
    Nel fumo
    Ed infinito sulle loro bocche: il segreto, il nemico. L'incubo, il perché. Un secondo colpo, questa volta più necessario della volta precedente; e
    La fronte
    Il manico di una spazzola
    Le nocche
    Preme più forte, più urgente, gonfio e tronfio dal colpo precedente. La bocca continua a muoversi, per vizio o virtù od entrambi. Per rimuoverlo ed esorcizzarlo. Non possono fare a meno di domandarsi
    Perché
    Perché
    Perché
    Il mondo li abbia resi così, loro che così non lo erano; se fossero migliori, peggiori. Se fosse stato proprio d'obbligo. Si chiedono
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Cosa non va in me
    Mentre un altro colpo segue il secondo, ed un terzo ed un quarto. Mentre una
    Crepa
    Crepa
    Crepa
    Si apre un varco sibilando minacciosa, ridendo di loro - di loro che non capiscono, sempre loro: quei loro così schifosamente
    Umani
    Umani
    Umani
    Hanno problemi diversi. Hanno vite diverse in tempi e luoghi diversi - ma a loro, non importa. Loro, non lo sanno. Ed allora colpiscono ancora, la voce un riflesso ormai incondizionato. Ci si aggrappano, a quell'unica verità; a quell'unico segreto nascosto in bella vista. Quel segreto che sanno tutti, ma non tutti sanno che di un segreto si tratta.


    Lo ignorano o non gli importa. O forse non ci credono, che un Nome abbia potere. O forse ci credono troppo, perché ogni colpo si fa più
    Ruvido
    Ruvido
    Ruvido
    E la crepa non fa che allungarsi, sinuosa ed affascinante come una menzogna. Lo ripetono ancora, ed ancora; lo ricordano a loro stessi, forse. Si giustificano. Cercano un
    Motivo
    Motivo
    Motivo
    O più semplicemente hanno bisogno di sentirselo dire. Di alleviarsi dal peso dell'essere.
    E lo specchio comincia a frantumarsi - la loro pazienza, il loro controllo. Loro e basta. Lo dicono ancora una volta, ed ancora una volta colpiscono.
    Bisbigli violenti di animali in gabbia, sadici carcerieri di sé stessi - il segreto, il nemico.
    Due lettere.
    Tre lettere.
    Cinque lettere.
    Ancora. E sono al limite, e lo sanno.
    O lo ignorano o non gli importa o entrambe.


    Un ultimo bisbiglio. Un ultimo segreto ed incubo e nemico e condanna e redenzione e tutto quel loro che di lì non uscirà mai.
    Un ultimo -


    Accade di rado, sapete.
    Ma accade.

    Sarebbe bastato così poco, così poco, che poteva ancora sentire i polpastrelli fremere dal bisogno di concludere quel che aveva iniziato. Percepiva con distinta nettezza i singulti disperati dell'uomo, i muscoli flettersi e tendersi sotto le sue gambe, il petto contorcersi ripiegandosi contro il suo busto. Riusciva ancora, Rea Hamilton, a sentire il sapore del sorriso a metà sulla propria bocca, una piega delle labbra da sempre fraintesa o capovolta in quel che non era, giustificata e biasimata in miraggi o tragici passati. Glieli perdonavano sempre, sorrisi così. Davano la colpa al tempo, alla luce. Perfino ai propri sbagli, incapaci di vedere sulla bocca scarlatta della mora l'apogeo dell'errore. Rea era troppo bella, per essere la mela marcia sull'albero; troppo irreale per quell'immoralità che non s'addiceva all'astrattismo, impegnata com'era ad essere concreta in sangue e carne scambiata senza luce dei lampioni. Premette il palmo sull'occhio sinistro, sospirò sul polso mentre l'artefatto scivolava liquido nelle pieghe del lungo abito da sera. Sarebbe una menzogna dire che non l'avesse guardato, era un insulso bottone quadrato, o che non l'avesse valutato: doveva tenerlo, venderlo ad un altro offerente rispetto a quello che l'aveva assunta, o il prezzo di partenza del suo cliente era accettabile? Capitava che Rea si tenesse la merce per puro capriccio, o per orgoglio. Coloro che assumevano sicari e mercenari non si rendevano conto di quanto fossero un’arma a doppio taglio: era quindi giusto e doveroso, il minimo, che individui quali la Hamilton li rimettessero al proprio posto d'appartenenza, rimembrandogli che fossero solamente conti bancari. Senza gente ad incassare o prelevare, nessuno si ricordava di quei filantropi; nel loro mondo, un conto valeva l'altro: se non erano disposti a pagare la somma imposta da lei, avrebbe trovato qualcuno altro disposto a pagare di più. Non le servivano particolari coordinate bancarie, quando poteva contare su un intero istituto di credito più che disposto a ricompensarla adeguatamente. Non contavano nulla. Ed ecco perché sarebbe bastato così poco, così poco, per liberare l'umanità dell'ennesimo individuo poco gradito. Jeff Trump, il quale non aveva alcuna parentela con l'eletto presidente degli Stati Uniti, aveva scelto come nome d'arte Donald, denotando una fantasia degna del busto di Art Attack; aveva assunto la Hamilton perché, a suo dire, un certo Tristan Rich possedeva un talismano che gli permetteva di vincere ogni partita a poker. Il sunto di questa meravigliosa ed intrigante storia strappa lacrime, era che Donald non sapeva giocare a Texas Holden ed aveva bruciato i fondi universitari del figlio.
    Che caso patetico, per una professionista come Rea. Che immensa perdita di tempo: era passata dallo stanare ribelli e cacciare esperimenti, a quello. Dov'era il suo brivido? Il lavoro di mercenario era per la Hamilton quello che per altri era l’essere impiegato in una fabbrica di tappi per il dentifricio: noioso. Specialmente in tempi quali il loro, dove il prezioso veniva visto ovunque eccetto dove fosse realmente. Gli aveva portato la merce, Rea; conscia del proprio apparire, aveva usato l’effimera arma che qualche ingenuo avrebbe definito seduzione, e che la Hamilton riconosceva come quel che era: pura e semplice manipolazione. Quando aveva preso posto sul grembo di Donald ed aveva stretto fra indice e pollice il tessuto sottile e serico della sua cravatta, non l’aveva certo fatto perché lo reputava un uomo degno della propria compagnia – e se solo fosse stato meno egocentrico, meno stupido, l’avrebbe capito anche lui. Certo, se fosse stato meno idiota non avrebbe assunto la Hamilton, pagandola perfino fior fior di galeoni, per un incarico del genere: vallo a capire te, il mondo. Ed era lì, in bilico su quell’abisso di potere inebriante ch’era il privare un essere umano della propria vita: aveva bloccato le braccia dell’uomo con le gambe, aveva stretto il nodo della cravatta fino a farlo divenire paonazzo – cianotico. Ed aveva stretto ancora, sedotta a sua volta dall’urgenza con il quale Jeff reclamava ossigeno. Avrebbe potuto ucciderlo: sarebbe stato semplice, naturale. Giusto, perfino. Le avrebbe ridato un po’ della stessa che nell’anno precedente aveva perso come briciole.
    Ma non l’aveva fatto. Si era limitata a fargli perdere i sensi, rifilargli nella bocca dischiusa qualche goccia di pozione obliviosa per fargli dimenticare dell’accaduto, e se n’era andata.
    Non l’aveva fatto. Lasciò cadere lungo il fianco il braccio colpevole - od innocente a seconda dei punti di vista -, la spalla a premere contro lo stipite della porta. Nessun rumore giungeva dall’un tempo sempre rumorosa villa Hamilton, fatta eccezione per il televisore, tenuto a volume infimo, nell’ultima stanza di quel corridoio; ticchettando piano sul pavimento, Rea si affacciò sulla stanza cogliendo i profili addormentati di Soho e, nel lettino al suo fianco, del poco più di neonato River. Erano passati mesi in compagnia, poco piacevole a dirla tutta, del famoso Shanghai Bond, prima che la Hamilton si decidesse a lasciargli in custodia il bambino per ben mezz’ora. Non l’avrebbe mai ammesso con nessuno, ma … non poteva, semplicemente, lasciarlo con qualcuno che non fosse lei. Non sapeva, né voleva sapere, se il suo fosse solo senso della responsabilità, o se ci fosse qualcosa di più - se si fosse affezionata, a quella pallina dagli occhi verdi ed il filo di bava a luccicare sul labbro inferiore. Era una sensazione così estranea alla sua indole, che preferiva di gran lunga incolpare onore, o Elijah o Nate o tutti e tre, piuttosto che accettare l’idea che volesse bene a quel rotolino di ciccia. Deglutì, serrò le palpebre. Si allontanò ancora, i capelli scuri a scivolare sulla schiena lasciata nuda dall’abito, spostandosi per inerzia verso la propria camera.
    Così vuota, quella casa. Per anni aveva creduto fosse quello che volesse, una bolla di quiete dal quale il resto del mondo era esiliato; allora perché?
    Così vuota, quella Rea. Osservò il proprio viso allo specchio senza trovarsi, la bocca una cremisi linea retta e gli occhi liquidi, più morbidi di quanto non li ricordasse. C’era una morbidezza che non le apparteneva; non scorgeva i propri angoli, nella Hamilton che ricambiava la sua occhiata dalla superficie riflettente. Quand’era successo? Dio solo sapeva quanto avrebbe voluto incolpare quei cuccioli troppo cresciuti del Dallaire e l’Henderson; solo il Signore, al quale mai s’era confessata, poteva forse comprendere quanto la Hamilton un poco ci sperasse sempre, di vedere loro nelle proprie iride scure, o nella curva più sincera di un sorriso. Ma lo sapeva, e si odiava per quello, che non era merito né peccato dei due: era lei. Era lei, il problema. Era lei il numero che nell’equazione non le tornava. Un tempo s’era creduta invincibile – il mondo ai propri piedi, la vittoria già a colare oro nel pugno; un tempo non sapeva che qualunque tragedia si svolgeva in più atti, e che sarebbe giunta alla parte dell’opera in cui semplicemente, in quel teatro, non avrebbe più voluto metterci piede. Stanchezza? Delusione? Ne aveva abbastanza. Rivoleva la vecchia Hamilton, quella a cui non importava se suo fratello fosse costretto a vivere a New Hovel; quella che non lo voleva un Amos a prepararle la colazione chiedendole timidamente se avesse dormito bene. Quella a cui non interessava se Nathaniel avesse guardato tutto il giorno in ripetizione Dirty Dancing mangiando vagonate di gelato sotto marca, o se Elijah fosse rimasto tutto la notte a fissare il soffitto pregando che il suo sonno fosse privo di incubi. Voleva essere la Rea Hamilton che non passava, per puro caso, davanti a negozi d’abiti per bambino e, sempre per mera coincidenza, bussava alla porta di Jade ed Euge con un sacchetto infiocchettato fra le mani. Non la capiva, quella Rea. E, soprattutto, non voleva che ogni maledetto giorno il pensiero tornasse a mesi prima, quando seduta al tavolo della cucina aveva letto la notizia dei morti: li voleva odiare perché erano stati troppo stupidi, quello sì. Ecco cosa voleva Rea Hamilton.
    Era il resto, che non accettava. Che non capiva
    Non si era accorta di aver annullato le distanze fra la sé in carne e sangue, e quella all’interno dello specchio; si guardava, si studiava, si annichiliva dietro e dentro una Rea Hamilton che non conosceva. Si respirava, si ingoiava. Si odiava per essere diventata tutto quello che aveva sempre supplicato di non essere. Allungò le dita verso il viso dell’altra, sfiorando guance e bocca. Strinse una mano sul ripiano della toeletta, l’altra ad abbassarsi stringendo il manico della spazzola quasi fosse un’arma.
    Si disse di controllarsi, e si ricordò che non le importava.
    Si disse che non aveva senso. Che era stupido, superfluo, e lei aveva sempre cercato di evitare sia l’uno che l’altro. Ma ne aveva bisogno, lo sapeva. Deglutendo bile e saliva, sentiva la rabbia montare dentro di sé come onde di un mare in tempesta – non voleva rimanerci affogata, Rea.
    22:26
    La fronte contro lo specchio. Rea
    22:27
    La gola secca, le palpebre serrate. Rea
    22:28
    La spazzola a puntellarsi sullo specchio strappandogli un graffio ed un fischio acuto, gli occhi ora socchiusi. «rea»
    22:29
    Un colpo secco ma controllato, le dita a tremare impercettibilmente. Ho tutto sotto controllo.
    22:30
    «hamilton» un ringhio vecchio quanto il tempo, la spazzola a frantumare la superficie lucida e brillante lacerandole appena la morbida pelle del palmo – e quel lieve bruciore a sporcarsi di cremisi, mentre abbassava vile il capo.



    Un movimento colto con la coda dell'occhio, ed aveva reagito prima ancora di poter vedere: aveva recuperato una delle pistole - l'altra era ancora nel vano della doccia - e l'aveva sollevata di fronte a sé, rapido ed istintivo quanto un singhiozzo. Nulla - nessuno - si mosse per un minuto intero, i petti a sollevarsi spasmodici e gli occhi a studiarsi affamati.
    Animali in gabbia che non conoscevano libertà.
    Jamie piegò il capo sulla propria spalla, lo sguardo a saettare incuriosito dall'uno all'altro. Era abbastanza (abbastanza.) certo di non essersi avvicinato a Biancaneve quella sera, ma ehi, il cervello umano aveva un efficiente metodo di proteggersi da sé stesso chiamato rimozione dei fatti spiacevoli, quindi tutto poteva essere. «vi conosco» commentó, l'aspro sorriso alla Jamie a far brillare le iridi turchesi di morbida cortesia. Era un galantuomo, Jameson. Finse che la situazione non fosse esageratamente assurda; che nella sua vita fosse perfettamente normale battere le palpebre e ritrovare, laddove v'era stata una parete, un ampliamento che poco aveva a che vedere con l'architettonica: lo sentiva sulla punta della lingua, il cronocineta, che qualcosa non maledettamente andava, che non era un allucinazione né lo scherzo di qualche buontempone con un perverso senso dell'umorismo. La donna ed il ragazzo di fronte a lui, erano reali - e, soprattutto, quel che aveva loro detto era vero: li conosceva. Il fatto che non capisse come potessero essere lì, era un altro paio di maniche.
    Ma non bisognava mai far sapere a potenziali nemici che non si aveva la più pallida idea di cosa cazzo stesse succedendo. Quindi mantenne saldo il sorriso e la presa sull'arma, facendo scivolare la canna di questa dall'uno all'altro. Ruotò il polso, il muscolo a dolere ed il sangue a scivolare lungo il fianco dal taglio all'avambraccio - non ci fece caso, Jamie. Neanche quando si raccolse sul bordo superiore dell'asciugamano legato in vita fece segno di prestarci attenzione. Abbassò il capo incrociando gli occhi verdi del ragazzino, un opaco senso di déjà-vu nell'appiccicoso ghigno incollato alla bocca. «tu sei -»

    «- uno di loro» completò asettica la Hamilton, senza mai distogliere lo sguardo dal ragazzino. Non c'era nota di dubbio nel tono piatto di Rea, non incertezza nella morsa ferrea delle dita attorno allo spillone - arma improvvisata: in una situazione di emergenza, tutto poteva essere usato come corpo contundente. Uno di loro. Corrugò le sopracciglia e deglutí cercando di trovare... Qualcosa, Rea. Se proprio non un senso, almeno un quarto di risposta sul perché la sua stanza paresse improvvisamente essere diventata un maledetto auditorium. Era accaduto senza che se ne rendesse conto, in un mezzo battito di cuore: prima c'era solo lei, la sua rabbia ed il suo odio a consumarla come un sassolino sulla spiaggia; e poi c'erano stati loro. Non c'era stato alcun preavviso, nessun rumore. Un cupo accumularsi di tensione non dissimile alle orecchie tappate in un viaggio ad alta velocità dentro le gallerie, nulla più - ma poteva anche non avere nulla a che fare con il fatto che le dannate pareti si fossero dilatate. Dilatate? Non era certa che fosse il termine adatto, ma era il primo che la sua mente fosse stata in grado di elaborare. Finestre, si corresse senza battere ciglio. Sono finestre. Li vedeva chiaramente, così com’era consapevole dell’ambiente che li circondava: vedeva le assi di legno della stanza nel quale si trovava il ragazzino, il marmo alle spalle del giovane con l’asciugamano bianco a coprirgli il ventre; poteva quasi sentirne il profumo, muffa e bagnoschiuma al pino. Sangue. Le davano la sensazione che se avesse allungato la mano, avrebbe potuto toccarli. Ma non farlo! Le gridò la sua mente, nella consapevolezza atavica che non dovesse toccarli. Indietreggiò istintivamente di un passo, gli occhi scuri a studiare i tratti taglienti di
    «christopher» le lunghe ciglia scure sfiorarono pesanti le guance, la confusione ed il dubbio a distorcere le labbra in un broncio. Uno di loro. «dovresti essere morto» una deduzione ovvia quanto poco credibile, perfino alle sue stesse orecchie: non aveva mai realmente creduto alle storie apparse sul Morsmordre, poco importava che fossero passati quasi cinque mesi da quando erano spariti. Lui non le rispose, limitandosi ad osservarla scettico a palpebre dischiuse. Rivolse allora lo sguardo sull’altro, e percorse pigramente il profilo scuro dell’arma stretta nel pugno. Si costrinse a sospirare, Rea Hamilton – poteva ancora avere un senso, quella situazione. Umettò le labbra ed aprì il palmo per rilasciare lo spillone, mostrandosi disarmata ed inoffensiva. «rea,» scandì lentamente, gonfiando il petto di un respiro antico. Le parve che la sua voce giungesse da molto distante, rimbombando opaca dalle costole ai denti. Perfino il cuore sembrava aver rallentato la propria andatura, vibrando letargico nel petto. Aprì la bocca e la richiuse, serrò le palpebre e chiuse i pugni lungo i fianchi. «rea hamilton.»

    Non aveva alcun senso. Doveva aver picchiato la testa più forte di quanto non gli fosse sembrato, perché quel che stava guardando, quel che stava sentendo, non era possibile. Aveva il timore che un minimo movimento potesse rompere l’incantesimo, CJ, quindi non si mosse di un millimetro: li osservò e basta, spingendo appena la lingua verso l’angolo delle labbra per raccogliere il sangue scivolato dal sopracciglio spaccato. Non conosceva Rea Hamilton, ma sapeva della sua esistenza.
    Semplicemente, non in quel mondo. In quel tempo. L’irrealtà della situazione l’aveva costretto ad un tale mutismo che non s’era neanche sprecato a correggerla quando l’aveva chiamato Christopher, pur vibrando nell’intimo di un ironico è charlie, ora. L’attenzione riservata unicamente alla donna nella cornice su una stanza che non conosceva, non vacillò neanche quando una risata, sembrava così vicina e concreta, giunse dall’altro interlocutore. Qualcosa in quella risata gli fece contorcere le budella e stringere maggiormente denti e pugni, le unghie già conficcate nei palmi. «jamie» e quindi? Nessuno gliel’aveva chiesto. «jamie hamilton» sia CJ che Rea si volsero nella sua direzione, incrociando il sorriso sbilenco e sfacciato del ragazzo. Si irrigidì per puro istinto, il Tassorosso, sforzandosi di ignorare come il cuore avesse cominciato a pompare nel petto invitandolo ad uscire maledettamente da quella stanza, da quella vita, da quel CJ. Si rese conto che lo stavano guardando quasi per caso; ricambiò la loro occhiata piegando la bocca verso il basso, sopracciglia arcuate ad enfatizzare i sottili occhi verdi. Beh? Credevano forse che si trattasse di un sito di incontri? Cos’era, poi, quella cazzo di moda di presentarsi a pezzi? «cj» rispose sbrigativo per levarsi dall’impiccio di quegli occhi, tentando un cauto ma azzardato passo laterale per avvicinarsi alle finestre: nessun calendario, nessun orologio. «cj e basta» fu un ringhio basso, il capo alzato repentino per sfidare uno qualsiasi dei due a continuare a guardarlo: non c’avevano cazzi loro da fare? Volevano forse una conferma della sua identità? Cristo Santo, era sparito insieme ad una trentina di persone, dubitava che i giornali non ne avessero parlato. Giusto? «che giorno è?» non sarebbe stato il primo a sbottonarsi, CJ: non li conosceva, il che li etichettava automaticamente come pericolo - e non voleva realmente credere che fossero lì, di chiunque si trattasse.
    Perché significava che
    Che qualcosa stava cambiando: non era certo di voler essere lì, quando fosse accaduto.
    «il venti aprile» attese, la vista offuscata. Il cuore batteva così forte da fargli a malapena udire il suo stesso respiro. «duemilacentodiciotto»

    «non è divertente» Jamie non aveva mai immaginato che il suo primo incontro con la sua prozia, sarebbe avvenuto così – anzi, a dire il vero, non credeva sarebbe mai avvenuto punto. Le sorrise cordiale, bello e piatto quanto un dipinto. L’Hamilton la ignorò, perché di lei sapeva: gli Eroi arrivavano tutti dallo stesso anno, il 2018; se l’apparenza e le maschere anti età non lo tradivano, la Rea Hamilton incorniciata dalla camera in pareti di finto legno, doveva avere meno di trent’anni. Anno più anno meno, era plausibile facesse parte della medesima epoca, e tanto bastava a Jamie per ritenersi soddisfatto.
    Era CJ-e-basta, ad incuriosirlo: perché non aveva risposto, non era trasalito. Lo osservava e basta, gli occhi acquamarina a pulsare di un già visto che spingeva i denti dell’Hamilton a scoprirsi in un sorriso del quale era solo vagamente consapevole. «da te?» domandò, zucchero e miele, nel tono basso dei sicari e degli amanti e dei Jamie; il tono figlio di quei discorsi a cui non credeva nessuno finchè non era troppo tardi per fare marcia indietro. Quelli che condividevano un segreto. Subito, CJ non rispose. Lo vide frugare all’interno della bettola nel quale si trovava sollevando nuvole di polvere, assi del pavimento prese a calci fino a rivelare un vano sottostante. Sentendo gli occhi di Rea su di sé, si limitò a stringersi nelle spalle, i pollici infilati fra i fianchi e l’asciugamano; la pistola l’aveva già riposta da un pezzo, ritenendola accessorio superfluo. CJ-e-basta riemerse tenendo una mitraglietta - una mitraglietta - fra le braccia. Anzichè puntare l’arma contro di loro, come Jamie aveva creduto più che plausibile, volse la canna verso l’esterno: «millenovecentodiciotto» e cominciò a far fuoco.

    Rea udì le detonazioni come se giungessero dalla camera affianco. Dovette sforzarsi più del dovuto per non portare le mani alle orecchie, ma non trattenne l’occhiata inviperita verso Christopher. L’iniziale sorpresa aveva da un pezzo lasciato alle proprie spalle la confusione, preferendo il più familiare terreno della rabbia. Il non sapere cosa stesse succedendo stava iniziando a mandarla fuori di testa, ed era a tanto così dal lasciare la camera, ed i suoi poco graditi ospiti, per un più piacevole bicchiere di vino in cucina. «cosa diavolo stai facendo?» latrò, inspirando dalle narici. Con la canna dell’arma incastrata nella cornice di quella che, in tempi migliori, era stata una finestra, CJ le rivolse un’occhiata da sopra la spalla: «scusa, principessa, se nel fottuto far west non funzionano i telefoni» e non le piacque affatto il tono d’ironica sufficienza quasi quanto non le piacque il riflesso di una quasi eguale ira negli occhi chiari. «chiamo gli altri» risposta che le giunse ovattata, dato che lui aveva già distolto bocca ed attenzione dalla sua direzione. Gli altri? «gli altri chi?» si sentì domandare, immobile al centro della propria camera da letto. CJ la guardò di nuovo, gli occhi chiari a saettare da lei all’altro Hamilton - l’altro Hamilton, quello che diceva di essere nel 2118. Una risata isterica scivolò dalla bocca dischiusa di Rea, le mani a stringersi incredule sulle guance. «affascinante» Puntò lo sguardo color cioccolato sul ragazzo ancora mezzo nudo, un imprecazione soffocata fra i denti. Lui le rispose con un sorriso caldo ed affettuoso, alzando un indice nella sua direzione per - per intimarle di tacere? Stava scherzando. Prese un cellulare - ma ne esistevano, di così sottili? - e digitò una serie di numeri, prima di premerselo sulla guancia glabra. «ehi, pà. indovina chi è passato a trovarci» strascicò pigro, lui, voltando poi il cellulare nella sua direzione. Nel dubbio, la Hamilton incenerì con un’occhiata anche l’apparecchio. «sì, sono a casa mia. A quanto pare c’è una falla nel tempo. Chiami te gli altri? bella lì. Sì, te la saluto. cià» chiuse la chiamata, le sorrise - bello e familiare. «ti saluta mio padre,» mh, okay? «tuo nipote»

    La situazione stava precipitando troppo in fretta. Volse una curiosa occhiata ai due Hamilton, ignorando il ghigno di lui e l’occhiata di lei per porre un quesito decisamente più rilevante: «quel cazzone di barry è con te?» doveva saperlo, CJ. Jamie si strinse nelle spalle, un cenno con il mento. « tu chi hai?» il Knowles sorrise sghembo, il peso poggiato sulla gamba sinistra e la mitraglietta adoperata per attirare l’attenzione dei Bodiotti usata come stampella improvvisata. Aveva tutto così poco senso che quasi rise, il buon Jebediah; dovette mordersi il labbro inferiore, la mano alzata di fronte a sé: era il momento dello scambio di figurine. Probabilmente se non si fosse trovato in un’epoca quasi contemporanea al Titanic ed al Grande Gatsby, non avrebbe preso così bene la faccenda del ritrovarsi di fronte due differenti linee temporali fantasma – duecento cazzo di anni avanti rispetto a lui. Ma tant’era. «shia» un’occhiata veloce a Rea. «jayson, aidan» si strinse nelle spalle ricevendo un sibilo di ammirazione da parte di Jamie, la lingua di lui a schioccare sonoramente sul palato. «shia! e io ho un alvaro. Che ingiustizia» sospirò e scosse il capo, il ragazzo del futuro con ancora indosso solo l’asciugamano. «aloysius?» «e io che ho detto?» Hamilton, cambiano il nome di battesimo di Aloysius Crane su ogni linea temporale. Ne seguì un lungo silenzio d’attesa interrotto solamente dal nervoso ticchettare dei tacchi di Rea sul pavimento, le braccia di lei conserte; talvolta si fermava e lanciava loro un’occhiata, trovando un CJ a guardare assorto l’esterno della casa, e Jamie con la schiena poggiata alle porte della doccia ed il telefono fra le mani. Nessuno di loro, a quanto pareva, si sentiva abbastanza coraggioso - o codardo, punti di vista – da lasciare il luogo d’incontro. Il Knowles abbandonò il sorriso, invaso ad ondate da una tristezza del quale non s’era accorto; una tristezza che, sinceramente, non sentiva fosse sua. Sollevò lo sguardo sentendosi osservato, ed a ricambiare la sua occhiata trovò le sottili iridi scure di Rea. «è vero? avete -» «viaggiato nel tempo» CJ non sorrideva più. Il sangue colato dal sopracciglio s’era ormai seccato sulla guancia tirando la pelle, l’adrenalina della corsa e dell’incontro iniziava a scemare facendo pulsare dolorosamente la spalla – ed i muscoli, e la milza, e CJ. Per liberarsi di quel senso d’oppressione al petto, si sporse fuori dalla finestra aprendo ancora il fuoco: qualcuno sarebbe arrivato. Qualcuno doveva arrivare. Voleva domandarle cosa fosse successo; cosa dicessero di loro. Ma non voleva saperlo, il Knowles, così si ritrovò a grattare le pellicine in prossimità delle unghie pensando a quanto Barrow Cazzone Cooper, il segui fregna per eccellenza, fosse stato fortunato ad avere le fottute macchine volanti piuttosto che un padre prete.
    Nessuno di loro sapeva quanto sarebbe durato quell’estato momento di stati, né se sarebbe durato. Se fosse vero, o se fosse un’allucinazione. O il perché fosse stato possibile. O il come.
    CJ non era neanche certo gli importasse di saperlo, a quel punto.
    «devo fare qualche chiamata.»
    or just some kind of mirror?


    Grazie oblivion per questi cinque anni insieme. ♥
     
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    “Aidan?”
    ...

    Continuava a dimenarsi fra le lenzuola del proprio letto, Maple, incapace di trovare una posizione che la soddisfacesse a pieno. Negli ultimi mesi aveva avuto problemi a trovare il sonno, non ad orari decenti almeno; non bastavano la tisana, la ninna-canna, né tantomeno leggere il libro di Trasfigurazione. Era come se il suo corpo si rifiutasse di trovare riposo, che per una come la Walsh equivaleva a dire che l’inverno stava arrivando, e che presto sarebbe morta #wat. Sfilò entrambe le braccia da sotto il lenzuolo bianco, appoggiandole con poca eleganza sulla sua superficie e sospirando rumorosamente. Si chiedeva se esistesse una qualche danza del sonno, un qualche strano rito pagano che la potesse aiutare, e se fosse stata maledetta? ”Maple Walsh, sei condannata a non dormire mai più” no ecco, questo l’avrebbe devastata sul serio. Quando era più piccola, la madre le ripeteva che il motivo per cui il sonno se ne andava, era perché voleva regalare alla persona privata di esso più tempo, come se avesse delle cose in sospeso e la tipica giornata da ventiquattro ore fosse troppo breve per metterle tutte in ordine. Era per questo che la mente le si riempiva di pensieri assurdi, di decine di scenari tutti diversi ma in realtà tutti uguali, di ’e se’ e ’ma magari’ che se si fosse abbandonata a Morfeo sarebbero rimasti irrisolti. Volse lo sguardo fuori dalla lunga finestra, aprendo prima un occhio, poi l’altro, lentamente, dando loro la possibilità di abituarsi gradualmente alla luminosità della Luna. Luna che, quella notte, mostrava solo una parte di sé. L’aveva sempre trovata affascinante, la Luna intendo, capace di svelare volti diversi ogni giorno senza preoccuparsi di esser ritenuta falsa. Non come sulla Terra certo, dove se un giorno sei Caio e l’altro Sempronio nessuno ti vuole frequentare. Ella poteva essere chi voleva, grande com’era, pallida ma così luminosa, un molto più docile Cerbero che nessuno osava sfidare. A guidare quell’assurdamente romantico flusso di pensieri era probabilmente la sigaretta corretta fatta qualche ora prima che, evidentemente, l’aveva stordita per bene. Si sa come vanno queste cose, la vera botta non la si avverte mai subito. Ma poi un frastuono. Uno scoppio, sparo, chiamatelo come vi pare, ma era stato uno di quei boom che difficilmente passano inosservati, perché non se ne sentono spesso. E tutti quei pensieri sull’ammirazione per il Satellite sparirono nel dimenticatoio, perché Maple non ci pensò due secondi a saltare fuori dal proprio letto come una cavalletta ed infilare le orripilanti Birkenstock che definiva orgogliosamente ciabatte. Mai nella vita si era dimostrata una con i riflessi pronti – Quidditch a parte -, eppure quel lontano boato era bastato per destarla e farle abbandonare il suo futile tentativo di assopirsi. Si avvicinò alla solita finestra, ora semiaperta, questa volta non curandosi del Satellite per dare maggiore importanza a qualcos’altro: il suono. Trattenne il fiato per limitare ogni altro rumore, si affacciò e permise alla brezza leggera di carezzarle le guance. Poi un secondo boato, uguale al primo. Fuochi d’artificio forse? No Maple, se fossero fuochi gli spari dovevano essere molti di più, anche più veloci, uno dopo l’altro. Una pistola? Probabilmente, ma chi poteva esser stato, e perchè? Confusa sulla situazione, ma consapevole che dormire non era più fra le sue opzioni, Maple Walsh infilò un paio di pantaloni della tuta e la prima felpa a portata di mano prima di inoltrarsi fra i bui corridoi del castello. Se le fosse permesso farlo, probabilmente no. Se le importasse, ancora meno. Aveva come sentito l’irrefrenabile bisogno di fare una passeggiata, ma i pochi metri quadri della camera da letto non le bastavano. Neanche era più incuriosita dall’origine di quei rumori, erano passati, poteva anche essersi semplicemente trattato di albero, o un meteorite, perché no anche un UFO. Qualcuno poteva essere morto, sì, ma lei era al sicuro e questo le bastava.
    Sentì un rumore lontano di passi, veloci, così veloci che li avvertì venirle incontro, poi qualcosa l’afferrò e si ritrovò a correre anch’ella, senza saperne bene il motivo. Un battito di ciglia e si ritrovò al di fuori del castello, inconsapevole, confusa e con ancora il segno del cuscino stampato sulla fronte. Davanti a lei, un pulmino color giallo schifo ed estremamente fatiscente. Uno di quelli che vedi nei film girati nelle high school americane, dove quelli più cool si siedono in fondo e lanciano roba a caso agli sfigati primini più avanti. Poi vide Stiles, Bells ed Erin. ”Ma che” esclamò, mentre l’improvviso contatto con troppa luce la costrinse a ripararsi gli occhi con il dorso della mano. A quanto pare, di quel pulmino qualcosa funzionava: i fari. Maple abbassò lo sguardo in direzione dei propri piedi, notando il paio di calzini di colori differenti infilati nei sandali scuri, vergognandosi per un istante di aver imitato fin troppo bene la moda tedesca. A braccia conserte, Maple cominciò ad indietreggiare, pensando che forse lei lì fuori c’entrava poco e niente. Che nessuno se ne sarebbe accorto se se ne fosse andata. Doveva trattarsi di un’altra assurda pensata di quel ridicolo Esercito di Amalie (non è vero vvtb) a cui aveva accettato di far parte: una pessima idea che cominciava a ritorcersele contro. Poi vide Scott. E Jess. Invece che andare indietro, scattò in avanti in direzione dell’amica, perché tanto, Maple, di scelte pessime ne avrebbe continuate a fare. Andò loro incontro con la sua inimitabile tricheco-walk, mentre si dava un tono serioso legando la chioma in una coda. “Vi prego ditemi che sta succedendo” aveva implorato in direzione di Scott, appoggiando la mano sinistra sulla sua spalla mentre con la destra cercava quella della Goodwin, come per salutarla. Se c’era una cosa che Maple Walsh detestava, era il non sapere cosa le stesse succedendo intorno. La situazione si presentava dannatamente incomprensibile: vi erano un gruppetto di studenti a caso, un pulmino osceno e Stiles Stilinski, fuori dalle mura di Hogwarts e per giunta nel bel mezzo della notte. Se non avesse saputo con chi aveva a che fare, la giovane Walsh avrebbe pensato stessero organizzando una qualche fuga clandestina. Le venne detto che quei rumori erano spari, spari che però venivano dal passato, e che ad aver sparato era stato nientedimeno che CJ, dato per morto qualche mese prima. In realtà le venne spiegato anche qualcos’altro, ma le informazioni furono talmente tante che il cervello di Maple ne captò poche e male. Capì però che si trattava di qualcosa di grosso. Tirò fuori il cellulare dall’elastico delle mutande (non giudicate, la tuta non aveva le tasche), cercò il contatto del fratello e lo chiamò, avvicinando l’apparecchio al volto. "Fratello sto salendo su un pulmino brutto, tanto per farti sapere che se non torno più è perché mi hanno rapita” e chiuse la chiamata, riponendo il telefono al proprio posto. Poi salì.
    “Ma perché nessuno canta?” chiese, quasi sottovoce, a Jess, indubbiamente disturbata da quel silenzio. Era o non era una gita? Allora si alzò, cadendo tristemente a mo’ di sacco di patate subito dopo. Quello Stiles le stata simpatico dopo tutto, ma la sua guida ‘sportiva’ le avrebbe fatto tornare su la cena. Incrociò le braccia al petto, annoiata, appoggiando la testa sullo scomodo schienale del veicolo, mentre si chiedeva quanto lungo sarebbe durato il viaggio. Maple non lo faceva apposta, ma non riusciva proprio a starsene ferma a non far nulla. “You just gotta igniit-” buca “the liiiiiiigh-“ curva “and let it sh-“ frenata “EDDAI!” imprecò contro Stiles. Sospirò scocciata, poi si voltò in direzione dell’amica Jess lanciandole uno sguardo complice. “Just oooooown the niiiiight like the fouuurth of Juuuuly” il tono di voce si alzò di qualche ottava, per poi raggiungere il picco al ritornello. Maple ringraziò il cielo per aver incontrato una persona come Jess, che fosse lì con lei in quella folle avventura di cui sapeva poco e niente, ma soprattutto che fosse tornata. Ad esser del tutto sinceri, Maple non aveva idea di quali fossero le parole di Firework, ma continuò a stonare e strillare noncurante. Quel viaggio andava movimentato in qualche modo.

    Dio, se era confusa. Lei ci aveva creduto alla morte di tutte quelle persone, per poco sì, ma li aveva pianti. Aveva trascorso gli ultimi mesi della sua esistenza ad andare avanti, ad abituarsi a non vedere più quei volti, a cancellarli dalla propria quotidianità; seppur è della Walsh che stiamo parlando, aveva faticato ad uscire fuori dal letto ogni dannata mattina, costretta a vivere una vita che non sembrava più essere la sua. Il mondo che conosceva andava poco a poco sgretolandosi, quelle certezze con cui era cresciuta si erano trasformate in inutili granelli di polvere ed erano volate via, lasciandole una sensazione amara che l’aveva svuotata dall’interno. Si era perfino arruolata, per dirne un’altra. Era letteralmente andata contro tutti i suoi principi perché quelle persone erano morte. Perché Aidan era morto. Ora invece stava guardando attraverso uno specchio ed osservava CJ Knowles dal piccolo spiraglio che si era formato fra le persone che la fronteggiavano, schermandolo dalla testa ai piedi più e più volte, incredula. Afferrò la mano di Connor per trovare un po’ di conforto, consapevole che avrebbe avuto una crisi isterica da un momento all’altro. Maple non era stata costruita per le emozioni forti, non era capace a gestirle, né tantomeno voleva farlo. Forse sarebbe stato meglio non aver saputo, non essere salita su quel pulmino, non essersi alzata dal letto; avrebbe dovuto continuare a fare discorsi assurdi sulla Luna, darsi una botta in testa e cominciare a dormire. Avrebbe potuto fare tante altre cose Maple Walsh, e probabilmente non avrebbe sofferto così tanto. ”E’ uno scherzo? una voce familiare. Lo stato catatonico in cui era entrata venne bruscamente interrotto. Le si spalancarono gli occhi, l’espressione da ebete sbalordita sparì dal suo volto; si separò perfino dalla stretta del fratello, bisognosa di entrambi gli arti per farsi spazio fra i corpi che le impedivano di vedere quello specchio in tutta la sua interezza. Poi eccolo lì, che faceva per andarsene, vestito come se fosse uscito da Il Buono, Il Brutto, e Il Cattivo. Gli occhi le si inumidirono inevitabilmente, perché lui era lì, il suo migliore amico, morto quattro mesi prima, era proprio lì. Cominciò a sorridere, un sorriso piccolo, appena accennato, perché non aveva le forze per farne uno più grande; sentiva il corpo pesante, come ancorato al pavimento, avrebbe voluto andargli incontro, toccarlo, abbracciarlo, tirargli i capelli, prenderlo a schiaffi. Perché, seppur contro la sua volontà, lui era sparito e l’aveva lasciata lì, completamente sola. Allora allungò una mano nella sua direzione, consapevole che, prima o poi, una lacrima avrebbe vinto e si sarebbe liberata, rigandole il volto.
    “Aidan?”

     
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    20.04.2018
    london | 22:30
    Eugene Jackson credeva nei miracoli.
    Sin da bambino, quando era ancora troppo piccolo per riconoscere le sottili differenze tra bene e male, terreno e divino, l'ex pavor aveva avuto fede in qualcosa: più grande di lui, oltre l'umana comprensione, impossibile da spiegare a parole. Ma Dio non era mai stato al centro dei suoi pensieri, o del suo cuore; non aveva mai rappresentato una guida, o un idale cui guardare con amore e riverenza.
    Eugene Jackson aveva fede in sua sorella, e in tutte le volte che Delilah gli aveva salvato il culo. Letteralmente parlando.
    Aveva fede nelle persone con cui era cresciuto, in coloro che lo avevano stretto tra le braccia quando, nell'ingenuitá dell'infanzia, si era convinto di non valere abbastanza.
    Aveva fede nei suoi amici, nel fatto che avrebbero sempre preso le sue parti, no matter what; a parti invertite, Euge aveva fede nella propria convinzione che chiunque avesse mai fatto del male a quegli stessi amici sarebbe morto.
    Su un piano meno profondo e sentimentale, Eugene Jackson aveva fede anche in Babbo Natale e nei folletti del bosco, pur non potendo dimostrare la loro esistenza. Nessuno voleva mai credergli sulla parola quando sosteneva di averci parlato mentre era strafatto. E credeva nei miracoli, perché affidarsi alla forza del pensiero positivo rientrava in pieno nella sua natura di idiota ottimista con la testa fra le nuvole, sempre pronto a vedere il meglio dove nessuno riusciva più a trovarlo. Erano come trucchetti di magia ben riusciti, illusioni trasformate in realtà - tipo lui che conquista una Jaden Beech, per esempio. O l'aver ritrovato Run una volta, quando anche il più piccolo frammento di speranza continuava a sfuggirgli scivolando come acqua tra le dita.
    Lo avrebbe fatto di nuovo, lo avrebbe fatto all'infinito se si fosse reso necessario: perdere la fede in tutto ciò che ai più sembrava impossibile non era nemmeno lontanamente contemplabile, come ipotesi.
    Non sarebbe stato lui, altrimenti.
    «Sono caldo e assetato» «scusa, cosa?» Ah, i giovani. Sempre pronti ad ignorare le richieste di aiuto di un vecchio, irrispettosi oltre ogni limite del livello gerarchico che vedeva i più anziani meritevoli di amore, affetto e obbedienza. Cosa lo aveva assunto a fare come baby-sitter se poi non lo accudiva nel momento del bisogno? Accudire lui, perché Uran a quel punto se la cavava già meglio del padre, pur con i suoi soli dieci mesi di vita: gattonava da una stanza all'altra di casa Reb pulendo tutti i pavimenti, aggrappandosi di tanto in tanto alla pelle floscia di TJade nei primi tentativi di mettersi in piedi; cresceva senza sosta, il piccolo Beech, fottendosene allegramente del marcio che cresceva insieme a lui, attorno a lui, come un cancro maligno per il quale i suoi genitori sembravano non avere una cura. Uran Élite non aveva idea di quanto il mondo fosse andato ormai a puttane, ed in cuor suo Euge continuava a sperare che il momento per suo figlio - uno special figlio di un mezzo sangue - di aprire gli occhi non dovesse arrivare mai. «Credo di avere la febbre, Jeremy. Sentimi la fronte.» Come ogni genitore che si rispetti, prima ancora di diventarlo davvero, anche il serpeverde aveva amato uno dei suoi figliocci più dell'altro, ed in quel momento Jeremy Milkobitch stava dimostrando all'universo il motivo di tale preferenza incondizionata ed incosciente, infierendo sul suo cuore già indebolito da troppe perdite simile ad un avvoltoio sull'ennesima carogna di qualunqueanimalevivadovestannogliavvoltoi: Archibald non avrebbe mai storto il naso a quella sua richiesta, esprimendo disappunto e sfrontatezza con un'unica occhiata. No, Archibald Leroy sarebbe stato ben lieto di mettergli una copertina sulle spalle ed improvvisarsi Alessandro Borghese per preparare il miglior brodino di pollo di New Hovel. «Ti prendo un termometro.» Come osava. Un brivido scosse il corpo del pavor, evidentemente ad un passo dal perire sotto il peso mortale dell'influenza - Jade aveva avuto l'ardire di sminuire il malanno lanciandogli un pacchetto di fazzoletti in faccia seguito da un irrispettoso non fare il bambino - , che trovò comunque la forza di agguantare la maglia del ragazzo trascinandolo più vicino a sé, sul divano. Bastoni della vecchiaia un cazzo. «Milkobitch, baciami la fronte e senti se ho la febbre.» E non ditemi che non era assolutamente lecito pretendere un po' di affetto fisico in un momento così delicato della sua vita.
    Jeremy, che in fondo (non) veniva pagato proprio per quello, gli si accucció accanto con un sibilo soffocato do rassegnazione, premendo finalmente le labbra sulla tempia destra di Eugene, le sopracciglia arcuate in un'incredula espressione di sorpresa. «sei caldo davvero.» Sarebbe stato un ottimo momento per la battuta definitiva, quella che da anni il pavor tentava di perfezionare senza mai trovare la giusta combinazione di doppi sensi ed imbarazzo, se solo non fosse suonato il telefono; e, al secondo squillo, anche il cellulare. «jer, tu quello di casa. se ti dicono che fra sette giorni morirai, manda quella stronza a fanculo.» Possibile che nessuno avesse ancora pensato di mandare in loop la cassetta cosi da bloccare samara nel pozzo? - cit.
    «ohi dallaire cia-- cosa? rallenta cosa- aspetta un attimo» si sporse oltre il divano, intercettando la figura del Milkobitch in corridoio, la cornetta poggiata contro l'orecchio. «chi hai?» «rea, tu?» «elijah.» «dice di mettere giù che te lo spiega lei.» «ma spiega cosa. oh, eli, avete litigato? ha tentato di ucciderti? no, vuole che metto giù.» «rea dice che c'è un portale in camera sua.» «eli, jeremy dice che rea dice che c'è un portale in camera sua, cosa vi siete fumati?» «euge, rea dice di mettere giù il telefono altrimenti vi pesta a sangue entrambi» «che, Cj? ma il pelatino? RUN? JEREMY ELIJAH DICE CHE C'È RUN!» Altri dieci minuti cosi, immaginateveli perché Rob non ha la forza per trascrivere tutta la conversazione.

    Poi aggiungete tre quarti d'ora, il salto temporale necessario per approdare esattamente dove chiunque al mondo agognerebbe essere: in procinto di morire, sullo SpacoBus, oltre il limite di velocità per le strade di Londra. Il giro di telefonate fra i casta si era ripetuto almeno tre volte, con euge che richiamava elijah e elijah che richiamava nate, come un interminabile circolo vizioso durante il quale non facevano altro che urlarsi all'orecchio a vicenda, ciascuno irrimediabilmente confuso sull'attuale stato delle cose; alla quinta telefonata Jeremy aveva afferrato le redini della situazione ormai fuori controllo, tirando a Eugene un sonoro ceffone come da istruzioni lasciate per lui da Jaden.
    Se comincia a svalvolare per qualcosa - e lo farà - due pizze in faccia e passa la paura.
    Un consiglio azzeccato, grazie al quale l'ex pavor era riuscito a trovare l'autocontrollo necessario per infilarsi dei pantaloni e agguantare la bacchetta: non esisteva altro modo per comunicare con Sinclair se non utilizzare i suoi topi viaggiatori con le ali. «okay malattia ambulante..» l'anziano zio di Run lo aveva istruito a dovere riguardo all'uso dei piccioni, ed Euge si era adoperato nel seguire la procedura alla lettera sussurrando all'orecchio (ce le avevano le orecchie?) del pennuto il messaggio da inviare al suo padrone, questo dopo averlo grattato sulla testa tre volte e soffiato un bacio al cielo girando su se stesso.
    Era accaduto mezz'ora prima.
    Nino aveva recapitato il messaggio e Sin si era presentato poco dopo suonando il clacson dello SpacoBus come la carica di trombe ad una battuta di caccia: a nessuno di loro fregava un cazzo di svegliare il vicinato, e Uran avrebbe continuato comunque a dormire beato nel marsupio legato contro il petto del padre, abituato ormai ad ogni genere di casino. «voi avete capito cosa diavolo sta succedendo?» la voce dell'idrocineta aveva raggiunto il limite del falsetto, mentre con una grattata di marce ripartiva a tutta birra, il piccione Nino appollaiato sulla spalla e una confusa Lydia Hadaway a ricambiare l'occhiata di Euge nello specchietto retrovisore; e quello stesso scambio di sguardi, carico di perplessitá e dolorosa speranza, si era ripetuto con ogni singola persona caricata sul pulmino durante il tragitto, ipotesi buttate lì a casaccio per riempire l'attesa.
    Era accaduto mezz'ora prima, mezz'ora prima che Eugene Jackson si trovasse affacciato sulla soglia della camera di Rea, iridi azzurre inchiodate con ottusa perseveranza sull'immagine tremolante che pareva distorcere l'intera stanza.
    Credeva nei miracoli, l'ormai ex pavor, e sapeva riconoscerne uno quando lo vedeva: stavano tutti lì, quella sua famiglia che tante, troppe persone avevano cercato di convincerlo a considerare morta, circondati da uno sfarfallio irreale ma familiare, sbronza pesante o una canna in compagnia. Assomigliava ad un'illusione, e allo stesso tempo la sensazione di reale che emanava non lasciava dubbi. «lo sapevo..» da sempre «lo sapevo che eravate vivi, piccoli bastardini.» lo sapeva da sempre, anche quando non ci credeva nessuno. Non aveva ancora idea di cosa stesse succedendo, di cosa fosse successo, ma era quello il bello dei miracoli.
    Nessuno se ne sbatteva il cazzo di una spiegazione.


    who knows what's going to happen?
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    Tutto procedeva una merda come al solito, ma i Milkobitch erano abituati a sopravvivere, specialmente quando spariva Run, ormai lo faceva almeno una volta all'anno; anche se a dirla tutta quando succedeva non erano comunque pronti, nessun kit di salvataggio e niente bunker per poter evitare di affrontare il mondo in rovina senza loro sorella. Ripeto, dovevano essere comunque abituati, ma ogni volta era come la prima, sempre doloroso e difficile da affrontare; ogni volta si ritrovavano a vivere l'abbandono in modo diverso e se a quel giro Todd era abbastanza positivo, grazie pillole della felicità alla terapia di Stiles; non si poteva dire lo stesso di suo fratello Jeremy. Ma erano vivi, questo era l'importante, il come era un dettaglio; se Run fosse tornata in quel momento li avrebbe trovati entrambi era quella la cosa fondamentale no? A proposito di Jeremy, ma dov'era? Non si vedevano spesso e sapeva ancora meno dove e cosa faceva quando non era in casa. Sperava davvero che stesse bene, la vita era già difficile senza la Crane se continuava a preoccuparsi di suo fratello il cervello sarebbe esploso. Così decise di dedicarsi alla loro casa, come Cenerentola prese a pulire su in soffitta ( che non hanno), giù in cucina, poi lava stira e stendi. (scusate sto vedendo le principesse).
    « E come un djavu che si ri-pe-te, come un dejavu, come un dejavu....»
    E di nuovo muoveva il corpo senza senso per la casa mentre nutriva la fattoria che si era venuta a creare in assenza della sorella. Da quando avevano preso così tanti animali? Oddio sarebbe diventato un zitello con la fattoria, invece che di soli gatti. Poi sentì suonare il cellulare, l'aveva ancora? Di solito nessuno lo cercava, oltre a Stiles e i suoi messaggi d'incoraggiamento. Che spirito combattivo aveva l'ex tasso,davvero. Era fortunato ad averlo come psicologo.
    «Pronto?»
    « Run »
    «No, Jeremy, sono Todd » sospirò e scosse la testa, probabilmente non era neanche davvero da Eugene a fare da babysitter; anche se non capiva il motivo di quella bugia, lui non era nessuno per giudicare se il fratello voleva drogarsi. Aveva promesso a sua sorella e soprattutto a Stiles che non avrebbe fatto abuso di droghe e alcool, per non peggiorare la propria situazione, ma Jer era libero di fare quello che voleva. Sempre, anche se lui si preoccupava, aveva perso Run e non voleva perdere anche lui, ma come gli aveva insegnato il suo psicologo Stilinski, ognuno metabolizzava le situazioni in modo differente. « Te l'ho già detto che quella roba ti fa venire le allucinazioni, ma non per questo sono vere le persone con cui parli. Anche io vedo Mickey ma sappiamo entrambi che non esiste »
    «Ehi, così mi ferisci » disse improvvisamente l'amico «Dai, non te la prendere, rimani comunque il mio migliore amico e sai che ti voglio bene. » disse dolce Todd mentre guardava il ragazzo che sbuffando ma con un lieve sorriso si rilassò sul divano, a volte bastava davvero poco per calmare il suo subconscio (aspetta cosa?)
    «Todd. Per favore prestami attenzione. Smettila di parlare con Mickey, ti sto dicendo che dobbiamo andare da Rea, forse c'è nostra sorella, cioè non fisicamente ma non ho capito. Tu vai dagli Hamilton ok? Ci vediamo lì »
    « Aspetta cosa?» ma niente chiarimento, suo fratello aveva chiuso la chiamata e lui cosa doveva fare?Andare da solo dagli Hamilton era fuori discussione, aveva ancora il ricordo dell'ultimo dell'anno di due anni prima, era tornato a casa strafatto e ubriaco, dopo aver collezionato un clamoroso due di picche. Non voleva tornare nella tana dei vampiri, quella famiglia gli metteva paura ancora, nonostante metà della famiglia fosse persa chissà dove, ma Rea bastava per tutti quanti, sapeva tenere bene il potere Hamilton. «Ma Ian, potresti avere informazioni su tua sorella. Dobbiamo andare! Io vado».
    «si certo, come se tu potessi davvero farlo senza di me.» sbuffò e cadde sul divano di casa cercando di capire come poteva fare non voleva andare da solo.
    «e oggi siamo a due. Quanto ancora devi ferirmi? Sai cosa potresti fare, smetti di prendere le pillole così sparirò per sempre e sarai felice senza di me »
    « che melodrammatico che sei » «sisi, ma comunque tu non mi vuoi più bene »
    «Mickey...per—ma chi è ora?» Il cellulare aveva preso a suonare di nuovo, che situazione bizzarra, non era abituato a quella vita movimentata. Vide il display e vide scritto Stiles, oddio che avesse dimenticato di andare da lui? No, annotava sul calendario i giorni ed era sicuro di essere libero. Rispose quasi intirmorito «Pronto Stiles? dimmi»
    « Todd, mettiti delle scarpe comode, anzi da corsa. Sono lì tra dieci minuti »
    «Aspetta cosa?» E di nuovo non ci fu una spiegazione. Cosa doveva fare? Si guardò i piedi, aveva le scarpe da ginnastica, ma perchè da corsa? Il mondo andava davvero troppo veloce per lui, era così confuso.


    Erano passate alcune settimane da quando i due ragazzi erano tornati insieme, avevano discusso? Forse, ma ora erano insieme per cercare Swing e Ken, si divertivano nel farlo.
    «ehi guarda un bracciale. Sono due, prendiamoli»
    «Sicuro che siano due al prezzo di uno? » Tae vide improvvisamente l'amico rabbuiarsi, cercando di capire se il prezzo sui bracciali fosse giusto. Così gli sorrise e gli accarezzò il mento per fare in modo che questo lo guardasse negli occhi «stai tranquillo. Li abbiamo i soldi e sono due. Uno per me e uno per te. Sarà il nostro bracciale dell'amicizia ok? » disse dolce per poi vedere spuntare un sorriso da coniglietto, il suo coniglietto e lui ricambiò « andiamo a mangiare un gelato » disse per poi poggiare il braccio sulla spalla e se lo avvicinò sereno. Da quando erano insieme, stava decisamente meglio, sorrideva di più e soprattutto aveva qualcuno con cui comunicare visto che nessuno sembrava capire il coreano. Nonostante avessero una missione da compiere, non mancavano le volte in cui scherzavano e visitavano la città, in fondo erano in una terra nuova e lui aveva voglia di esplorare il posto. Persino la notte era diventata più facile da affrontare con Kook al suo fianco; non avevano mai dormito insieme fino a quel momento, dato che quando era nascosto con Mudeom il ragazzino era troppo piccolo per poter rimanere oltre l'orario o durante le vacanze estive; e una volta trasferitosi al castello, erano comunque separati ed era impossibile che si ritrovassero dopo il coprifuoco. Ora però condividevano la camera perchè dopo che si erano ritrovati Jae aveva deciso, giustamente , che Jin la smettesse di dormire sotto ad un ponte con altre persone. E fu un bene, perchè da quando condividevano la stanza, dormiva decisamente meglio; capitavano notti in cui si alzava e andava a dormire nel letto dell'amico però, lo abbracciava da dietro e subito si sentiva meglio, l'ansia spariva all'istante e gli incubi diventavano sogni. Inutile dire che la prima volta che accadde Yong rimase al quanto interdetto perchè si era ritrovato il biondo abbarbicato, con la gamba sulle sue, un braccio sulla vita e la testa poggiata sulla sua spalla, ma dopo qualche giorno divenne una routine, Tae proprio non riusciva a dormire da solo.
    «Ehi Jaeyong facciamo sasso carta forbici per vedere chi deve chiedere questa volta informazioni » avevano elaborato questo piano per andare avanti e divertirsi allo stesso tempo, Tae non era il tipo che faceva le cose per annoiarsi e già la ricerca non era semplice, almeno avrebbero giocato.
    Inutile dire che perse e si ritrovò in un negozio, col commesso che cercava di capire le parole del ragazzo coreano, alla fine indicò se stesso e l'amico « io sono Tae Hyujin. Lui è Kook Jaeyong la mia famiglia » fino a lì tutto facile, era una frase semplice da dire, l'aveva imparata a memoria e diceva sempre in quel modo, ma non stava più cercando il suo coniglietto ma pensì Seyhung, quindi mostrò la foto e indicò proprio lui « Lui è Park Sehyung. Tu conosci?» e un'altra frase era andata, sorrise al suo migliore amico che in teoria doveva essere lì con lui ma improvvisamente era solo. Ma che? « 미안, 나 가야 해.» (scusa, devo andare) disse e corse fuori, preso dal panico, non poteva permettersi di perderlo. Non di nuovo.
    « Jae?» iniziò a chiamarlo, si guardò intorno e improvvisamente venne afferrato dal braccio, quasi non gli venne un colpo, ma quando vide che era proprio il suo coniglietto sorrise « ehi ma dov'eri?»
    «Hyung, andiamo. Forse ho un buon indizio.Corri »


    Alla fine aveva davvero corso, stava quasi per perdere il pulmino di Stiles, era caduto a terra ed era certo di aver sentito dire da qualcuno un “lascialo lì, torniamo a prenderlo dopo” ma alla fine era riuscito a salire « grazie » aveva detto col fiatone ed era morto poi sul sedile. Arrivati a casa Hamilton, tralasciando che quella casa gli metteva ansia seguì la massa ( ma chi?) che si receva verso uno specchio o qualcosa di simile; non riusciva a capire cosa ci fosse dietro quelle teste. Poi una voce, era lei, anche se non la vedeva da mesi era sicuro che fosse la sua.
    «jeremy? Todd?» era Run, di sicuro, cercò di farsi spazio tra gli altri, quasi cadde nel farlo, ma ci era abituato, camminare e cadere era nella norma, non farlo sarebbe stato strano. Quando la vide, gli occhi si riempirono di lacrime, ma non pianse, era diventato più duro. Forse. « Run...st-stai bene? » disse con la voce spezzata, stava per cedere lo sapeva che rivederla gli avrebbe fatto quell'effetto, era felice ma preoccupato per lei; sembrava stare bene, ma anche un cocco all'apparenza poteva essere buono ma dentro essere completamente marcio. «D-dove sei?» allungò la mano verso di lei, per poterla toccare, anche se dubitava di poterlo fare davvero. La sua bellissima Run, gli era mancata terrribilmente.
    All'improvviso venne spinto poco più in là, notò due ragazzi, uno in lacrime parlare una lingua straniera. Tae era senza respiro, erano arrivati in quella strana casa correndo, letteralmente e lui non sapeva neanche per quale motivo, Jae neanche gli aveva spiegato il motivo di quella corsa e di quel posto che diciamocelo gli metteva una certa ansia, non che fosse una persona fifona, cioè leggermente, ma amava l'avventura quindi entrare in una casa infestata non era così terribile, ma quella casa sembrava essere peggio.
    «Jaeyong dove siamo?» chiese guardandosi intorno, si erano finalmente fermati e stavano riprendendo fiato, almeno lui, dato che l'amico sembrava essere così informa che lo guardava tranquillo mentre Tae al contrario moriva lentamente. Quando il cuore tornò al suo normale battito, seguirono gli altri ( ma davvero chi?) e si fecero spazio tra le persone, in realtà fu più Kook ad andare di sfondamento, mentre il biondo si limitò a seguirlo, tenendosi saldo alle sue spalle, nel mentre i due parlavano cercando di capire cosa stava succedendo, ma era difficile. «Aish, che confusione » imprecò mentre cercava di vedere dietro le teste; poi lo vide, suo fratello maggiore era vivo. Tae in un secondo fu in lacrime, era un ragazzo abbastanza emotivo. « Sei...Sei tu Sehyung Hyung? » come era certo di rinoscere il suo coniglietto ovunque era sicuro anche di quella figura davanti a loro due, anche se quest'ultimo sembrava non averli riconosciuti; ci stava mancava da così tanto tempo.
    « Io non vi conosco, chi siete? Vi ha...mandati mio padre? Sta bene? E' venuto a salvarmi?». Sentì una morsa al cuore quando gli disse che non li conosceva, avevano condiviso molto, avevano vissuto de momento bellissimi, era anche grazie a lui che si era sentito accettato e voluto. Era la sua famiglia dopo tutto. Guardò prima Kook, incerto sul da farsi. Poi tornò con lo sguardo, ancora in lacrime, verso Park
    « Hyung, siamo noi! Kook e Tae, come puoi » si fermò, prima mangiarsi tutte le parole per il pianto doveva riprendersi, strinse la mano del minore e fissò il maggiore,sembrava così diverso. « Che ti hanno fatto? Stai bene?» lo riempì di domande come Kook del resto. Erano felici perchè era vivo, ma avevano un altro problema, anzi due.Lui non sembrava ricordarsi di loro e soprattutto pensava davvero che suo padre, l'uomo che lo aveva tradito e fatto tutto quello, lo stesse cercando. Ma una cosa per volta, dovevano capire come riprendersi l'amico in qualunque posto fosse.
    « Sto bene, però...come fate a conoscermi? E - - - Morto? Oh no, tranquilli, hanno provato ad uccidermi...dieci volte, ma ho la pelle dura! Ma siete sicuri di non aver sbagliato persona? » appunto. Come potevano fare. Hyunjin guardò l'amico, al suo fianco. Tralasciando il fatto che aveva apenna detto con una tranquillità da fare venire i brividi che avevano provato ad ucciderlo dieci volte, Tae divenne serio «Noi ti riporteremo a casa. »
    Ian Todd Milkobitch
    London
    22.30
    Kinese sqwad
    we are living and dying.
    At the same time



    Un parto e potete non leggere davvero....alla fine Todd parla solo con se stesso e Run mentre Beltè con Ringo e Swing.
     
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    «stiles?» Vide la maniglia muoversi, ma la porta non accennò ad aprirsi. Sollevò di scatto la testa dal proprio computer, gli occhi scuri a fissare il pomello della propria stanza che girava a vuoto. C’era una legge non scritta nella convivenza con Andrew Stilinski del quale Isaac Lovecraft era consapevole dai tempi in cui frequentavano Hogwarts e si ritrovavano nello stesso spogliatoio: Stiles non chiudeva mai a chiave le porte. Andava contro la sua religione, prendeva a calci nel culo la sua paranoia di rimanervi bloccato all’interno – incubo che si protraeva dalle scuole elementari quando, effettivamente, era successo.
    Eppure, quel giorno «STILES?» aveva chiuso a chiave la porta della sua camera. Balenò in piedi in un battito di cuore, chiuse lo schermo del computer con uno schiaffo e lanciò sotto il letto il quaderno con un calcio. Sfrecciò fino all’uscio prima che Isaac ritenesse opportuno sfondare la porta, quindi ne aprì uno spiraglio affacciandosi nel corridoio con la testa. «ehilà» «perché era chiuso???» Pensa Stiles, pensa. Cosa fanno i ventenni normali con la porta chiusa? Umettò le labbra, un guizzo verso Sharyn. Parlò, come sempre, prima di riuscire a connettere il cervello: «masturbazione» annuì profondamente, la gola secca e le guance in fiamme. Davvero, Stiles? È la prima cosa che ti viene in mente? E, soprattutto, perché suonava così poco credibile? Assurdo: il fatto che passasse venti ore giornaliere a catturare pokèmon non significava mica che non avesse pulsioni sessuali. Che razza di pregiudizi erano? «masturbazione» ripetè Isaac, inarcando le sopracciglia. «su youtube» Stiles, chiudi quella cazzo di bocca. Si morse la lingua e abbassò colpevole il capo, un sospiro a sollevare la maglietta. «su…youtube» «delle cicale» «AH.» Ecco, così si tornava in pista. Forse avrebbe dovuto sentirsi offeso dal fatto che il Lovecraft ritenesse più plausibile che Stiles stesse guardando masturbazioni di cicale piuttosto che si stesse effettivamente gingillando per i cazzi propri (letteralmente.) ma perché avrebbe dovuto? D’altronde era la realtà dei fatti. Osservò i due ragazzi nel corridoio, una fitta di vergogna a far aumentare il battito. La verità era che Stiles non se le meritava, due amici come loro – quelli che, pur avendo indubbiamente di meglio da fare, continuavano a bussare alla sua porta chiedendo se volesse vedere qualcosa su Netflix con loro. Più fingevano di non essere preoccupati per lui, più Stiles si sentiva una merda a dargli motivo per esserlo. Deglutì ancora, la lingua ruvida sul palato. Non sono ubriaco, avrebbe voluto dirgli. Aveva avuto problemi con l’alcool, okay, e talvolta ci ricascava, ma non era così – non era così grave, no? E sì, forse aveva iniziato a testare più pastiglie dei propri pazienti di quanto non avrebbe dovuto, ma lo faceva per loro, no? Certo, dormiva solo un paio d’ore a notte, ma non era forse la quotidianità di ogni adolescente? Era solo in ritardo nella propria fase ribelle, tutto lì.
    Tutto lì, no? D’altronde gliel’avevano sempre detto, che fosse un po’ ritardato. Qualcos’altro nel quale aveva ragione. Quasi rise di sé stesso, mentre impacciato dondolava sui talloni. Prima che potesse rimpiangerlo, aprì bocca troncando a metà qualcosa sugli squali (o forse erano funghi?) che Isaac gli stava raccontando: «possiamo parlare?» aprì completamente la porta invitandoli ad entrare, e Stiles dovette reprimere un respiro tremulo. Dato che nella sua stanza non aveva sedie, lanciò dei vestiti per terra – come i vichinghi, sì. – prendendo per primo posto sul pavimento, la schiena contro il letto. Inspirò dalle narici, espirò evitando accuratamente il contatto visivo. Se c’era qualcosa che Andrew sapeva gestire meno delle rotture, erano le relazioni - o meglio, sé stesso in relazione del prossimo. C’era evidentemente, necessariamente, qualcosa che non andava in lui; qualche ingranaggio non s’incastrava nel modo giusto, spostando tutto ciò che avrebbe dovuto essere facile nel campo di complimenti Stiles, hai fatto di nuovo una cazzata.
    Si era complicato tutto così in fretta, e così piano, che il Tassorosso non aveva avuto tempo né modo di rendersene conto. Continuava a ripetersi che stava esagerando, che aveva evidentemente frainteso; che, come suo solito, aveva preso lucciole per lampioni – era o non era lo stesso ragazzo che da bambino scambiava le rane per cuccioli di coccodrillo? Tendeva sempre ad esagerare, ad ingrandire. A rendere tutto più importante di quel che era. Lo stai facendo di nuovo, Stiles. Per forza. Non ha alcun senso. Ma se davvero, se davvero non aveva alcun senso, perché era l’unica cosa che gli sembrava l’avesse? Perché sei un coglione, Stilinski.
    Ottima osservazione.
    «siamo amici, giusto?» Isaac corrugò così tanto le sopracciglia, che per un istante gli parve Brock. Un punto a favore del Corvonero. «giusto. Ovvio, lo so» completò da sé, stringendosi nelle spalle fino a far sparire il collo. Passò la lingua sul labbro superiore, uno sguardo a Sharyn. «siamo amici.» confermò, più a sé stesso che a loro. Tamburellò nervosamente con le dita sulle proprie gambe, il capo poggiato sul letto e gli occhi fissi sul soffitto. Perché doveva rendere tutto così difficile. Perché non poteva, semplicemente, dirlo – perché, perché.
    Perchè sei stupido. E poteva quasi sentire tutti coloro che, nei vent’anni passati, gliel’avevano detto – bisbigliato alle spalle, gridato dietro, sorriso sghembi prima di sbatterlo nella sala delle torture. Stupido: perfino uno dei modi più gentili con i quali era stato definito.
    Stupido. Patetico. Fallito. Nullità. Ordinaria amministrazione, per Stiles.
    Ma aveva sempre creduto non avessero ragione. Che, un giorno, gli avrebbe dimostrato quanto torto avessero avuto a giudicarlo dalla copertina.
    Bastava così poco, per far crollare tutte le certezze. Bastava che avessero ragione solo su una cosa, e tutto il castello crollava in cenere. Ecco perché non puoi.
    Il che lo rendeva stupido, ed alquanto patetico. Era un fottuto circolo vizioso.
    Gli mancava Murphy. Anzi, gli mancava Pizza Lover, perché dietro ad uno schermo sarebbe stato più facile – a lei, Stiles, a Pizza Lover, avrebbe potuto dirlo. Magari (sicuramente.) mai a Murphy, ma a lei? Con quel lui? Non che lei fosse differente, o lui un altro ragazzo. Era solo più…naturale, dietro una tastiera. Non doveva costringersi a controllare il tono della voce, a non arrossire; non si impappinava sulle parole, non doveva pensare a come teneva le mani o a come la maglietta si stesse inzuppando di sudore. «io…» tossì, si schiarì la voce. Voglio comprare una tartaruga! Che ne pensate? La sentì pungere spontanea ed ironica sulla lingua, quella risposta. Più da Stiles, meno da Andrew. Talvolta era il primo a dimenticarsi di essere una persona - una persona vera, s’intendeva. «c’è quest-» un altro colpo di tosse, ancora lo sguardo ad evitarli. «-a ragazza» intrecciò le dita sulle ginocchia, sempre eludendo i loro occhi. Si permise di respirare, il cuore a rallentare l’andatura. Dio, quant’era diventato umiliante essere sé stesso – anche solo guardarsi allo specchio – da quando trovava conforto solamente nell’ennesima, stupida, cazzata.
    Gli mancava Dakota. E non gli mancava perché con lui sarebbe stato più semplice parlarne, tutt’altro; non gli mancava avere un amiko gay !!&& che potesse comprendere cosa stesse passando. Gli mancavano i sinceri occhi chiari del Grifondoro, il sorriso con il quale taceva attendendo sempre che fosse Stiles il primo a parlare quando avesse voluto parlare. Gli mancava il modo in cui faceva apparire tutto più semplice, fosse una verifica o l’ennesima contusione fasciata in Infermeria.
    «c’è questa ragazza, no» ripetè più convinto, arcuando entrambe le sopracciglia. «ma …sono molto confuso al riguardo? Non sono…certo…che mi piaccia» wikihow diceva che il terzo passo per capire se ti piaceva qualcuno, era parlarne con il tuo migliore amico. Il primo era riflettere (aveva fallito) il secondo tenere un quadernino su cui scrivere, cito testualmente, “Parla delle vostre interazioni. Descrivi quello che provi quando lo vedi. Osserva se questi sentimenti ti accompagnano per tutto il giorno o svaniscono non appena lui va via. Annota tutti i tuoi sogni a occhi aperti, tutte le speranze di un futuro insieme. Alla fine di ogni settimana, rileggi quello che hai scritto e valuta i tuoi sentimenti” (ed aveva riempito pagine di cosa sta succedendo, perché lo chiedi a me, perché lo sto facendo, fuck this shit i’m out).
    Poniti domande scomode e rispondi in maniera onesta [1], diceva il primo punto di Wikihow.
    Okay, s’era detto Stiles. Facciamolo. Semplice.
    Ti capita di fare sogni a occhi aperti su di lui?
    ….Vabbè dai, non saranno certamente tutte importanti. Passiamo alla seconda.
    Ti ingegni per imbatterti "accidentalmente" in lui a scuola o in un altro posto?
    …La terza?
    Tutte le tue amiche sono sentimentalmente impegnate e ti senti esclusa?
    Quali amiche? Se n’erano andati tutti.
    E gli mancava Jayson. Gli mancava tutto di suo fratello; gli mancava il broncio, gli mancava l’ironia. Gli mancavano le insicurezze dietro le iridi caramello, così simili ma cose diverse dalle sue, e la pacata determinazione con il quale aveva comunque preso in mano la propria vita. Gli mancavano i nomignoli stupidi che aveva dato ad Atlas e Daisy. E senza Jay, gli mancava anche Xav - non era lo stesso, senza il Matthews. Nessuno dei fremelli poteva essere identico a com’era prima di conoscere gli altri due, Stiles compreso. Gli mancava quella strana fiducia che aveva sempre avuto nei suoi confronti, quella che forse il fremello aveva preso come un gioco: è uno Stiles; troverà un modo, con tanto di scrollata di spalle. Poco importava che sapesse, quanto Stiles stesso o Xav, che quel modo sarebbe stato d’esito tragico o poco piacevole: Jay credeva che, in un modo o nell’altro (nell’altro.) Stiles ce l’avrebbe fatta.
    Ed invece non ce la faccio, Jay. A ‘sto giro non trovo un modo.
    «non -» - doveva succedere. – volevo che accadesse. –era previsto.
    «ma quindi non ti piace jeremy?» «shAR» Stiles rimase immobile, le dita ancora a tamburellare sul pavimento. Deglutì e chiuse gli occhi, perché ad un certo punto era diventato nauseante perfino continuare a negare. «beh? i fan meritano di saperlo»
    Non credo? Non lo so? LO STO CHIEDENDO A VOI?
    Dai, Stiles. Diglielo. Che senso ha girarci attorno? Diglielo, e vaffanculo.
    “Somebody once told me –” Afferrò il telefono prima ancora che potesse concludere la prima strofa. Al «prontissimo, STILES?» credeva di non essere mai stato più felice in vita sua d’udire la voce di Soho, ma si sbagliava: «venite in villa? sono qui, in diretta. PRESTO.» «chi? Chi è lì, soho?» «quelli di dicembre»

    «stiles?» il tono interrogativo di Arabells Dallaire parve rimbalzare sui muri fendendo una notte assurdamente piena di concitati passi. Anziché risponderle, o rallentare l’andatura della corsa, Andrew Stilinski continuò a trottare afferrandola per il polso. Era appena rientrata dall’usuale allenamento di Quidditch del Venerdì sera, quello per cui doveva supplicare e poi costringere i suoi compagni a partecipare, ed aveva ancora indosso la divisa della squadra. Sognava solo una doccia e il proprio letto, la stanca Capitana dei blu bronzo – ma, a quanto pareva, era chiedere tanto. Si ritrovò a correre seguendo «scott? Erin? Nicky? maple la scia dei Tassorosso prima ancora di comprendere perché lo stessero facendo, denti serrati e imprecazioni in francese soffocate sul palato. Il suo primo, terrorizzato, pensiero, fu: è successo qualcosa a Jeremy. Ormai viveva costantemente con quel pallino, incapace di lavarsene anche sotto il getto bollente della doccia. Deglutì, aumentò l’andatura per rimanere al passo con lo psicomago. Se fosse… se fosse successo qualcosa a Jeremy l’avrebbe saputo, giusto? E cosa c’entravano gli altri Tassi? «andrew.» e dovette esserci qualcosa nel suo tono, una supplica, perché il ragazzo lasciò la presa e le lanciò un’occhiata che, per poco, non lo fece andare a sbattere contro l’angolo del corridoio. «dobbiamo…hamilton…» respiri spezzati dallo sforzo e da qualcosa che, per la Dallaire, non era più difficile da interpretare: paura. La paura che nasceva dall’aver sperato troppo, sapete. Quella subdola puttana della fede che, in quelli come loro, nasceva già crepata dalla realtà. «arci» riuscì a sibilarle infine, prima d’imboccare le scale che li avrebbero portati a… dove? La Stanza delle Necessità, si rispose; doveva essere la Stanza delle Necessità. Non ebbe bisogno di altre spiegazioni per seguire ciecamente il ragazzo, qualunque cosa quell’Arci significasse: era tornato? Avevano trovato il suo cadavere? Non era certa di voler avere una risposta, Bells, finchè poteva convincersi della prima opzione – o di un surrogato: una lettera, una cartolina.
    Si sarebbe fatta bastare qualunque cosa, a quel punto.
    «se è uno scherzo -» iniziò, tremando piano. Se fosse stata una presa in giro, fosse stata l’ultima cosa che avrebbe fatto, l’avrebbe ucciso - e poi avrebbe ucciso quell’imbecille di Jeremy per averlo trascinato nelle loro vite. Lanciò un rapido sguardo agli altri, apparentemente confusi quanto lei. Le bastò l’essersi distratta mezzo secondo per andare a schiantarsi contro qualcosa - contro qualcuno, come notò dalle mani strette attorno alle proprie spalle. Il pacato, cucciolo, Andrew Stilinski, si era appena fermato al centro del corridoio, e la guardava come se fosse stato il peggior esemplare di essere umano che avesse mai incontrato. Voler bene a Stiles era semplice, quasi scontato, eppure la Corvonero si era sempre sentita a…disagio, quand’era in circolazione. Durava sempre poco, eh, ma c’erano istanti nei quali bastava ti guardasse per farti sentire in colpa, neanche avessi appena schiacciato la coda del suo cane – o, peggio, la sua. Ti faceva sentire una merda, sostanzialmente, perché a quello sguardo volevi rimediare. Era proprio implicito, tanto che dovette combattere contro la propria lingua per non ribattere con un mi dispiace, non era mia intenzione prima ancora ch’egli potesse effettivamente dire qualcosa. Perché avrebbe dovuto scusarsi? «non…lo…farei…mai» ed ecco un’altra cosa che non sopportava, e che la spinse a sottrarsi alla sua presa: lo sapeva, che non l’avrebbe mai fatto. Era Stiles. Si morse il labbro inferiore ed annuì, un passo all’indietro per raggiungere gli altri. «ed ora si esce.»
    Quel che non aveva loro detto, era che il ed ora si esce non era necessariamente seguito da un più tardi si rientra. Erano rari i momenti nella sua, seppur breve, vita in cui aveva temuto per l’incolumità di questa, ma lo scuolabus che avevano rubato («lo riporto indietro, okay? Oddio, stiamo rubando uno scuolabus. Okay. alohomora. beh? Si che lo so mettere in moto senza chiavi, malfidata. Per chi mi hai preso? Kawabonga, baby») e con il quale sfrecciavano per Londra ignorando vari (tutti) cartelli stradali e sporadici (tutti) semafori rossi, rientrava indubbiamente in categoria. Ignorando il buon senso, s’era affacciata da uno dei rettangolari finestrini neri del bus ed aveva lasciato che l’aria le scompigliasse i corti capelli castani, occhi chiusi e sorriso involontario sulla bocca: è come volare, si rese conto.
    E non era certa fosse un complimento per l’ispettore che aveva dato la patente ad Andrew Stilinski.

    «stiles?» era tornata indietro, malgrado gli altri fossero già volati oltre le scale che conducevano al piano superiore della villa. Strinse la presa sul suo dolce carico scendendo nuovamente i gradini così da trovarsi all’entrata, occhi verdi come il muschio sollevati per cercare quelli scuri, e distratti, di Andrew. Erin Chipmunks era ancora troppo giovane, e troppo ottimista, per poter interpretare l’immobilità del ragazzo, ma non troppo stupida da capire quando qualcosa non andava. Aveva imparato a conoscerlo con lentezza, fra una colazione rubata prima delle lezioni ed un saluto in studio al San Mungo; aveva appreso come interpretarlo quando si faceva caotico e disordinato. Andrew Stilinski, prima di essere suo zio, era suo amico. Così tornò indietro, Erin, fermandosi al suo fianco cercando con lo sguardo il motivo del suo indugio. Non poteva sapere che la prima ed ultima volta in cui aveva volontariamente messo piede in quella casa, era stata la notte di Capodanno - il primo bacio con Karma - così come non poteva immaginare tutte le volte nelle quali, fermandosi sulla soglia, aveva atteso i fremelli. Aveva atteso Jayson. Non poteva conoscere simili informazioni, ma poteva sentirle: cercò, per quanto difficile le risultasse, di protendere una mano verso la sua, e di stringerla impacciatamente nella propria. «andiamo?» perché lui avrebbe potuto fiondarsi alla Villa subito, ed invece era andato a prenderla – ed aveva caricato tutti sullo scuolabus. Perché lui avrebbe potuto raggiungere gli altri al piano superiore, ma ancora non l’aveva fatto. Stava semplicemente lì a deglutire aria; perfino da quella distanza poteva vedere le vene pulsare frenetiche, ed era consapevole che quello stesso ritmo era seguito anche dal proprio cuore. «insieme» aggiunse quindi, in un sussurro più simile ad una preghiera che ad una richiesta. Solo in quel momento lui accennò a ricambiare la stretta, lo spettro di un sorriso sulla bocca. «sicuro» ma sicuro non lo era nessuno dei due, mentre lenti salivano gli scalini. Il corridoio le sembrò più lungo di quanto non fosse possibile, più buio - quasi più denso. Scott la attendeva sul ciglio delle scale, i grandi occhi chiari, specchi dei suoi, a fissarla sperduti.
    Persi. Senza l’una o l’altro, i Chipmunks erano sempre persi, capaci di trovare sé stessi solo quando insieme. Si diceva fosse una cosa comune fra i gemelli, ma la Tassorosso preferiva credere che fosse una cosa solamente loro, un legame che li rendeva speciali. Di parole, loro due, non ne avevano mai avuto bisogno: così alla sua occhiata rispose con un sorriso, allungando la mano ancora libera verso di lui. Insieme. Erin non aveva una precisa idea su cosa li aspettasse oltre la soglia della camera di Rea, ma da quando Stiles era apparso nella Sala Comune a quel momento, s’era fatta un’idea tutta personale di quel che sarebbe accaduto: Murphy e Kieran le avrebbero sorriso correndole incontro, morendo dalla voglia di ascoltare la nuova trama per la sua fanfiction; Maeve e Dakota le avrebbero sventolato di fronte al naso dei sacchetti di caramelle concedendole, per quella volta, di mangiarle tutte; Amalie l’avrebbe stretta forte, promettendole, come un tempo lontano ma inciso nell’anima, che non l’avrebbe più lasciata e sarebbero rimaste insieme; Gwen le avrebbe sorriso da sopra un bicchiere dal dubbio contenuto, e le avrebbe detto che era stata tutta una strategia per conoscere i propri genitori; Arci, Akelei e Gemes le avrebbero detto che, a ben guardarla, c’era qualcosa di familiare, in lei; BJ, CJ, Sunday, Barrow e Sersha, avrebbero ammesso di sapere del 2043, e con una stretta di spalle avrebbero accettato di provare a capire qualcosa tutti insieme; e Jayson, infine, si sarebbe grattato distrattamente la nuca, e con un sorriso imbarazzato le avrebbe detto “non potevo certo morire prima di conoscere mia figlia, giusto?”
    Sbagliato. Quando entrarono nella camera di Rea Hamilton, troppo affollata, Erin comprese subito che non sarebbe accaduto nulla di quello che, così romanticamente, s’era immaginata: non erano tornati.
    Erano solo…apparsi. Un grumo di saliva le soffocò il respiro, gli occhi si gonfiarono istintivamente di lacrime. Erano lì, no? Se lo sarebbe fatto bastare. Doveva solo… doveva solo trovare un modo per tenerceli, lì. Avanzò ancora di un passo, i palmi sudati.
    Almeno possiamo dire addio.
    Si mise a tacere con un gemito, la guancia stretta a sangue fra i denti. Non è un addio, continuò a ripetersi mentre cercava di farsi strada verso le prime file. Non è. un. Addio. Si buttò a terra ed iniziò a gattonare fra le gambe altrui, attenta al proprio carico ma non a sé stessa. Avrebbero potuto schiacciarla, ed in quel momento l’avrebbe perfino accettato senza fiatare. Riuscì infine a sbucare, dal suo scarso metro e cinqualcosa, ed ergersi in tutta la sua (infima) altezza. Li vide, Erin. Li vide tutti, seppur …leggermente diversi, da come li ricordava. Rimase immobile per evitare alle lacrime di rotolarle sulle guance, cocciuta ma giovane: glielo si leggeva in faccia che quello non era il lieto fine nel quale aveva sperato. Inspirò ed espirò, sforzando tutta sé stessa nel dipingersi un sorriso sulle labbra.
    Doveva almeno provarci, Erin. «gwen» ed ancora si sforzò di non piangere, i polmoni immobili dietro lo sterno. «gwen» ripetè, quella volta più forte. Evitò di dirle come stesse: non voleva mentirle, ma neanche farla preoccupare. Ti prego, torna a casa. «sei vestita in modo buffo» disse solo, in tono roco. Fece brevemente, brevemente, scivolare gli occhi sugli altri: non poteva dir loro nulla, Erin. Non avrebbero capito. Si limitò solamente a schiarirsi la voce, cercando quanto possibile di evitare i loro sguardi. «cj? Ho portato…farina. Ho pensato…» sollevò il braccio destro, quello sotto il quale reggeva il piccolo cane nero che, mesi prima, aveva trovato terrorizzato nel dormitorio. «è bravissimo» deglutì ancora, abbassò il capo. Con tutte le cose - con tutte le cose che avrebbe potuto dire o fare, la sua priorità era stata davvero il bulldog francese? Si sentì molto stupida, Erin. Infantile e stupida. Finchè: «grazie,» e se non avesse sollevato lo sguardo, probabilmente non avrebbe colto il «cuginetta» sul sorriso sghembo e piatto del Knowles. Spalancò la bocca in una O di sorpresa, gli occhi a guizzare su Gwen prima di tornare su di lui. «hai letto -» CJ si strinse nelle spalle, annuì piano. «GLIEL’HAI DETTO?» aveva evidentemente alzato la voce, un misto di stupore e disappunto, perché un paio di teste di volsero nella sua direzione. Non specificò cosa o a chi, e dal sopracciglio arcuato di lui, dedusse di non averne bisogno. Oh, beh. Si permise una veloce occhiata a Jay, spostandosi poi repentina su Gwendolyn - territorio amico, familiare. «anche amalie?? Kier mi aveva detto…» la voce le morì in gola, la testa a piegarsi incontrando un’altra scorciatoia. «murphy? Kier?» che senso aveva continuare a fingere che una lacrima - ed una seconda ed una quarta - non fosse scivolata dalle ciglia corvine? Un singhiozzo le graffiò la gola; allungò istintivamente un braccio verso di loro, pur sapendo di non poterle raggiungere.
    Per ora, si disse. Per ora. «amalie…? Le ho» si agitò sul posto spostando il peso sulla gamba destra, avanzando quindi, speranzosa, con il carico sotto il braccio sinistro. «le ho portato eskild» sussurrò, un primo brivido a congelarle le guance. «…è c-con voi, giusto? O – è lì?» allungò ancora, disperatamente, il collo verso Bodie, California, 1918. Non le importava se fossero sulla Luna o nel centro della Terra, se nel Paleolitico o nel 3000, purchè fossero lì in quel momento. «deve…» quella sentenza, non la concluse mai.

    Era rimasto fermo molto più a lungo del necessario, Stiles, incapace d’incamerare aria. Fissava prima l’una e poi l’altra di quelle pareti, il petto immobile ed il pugno stretto fra i denti. «obi?» fu l’unico nome che, per primo, riuscì a pronunciare. Obi Skylinski, il ragazzino dai capelli scuri e l’eyeroll facile – lo stesso che, pur detestandolo, aveva indossato il maglioncino di Natale nel cuore d’Agosto. «pizzalover?» ed il tono di Stiles si fece sempre un po’ più concreto, tutto il contrario delle gambe – pura gelatina, le sentiva. Riuscì a reggersi in piedi per puro caso. «maeve? dak è… lì? Non lo…vedo» accampò quella scusa per sentirsi un po’ meglio, per permettere all’ossigeno di entrare in circolo senza soffocarlo. Per concedere al proprio capo di voltarsi, di cercare e trovare ciò che uno specchio avrebbe dovuto riflettere: una parte di sé stesso. Pensavo fossi morto. «1918, uh? sembra carino» e sorrise a Jay sentendo di aver già raggiunto il proprio limite: e avesse detto un’altra, mezza, parola, avrebbe iniziato a gridare o piangere.
    O, conoscendosi, entrambe.

    «ti odio» fu la prima cosa che disse ad Archibald Dominique Leroy Baudelaire, puntandogli accusatoria l’indice contro. Ci vibrò davvero, di quella rabbia. Inutile specificare che non potesse, né in quella vita o quella dopo, provarla realmente - almeno, non in quel senso: era arrabbiata, ovvio, ma non sarebbe mai riuscita ad odiare Arci. Premette le mani sugli occhi per soffocare le stupide lacrime a bruciare sulla cornea, un grugnito seccato a scivolarle sui palmi. Quando alzò il capo, sguardo nuovamente asciutto, lo fece solamente per spostare la propria attenzione su Joey. «capitano» beh, nanetto: «ed anche te» non le importava che non fosse colpa loro, ai suoi occhi erano entrambi assenti ingiustificati.
    Come avevano potuto, tutti loro, farle quello. Sorrise a metà e rise nervosa, la lingua a umettare il labbro inferiore. «non fare domande stupide» picchiettò con la dita sulla spilla da Capitano, ed arcuò un sopracciglio. Lasciò che a rispondere sulla data fosse qualcun altro, dato ch’ella avrebbe solamente potuto mentire – ma perché trattenersi da quella dose di sarcasmo che il Moonarie le aveva così gentilmente offerto su un vassoio d’argento? «va tutto una favola: gli esperimenti non devono vivere a new hovel, purosangue e mezzosangue possono assolutamente lavorare fianco a fianco, e biochemists van lidova non è affatto diventato ministro inglese. Vasilov si è accontentato di Durmstrang, ed ora nel suo tempo libero pettina unicorni» sorrise con dolcezza amara, piccante. Sorrise senza che quella smorfia giungesse agli occhi. «i giornali di tutto il mondo non vi chiamano traditori - figurarsi - nè hanno mai decretato la vostra m o r t e» lo sguardo scivolò dall’uno all’altro di loro, da un tempo all’altro. Sinceramente, di capire, se ne fotteva poco: non voleva sapere come fossero giunti ovunque fossero, l’unica cosa che le interessava era trovare un modo per riprenderseli. «spero che almeno, dal maledetto far west, tu abbia buone notizie per i tuoi /amici/» mimò le virgolette sull’ultima parola, uno sguardo feroce ad Arci mentre incrociava le braccia sul petto.
    Che di feroce, quello sguardo, non aveva proprio nulla: ti prego, Arci. Dimmi che stai bene, maledetto pezzo di merda. Mi manchi da morire. Torna a casa.
    20/04/2018 | 22:30
    arabells dallaire
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    Il sacco da boxe ondeggiò inerme per qualche secondo, le catene che lo tenevano ancorato al soffitto a tintinnare fastidiosamente nel largo seminterrato – l’unico rumore a rimbombare molesto sulle pareti, senza trovare alcun impedimento alla propria propagazione apparentemente incessante, dal momento che le ultime note dello stereo appena spento andavano sfumando, lasciando della melodia nient’altro che un blando eco privo di forma. Phobos ne osservò il lento movimento piegato con i palmi delle mani premuti sulle ginocchia, le iridi di giada fisse sull’ammasso di sabbia fine e lucido tessuto nero; i suoi misurati ansimi e le gocce di sudore, cadendo sul pavimento al cadenzato ritmo di una litania, presto sostituirono il vuoto lasciato dall’interruzione in medias res di Kanye West e la sua Stronger, alternandosi in maniera confusa allo sfrigolante acciaio degli anelli. Restò a fissarlo a lungo, per quello che al professor Campbell sembrò essere un tempo infinito, senza riuscire ad alzare lo sguardo per rivolgerlo alla bionda, le cui dita tamburellavano piano sullo stereo.
    Se avesse posato gli occhi su Zenith, sua figlia da oramai poco più di sei anni, le avrebbe sorriso – avrebbe preso l’asciugamano ch’ella, premurosa come al solito, gli aveva portato quando si era resa conto che i cinque minuti decantati dal trentenne più di mezz’ora prima erano finiti da un pezzo; le avrebbe sorriso sereno, di quell’ingenua innocenza che sporcava occhi e labbra sebbene di innocente ci fosse ben poco, e da star sereni ancor meno; le avrebbe chiesto scusa scompigliandole i capelli, sebbene sapesse che alla Gallagher non importava così tanto se posticipavano di un po’ la serata cinema in famiglia, superandola con un tattico finger guns e promettendole che (stavolta sul serio!) ci avrebbe messo anche meno di cinque minuti per essere pronto, evitando di sciorinarle il senso di colpa che sentiva pesare perché erano sempre meno le serate che poteva passare ad Inverness lasciandola inevitabilmente da sola, sempre più moralmente costretto a rimanere ad Hogwarts più notti: non che gli dispiaceva controllare che nulla succedesse ai suoi studenti, sia chiaro, ma dividersi i turni di sorveglianza con i suoi colleghi gli mancava. Gli mancavano.
    Se si fosse deconcentrato in quel momento, non avrebbe più preso a pugni il sacco: era il suo più grande difetto, l’incapacità di dire no - a chiunque, a se stesso, ma soprattutto alla sua famiglia. Era come se quel semplice monosillabo, d’uso e vizio diffuso sulla bocca di chicchessia, le corde vocali di Phobos non fossero capaci di sintetizzarlo, dandogli voce e colore; ed era per questo che l’ex tassorosso, per tutta la vita, non aveva mai voluto ruoli di leadership (che fossero nella Resistenza, come in qualsiasi altro contesto). Pregio e condanna della gente che ancora ci spera, quel costantemente presente: orna le richieste e le suppliche più disperate di un’aura dorata, trasformando l’impossibile in un “tranquillo, ci provo” anche quando l’opinione comune non lo ritiene nemmeno lontanamente plausibile; quel che rende tutto un po’ più accessibile, che dipinge un timido sorriso sulle labbra tirate in un broncio antico che da quelle bocche non ha mai voluto andarsene fino ad allora. Quello stesso assenso stirato, il cenno del capo a nascondere nel suo stesso movimento gli occhi chiusi e la carne morsa tra i denti, che per bello che poteva apparire agli occhi altrui, era sempre un po’ no per sé stessi: un consenso vergato dall’inchiostro pece di un probabile insuccesso e di privazioni personali, di parole date a cui non sempre si può tener fede – che una risposta affermativa tante volte va taciuta, che è meglio una disillusione in partenza che una felicità effimera.
    Per quanto riguardava Phobos Xavier Campbell, acconsentire a qualsiasi cosa era sempre stata una prerogativa inscindibile del suo essere: il suo non essere in grado di rifiutare l’aveva spesso messo con le spalle al muro, sin da quando si era ritrovato ad affrontare la gioventù di Hogwarts, ma non era mai riuscito a cambiare quel lato di sé; a prescindere, qualunque opzione gli veniva posta dinnanzi era una sfida, anche quando l’assurdità della questione rendeva l’assenso una decisione aldilà della stupidità. Diceva di sì ancor prima di pensare a quelle che avrebbero potuto essere le conseguenze, trovandosi sempre in seguito a dover escogitare un piano.
    E quella volta, nonostante non volesse, non poteva ascoltare la ragazza – e non potendole dire di no, semplicemente, aveva deciso di ignorarla.
    Non ricordava nemmeno quanto tempo fosse passato dall’ultima volta che l’esigenza impellente di scaricare tutta la tensione accumulata prendendo a pugni qualcosa s’era fatta così viva in ogni fibra del proprio corpo, ma continuava a sentirla crescere – continuava a percepire il battito forsennato contro il petto sebbene questo fosse, in realtà, quieto; continuava a sentir tremare le labbra in un fremito nutrito solo da rabbia e stanchezza.
    Continuava a vedere i ragazzi uscire grondanti di sangue dalla sala delle torture, e lui non poteva farci nulla; un destro.
    Continuava a passare davanti alle aule vuote, scorgendo dall’altra parte delle stanze le porte degli uffici spalancate e nessuno a sedere dietro la scrivania; un montante.
    Continuava a fare l’appello tutte le mattine, ed a segnare con un pallino tutti coloro che non rispondevano al richiamo del proprio nome – sempre gli stessi, sempre lo stesso silenzio imbarazzante a colmare gli spazi vuoti, quasi che nell’attesa di aspettarsi l’alunno mancante varcare la soglia trafelato, scusandosi del ritardo -; due pugni.
    Continuava ad andare al Quartier Generale, e continuava ad essere vuoto – sfollato, disabitato, nessuno ad accoglierlo. Troppi pugni, da contare negli ansimi.
    «EHI» quella bottiglietta d’acqua a planargli in testa con non molta delicatezza, comunque, non se l’era aspettata. «non mi sembrava così necessario» ed infatti, non lo era per niente. Zenith, quando in vena (ossia quasi sempre, gli era capitato poche volte di voler scappare dalla furia omicida di una piccola bionda che fino a pochi istanti prima era impegnata a fare le treccine al suo koala domestico: impresa ardua, ma a lei sembravano piacere le missioni impossibili), in una situazione del genere avrebbe lasciato stare. La conosceva oramai da parecchio tempo, e sebbene non fosse realmente sua figlia poteva dire di averla capita a trecentosessanta gradi: non era inopportuna, sapeva rispettare gli spazi altrui, disturbava solo se strettamente necessario – o se nessuno aveva da fare: in quel caso diventava molesta come un chihuahua. Lanciare cose non era nel suo stile. «mi stavi ignorando!» replicò con tutta la semplicità di questo mondo, mentre si appoggiava con la schiena contro il muro. «cosa?? pfft, figurati» «allora dimmi che cosa ho detto» Phobos si allontanò definitivamente dal sacco, conscio che a quel punto il suo allenamento era giunto al termine – e che per rilassarsi sarebbe dovuto passare al piano B: l’erba -, prendendo un asciugamano dall’unico basso mobile dell’intero seminterrato. Amava possedere cose inutili, il ribelle, sparse per tutta casa incurante di tutte le filosofie sull’ordine, ma quello era il suo piccolo tempio: nient’altro che una piccola palestra personale, il cui unico oggetto fuori posto era, appunto, il mobile con asciugamani, stereo e mini-frigo per bevande energizzanti e non. Ci mise più tempo del dovuto per asciugarsi la faccia, cercando di ricordare cosa la più giovane avesse detto – inutilmente. «che devo andare a comprare la papaya perché non ne hai più per il frullato»
    «??? no»
    «che… il cane dei vicini è posseduto ed ha fatto un revival de l’esorcista nel nostro giardino»
    «ma hai fumato?»
    «non ancora»
    Zenith roteò gli occhi al cielo – se solo avesse potuto, Phobos era alquanto certo che li avrebbe girati ancora fino a far avere loro un moto rotatorio proprio che sarebbe poi entrato in conflitto con quello terrestre -, il Campbell sorrise appena. «comunque, ero venuta a dirti che hai visite – e anche abbastanza urgenti»
    «a quest’ora?» lei alzò le spalle, come a volergli dire che lei non poteva farci nulla se la gente rompeva le palle alle dieci e mezza di sera. «chi è?» «elijah»

    Ad ogni giorno che lento volgeva al proprio termine, adombrando dell’ennesima notte insonne la vuota dimora dei Dallaire, guardandosi intorno Elijah non poteva che odiare e benedire, al tempo stesso, il fatto che sua sorella fosse costretta a vivere così lontano da Inverness - da lui.
    Gli bastava buttare un’occhiata al pavimento disordinato e colmo di cianfrusaglie, confezioni di cibi precotti e bottiglie vuote, che gli andava sempre meno di gettare nella pattumiera, per dirsi che era fortunato che Bells vivesse al castello di Hogwarts: se avesse visto in che condizioni vertevano lui e la casa, probabilmente l’avrebbe ucciso – senza mezzi termini, in quella che sarebbe stata senza dubbio una maniera permanente; e ne rideva al solo pensiero, il biondo, perché se non fosse stato per il fatto che alla propria vita erano legate due delle persone più importanti della sua esistenza, l’avrebbe preferito a tutto quello.
    Gli bastava cercare le sue stesse iridi nel riflesso sul vetro del mobile del bagno - vuote e sconosciute nonostante tutto quel tempo, nonostante tutto quello che era successo - e trovare al loro posto opachi specchi verde azzurri, un vago rossore a spegnersi dietro una patina di foschia; gli bastava lasciar scivolare la vista sulle pronunciate occhiaie a macchiargli la pelle, sulla barba incolta, sulle labbra tremanti, e sentire le mani stringere sempre di più il marmo del lavandino. Gli bastava vedere Elijah Dallaire, per supplicare che qualcuno, lì, ci fosse – sua sorella, i suoi amici, chiunque.
    Più ci pensava, più si odiava. Buon Dio, era un adulto: non era sana quella vita, e non era sano il fatto che a ventisei anni non riuscisse a sopravvivere e sopravviversi in solitudine.
    Non era sano che non riuscisse nemmeno più a sostenere un telefono: o meglio, il poco nitido rumore a riverberare nelle orecchie dello smartphone che vibrava sul tavolo in maniera molesta, sebbene nessuna notifica, chiamata o messaggio che fosse, era pervenuta sullo schermo.
    Prese a cliccare il tasto della home in maniera frenetica, continuando a visualizzare i numeri senza sapere quale fosse l’ora x - sempre che ci fosse, un’ora x da aspettare: non si sarebbe sorpreso affatto, se il suo potere avesse deciso di nuovo di prenderlo per il culo. Non era la prima volta che gli capitava di prevedere l’arrivo di una telefonata, ma di solito era più statistica che non vera chiaroveggenza. Se non si era annotato a parete gli orari preferiti per ciatellare dai neo nullafacenti (ma nemmeno così tanto neo) dei suoi amici, era soltanto perché la sua memoria rappresentava una tabula rasa su cui memorizzare le informazioni più inutili sembrava essere particolarmente semplice; le 22:19, comunque, non era l’orario di nessuno dei due. Comunque, tutte le altre volte che un’evenienza simile s’era già presentata, non era mai stata così - pressante, opprimente, come se ci fosse qualcosa di grosso dietro la cornetta ad attendere la sua ricezione. E non gli piaceva affatto.
    Cristo, non capitava mai nulla di buono – come poteva non pensare che quella telefonata lo fosse?
    Riusciva ad essere tranquillo pensando che niente poteva essere successo a Rea o Nate. Niente di grave, almeno: ne avrebbe risentito, lo avrebbe saputo.
    Ma c’era Eugene nell’incognita, e c’era Arabells; tamburellava sui bordi del telefono senza pace, nella sola speranza di far scivolare il pollice sul cerchio verde e tirare un sospiro di sollievo, capendo che la sua preoccupazione era stata oltremodo inutile.
    Si accese una sigaretta, andò sul divano; accese la televisione, la spense qualche secondo dopo per tornare poi nuovamente in cucina senza sedersi al tavolo, la schiena poggiata invece contro il mobilio.
    Prese a fare ricerche prive d’alcun senso, solo per passare il tempo – studio per la facoltà, ultime notizie dal mondo, niente che leggesse davvero; soltanto un risultato dal web lo convinse a fare uno studio più approfondito, che si concluse con un tipico messaggio di rito diretto all’Henderson: “ehi nate, hai mai pensato di dedicarti al pastafarianesimo? secondo me può interessarti” -, ma questo sembrava scorrere anche fin troppo lentamente per i suoi gusti.
    Erano le dieci e trentadue della sera del venti aprile, quando il telefono di Elijah si decise a squillare.
    Di certo, non il nome che si era aspettato. Il che fortificava i timori del chiaroveggente: il fatto che fosse Rea a chiamare, doveva significare che era successo qualcosa.
    Per quanto avesse voluto non fosse così. Per quanto gli sarebbe piaciuto, in fin dei conti, che lo chiamasse e basta.
    Ed erano stati mesi, era stato un anno, così fuori dalle righe, che il Dallaire nemmeno ricordava con esattezza se fosse accaduto sul serio – o da quanto non usciva da Inverness, da quanto declinava con un impegno o l’altro i pigiama party dei migliori amici, da quanto non riuscisse a chiamare la Hamilton perché si sentiva in colpa.
    Chiuse gli occhi, inspirò. «rea?» «c’è della gente nel mio specchio»
    Okay. Non era quello che si era aspettato. Trasse un sospiro di sollievo, ritenendo che qualsiasi cosa fosse poteva non andare in panico - credeva. «ti…» corrugò le sopracciglia e si schiarì la voce, prendendo a camminare confuso per casa. «stanno infastidendo?» «se così fosse, pensi che avrei chiamato te?» lecito, nonostante non riuscì a pensare che, in fin dei conti, non gli sarebbe dispiaciuto. «più che altro, mh…» era confusa, titubante? Era un bene? No, sicuramente era un male.
    Cosa stava succedendo. «ci sono le persone scomparse, nel mio specchio»
    Chiaro e lineare. «le persone scomparse a dicembre»
    Cinque minuti più tardi, tiratosi a lucido il più in fretta possibile mentre faceva tutte le chiamate che poteva per avvertire chiunque doveva essere avvisato, era alla porta di Phobos Campbell a chiedere un passaggio per Londra.

    Elijah lasciò il lungo pacco all’entrata, nascosto il più lontano possibile dalla miriade di gente che presto o tardi avrebbe fatto il suo ingresso nella villa degli Hamilton, mentre il docente di Corpo a Corpo già saliva le scale pronto a risolvere un nuovo mistero - testuali parole, sulle quali il Dallaire non volle indagare. Era stravagante e piacevole il Campbell, ma tante volte il biondo aveva trovato inutile capire in quali meandri della mente i suoi pensieri andassero a parare: gli piaceva così, più o meno come sembrava piacere a tutti quanti.
    Al naturale, e senza il bisogno di essere davvero capito.
    Sperava davvero che sua sorella si presentasse all’appuntamento, ma da quanto aveva capito prima di partire dalla Scozia, anche molti studenti di Hogwarts erano stati avvertiti della faccenda – e figurarsi se, giustamente, Bells poteva perdersi una cosa del genere. Teneva quel pacco a casa da giorni, con la paura che inviandolo i controlli del Ministero sui gufi da casa potesse rovinarglielo: già tre giorni senza poterle dare il suo regalo di compleanno erano stati una tortura, quel giorno avrebbe rimediato.
    Salite le scale, mentre già Phobos senza complimenti aveva fatto il proprio ingresso trionfale e sorridente verso lo specchio incriminato, indugiò sull’uscio.
    Inutilmente, si disse.
    Santo cielo, c’era già stato così tante volte lì dentro: cos’era cambiato?
    Avanzò, un timido sorriso verso la Hamilton subito rimpiazzato da un «cosa sta succedendo?» confuso, dicendosi che forse era lui, ad essere cambiato. Non che fosse importante in quel momento; in quel momento, di cosa fosse cambiato, non gliene fregava un cazzo: gli interessava quello che avrebbe dovuto essere il proprio riflesso, ed invece appariva come una finestra.
    Una finestra molto strana, a dire il vero - «run? arci? gemes?» distolse per un attimo lo sguardo da quello che sembrava un capanno, per posarli sulle piastrelle del bagno di una villa – forse? «murphy? state tutti bene?» cercò gli occhi scuri di Rea, quelli della gente che aveva iniziato ad arrivare – quelli di sua sorella, sorridendole spontaneo prima che questa prendesse ad inveire contro il proprio migliore amico; quelli del Jackson, allargando un braccio sulle sue spalle per farselo più vicino mentre già si commuoveva alla vista. Non conosceva tutta quella gente, Elijah, o non li conosceva così bene – non aveva alcun diritto di soffermarsi più del dovuto ad occupare spazio di cui altri avevano bisogno, preferendo arretrare verso Rea. «come pensi che sia successo?»
    Perché, per quanto tutto fosse possibile – insomma: era morto e risorto, aveva ragione di credere che fosse così -, quello non era maledettamente normale.

    «questo…» sorrise, strinse le labbra tra i denti facendo scivolare lo sguardo dai suoi studenti, ai suoi colleghi, ai suoi amici: aveva sempre saputo che non potevano essere morti, anche se vederli nel riflesso di una camera da letto non era poi meglio. Carpì qualcosa delle parole degli altri – far west, 1918, 2118, Parigi, Lafayette viva, Capello Parlante, barbabietole -, ma continuava a non credere ai propri occhi. Un conto era sperare fossero vivi, un conto era vederli; che si trovassero in epoche diverse, per Phobos non era così rilevante. Avrebbero trovato un modo per riportarli a casa, lo sapeva.
    Quale, non era così rilevante.
    «questo…» è bellissimo, è tutto bellissimo. La scuola non è più la stessa senza voi a rompere un muro o a far esplodere un’armatura di tanto in tanto, senza il solito trambusto che voi tutti avete portato via; e non è più la stessa perché mi mancate, e le aule sono sempre troppo vuote, ed i supplenti sono maledetti aguzzini e non è facile cercare di mantenere tutto tranquillo; non c’è più nessuno a difendere la Resistenza, siamo rimasti in pochi, e quei pochi hanno sempre più paura. Ma siete vivi, state bene, e voglio piangere di gioia ma mi conterrò perché sta arrivando gente ed ho un pudore. Più o meno. «questo è uno spoiler, non vale.»
    E dire che la Mystery Inc. si stava così fottutamente impegnando: avrebbero dovuto debellare le opzioni relative all’abduzione aliena ed al teletrasporto su un altro pianeta, ora che sapevano dove e quando erano finiti tutti. «beh dai: com’è il far west, ragazzi? vi state divertendo?» quanto li invidiava.
    Idealmente.
    Forse no. «hanno già inventato il teletrasporto??? COM’È PARIGI?!? Oh. Mio. Dio. MAEVE SEI INCINTA?»
    Priorità. «e dire che pensavo che prendessi appunti a lezione di educazione sessuale»
    Quelle tenute da lui.
    Che aveva avuto tre figli a quindici anni.
    «AUGURI E FIGLI MASCHI!!!&&»
    Ci aveva provato.
    20.04.2018 • h. 22:30 • london • no thoughts, no prayers - can bring back what's no longer there
    phobos campbell
    elijah dallaire


    Edited by zugzwang. - 25/4/2018, 03:48
     
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    21 July 2001 || 17 Y.O.
    20/04/2018 || H 22:30
    "Dove sei, hyung? Ho davvero bisogno di un indizio... di qualunque cosa. Sto cominciando a perdere le speranze. Non so se ce la farò, hyung. Purtroppo non sono forte come voglio far credere e per quanto la determinazione non mi manchi, mi sento sempre più scoraggiato perché ogni mio sforzo non porta mai a nulla. Cosa devo fare, hyung? Come faccio a trovarti? Dove devo cercare? A chi devo chiedere? N-non so più nulla." pensò avvilito il giovane mago, guardando il soffitto. Sapeva benissimo che Sehyung non avrebbe mai potuto rispondere alle sue domande, però si ritrovava comunque a sperare che in qualche modo il maggiore riuscisse a fargli arrivare dal nulla qualche indizio... O un colpo di fortuna. Si sarebbe accontentato di qualunque cosa. Tutto pur di mettere fine a quei lunghi mesi di straziante attesa e ricerca. Jaeyong era sfinito e non riusciva neanche più a dormire per più di due ore di fila a notte. L'unica sua salvezza era Hyunjin che, dall'alto della sua poca consapevolezza di quello che stava avvenendo nel cervello del più piccolo, gli dava esattamente ciò di cui aveva bisogno: calore ed affetto. La naturale allegria di Hyunjin era un toccasana per il minore, specialmente dopo tutti quei mesi passati in solitudine, però non riusciva del tutto a sradicare i cattivi pensieri e questo era un dato di fatto. Il dolore era troppo forte e Jaeyong si ritrovava spesso e malvolentieri a doverlo affrontare, rigorosamente da solo e di nascosto dal maggiore. Spesso si svegliava a causa degli incubi e ricercava lui stesso il calore del corpo del suo hyung, sdraiato al suo fianco. Condividevano il letto sin dal giorno in cui si erano ritrovati e, nonostante le proteste del più giovane, alla fine Hyunjin aveva vinto ed ogni notte il maggiore si avvinghiava al minore senza alcun problema. Proprio come se fosse la cosa più normale del mondo. E forse lo era. O forse no. Però Jaeyong era grato per questo suo spirito di iniziativa perché aveva proprio bisogno di sentirlo così vicino ed anche di sfiorarlo, proprio per accertarsi che Hyunjin non fosse un sogno. Aveva paura anche di questo, Jaeyong: di svegliarsi e scoprire che Hyunjin non fosse mai venuto a cercarlo. E piangeva, poi. Senza un motivo preciso. Per tutto e per niente. Era proprio un disastro. Perlomeno non era più solo, però. Questo era già molto importante. Eppure non bastava a renderlo più sereno. Sehyung era ancora là fuori, da qualche parte, da solo. Come poteva accettarlo? E come poteva essere felice sapendo che non erano ancora riusciti a trovare un indizio che li conducesse a Sehyung? Perché era proprio questo il punto: Jaeyong era felice di non essere più solo ma non riusciva ad esserlo sul serio perché non faceva che pensare a quanto ciò non fosse giusto. Sehyung non era stato ancora trovato e poteva essere in pericolo, quindi non riusciva a stamparsi un sorriso in faccia ed a continuare come se niente fosse, nonostante la presenza di Hyunjin. "So cosa Sehyung vorrebbe. So che sono uno cretino a sentirmi in colpa. Però non posso farci nulla. Smetterò di star male solo quando lo troveremo." pensò Jaeyong, girando tutto il corpo verso quello del suo migliore amico. Lo osservò sfacciatamente, approfittando della situazione. Forse voleva memorizzare ogni dettaglio del suo volto o forse voleva solo guardarlo. Non era chiaro. Il farlo, però, gli rendeva il cuore meno pesante e quindi ben presto anche le lacrime smisero di scendere. Sperò di non averlo svegliato con tutti quei rumori e quei movimenti ma non c'era pericolo: Hyunjin ancora dormiva profondamente. Sembrava quasi un angelo. I capelli biondi sicuramente aiutavano moltissimo da questo punto di vista perché gli conferivano un'aspetto ancora più etereo, però Jaeyong doveva ammettere di aver avuto questo pensiero sin dall'inizio. Hyunjin aveva qualcosa nel suo aspetto che lo faceva sembrare subito più innocente di quello che in realtà era, specialmente in quel momento e con quel look in particolare. D'istinto, Jaeyong allungò una mano e gli sfiorò delicatamente la punta del naso, proprio lì dove c'era quel neo che aveva sempre trovato adorabile ma che Hyunjin si ostinava a coprire con del make-up. "Che stupido che sei." pensò Jaeyong, allontanando la mano. Subito dopo, Hyunjin si mosse come a ricercare quel contatto e, ovviamente, gli si ci avvinghiò addosso ancor di più. Una piovra al confronto era più delicata. "Mi ucciderà. Morirò stritolato nel sonno." pensò Jaeyong ma alla fine non fece nulla per allontanarlo. Avrebbe potuto, sia questa volta che quelle precedenti, ma c'era qualcosa che glielo impediva e non era di certo la paura di svegliarlo. Che cosa fosse, purtroppo, non riusciva proprio a comprenderlo ma andava anche bene così. "So che non sono forte. So che non sono la persona migliore del mondo. So che sono pieno di difetti e che sbaglio in continuazione. Prometto però che farò del mio meglio per proteggerti, hyung, e che insieme riusciremo a trovare Sehyung. Fosse l'ultima cosa che faccio." pensò Jaeyong, stringendo il maggiore al meglio delle sue attuali possibilità. Sapeva che il giorno dopo si sarebbe abbattuto nuovamente col calar della sera, così come sapeva che avrebbe di nuovo dubitato di se stesso, però la determinazione non gliel'avrebbe mai tolta nessuno. Questo era un dato di fatto. Sarebbe stato di nuovo male, però avrebbe continuato ad andare avanti perché ogni promessa era un debito ed avrebbe trovato Sehyung. Ce l'avrebbe fatta. Davvero.

    Le ricerche continuarono, lente ed estenuanti. Nessun progresso. Riuscirono a scoprire semplicemente che per un certo periodo di tempo, Sehyung aveva frequentato la Scuola di Magia e Stregoneria di Hogwarts ma che poi era scomparso nel nulla. Che novità, eh? Non era la prima volta che accadeva e Jaeyong non riusciva proprio a capacitarsi di come ciò fosse possibile. L'unica nota positiva era che almeno avevano prove concrete che fosse sopravvissuto alla missione avvenuta nell'estate del 2017 a casa Park, però non cambiava assolutamente nulla. Jaeyong già sapeva che Sehyung non poteva essere morto, quindi non avevano comunque nulla di davvero interessante in mano. In realtà, però, alla luce di queste nuove prove, Jaeyong avrebbe potuto mandare una lettera a tutti gli ex membri della ribellione, però alla fine aveva rinunciato a farlo. Una parte di lui avrebbe voluto davvero mostrare a tutti loro che aveva sempre avuto ragione, però voleva anche che fossero loro stessi a cercarlo per dirgli di essersi pentiti della loro scelta. Ciò però non sarebbe accaduto, almeno non così in fretta. Li conosceva i suoi hyung. Purtroppo non si sarebbe fatti vivi così facilmente, quindi decise semplicemente di lasciar perdere. E poi c'era Mudeom. Già, dove diamine era Mudeom? Jaeyong recentemente gli aveva spedito una lettera quando avevano scoperto questo nuovo indizio, però ancora una volta Mudeom non gli aveva risposto. Era scomparso anche lui? Era nei guai? Jaeyong era praticamente un fascio di nervi. Era arrivato ad un punto in cui stava letteralmente per esplodere. Poteva essere paragonato ad una bomba ad orologeria perché, praticamente, ne aveva subite davvero troppe in questo periodo e non ce la faceva più. Prima Sehyung... poi Mudeom. Chi altro? Tutti quelli che conosceva gli stavano praticamente scomparendo da sotto al naso ed era anche per questo che guardava Hyunjin come un falco. A questo punto, era meglio non fidarsi delle apparenze: magari tra qualche giorno spariva anche lui, quindi era meglio tenerlo d'occhio. Di questo passo c'era davvero la possibilità che scomparisse anche Hyunjin, il che avrebbe sicuramente mandato Jaeyong ai matti (letteralmente). Il giovane mago, intanto, continuava comunque a fingere di stare bene davanti a Hyunjin, proprio per non farlo preoccupare. In realtà era Hyunjin il maggiore, quindi si sarebbe dovuto prendere lui cura di tutto, però Jaeyong non era molto bravo a scaricare le responsabilità sugli altri. Più che altro se ne prendeva carico. Era sua la missione ed era quindi sua anche la responsabilità. Non era neanche maggiorenne, almeno nel mondo babbano, però voleva comportarsi come un adulto, anche se era molto più difficile del previsto. Specialmente se Hyunjin lo distraeva sempre con dei giochetti, volti a farlo sorridere. «Ehi Jaeyong facciamo sasso carta forbici per vedere chi deve chiedere questa volta informazioni » disse il maggiore, riuscendo subito nel suo intento. Un sorriso comparve subito sul volto stanco di Jaeyong ed in un attimo si misero a giocare per strada. La vittoria, ovviamente, spettò a Jaeyong e così il maggiore fu costretto ad entrare nel negozio con l'unico obiettivo di parlare con il commesso. « io sono Tae Hyujin. Lui è Kook Jaeyong la mia famiglia » disse ancora Hyunjin, però all'improvviso l'attenzione di Jaeyong fu attratta da tutt'altro. C'erano delle persone in quel negozio e sentì chiaramente uno di loro dire Hogwarts. Sembravano tutti molto agitati. D'istinto, il ragazzo li seguì fuori dal negozio. « [...] studenti scomparsi. [...] Hogwarts. [...] altre persone scomparse. » disse ancora una persona del gruppo. Il giovane corse verso di loro, senza fiato. « 실례합니다! 무슨 일이야? 호그와트? 실종? » [Mi scusi! Che succede? Hogwarts? Scomparsi?] chiese il ragazzo, panico in volto, dimenticandosi un piccolo particolare: il coreano non lo capiva nessuno. Però, perlomeno riuscì a farli fermare. Cercò di tradurre la domanda al meglio delle sue possibilità ed anche loro furono molto disponibili, infatti, riuscirono a fargli capire che a casa di una certa Rea Hamilton erano riusciti a mettersi in contatto con altre persone scomparse. Non era molto chiaro. La testa di Jaeyong stava scoppiando. Si maledisse più e più volte per non aver ancora imparato l'inglese. Sarebbe stato tutto più facile! « 감사합니다! » [Grazie!] urlò Jaeyong, tornando indietro verso il negozio alla velocità della luce. Quella era sicuramente solo una possibilità perché era sicuro che non sarebbe mai avvenuto alcun miracolo, ma in quella casa stavano riuscendo a comunicare con persone scomparse da tempo (?) e quindi dovevano provare. Anche solo per non rimanere col dubbio e con il rimpianto. Si accorse che Hyunjin era lì a cercarlo e subito lo afferrò per un braccio. « ehi ma dov'eri? » chiese subito lui ma non c'era tempo per delle spiegazioni. Aveva un indirizzo e poco tempo. Dovevano correre. « Hyung, andiamo. Forse ho un buon indizio. Corri. » disse il giovane, prendendo la mano di Hyunjin. Insieme, poi, si misero a correre.

    C'erano tante persone. TROPPE. Erano tutte accalcate davanti a quello che sembrava un gigantesco specchio (più o meno) ma l'immagine che veniva riflessa era un po' diversa dalla realtà. Bizzarro, no? Jaeyong però non ne era sicuro al 100% perché comunque non riusciva a vedere molto. Era alto, questo si, ma non così alto da sovrastare tutti. Spazientito, non lasciando neanche che Hyunjin riprendesse fiato dopo la lunga corsa, Jaeyong cominciò a spintonare tutti per andare avanti e capire definitivamente che cavolo stesse succedendo. Il maggiore continuava a fare domande su domande ma francamente lui non sapeva proprio cosa rispondergli perché non aveva capito praticamente nulla neanche lui. Solo qualche parola sconnessa. Ecco tutto. Però il suo istinto gli diceva che entrambi dovevano essere lì. E ben presto ne capì il motivo. « Sei...Sei tu Sehyung Hyung? » la voce di Hyunjin lo attirò e guardò subito nella sua stessa direzione. Lì, in mezzo a tante altre persone, c'era proprio colui che stava cercando con tutto se stesso. Era arrivato alla fine del lungo viaggio. Lacrime copiose cominciarono a rigargli le guance e solo il buonsenso gli impedì di cercare di toccare lo specchio. Non sapeva come quella magia funzionasse e non voleva assolutamente fare nulla che potesse in qualche modo rompere quel contatto. « Hyung... Sehyung. » disse semplicemente, aggrappandosi a Jin per farsi forza. Jaeyong non riusciva proprio a crederci. Sehyung era lì, davanti ai loro occhi. Ma c'era qualcosa che non andava: non sembrava ricordarsi di loro. « Io non vi conosco, chi siete? Vi ha...mandati mio padre? Sta bene? E' venuto a salvarmi?» disse infatti il loro hyung ed il cuore di Jaeyong si spezzò un po' a quelle parole. Che cosa gli era successo? Perché non si ricordava di loro? E soprattutto perché cercava il padre? Non si ricordava che era una cattiva persona? Al che, Jaeyong cominciò a piangere ancora più forte, completamente esausto. Ce n'era sempre una nuova. Ed ora la felicità di averlo trovato era oscurata da questa consapevolezza. « Hyung, siamo noi! Kook e Tae, come puoi » disse allora Hyunjin, stringendo forte la mano di Jaeyong. Il minore capì subito che il suo hyung avesse bisogno di forza, quindi cercò di fargli capire che lui c'era, anche se era distrutto. Non riusciva a dire nulla. « Che ti hanno fatto? Stai bene? Dove sei stato tutto questo tempo? Pensavamo fossi morto, ti abbiamo cercato e - - - Che ti hanno fatto? Hyung! » chiese ancora lui, mentre Jaeyong ispezionava Sehyung da capo a piedi. Non sembrava essere particolarmente sciupato, quindi non l'avevano torturato (?). « Sto bene, però...come fate a conoscermi? E - - - Morto? Oh no, tranquilli, hanno provato ad uccidermi...dieci volte, ma ho la pelle dura! Ma siete sicuri di non aver sbagliato persona? » chiese invece Sehyung, confermando ancora una volta che non si ricordasse proprio né di Jaeyong né di Hyunjin. Ci fu un attimo di silenzio, dovuto all'enorme confusione che Jaeyong aveva in testa. Il giovane non sapeva bene cosa rispondere, però si prese di coraggio ed aprì bocca. « Siamo certi, hyung. Ti riconosceremmo ovunque. Sei la nostra famiglia. » disse Jaeyong, cercando di aprirsi e di dire cose che normalmente non avrebbe mai avuto il coraggio di dire ad alta voce. A proteggerli, però, c'era comunque già la barriera del linguaggio perché a parte loro era sicuro che non ci fossero altre persone a saper parlare il coreano, il che era un bene. « È dalla scorsa estate che... È successa una cosa terribile, hyung. Eravamo tutti salvi. Ma tu... tu non c'eri più. Non sapevo dove trovarti! Pensavo che non ce l'avrei mai fatta... che non ti avrei più rivisto. Ma sei qui. Sei qui, hyung. » disse Jaeyong, continuando a piangere ed allungando la mano libera verso lo specchio. Non l'avrebbe toccato ma voleva comunque stare il più vicino possibile al suo hyung. Aveva troppe domande in testa. E forse troppo poco tempo per avere delle risposte. «Noi ti riporteremo a casa. » disse allora Hyunjin ed a quelle parole, Jaeyong annuì. Non sapeva dove Sehyung si trovasse né come ci fosse arrivato, ma l'avrebbe tirato fuori di lì e riportato a casa. Dalla sua famiglia. « Ti abbiamo trovato, hyung. Quindi niente è impossibile. Anche se non capisco dove sei né come ci sei arrivato, ti prometto che ti riporteremo a casa da tutti gli altri. » disse infine lui, asciugandosi le lacrime.
    I was right. I finally found you, hyung.


    Cosa ho scritto? Non si sa. Scrivere a quest'ora non mi fa bene. Preparatevi ad errori madornali e cose senza senso per cui potete saltare questo post!
     
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    Frenò all’ultimo, le ruote della moto a stridere sul suolo di New Hovel sollevando un nugolo di polvere. Sollevò la visiera del casco, un piede a terra per mantenere l’equilibrio. Qualcosa non andava. Non che quel quartiere non avesse mai visto un tale trambusto, avete visto chi ci viveva?, ma mai tutti quei passi agitati e quelle grida d’allarme da un appartamento all’altro. Li osservò per un paio di minuti senza dire nulla, palpebre socchiuse e labbra strette fra loro. Non spense il motore, e la luce dei fanali illuminava crude i rami ormai verdi di un cespuglio abbandonato a sé stesso: non c’erano più i geocineti di una volta. Aprì la bocca sentendo la pelle del viso tendersi spiacevolmente; la corsa in moto non aveva fatto altro che seccarle il sangue sulle guance, rendendo i dolci tratti di Jericho incredibilmente sbagliati, l’incubo che usciva dalle tenebre sotto il letto nei peggiori film horror di Serie B – solamente che quello non era, un film: era la vita di una diciannovenne cacciata dal proprio posto di lavoro che si guadagnava la pagnotta come sicario. Non soleva preoccuparsi di attirare o meno l’attenzione, la Lowell; per la maggior parte si trattava di lavori puliti ed ordinari, una pallottola piazzata con non curanza nel cranio di qualche perfetto sconosciuto e la vita scorreva banale come prima. Talvolta capitava che le domandassero un certo… come dire, tatto. Le chiedevano di passare inosservata; la pagavano per simulare incidenti. Con Jericho, però, avrebbero dovuto essere dannatamente più precisi, perché aveva un peculiare, e del tutto personale, concetto di imprevisto: quel giorno aveva costretto un uomo a ficcarsi in bocca una granata, e per quanto la riguardava, aveva rispettato gli standard richiesti. Suicidio, le aveva sibilato il suo cliente; deve passare come un suicidio.
    Beh. Gli aveva donato un modo originale per andarsene all’altro mondo, perlomeno. «cosa succede» domandò in tono piatto, senza sprecarsi ad aggiungere un punto interrogativo alla sentenza: era un chiaro ordine a risponderle, o ad ignorarla. Non le importava particolarmente di qualunque questione avesse potuto agitare i suoi coinquilini; probabilmente qualche altra bionda aveva sfornato un altro paguro frignante, e Dio solo sapeva quanto la Lowell ne avesse piene le ovaie di quelle bestie. Sospirò, lanciò un’occhiata alla folla riunita poco distante intenta a salire su un pullmino – anzi, non un pullmino: lo spacobus. Un brivido, accompagnato da war flashback dell’ultima volta in cui aveva messo piede su quell’affare, le corse lungo la spina dorsale. Arcuò un sopracciglio. «non hai sentito?» Era una domanda trabocchetto? Odiava quel genere di scambio di battute stupido e del tutto superfluo: se avesse sentito non avrebbe, fottutamente, chiesto, no? Si limitò a battere lentamente le palpebre, la lingua ad umettare il labbro superiore. Un giorno, si disse come ogni giorno quando aveva bisogno di ricordarsi che non potesse uccidere tutti quelli che le stavano sul cazzo, un giorno conquisterai il mondo e potrai eliminarli dalla faccia della Terra, Jericho. Il pensiero bastò a dipingerle un bieco sorriso sulla bocca, occhi ferini resi sottili e brillanti dalla macabra cornice di sangue e pelle di porcellana. «dicono che ci siano … quelli morti, di dicembre» Drizzò la schiena, uno scatto repentino del capo oltre il suo interlocutore. Eugene, Jade, Jeremy, Sin, Lydia - «dove» diede gas senza distogliere lo sguardo dalla compagnia dell’anello. «hamilton, mi pare?» La Lowell se lo sarebbe fatto bastare. Abbassò la visiera del casco e saettò in avanti compiendo un arco di fronte al bus, alzandosi per poter aprire il sellino; prima che la moto potesse rendersi conto dell’esistenza della forza di gravità, prese il secondo casco e richiuse la seduta con un colpo secco; mentre riprendeva il controllo del veicolo, lanciò il casco allo Stevens, cui rivolse un brusco cenno con il capo per invitarlo a salire. Non attese neanche che fosse completamente seduto, prima di dar nuovamente gas alla moto e sparire nella notte, pronta ad immergersi nelle opache luci di Londra.

    «siamo sicuri sia una buona idea?» Dondolava nervosa sui talloni, il cuore agitato dall’adrenalina a scuotersi dietro le costole. Era parsa a tutti un’idea brillante quella di dividersi i mezzi di trasporto così che, almeno un gruppo, giungesse a destinazione; se uno dei due fosse arrivato troppo tardi, qualunque cosa stesse succedendo, avrebbe potuto… salutare a nome di tutti? Sventolare bandierine colorate? Non lo sapeva, Idem Withpotatoes, con il cappuccio del costume da unicorno a penderle sui capelli corvini come una corona d’altri tempi. Non si era neanche presa la briga di vestirsi, limitandosi solo a mettere le scarpe sopra la tuta da casa (aka la tuta che avrebbe indossato ovunque, se solo le fosse stato possibile). Fece scivolare lo sguardo da Noah ad Amos, labbro inferiore stretto fra i denti. Se solo avesse seguito le orme di suo fratello Nathan ed avesse preso la patente; se solo Noah non avesse avuto come insegnante un Phobos Campbell; se solo Amos non fosse stato troppo impegnato a sopravvivere alla vita da Hamilton per seguire il normale protocollo adolescenziale del possedere un automobile. Se solo fossero stati normali, i tre coinquilini di New Hovel, non avrebbero dovuto affidare la loro vita ad un Corgi in carrozzina a rotelle: non che normalmente dubitasse delle capacità di Dick III di cavarsela, ma … qualche dubbio sul suo essere un buon autista, per quanto fosse ottimista di natura, sorgeva anche a lei. Si sentiva ancora confusa, la Withpotatoes. Non riusciva a seguire la corsa forsennata del suo battito, il quale pareva aver scelto per lei cosa provare, ed a malapena riusciva a mettere a fuoco i suoi compagni di viaggio, percependo già negli occhi il viso tondo ed il sorriso sottile di Darden. Quasi cinque mesi - senza nessuna notizia, alcuna pista. Quasi cinque mesi, e l’unico giorno - l’unico giorno- nel quale Idem Withpotatoes, ogni anno, dimenticava di sperare, arrivava la chiamata?
    Il venti aprile era il compleanno di Aiden. Nel giro di trenta minuti, Idem avrebbe dovuto spegnere le candeline del suo venticinquesimo compleanno. Sempre che una Aiden sia esistita, Idem; hai sentito cos’hanno detto i fantasmi. Idiozie, si disse scrollandosi nelle spalle. Aiden esisteva, e quel giorno compiva venticinque anni. Raschiò la gola con un colpo di tosse, il palato secco e ruvido sotto la lingua. Prese la mano di Noah fra le proprie e la portò a coprirsi gli occhi, sicura al cento per cento di non voler vedere quello che sarebbe accaduto quando Dick III avrebbe messo in moto. «no» fu la flebile risposta di Amos, nel momento esatto in cui il Corgi diede gas partendo in quarta.

    Non baciò il vialetto degli Hamilton solamente perché, seppur solo un briciolo, aveva ancora dell’amor proprio, Lydia Hadaway. Dovette tenersi una manciata di secondi alla portiera dello Spacobus, gli occhi verde foresta ad incrociare brevemente quelli scuri di Sin. «wow» bisbigliò nel tono che solo Amos avrebbe potuto cogliere, passando pigramente la lingua sulle labbra secche. Non riuscì a trattenere a lungo il debole sorriso che le increspò le labbra rosse, pur consapevole di quanto fragile fosse: non voleva darsi modo di sperare, Lydia. Non voleva e non poteva, perché c’era un netto e ben delineato limite di quanto una sola persona potesse tollerare, e lei l’aveva già superato da un pezzo. La corsa folle all’interno di Londra era riuscita a distrarla abbastanza da permetterle d’infilare un piede davanti all’altro, ma non così tanto da spingerla a correre su per le scale come molti altri – Dio, quanta gente c’era? Deglutì aspra cercando di soffocare la bile ed il bruciore allo stomaco, le mani a torturarsi fra loro. Avrebbe potuto esserci tutta la sua famiglia, dentro quella Villa; avrebbero potuto esserci Arci, Shot, Murphy. Jayson. Ma avrebbero anche potuto non esserci - potevano aver capito male, potrebbero aver impiegato troppo tempo ad arrivare. Stirò (inutilmente) la gonna a pieghe, il cuore ad arrampicarsi feroce in gola. Scavalcò una moto poggiata distrattamente al suolo, e rivolse un cenno di conforto ai provati dal van, giunti a destinazione quasi del tutto integri – quanto gli spacobusiani, per dire. Fu tentata di strizzare la mano dell’Hamilton fotocineta come una bambina il primo giorno di scuola, ma si trattenne intrecciando le dita fra loro: non voleva mostrare quanto fosse agitata, o quanto le premesse in gola; non voleva dar ragione a tutti coloro che negli anni passati l’avevano additata come emotiva, delicata. Non voleva essere la drammatica Annie Baudelaire lasciata ad ammuffire e prender polvere all’interno della sua stanza in una casa dove nessuno la voleva. Continuò a camminare sola, pur senza esserlo realmente; attraversò l’atrio, si trascinò a schiena dritta per la scalinata che portava al piano superiore. Pur essendoselo domandato, non si era risposta su cosa potesse attenderla una volta arrivata lì; non si era preparata, Lydia Hadaway. Per quanto ne sapeva, potevano aver semplicemente trovato gli effetti personali di Archibald e lei, in quanto sorella, era stata convocata per farsene carico – tutti coloro che si trovavano in quella stanza potevano dover raccogliere le briciole di qualcuno che avevano amato. Non vuol dire niente, Lydia.
    Non si accorse razionalmente di aver smesso di respirare, ma si rese conto che il petto aveva cominciato a bruciare ed a pulsare a vuoto. Le ci vollero un paio di minuti per comprendere cosa stesse guardando, ed un altro paio per attivare l’udito e riuscire a percepirne le parole. Come una farfalla dentro un barattolo di vetro, gli occhi chiari della Hadaway continuavano a percorrere i profili sconosciuti e conosciuti al di là della superficie, incapace di soffermarsi su qualcuno abbastanza da riconoscerlo – razionalmente parlando. C’erano troppe persone, erano troppo strette fra loro.
    «shot?» tentò in un tono sottile, cercando di farsi strada verso le prime linee; non sapeva nulla del suo coinquilino; pur avendo convissuto per mesi, non aveva idea se, dentro quella stanza, ci fosse qualcuno per lui: aveva visto Bells e Jeremy, Stiles e Xavier. Diede loro tempo di cercare Arci e Jay, mentre Sin tentava di cogliere i volti di Murphy od Al – e lei, sgusciando fra gambe e braccia, cercò gli occhi scuri del Deadman perché, si disse, almeno lui per un po’ poteva prenderselo. Deglutì spingendosi ancora sulle punte. «se – se qualcuno vede shot, gli può dire che…» Che cosa? Si ritrovò priva di parole, occhi socchiusi e lingua stretta fra i denti. «che ho fatto un canestro.» una volta soltanto, ma contava, giusto? Lanciò un’occhiata a Sin, un «murphy?» appena bisbigliato. Non sapeva se fosse lei bassa (e miope) o… niente, era l’unica opzione che voleva tenere come valida.
    Fu lì, sull’orlo di un futuro che non poteva raggiungere, che le giunse: «ehi»
    Lydia finse che il respiro non fosse diventato puro vibrato. Attese qualche secondo, timorosa che se avesse risposto subito, sarebbe scoppiata a piangere. Si prese il suo tempo per studiarlo: non l’aveva mai visto con i capelli così lunghi, o con gli occhi così tristi. Un adulto, si disse mordendosi la guancia. È diventato un adulto senza di me. «ehi» rispose roca, sforzandosi di alzare un angolo della bocca. «cole è morto» e si sentì pungere sulla lingua un anche tu sei morto, Arci.; l’ancora piccato e testardo cipiglio di una Baudelaire che non volesse, né potesse accettare che Cole se ne fosse andato. Così, da un giorno all’altro. Quindi magari neanche lui è morto. Non possiamo saperlo con certezza - e poco le importava del ritrovamento del cadavere. Non l’avrebbe mai ammesso ad alta voce, ma ancora credeva che, il fratello maggiore, sarebbe riapparso. «lui non tornerà, ma io sì» Una risata a metà, rotta da un singhiozzo asciutto, scivolò corposa dalla bocca di Lydia. «per favore -» riuscì solamente a dire, prima che la voce le morisse in gola. Per favore, Arci. Non fare promesse che non puoi mantenere. Torna sul serio. Mi sento
    Così
    Sola.

    «avrei…» voluto fare di più, trattenerti un po’ di più. Scosse la testa, chiuse le palpebre. Non era un avrei, quello che doveva - aveva bisogno - di dire, perché con il condizionale si rimaneva sempre fermi sul posto: narrava la leggenda che i Baudelaire non perdessero mai, ed il tempo non faceva eccezione. «sei la mia famiglia» ribattè, stupendosi di sentirselo dire ad alta voce. Racchiudeva un po’ tutte le cose che non gli aveva mai detto, e quelle che non avrebbe più potuto (per un po’, Lydia. Solo per poco. Tornerà davvero) dirgli: che avrebbe voluto più tempo con lui, per lui; che avrebbe voluto essere migliore con lui, per lui. «mi hai trovato una volta, » mesi prima, quella che pareva una vita prima. Gli sorrise ancora, la testa leggermente reclinata all’indietro per asciugare le lacrime. «so che lo farai ancora.» perché aveva bisogno di crederci, Lydia. Aveva bisogno di convincersi che sarebbero tornati a casa, tutti loro.
    Tutti - «jay?»

    «siete voi, cazzoni?»
    Davvero. Sul
    Serio.
    La furia in miniatura di Jericho Karma Lowell, il casco ancora abbracciato sotto braccio, sembrava incapace di distogliere lo sguardo dal maledetto specchio al centro della stanza. Come un sasso dentro il fiume, la telepata rimase semplicemente ferma mentre tutti intorno a lei si muovevano, intoccabile ed immutabile come avrebbe dovuto essere, in un mondo ideale che non s’era fatto di acidi, la fottuta linea temporale. Aveva guardato tutto Doctor Who, Jericho: lo sapeva che con il passato non ci si poteva fottere, che quel fottuto far west non avrebbe dovuto essere possibile.
    Non avrebbe
    Dovuto
    Cristo Santo.
    Non era mai stata brava a provare emozioni sane, Jer. Nel suo pendolo personale ad oscillare fra dolore e noia, c’era un avamposto di apatia difficile da scalfire, ed una scala a pioli fatta di rabbia dura e cruda al quale s’aggrappava in ogni momento disponibile: amava la sua rabbia ed il suo odio, la Lowell, quanto amava ogni arma che potesse permetterle di sfogarle. Scrocchiò le nocche e piegò il capo, gli occhi zaffiro a riflettere lo sguardo distante di Darden Larson. «se noi siamo noi domandò infine, alzando il tono di voce e portandosi una mano al petto. «piuttosto se voi, siete voi» le iridi guizzarono dall’uno all’altro dei cowboy, soffermandosi con sincero disprezzo equamente diviso su ognuno di loro. «non è colpa nostra» aveva perfino avuto il coraggio (il coraggio!) di sottolineare quella cima (in tutti i sensi, dato che era alto) di Arcibaldo Leroy Baudelaire e perché no anche Maupassant e Van Gogh. «levati dalle palle» iniziò a farsi strada con l’usuale delicatezza tipica dei Bulldozer, spintonando più del dovuto le due palle di riso all’anatra che continuavano a piagnucolare strette l’uno all’altro. Non aveva tempo per quello - per i… sentimenti. C’aveva roba da dire, e la gente c’aveva da levarsi dal cazzo. Il fatto che fosse ancora sporca di sangue, convinceva perfino i più scettici a farla passare.
    Li aveva cercati così a lungo. Si era sentita così impotente, Jericho. Così vuota, in quel mondo al contrario che si erano lasciati alle spalle quando se n’erano andati. Aveva quasi – quasi – sperato fossero morti davvero, perché perlomeno, un giorno, sarebbe riuscita a perdonarli. Ma quello?
    Quello non lo accettava. E non sapeva essere triste, Jericho. Non sapeva come gestirsi, e l’aveva dimostrato con Nathaniel, con Brandon: con la sua famiglia. «dovete fottutamente smetterla di farvi rapire. Rapire?? incompetenti» scandì, incrociando inviperita le braccia sul petto. Alzò il braccio con cui reggeva il casco verso di loro. «crane uno e due? Jayson? Da voi non potevo che aspettarmelo.» li squadrò a lungo ed intensamente, prima di spostare lo sguardo deluso, e ferito, su Gemes. «ma tu?» e su Darden Fucking Larson. «tu?» Mi fidavo, di te. Dio santo, Darden, mi fidavo di te, e te ne sei andata come tutti quanti. «un cazzo di microchip, bisogna infilarvi.» quando tornerete. Perché lo so che lo farete, o giuro sulla Madonna che creo un Tardis e vi vengo a prendere a calci in culo nel Far West e a Tomorrowland, stronzi di merda. «siete degli stupidi.» e lei, a preoccuparsi per loro, era stata ancora più stupida.
    Come avete potuto. Perché Dio Santo non fate attenzione. Cosa cazzo non va in voi.
    «andate tutti a farvi fottere» visto che potete, visto che siete vivi. Perché una parte, seppur piccola, aveva temuto quella possibilità: poco se n’era sbattuta che l’esperimento con Jack fosse riuscito, non le assicurava nulla. Vederli, lì?
    Cambiava poco, in realtà. Per quanto la concerneva, o erano morti da cent’anni, o fra cent’anni sarebbero nati. La verità era che quella…cosa, qualunque cosa fosse, non cambiava niente. Perché la realtà era: «me ne sbatto che non sia colpa vostra,» strinse i pugni lungo i fianchi, la lingua fra i denti ad impedire alla voce di tremare. «non siete comunque qui.» sollevò ancora, stupidamente, lo sguardo su Darden cercando di rubarle un altro po’ di tempo, un altro po’ di lei che, uscita da quella stanza, avrebbe potuto non rivedere mai più. Temeva di dimenticarla, Jericho. Temeva che un giorno, blocco e matita alla mano, avrebbe finito per domandarsi che forma avessero i suoi occhi. Chiuse ancora il pugno e scattò di lato colpendo lo stomaco di qualcuno, una fitta di appagamento ad alleggerire il senso di colpa, e quello di tristezza, in fondo alla gola. L’unico modo che conosceva per permettersi di respirare ancora una volta - ed immaginate quanto potesse sbattersene che l’effetto collaterale fosse stato Jeremy Milkobitch: neanche le piaceva, tanto meglio per lei. Un sorriso sghembo le curvò perfido la bocca, una risata grossolana a scuoterle le spalle. «buona vita.» iniziò a farsi strada per uscire, il braccio destro sollevato a mostrare il dito medio. Evitò gli occhi di tutti, la Lowell, mentre si infilava nuovamente il casco – ed allora, visiera a coprirle gli occhi, potè lasciar scivolare la lamina di acida ira per far posto a qualcosa che, Dio, avrebbe preferito non riconoscere. «stevens, trovati un passaggio» e lasciò che incolpassero alla voce ruvida il casco, piuttosto che una gola stretta ed asciutta.
    L’avrebbe rimpianto, quel momento. Lo sentiva già, che l’avrebbe rimpianto.
    Eppure, uscì comunque senza più guardarsi alle spalle: Jericho Lowell was fucking out.

    Non sapeva quanto tempo fosse loro concesso. In quel momento a malapena sapeva il proprio nome, Idem, ritrovandosi scioccamente a combattere fra il sorriso e gli occhi lucidi, respirando a pieni polmoni quell’aria dal profumo misto ed indecifrabile. Ingoiò saliva e lacrime annuendo piano, le iridi color cielo in primavera a scivolare dall’uno all’altro. «dove sono gli altri?» domandò in tono flebile, sentendo la propria voce distante quanto un eco. Dakota? Jason? Shane? Umettò le labbra, spostò cuore ed occhi sul 1918, soffermandosi su Darden e Gemes: «sono contenta che siate insieme» almeno voi. Aprì la bocca, la richiuse; si rese conto di non avere nulla da dire, Idem Withpotatoes, che già non avesse detto nei suoi venticinque anni precedenti. Abbassò il capo, strinse le labbra fra loro.
    Mi mancate così tanto. Mi mancate così tanto. Mi mancate così tanto.
    «qua non è male come sembra,» accennò un sorriso facendo spallucce, corvine sopracciglia inarcate. «ce la caveremo.» Piuttosto.
    Piuttosto. «voi non… vi siete arruolati, vero?» Entrambi, certo: non credeva che Darden si sarebbe mai offerta per fare l’infermiera, ma non aveva neanche mai creduto l’avrebbe vista nel 1918. Il mondo era pieno di sorprese. «lo so che non è colpa vostra» ammise, così piano che a malapena riuscì udirsi da sé. Non voleva rubare tempo ad altri, spazio ad altri - a lei bastava poco, davvero; se erano riusciti a vedersi, non aveva dubbi che avrebbero trovato anche un modo per riprenderli. «lo so che non è colpa vostra» ripetè allora, cercando gli occhi chiari di sua sorella. Lo so che non volevi; so di non piacerti particolarmente, ma so che t’importa, di me: lo so che mi vuoi bene, Den. Lo so che non te ne saresti mai andata senza neanche un post it. «vi aspetto a casa, okay?» Sollevò un angolo della bocca. Vi voglio bene e mi mancate così tanto e non lasciatemi anche voi e- «non cacciatevi nei guai.»

    20/04/2018 | 22:30
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    Quando Nate si sedette tranquillamente sulla panchina, i due fedeli compagni canini lo seguirono senza esitazione alcuna, mettendosi vigili davanti a lui calmi e solenni pur senza avere attualmente il collare attaccato al guinzaglio. L'uomo si prese qualche secondo per sistemarsi, tirò fuori dalla giacca il giornale, e senza fretta lo alzò fino a coprire il proprio viso fingendo di star leggendo pacatamente la pagina di cronaca. Gli altri non potevano vedere lui in faccia, ma ovviamente lui vedeva loro, grazie alla carta magica con cui aveva fatto appositamente stampare quella copia del Morsmordre; era la base di qualsiasi azione di spionaggio: senza un giornale finto, l'appostamento perdeva fascino. Nate guardò a destra e sinistra, finchè, in tutto il suo splendore, non visualizzò la preda. Si sistemò le cuffie mentre seguiva la ragazza con lo sguardo, felice che la biondina avesse la divisa addosso (sarebbe stato incredibilmente difficile per Nate distinguere Alternative Beech dalla gemella, non fosse stato per quel dettaglio).
    «il cuculo è arrivato al nido», sibilò piano senza muoversi; nelle cuffie nel cellulare arrivò la risposta dopo qualche secondo.
    «...cosa? Non ho sentito»
    «il cuculo è arrivato al nido», ripetè, appena appena più forte.
    «il cucciolo è condito?»
    «il cuculo è arrivato al nido»
    «di che cubicolo stai parlando?»
    «IL CUCULO. E' ARRIVATO. AL. NIDO un primino si voltò verso Nathaniel, occhioni incuriositi; uno studente più grande, rapido, lo afferrò preoccupato per il braccio per portalo via.
    «AH! ...ma scusa, la parola d'ordine non era "la crema è fuori dal cannolo siciliano?"»
    «Merlino Santo» biascicò il professore massaggiandosi con una mano la tempia. "Non esistono più gli adolescenti di una volta". Quando gli avessero chiesto nuovamente perchè non si ritirasse, mollando il servizio con ogni onore per lasciarlo in mano alle nuove leve, avrebbe ricordato quell'episodio. «No. No, la password è sempre stata il cuculo è-» «Oppure ricordo anche "ho visto infiny war punto"-» «-arrivato al nido. Secco. Conciso. Semplice. E non si cita Infinity war finchè non l'ho visto» «C'era anche-»«No. Fine. La passowrd non cambia. Agente, stia attenta» «giusto. Sì. Sono attenta» Era da dire, in difesa della ragazzina, che Nathaniel le aveva comunicato qualcosa come cinque diverse frasi in codice il giorno prima... ma insomma, non era colpa sua se era abituato a lavorare con la creme de la creme, una rosa di shipper scelti a cui bastava dire «fai quella cosa» senza altre specifiche per creare l'amore in giro.
    Nathaniel si chiedeva come diavolo fosse finito in quella situazione. Erano a tale corto di personale? Da quando lo shipper club necessitava di servirsi dei servigi di una recluta incompetente quale quella ragazzina?? Non importava che fosse la sorellina di Mitchell: era impreparata e per niente disposta a tutto, oltre che decisamente timida (cosa non buona per uno shipper molesto). Erano proprio tempi bui per l'amore; e dire che quando era studente a Hogwarts, era lui stesso uno dei membri più giovani dello shipper club, circondato da gente navigata (forse perchè il club era composto solo da lui, boyle, peralta e elijah, con bonus euge quando non faceva lo stronzetto con quell'idea dello shipper club rivale, TANT'E').
    «Sto per fare quella cosa... lei è pronta?»
    «Al cento per cento» ma la voce della tassorosso gli arrivò incerta, altro che cento per cento.
    "Che San Valentino ce la mandi buona". Nate fischiò, e se aveva allenato bene JayDog e Natajah (e l'aveva fatto), entrambi avrebbero sollevato le orecchie attenti. L'uomo era pronto a dir loro cosa fare per iniziare l'operazione "Cheep" (Campbell + Beech), quando nelle orecchie di Nate trillò una musichetta. L'uomo posò stizzito il giornale sulle cosce. "Che diavolo."
    C'erano poche persone per le quali Nathaniel avrebbe interrotto un'importantissima missione dello shipper club, ma i castafratti rientravano fra queste. Avrebbe sempre risposto loro al telefono, non importava che fosse Euge, che probabilmente voleva solo dirgli quanto fosse bello Uran che muoveva la testa a tempo di Justin Timberlake, o Elijah, confuso ancora dal forno a microonde, o-
    «...Rea?» ecco. Una chiamata della donna, invece, era molto meno frequente e molto più strana. Nate non restò a lungo a guardare lo schermo del cellulare, rispondendo in fretta e parlando nel microfono degli auricolari mentre JayDog e Natajah lo guardavano indecisi sul da farsi (nel dubbio, il più giovane dei due prese a leccargli la mano per richiedere attenzione). «Ehi. Sì, ti sento. Certo. Sì. Mh-mh. Cosa? Ah. Capisco. Va bene. Arrivo.»
    Attaccò la chiamata.
    Restò a fissare avanti a sè imbambolato per qualche istante, gli occhi fissi avanti a sè mentre cercava di elaborare quanto appena ascoltato, le poche informazioni che Rea gli aveva dato. "Sono vivi" Erano vivi. Erano a casa di Rea.
    «....UUUUUUUUUUUUUUUUUUUUHHH!!» Si alzò di scatto in piedi, le braccia improvvisamente sollevate al cielo mentre il giornale e il cellulare cadevano a terra e i due cani sobbalzavano spaventati. Lo sapeva, lo sapeva! Sapeva che prima o poi sarebbero dovuti tornare, che Vasilov aveva mentito. «SONO VIVI!» esclamò a tutti e nessuno «SONO A VILLA HAMILTON!» Rea aveva parlato di specchi, cose, non ne era sicuro. Non aveva esattamente detto che aveva trovato gli scomparsi, ma era comunque quello che aveva capito Nate e tanto bastava per festeggiare. "Devo subito andare lì"
    Gli studenti in giro per il parco di Hogwarts lo stavano guardando confusi, chi di sottecchi imbarazzato chi palesemente e immobile di fronte a lui. Fu una ragazzina tassorosso a farsi avanti, e Nate aveva così la mente in subbuglio che neanche riconobbe la voce che gli aveva parlato nelle cuffie nell'ultima mezz'ora.
    «Professor Henderson, mi scusi. Chi-... cos'è successo? E la missione?»
    Nate abbassò lo sguardo sulla studentessa, un sorriso da orecchio a orecchio. «Winston! Niente più missione. Abbiamo cose più importanti da fare: quelli di dicembre sono tornati!»

    Nicky era rimasta leggermente stupita dalla notizia, ma non per questo subito dopo che il professor Henderson era corso via saltellando lei non aveva fatto lo stesso, dirigendosi ai sotterranei del castello verso la sala comune tassorosso. Prima di arrivarci aveva dovuto rallentare per riprendere fiato, la gola bruciante e le gambe a pezzi, e camminando veloce raso muro con una mano sul fianco dove il dolore lancinante della punta la uccideva, non faceva che ripetersi le parole del professore. Aveva capito bene? William, Maeve, Amalie... le persone che una delle cariche più alte al mondo aveva dichiarato morte erano davvero vive? Diceva sempre che non credeva alla loro morte, che senza un corpo da piangere o un medium a darle conferma non si sarebbe arresa alle notizie dei giornali proprio come se la sua vita fosse stata un film (andiamo, sappiamo tutti che finchè non si vede il cadavere, nessun personaggio è mai morto davvero)... ma non per questo non aveva passato quei mesi con il terrore che fosse tutto vero. Non per questo, in quei mesi non c'erano state giornate in cui si era fidata delle parole di Vasilov, e aveva pianto i suoi cari. Ancora non poteva essere certa che non fosse uno scherzo... ma poteva sperarlo. Perchè il supplente Henderson avrebbe dovuto mentirle su una cosa del genere, quando lui stesso aveva sofferto la scomparsa di alcune di quelle persone? Perchè prendersi gioco di lei, quando Nicky era stata così carina da offrirsi volontaria nelle sue milizie di amore (ok, con il principale scopo di allontanare Nat da Meh facendole scoprire l'affetto per la sua bellixima amica Pheobe, ma sono le azioni finali che contano, non il pensiero (??))?
    Quando entrò in sala comune, col fiato grosso e il cuore in gola (geez, avrebbe proprio dovuto iniziare ad andare a correre per allenarsi per casi come quello... AH AH AH, come no), si rese conto che la notizia doveva già essere arrivata. "Quindi è vero" Le guanciotte piene della ragazzina, già rosate dopo la corsa, divennero rosso fuoco per l'emozione.
    «Ah, Nicky! Eccoti qua!» Ascoltò le parole di Stiles senza dire che già sapeva, ma pendendo dalle labbra del Loser supremo (che detto così suona male, ma per lei era un complimento) e cercando di metabolizzare le rapide informazioni che gli stava dando. Villa Hamilton. Gli scomparsi di dicembre. Veloci. Prima ancora che il ragazzo ebbe finito di parlare, dirigendosi fuori dalla sala comune con tutti i tassi interessati diligentemente al suo seguito, Nicky aveva già le mani davanti alla faccia per cercare di trattenere (o nascondere) le lacrime. Quando incrociò lo sguardo di Erin e Scott non potè fare a meno di prendere per mano la prima, ricercando un po' di coraggio (avrebbe voluto cercare Meh, Hades e Beh, ma aveva paura di perdere tempo; a quanto aveva capito avevano i secondi contanti... quindi si limitò a messaggiare nel gruppo avvisandoli di quanto stesse capitando). Se fosse stato uno scherzo, e in realtà non c'era nessuno degli scomparsi a Villa Hamilton (o peggio, non erano più scomparsi ma solo morti), non sapeva come avrebbe reagito; male, probabilmente, dopo tutta quella dose di speranza.
    Seguivano tutti senza fare domande Stiles, ma un dubbio ad un certo punto si fece strada nella testa della tassorosso «Stiles...? Come... come raggiungeremo Londra?» insomma, le regole sotto Van Lidova erano piuttosto ferree, e dubitava fosse addirittura legale la presenza dello psicomago all'interno del castello, visto lo stato del suo sangue. «Non tutti sappiamo smaterializzarci» Ben presto, il piano dello psicomaco di presentò davanti ai loro occhi. «Non sapevo neanche Hogwarts avesse dei pullmini» dovette ammettere, le sopracciglia arcuate nel guardare lo scuolabus giallo tipico dei telefilm americani. Non era mai stata su un pullman «Chissà perchè non facciamo più gite»
    La risposta gli arrivò poco dopo, e nel peggiore dei modi.
    «Voglio morire» biascicò, il viso più verde che rosa, mentre si spalmava addosso alla compagna di casata Maple che, vigile com'era, neanche si accorse dello stato della più giovane. "Non voglio mai più salire su uno di questi aggeggi babbani", pensò la Winston, ma quando la Walsh iniziò a cantare, seguita da Jess e compani, tutti i suoi sensi parvero risvegliarsi. No, non perchè Maple fosse particolarmente intonata, ma perchè quella era Kety Perry, e non si può non cantare Kety Perry . Era una regola non scritta della costituzione #wat
    «'CAUSE BABY YOU'RE A FFIIIIIREEEWORK!» e, incredibilmente (ma neanche tanto perchè lo sanno tutti che distrarsi aiuta a non patire la macchina) il viaggio da lì in poi fu un po' meno una sofferenza. Sempre un po' viaggio della speranza, sia chiaro, ma... meno; quasi una gita piacevole.
    Lo stesso non avrebbe potuto dirlo Noah Parrish.

    Non gli era mai piaciuta particolarmente la pioggia; era rilassante il ticchettio leggero sull'ombrello, era buono l'odore pungente che sostava nell'aria durante un temporale... ma la pioggia in sè non lo attraeva. Capelli bagnati e fuori posto, acqua nelle scarpe, fango, generalmente freddo.
    Non gli era mai piaciuta particolarmente la pioggia, finchè qualche giorno prima non aveva visto la ragazza con quell'impermeabile giallo limone e aveva pensato che forse valeva la pena piovesse tutti i giorni, se poteva guardare Idem con quel sorriso.
    «Noè, hai sentito?»
    Il ragazzo alzò la testa dal foglio così velocemente, che per poco non si stirò i muscoli del collo «Mh?» Non si premurò di nascondere il disegno, sapendo che nessuno avrebbe trovato particolarmente strano il ritratto di Idem (perchè avrebbero dovuto, poi?), ma ugualmente ebbe la tentazione di tirarlo leggermente verso di sè, il carboncino nero ancora fra le dita. Non che si vergognasse di un proprio disegno (quando mai? Era perfetto), ma per qualche motivo lo trovava un affare privato, almeno quella volta; non era stato difficile riesumare l'immagine delle labbra incurvate di Idem, dei suoi occhi leggermente più sottili mentre rideva e gli porgeva la mano con un «Andiamo, è solo un po' di pioggia», ma era stato comunque un momento suo di cui non riusciva a non essere geloso. Idem era sempre oggettivamente bella, con quegli occhioni azzurri e i capelli di ossidiana, ma era così spesso perfetta esteriormente e felice - troppo spesso - che stava diventando facile, vivendoci assieme, riconoscere i sorrisi di cortesia che si obbligava a fare da quelli più sinceri che le uscivano spontaneamente... e quel sorriso, quello rivolto ad un Noah che guardava dubbioso da dentro casa la pioggia, era stato sincero, ed era stato per lui. «Cos'hai detto?» Le labbra del mutaforma si spaccarono in un sorriso; lo sguardo era annoiato, le mani ansiose di tornare al disegno, ma non avrebbe mai messo da parte la cortesia se riusciva a evitarselo. Aveva una facciata da mantenere.
    «Frollo ci aspetta a Villa Hamilton» Noah annuì leggermente. Aveva sentito della notizia degli scomparsi mentre Idem e Amos ne parlavano (ah ah, nessuno aveva pensato di chiamare Noah, visto che nessuno sapeva che Shane era suo nipote - o forse solo perchè nessuno aveva pensato potesse interessargli e basta), ma non si era mosso dalla sua postazione al tavolino del Mystery van - conscio che comunque non avrebbe avuto voce in capitolo, ed era molto più bravo a seguire le idee altrui. Ogni tanto guardava l'orologio, guardando i minuti che passavano per assicurarsi di non perdere la mezzanotte. «Noi andiamo per conto nostro»
    "Aspetta." Guardo a destra e sinistra. Frollo era Phobos, giusto? E Phobos non... non era lì.
    «Andiamo in van?»
    «Naturalmente»
    «E guiderà-...?»
    Non sapeva neanche lui perchè l'avesse chiesto, quando sapeva che la risposta non gli sarebbe piaciuta per niente.
    «La regina Elisabetta... Ovviamente io, che domande idiote»
    Noah annuì lentamente, sforzandosi di tenere il sorriso e rimpiangendo la cena. Aveva qualche problema con le macchine in generale, ma accettava i viaggi nel mystery van ben conscio di non avere altre possibilità di movimento... tuttavia. Tuttavia non era mai pronto a quel tipo di viaggi. Anzi, era sbagliata l'idea di base che si potesse in generale essere pronti per un viaggio della speranza del genere, pur dopo mesi di allenamento. Gesù, ma perchè Amos non si prendeva la patente?
    «Ovviamente tu»
    E Noah non sarebbe mai stato pronto, perchè il suo interlocutore era un fottutissimo cane parlante sarcastico e handicappato che passava le sue giornate in carrozzella .

    «TOGLITI DALLE PALLE, PIRATA DELLA STRADA» Jaden si sporse in avanti, superando il buon vecchio Sin e posando la sua dolce manina sopra il clacson, facendo esplodere il ruggito del PEEEEEEE per qualche secondo. Si staccò solo per sporgersi oltre il finestrino e alzare un dito medio all'autista del van che aveva cercato di superar- «Un cane. Sta guidando un cane» commentò deadpan guardando il furgoncino verde che allegramente stava al loro fianco. Al posto di guida, un corgi con la lingua di fuori, gli occhiali abbassati e la zampa posata al finestrino aperto, la fissava. «Ehi»
    A volte si chiedeva se vivere con Eugene l'avesse resa celebrolesa.
    Rientrò con la testa nello spacobus senza commentare oltre l'accaduto, domandandosi perchè mai dovesse stupirsi di un cane autista quando lei viveva con un tricheco innamorato del padre di suo figlio o quando Sin li svegliava nel cuore della notte facendo i richiami d'accoppiamento dei piccioni (non lo faceva davvero? Euge gli aveva detto che era lui, e Jade aveva dovuto ammettere fosse parecchio verosimile). Insomma, era il van della Mystery inc in fondo, del club di amiki di Phobos, Nate e Idem... cos'altro poteva aspettarsi? Andiamo, Phobos. Avrebbe dovuto chiedere chiarimenti ad Amos.
    «Non c'è bisogno di essere così... aggressiva»
    Jaden fulminò con uno sguardo ben poco non aggressivo Nathaniel, che dal suo sedile verso il fondo si era avvicinato al posto di guida.
    «La maggior parte dei miei migliori amici» "di cui una è mia sorella, anche se non lo sa" «Nonchè mio cugino e altri miei ex studenti minorenni sono fottutamente spariti, secondo Vasellina morti. Non ho intenzione di perderli di nuovo solo perchè un cane che non sa guidare ha deciso di tagliarci la strada» una curva particolarmente violenta le fece quasi perdere l'equilibrio, e dovette tenersi al sedile per non venir scaraventata via. "Ho lasciato salire mio figlio su questa trappola mortale. Sono una pessima madre." Decisamente vivere con Euge la rendeva stupida; aveva davvero pensato quel trabiccolo fosse più sicuro della sua moto solo perchè a guidarlo non era Spaco? Pazza.
    «Ok, ok...» Vide la bocca di Nathaniel aprirsi per commentare qualcosa che, dal suo sguardo, pareva avere a che fare con il caratterino della bionda, e prima che potesse dire alcunchè Jade gli tirò un pugnetto (debole, giuro #no) allo stomaco. «Non ci provare neanche»
    Ovviamente Jaden si stava mostrando di cattivo umore, l'esatto opposto del raggio di sole che era Euge. Gridare alla gente (tanto più se amici del Jackson) e trattare male tutti era l'unico modo sano che aveva per non far vedere quanto in cuor suo stesse davvero sperando che metà della casta lab e tutti gli altri fossero ancora vivi. C'era già Euge che saltellava di gioia, c'era già Lydia con quello sguardo un po' nervoso verso il finestrino... Jade non poteva lasciarsi andare a troppe aspettative, perchè se fossero state disilluse - se quel viaggio si fosse rivelato un corteo funebre - non poteva permettersi di precipitare nella disperazione. Non con un Euge a carico, non con un figlio a cui pensare; qualcuno doveva pur restare in piedi in caso di notizie negative, su quel pullmino.
    Arrivarono quasi tutti insieme a casa di Rea.
    Jaden non perse particolarmente tempo in convenevoli, e abituata alla villa della sorella iniziò a fare gli scalini due a due, facendosi strada come riusciva. "Fa' che non sia troppo tardi, fa che non sia troppo tardi..." In punta alle scale si voltò solo una volta, cercando fra le teste degli altri presenti due chiome bionde come le sue, ma non trovando subito nè Ego nè Nat cantinò con passo deciso verso la stanza della Hamilton.
    Notò subito che c'era qualcosa di diverso, ma ci mise più di un attimo a capire, a mettere a fuoco. Erano passati quattro mesi - quasi cinque, ormai - e neanche lei era certa di cosa si fosse aspettato entrando in quella stanza (gli scomparsi tutti schierati allegramente? I loro corpi morti messi in fila? I loro affetti personali catalogati in base alle famiglie?), ma quello... quello di certo superava le sue aspettative. Non... capiva.
    Erano dei portali? Dei giganteschi specchi gemelli? Cosa ci facevano gli Scomparsi (morti?) chi in una catapecchia, chi in quello che poteva essere... un bagno? Le domande sul come? e perchè?, in ogni caso, svanirono in fretta come erano arrivate appena Jade sentì il proprio nome.
    «Jade?» voltò la testa verso il deserto, mettendo a fuoco meglio il viso che aveva di fronte, il cuore che accelerava e il dolore al petto per l'emozione farsi pressante «...Aidan» Era vero? Era lì? Ma soprattutto, era vivo? «Stai bene? Come-... Gesù, come sei vestito?» Non era certa di averlo mai visto con qualcosa che non fosse firmato e gridasse "RICCO!". Era sicuramente Aidan, ma così diverso dal ragazzino che aveva visto per l'ultima volta nel 2017! Aveva sempre voluto bene al cugino, ma non per questo non lo aveva reputato sempre più bambino che uomo, alla stregua delle gemelle. Non in quel momento, però; in quel momento gli sembrava maturo, provato. «Cosa-..? Mangi? Che succede?» forse era l'istinto da mamma a parlare, forse solo la disperazione e preoccupazione. "Davvero non ho domande migliori?"
    «mi dispiace. mi dispiace così tanto, io – euge? Jade? – ci hanno rapiti e - » al fianco di aidan, Run.
    Run.
    Sbuffò una risata isterica, Jade, portandosi la mano davanti alla bocca. Voleva essere arrabbiata, voleva odiarla, come quando era scomparsa la prima volta... ma non riusciva. Non fottutamente riusciva ad odiare Heidrun Ryder Crane, Milkobitch a tempo perso. La amava sempre troppo, per quanto si impegnasse a non farsi quello. «Ti sei di nuovo fatta rapire» Non faceva un cazzo ridere «Cos'è questa... questa ossessione» puntò il dito contro Jay. «E anche tu! E- Dakota?» guardò in giro, cercando il coinquilino di Mae. Doveva insultare anche lui, per aver lasciato soli i fottuti minireb dopo averli accolti con la ragazza in casa propria, eppure non era l'unico che mancava all'appello. Ebbe un brivido lungo la schiena, notando l'assenza anche di Amalie (allora non stavano tutti bene), ma quando vide Murphy e Shot («Cazzoni, uno e due. Sei una dannata scienziata no?? TROVA UN MODO PER TORNARE A CASA, RIO») e poi Maeve, si risollevò leggermente. Non che non gli importasse di chi mancava all'appello, ma aveva delle priorità.
    Scosse la testa fingendosi oltraggiata (così, per principio), ma non riusciva a non sorridere mentre teneva le braccia conserte nervosa, gli occhi sulla bionda. Su sua sorella.
    Doveva dirglielo.
    Poteva essere l'ultima occasione che avrebbe mai avuto per parlare con Maeve, non poteva lasciarla sparire senza farle sapere che erano sorelle. Deglutì, e stava per parlare, quando notò il pancione della ragazza. Spalancò la bocca senza parole. Quanto tempo era passato? Will aveva detto che il 3 dicembre erano stati rapiti... forse da solo non era aprile, ma un'altro mese? Forse erano stati lì addirittura anni? Maeve non poteva essere già così incinta, non poteva aver conosciuto qualcuno lì e essersi fatta ingravidare in meno di cinque mesi. "A meno che non fosse già gravida?" Erano poche le persone a cui Maeve si sarebbe mai concessa... ed erano una scomparsa da anni, e una morta (questa volta per davvero). BElla conquista.
    «stai per diventare zia!!» Aveva già la bocca aperta, quindi non fu difficile mostrarsi sorpresa. Ma lo era, e ancora più di prima. Inutile dirlo, subito aveva pensato a Alter, Ego o Rea (ERANO INCINTA E NON LO SAPEVA??? E le gemelle non avevano imparato niente dalla sorella gravida?????), ma obiettivamente era difficile non fare due più due fra pancione, finger gun e affermazione di Mae. Quindi lei... evidentemente... sapeva. Da quando? Come? Nel 2118 erano segnate insieme nell'albero genealogico? «Non sapevo come l'avresti presa» iniziò, senza davvero sapere come continuare la frase «Dopo... Aiden, e tutto. E... i tuoi genitori... non ero sicura di voler infangare il ricordo di tuo padre» deglutì «Mi dispiace, Mae. Sappi che per me sei sempre stata una sorella, anche... anche prima»
    Ma il tempo concessole era finito perchè «CIAAAAAO IO SONO CALLIE» Oh gesù e lei chi era. Era forse la figlia di Mae - quella nel pancione - proveniente dal futur- «Sono la nipote di vostra figlia!!»
    cosa.
    Guardò a destra e sinistra. Forse quella ragazzina era strabica, per questo stava guardando lei e Euge. Insomma, non avevano una figlia, solo Uran. Che Uran fosse trans????? Ovviamente, lo avrebbero amato comunque, buono a sapersi solo «... ciao? Non credo-»
    «Mannaggia, nonna non è ancora nata! Mi sarebbe piaciuto vederla da bambina, però vabbè CIAO ZIO URAN »
    Oddio, stava proprio guardando lei e Euge e non era la nipote di uran ZAN ZAN ZAN. Jaden si portò istintivamente la mano alla pancia. Non era incinta, vero? NON DI NUOVO. Uran non aveva neanche un anno, non poteva di nuovo aver fatto quell'errore, ERANO STATI ATTENTI (????) !!!!!!
    «...ok» #eminem
    Diede un pizzicotto al braccio di Euge
    «Se mi hai messo di nuovo incinta, ti taglio le palle» insomma, a quanto pareva nella linea temporale del 2118 l'aveva fatto (???) ma NON ORA? NON ERA PRONTa??? amava Uran ma erA PIU CHE ABBASTANZA ???????
    e ora SWITCH!

    Nicky aveva visto il professor Henderson fare versetti e gridare verso prima una stanza poi l'altra («ANCHE JOYDOG E NAT VOGLIONO SALUTARE!!!»), chiedendo come stavano le persone che conoscevano in questo o quell'universo. Commentava il luogo, il tempo, diceva che era tutto estremamente figo tutto sommato ma molto traggggico, e quando qualcuno disse che Van Lidova era in realtà Vasilov (un qualcuno di terribilmente familiare; doveva essere un ex studente di hogwarts), l'uomo si battè il pugno sul palmo della mano, annunciando come lo avesse sempre sospettato. Nicky aggrottò le sopracciglia, sicura che Henderson non avesse mai e poi mai potuto pensare a qualcosa del genere (e se lo aveva pensato davvero, era un idiota e non averlo detto in giro).
    Era stata in disparte per gran parte dei vari saluti, e lo aveva fatto piangendo con le mani davanti alla faccia, le dita aperte a ventaglio per spiare attraverso il velo opaco di lacrime cosa stesse capitando. Sorrideva e singhiozzava e rideva e si mordeva le labbra e scuoteva la testa. Non riusciva a trovare una giusta reazione, e non riusciva a trovare le giuste parole. C'erano Will, Maeve, Kieran... e stavano bene. Aveva notato l'assenza di alcune persone, ma potevano soltanto non essere ancora arrivate allo "specchio", giusto? Amalie, Dakota, Cora... loro sarebbero arrivati, dovevano stare bene. Si era limitata a saluti banali, niente della roba toccante che certi si erano scambiati.
    Non ci aveva creduto finchè non li aveva visti lì. Aveva sperato fossero vivi, ma era ben diverso dal vederli. Era felice per sè, per loro, per coloro che amava e avevano sofferto l'assenza di quelle persone. Il suo sguardo incrociò quello di una ragazza vestita come una donnina dell'ottocento, quella con i capelli di ebano e la pelle cioccolato, e sorrise leggermente imbarazzata del fatto che una semi sconosciuta (già vista in giro l'anno prima, ma ugualmente distante dal poter essere considerabile una conoscente) l'avesse vista piangere, sentendosi ugualmente in qualche modo dannatamente bene e già... consolata. Solo a vedere gli occhi neri della tipa si sentiva meglio. Era così normale quella sensazione di calore, ricevere quello sguardo in risposta al proprio, come se fosse successo miliardi di altre volte. Si chiese se fosse normale sentirsi così o se fosse solo molto sensibile a causa di tutto quello che stava capitando. Guardava la ragazza, Aidan al suo fianco e quel ragazzo altissimo che stava mostrando a chiunque lo stesse ascoltando quel bambino riccio, e si chiedeva perchè sembrassero così... giusti; non in quel posto, ma insieme, come fossero stati un ritratto dall'aria familiare. E si chiede come poteva sentire la mancanza per loro, sperare che tornassero a Londra presto, quando neanche li conosceva. Forse era davvero pazza
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    non è italiano, scusate. saltate pure, ve lo dico io cosa capita senza problemi #wat
    nate + jade spacobus (litigano? una cosa del genere). Jade suona il clacson al van della mystery perchè è un'autista (passeggera) incazzata
    nicky è sullo scuolabus, canta con maple e vuole morire perchè patisce l'auto
    noah va sul van della mystery e anche lui vuole morire. noah sta in disparte perchè conosce tutti ma in raltà non "conosce" nessuno (???????????????????????????????)
    Nate si è portato dietro i due cani perchè li aveva quando ha scoperto della notizia. Chissà se fanno amicizia col gatto di amalie o cercano di uccidersi a vicenda

    sono andata di random prompt, e niente ha senso. Non so collegare i pg quindi potevo benissimo fare 4 post diversi ma ormai avevo cercato le gif dello schemino e riesumato il codice CIAO
     
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    Wednesday| Anjelika
    De thirteenth - Queen
    «insatiable bitch shrouded in darkness»
    «Everyone best are mads»



    Anjelika era una persona molto egoista, non avrebbe mai dato la propria vita per salvare qualcuno tranne che per Damian e non era così scontato. Non si poteva dire che fosse una tipica donna innamorata, che si annienta per amore e non era neanche una di quelle che dipendeva dall'uomo, che aveva bisogno del suo amore per andare avanti e sicuramente non doveva essere protetta. Non fraintendetemi, la mora amava davvero suo marito e non si sarebbe mai immaginata una vita senza di lui; gli sarebbe mancato come l'aria ma questo non avrebbe mai interferito con la sua carriera, anzi la loro perchè erano importanti entrambi. D'altronde neanche avere un bambino l'aveva fermata dal compiere i suoi doveri, tanto che Antares era più le volte che stava con gli elfi che con lei, ma entrambi sembravano essere felici; Lui stava meglio con loro e lei di conseguenza era più rilassata. Ovviamente non ne faceva mai parola con Damian quando si sentivano; ogni tanto pensava anche di dargli il bambino; anzi no era al sicuro lì con lei. Forse. C'era da dire una cosa però, le mancava Shane, non tanto per il legame di parentela, quel ragazzo non le era mai piaciuto molto, ma era il nipote di Dam e doveva farselo andare bene; solo che da quando non c'era lui, avere Antares in casa senza un babysitter ed era diventato pesante, gli elfi si perdevano a giocare con la creaturina molte volte, ma come promesso al marito non poteva ucciderli e che vogliate crederci o no lei rispettava le promesse che faceva al compagno anche se le costavano un grande sacrificio.
    «Signora Icesprite» una voce femminile fece capolino nello studio del ministero «e tu chi sei?» la donna la fulminò all'istante, odiava essere interrotta mentre leggeva il giornale. «la sua segretaria signora» la sua segretaria? da quando aveva una donna? «Andrew dov'è finito?» non ricordava di averlo licenziato o di averlo ucciso «chi?»
    «da quanto tempo lavori per me?»
    «due giorni» disse intimorita senza fare un passo dalla porta, aveva il terrore di avvicinarsi e faceva bene, ma la donna era stranamente tranquilla, aveva una segretaria da due giorni, era stata brava. «Bene, cosa vuoi?»
    « Sono le dieci e mezzo di sera, mi ha detto di chiamarla se non era ancora andata via per quest'ora»
    Anjelika guardò l'orologio e notò che in effetti erano le ventidue e trenta spaccate, era stata puntuale la donna, le piaceva. Strano ma vero. Forse lei era quella giusta, chi lo avrebbe mai detto che sarebbe bastato avere una donna, invece di un maschio. Lei non era per gli stereotipi, dato che lei era una donna in carriera e non sentiva così tanto il bisogno di essere madre, ma effettivamente una donna come segretaria era meglio di un uomo. Incredibile. Le sorrise, e non per ucciderla.
    «Grazie. Puoi andare a casa. » chiuse tutto e si mise il mantello, pronta per rientrare, in effetti doveva farsi vedere a casa dai suoi elfi e da quello sgorbio di Antares, ma all'improvviso un quadro con raffigurante un alieno vestito da gesù non si palesò.
    «Professoressa Anjelika mi manda la signorina De thirteenth » Ma che diavolo era quello? Perchè aveva un quadro del genere? Aveva preso il posto di un altro personaggio ne era sicura, era convinta di averlo buttato via non appena lo aveva visto. Solo le gemelle potevano aver pensato che un quadro del genere potesse piacerle; eppure ora era lì.
    «e cosa vogliono le gemelle da me?» era troppo tardi per discutere, inoltre quelle donne avevano la capacità di farle venire il mal di testa anche senza che ci fossero. Incredibile.
    «Deve andare urgentemente a Villa Hamilton, hanno visto molte persone scomparse.» e lei cosa c'entrava in tutto quello? Forse per Shane, anche lui era sparito da mesi. Spesso si domandava dove fosse finito il ragazzo ed era un argomento ricorrente nelle videomagichiamate tra marito e moglie, in quanto il primo non aveva perso le speranze di trovarlo mentre per la mora era morto o quasi. («Promettimi che se avrai notizie al riguardo andrai in fondo alla questione.» - «è anche un mio parente » - «Anjelika promettimelo») E possiamo aggiungere anche quella richiesta alla lista infinita di cose da fare o non fare, da dire o non dire, insomma aveva un programma ben stabilito da seguire, anche se beh ogni tanto sgarrava, era nella sua natura e anche il marito lo sapeva che non avrebbe mai rispettato i suoi punti, era pur sempre un animale randagio la donna. Si ho appena detto che rispettava sempre la parola data se si trattava di Dam, ma a volte era più forte di lei, non si poteva chiedere ad un ex alcolizzato di non bere un wisky incendiario di un'ottima annata, quasi impossibile da trovare. (cosa ho detto?)
    «vado» disse seria, maledetta disciplina e fedeltà al marito, doveva per forza andare a vedere se c'era Shane, anche per dare una buona notizia a Dam, lo faceva solo per lui.


    La vita delle gemelle non era cambiata molto da quando era sparito Sunday anche se erano più agitate del solito o almeno Wendy, non riusciva mai a stare ferma, aveva sempre qualcosa da fare, doveva tenere la mente occupata perchè se faceva l'errore di riprendere fiato, il pessimismo prendeva il sopravvento e non poteva permetterselo; dovevano cercare il fratello,ma dove potevano andare? Infatti alla fine erano rimaste a Londra, anche se comunque grazie al lavoro di Fray e quello del guerriero della notte di Wendy ( non è vero) cercavano davvero informazioni al riguardo, peccato che non era venuto fuori niente.
    «Fray vieni sta per iniziare dirty dancing » Wendy era già pronta sul divano di casa loro per guardarsi quel favoloso film vecchio stile, amava i musical e quella era pure un film d'amore, come potevano non guardarlo. Avevano bisogno di staccarsi per un paio d'ore da quel mondo e da quella tristezza. E poi vogliamo mettere che era in pre-ciclo, aveva voglia di piangere per un motivo, non che ne avesse davvero bisogno, era una donna e una De Thirteenth quindi poteva farlo anche per un insetto morto per sbaglio; lei era una donna sensibile e dopo aver vissuto da uomo per molto tempo apprezzava la vagina e tutto quello che portava ad averla, compresi gli sbalzi d'umore. Al contrario di molte donne amava la sua vagina. (non pensate male). Fray fece per raggiungerla ma venne interrotta da una chiamata da parte di Elijah e divenne improvvisamente seria.
    «Che succede? » chiese Wendy alzandosi di colpo, vederla in quel modo non era mai un bene; le afferrò le mani «Ti preg-» «Hanno trovato le persone scomparse. Sono dentro ad uno specchio in casa Hamiltom » disse tutto d'un fiato e si staccò pronta per uscire di casa, ma la bionda doveva ancora capire cosa le aveva appena detto. « sono tutti dentro ad uno specchio? Come ci stanno? E perchè da Rea?»
    «Non lo so Wendy, dobbiamo andare. Dai potrebbe esserci anche Sunday» furono quelle parole che la fecero smuovere, l'idea di ritrovare loro fratello.
    Arrivarono a villa Hamilton in poco tempo, furono velocissime e in meno di un secondo furono davanti allo specchio, aspettarono in realtà il turno loro, erano delle ragazze per bene, non davano gli spintoni anche se beh, se ci fosse stato Wando, lo avrebbero fatto passare da quanto era bello. Probabilmente parlarono anche con altre persone ma la player ha deciso di ignorare tutti; poi videro Sandy, quello stronzetto ingrato che amava da morire, sorrise quando udì la sua voce e quel “dolce” saluto
    «oh, santi grigi e rettiliani» che stava bene lo si poteva capire da quella frase, e non era neanche deperito, il passato gli faceva bene.« De Thirteenth. » le si fermò la parola, quasi pianse, era una ragazza emotiva e non aveva neanche potuto vedere il film per scaricare tutte quelle lacrime. «siete ancora vive, quasi non ci speravo più» La bionda annuì «lo sai che con la vagina noi ce la caviamo. Tu come stai? Anche noi pensavamo che fossi morto. Cioè no speravamo che fossi vivo ecco. Ma sai come vanno queste cose. » si fermò prima di continuare a dire cazzate, ma ormai era tardi, poi era troppo felice di rivedere suo fratello anche se lo stronzetto non era così affettuoso con lei.

    E poi c'era Anjelika, che arrivò tra i primi, aveva persino parlato con Rea per capire cosa stava succedendo, anche perchè una volta tornata a casa doveva avvertire Damian di quello che era successo, magari avrebbero trovato una soluzione insieme. Ma oltre a Run, Maeve e qualche altra figura che poco le importava non vide Shane, la persona più importante in quel posto, anche se a lei non fregava molto del suo destino aveva un dovere da compiere, quello della moglie rispettosa del marito e dato che lui neanche era presente doveva per forza fare tutto quello. E niente chiudo così il post ciao.

    | ms.


    No comment. saltate e ciao.
     
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    This used to be a funhouse
    But now it's full of evil clowns It's time to start the countdown
    Soho non era uno stupido. Non aveva alcun interesse nel farlo sapere in giro, preferendo invece nuotare allegro nel mare dell’idiozia, ma non lo era. Shanghai Bond era uno dei tanti randagi di New York cresciuto a spaghetti di riso e shuriken, fra piombo e sangue a scivolare sotto l’uscio delle porte cui recapitava le pizze. Aveva sempre saputo che il suo destino fosse sotto i riflettori, ed aveva ingoiato e spalato tanta merda per arrivare dov’era stato: al centro del palco, le luci solo su di sé mentre i sudditi (sì, okay, fan: come volete.) gridavano il suo nome. Ahimè, non essendo un emerito coglione, sapeva anche che la caduta da quelle altezze sarebbe stata devastante: era pronto ad uscire dalle scene con l’usuale stile che gli si confaceva, l’uomo. Quello che non aveva previsto, ed ancora non accettava, era d’essere stato cacciati a calci nel culo da una brutta copia fatta negli stessi scantinati dove cucivano Nike – quello, Soho, non lo tollerava. Non vedevano, poi, quanto il Soho tarocco con il quale l'avevano sostituito peccasse di talento? I miei sudditi (sì, fan. Come vi fa dormire la notte) se ne accorgeranno, aveva piagnucolato di fronte allo schermo di una sua-ma-non-del-tutto live. Lo smaschereranno, si era detto, quell’impertinente figlio di -
    Ed invece era il primo nelle classifiche americane da tre (3) mesi a quella parte, roba che manco Drake ed il suo piano di Dio riusciva a rimpiazzarlo. Eh, ma un giorno. Un giorno!!
    Non sapeva cosa avrebbe fatto, ma era certo che ripetendolo più volte puntando un minaccioso dito al cielo, alla fine l’avrebbe saputo - ed era molto affascinante mentre curvava la bocca verso il basso e scopriva i denti in un sentito lamento sofferente, il che aiutava sempre l’americano a sentirsi meglio. L’essere bello, intendo. Dopo quasi ventisette anni avrebbe dovuto esserci abituato, ma era sempre sorprendente quanto potesse essere meraviglioso: fucking masterpiece.
    Ma torniamo a noi, ed al perché mi sia sentita in dovere di precisare che Shanghai Bond non fosse un imbecille: così, a titolo informativo. Ci sono momenti in cui dubiterete di questo fatto, ma vi chiedo di avere fede.
    Stava in un angolo della stanza a caviglie incrociate e broncio pronunciato, gli occhi a farsi sottili mentre scivolavano dall'uno all'altro dei nuovi (ma anche vecchi) arrivati. Si sentiva offeso in maniera intima e personale, Shanghai: non esisteva che più di cinque persone si ritrovassero in una stanza per qualsivoglia motivo che non fosse lui. C'era una legge - una legge divina, sì - da rispettare: come osavano quei...criminali? Era nato e cresciuto per essere al centro dell'attenzione, quel ruolo da personaggio secondario non gli si addiceva affatto. Figurarsi poi l'atmosfera di depressione che dal 1918 ed il 2118 avevano portato in quel dì Londra nel povero ed abusato 2018: la depressione faceva venire le rughe ed invecchiava la pelle, Soho non poteva permettersela. Stringeva ancora fra le braccia la patata bionda River, Mr. Uouei in amicizia dato che erano le uniche sillabe in grado di pronunciare, cauto nel tenere la testa del bambino contro il proprio petto. Cioè: se Soho di suo non fosse stato abbastanza (e lo era.) interessante, con un bambino attorcigliato addosso come un koala sul suo eucalipto, avrebbe dovuto raggiungere livelli di fascino ancestrali e superiori, apostoli (sì, mmmh, fan. Loro) a guaire il suo nome con le mani premute sul volto e le lacrime agli occhi...? Perché non stava succedendo. Preferivano dei cowboy e degli Avatar a lui? Non era accettabile. Sbuffò ancora, caso mai qualcuno non l'avesse udito le prime duecento volte, e alzò gli occhi al cielo. Manco li conosceva, Soho; non poteva neanche prodigarsi in qualche drammatica scena strappa lacrime. Okay, DeTredici, Cigei e Lil Dee (ciao Darden!) erano vivi, gli faceva piacere, ma non abbastanza da sprecare una delle sue performance da Oscar per loro. Non l'avevano neanche salutato, poi: chiaramente non lo meritavano. «ecco perché sei il mio preferito, mr uouei» bisbigliò al bambino spostandolo da un braccio all'altro, prima di stampargli un bacio sulla testa profumata di borotalco. Sembrava poco affidabile, il buon Bond, ma invero c'erano ben poche persone più adatte di lui nel compito di prendersi cura degli esseri umani in miniatura: i bambini amavano Soho, e dipendevano da Soho. Erano una versione migliorata degli usuali Sudditi (dai basta. Non mi correggerò, se volete della diplomazia leggetevi Piero Angela), e Shanghai si sentiva in dovere di ricompensare quello smisurato affetto prendendosi cura di loro come meritavano - avevano scelto il meglio, quindi non potevano avere nulla meno. Iniziò a ballare distrattamente sul posto molleggiando le ginocchia, la testa a seguire il ritmo fantasma percepito nelle ossa. Era a tanto così - così - dal perdere la pazienza; fra i tanti pregi del newyorkese non c'era certamente un'alta tolleranza verso le (palesi.) mancanze di rispetto. Soho viveva d'amore e musica, lo stavano facendo deperire a vista d'occhio - le vedete, quelle? Sono le ossa. Le maledette ossa.
    Il suo momento arrivò quando ormai aveva perso ogni fede, quasi cogliendolo di sorpresa - quasi perché chiaramente per certe cose il Bond era sempre pronto. Era il momento di entrare in scena e movimentare le acque?
    Dannazione, sì.

    «oh,» si guardò attorno smarrita, Friday, gli occhi verdi a stringersi in una scheggia color giada. Agiva sempre d'istinto attaccando di rado il cervello, la De Thirteenth; soffiava sul caffè pur sapendo che fosse caffè freddo, spingeva gli occhiali sulla punta del naso anche quando non li portava.
    Spegneva le luci quand'erano già accese. Non si rese immediatamente conto di aver privato la stanza della flebile illuminazione del lampadario, facendo calare la camera di Rea nel buio; era troppo concentrata a studiare le altre fonti d'illuminazione, qualcosa d'impossibile ed al contempo perfettamente normale nella vita di Fray - un po' perché era una strega, un po' perché...beh, era Friday De Thirteenth. Reclinò il capo sulla propria spalla, le labbra dischiuse ma, forse per la prima volta nella sua vita, nulla da dire. Come suo solito era arrivata tardi e s'era persa la spiegazione - tipico - ma preferí così, la rossa: avrebbe potuto continuare a pensare, da quel momento in poi, che fossero stati gli alieni a permettere quei bizzarri viaggi nel tempo. Una clessidra magica era troppo mainstream per i suoi standard. Non che a Friday De Thirteenth importasse effettivamente qualcosa di tutta quella gente riunita nella capanna di Gesù o nel bagno di un palese set porno; se fosse dipeso da lei avrebbe recuperato Akelei e Sandy augurando tante belle cose a tutti gli altri (magari avrebbe raccattato anche gli amici di suo fratello: quando il deQuindici teneva il broncio, lo faceva a lungo e testardamente). Se avesse potuto compiere seduta stante un Exchange, avrebbe distratto i presenti indicando loro, boh, una libellula preistorica, ed avrebbe spinto a calci in culo gente a caso fra pellerossa e pelleblu (se nel futuro non avevano la pelle blu, Friday non voleva vivere abbastanza da vederlo) pur di prendersi i sopracitati. Non che non le dispiacesse, eh, non era mica un mostro: era solo onesta con sé stessa, un vanto che oramai nella loro epoca pareva gelato sotto marca che nessuno voleva ammettere di trovare buono. Si inumidí le labbra, un paio di stentati passi verso l'interno della stanza. Lanciò un'interrogativa occhiata ad Elijah, prima d'incollare le iridi sul capannone dal quale filtrava una pallida luce solare. Era tutto vero? Si era testardamente convinta che ritrovare suo fratello fosse compito suo, non aveva mai -mai- valutato l'opzione che potesse essere lui a trovare loro. Sunday De Thirteenth poteva pensare quello che preferiva delle gemelle, ma sapeva perfettamente che l'avrebbero cercato, e trovato, anche in capo al mondo - a costo di smontarlo, quel mondo. Allungò un braccio alle proprie spalle per riaccendere gli interruttori. «scusate.» Non che pensasse di avere davvero motivo per cui chiedere scusa, ma non dimenticava le basilari regole di cortesia che vigevano nelle fasce sociali più basse. Avrebbe anche aggiunto altro, se solo -
    «yeah, YEAH» un uomo non avesse approfittato delle luci spente per sgusciare fra la folla sfilando di fronte agli specchi. Sventolava qualcosa fra le mani, e Fray ci mise più del dovuto ad indentificare in quella forma un bambino.
    «da lontano arriva,
    La sento da qui la puzza di sfiga.
    Prima guerra mondiale? Mi pare più
    Una cazzata colossaleeH, yeah.
    Pastori e contadini,
    Nel 18 ancora esorcizzavano bambini.
    Fra l'aratro e il toro pazzo,
    Tira su le mani se non hai capito un cazzo -AHHHH.
    Evviva la guerra
    AAAHH.
    Quanta figa a zappar terra
    AHHHH.
    E le vedove tristi
    AAHHHH
    A cui piacciono i turisti!
    AAAHH.
    Ma è mondiale il conflitto?
    AAAAA
    Ma lo pagate l'affitto?
    AAAHHH
    Ed usate la vanga?
    AAAAA
    Skste, #team tanga !
    Ma sapete che vi dico,
    Io che son davvero fico.
    Sentite Soho il bello,
    ne sa più del cappello.
    Se nel far west voi siete, ed avete pure un prete...prete...prete....
    Ciao belli, morti siete.»

    Ed iniziò a scrollare il bambino a destra ed a sinistra come un recipiente per cocktail, finché la testa non saltò via come il tappo di uno spumante.
    «CIAO ALADINO - cosa? Non si chiama Aladino? Non prendermi per il culo - SONO IL BABY SITTER DI MR UOUEI» salutò entusiasta con una mano, il bambolotto a imitare macabro il suo movimento.
    «non è quello, ovviamente» una voce si alzò da poco distante, ed un altro Soho si mostrò imbronciato verso gli specchi. «per chi mi hai preso? È questo» e lanciò il bambino verso gli specchi, muovendo bacino e braccia sulle silenti note di Pitbull.
    Da un altro punto della stanza: «SKE AL IL VERO ME è QUI MI VEDI SIAMO NOI LUI È -ahia, che modi»

    «imbecille» commentó atono, battendo le sottili ciglia bionde sugli incavati occhi azzurri. Tenne River fra le mani, temendo che un contatto prolungato con il fratello avrebbe scatenato chissà quale reazione spazio temporale dall'esito incerto. Scambiò una dubbiosa occhiata con Mr uouei, ricevendo un acuto strillo allegro di saliva e gengive sdentate. «anche tu.» sussurrò al marmocchio, sentendo il petto stringersi in maniera fastidiosa. Avrebbe quasi preferito una ricaduta di polmonite - o perché no, tubercolosi - piuttosto che accettare quella...cosa emotiva. Nostalgia. Jack Daniels non aveva tempo per piangersi addosso - ed Hyde, non ne aveva mai avuto alcuna voglia. Deglutí cedendo il fagotto alle braccia di Jekyll: lui era più bravo, con quelle problematiche lì. Sicuro al cento per mille, Hyde Crane Winston non era mai stato il cuore fra i due (o fra tutti i suoi familiari, ad essere onesti). Era logico, pragmatico, e sempre ad un passo dall'essere richiamato nel posto che gli spettava di diritto al fianco del Signore. Fece un passo in avanti incapace di distogliere lo sguardo dallo specchio; inforcò i sottili occhiali dalla montatura dorata, ed allargò le braccia in un «fate spazio» a cui era impossibile dire di no. C'era sempre qualcosa di... professionale, nel CW. Ce l'aveva scritto in faccia che non parlava se non strettamente necessario, e che se proprio doveva interagire con altri esseri umani, era solo per estremo bisogno. Superò ed ignorò tutti, mani intrecciate dietro la schiena; si chinò verso la superficie sottile del... portale mettendo a tacere con un cenno della mano le proteste giunte da entrambi gli spazio tempo sul non toccare nulla. Non era mica un idiota, Cristo. Certo che non avrebbe toccato nulla.
    «come?» domandò piatto, cercando con opachi e distratti occhi chiari lo sguardo di chi (chi?) Di competenza. «come avete fatto a -» sollevò la mano parallela al vetro, e lascio solo pochi centimetri dal proprio palmo alla frattura. Hyde non si era mai interessato alle dinamiche della missione 2043 (lettere? Punti storici da cambiare? Meh.) ma non per questo non si era interessato alla questione multi verso, o basic viaggio nel tempo: avrebbe dovuto essere molto più altruista di quanto non fosse mai stato per non cercare almeno una scappatoia da quell'assurditá per riprendersi, anche per poco, le sue sorelle. Una frattura nello spazio e nel tempo di quella portata, era «perfetta» una catastrofe, ma davvero...impeccabile? Non avrebbe saputo descriverlo a parole, ma era impossibile contenere una tale ferita dimensionale. Ne rimase sinceramente ammirato, un paio di passi indietro per osservare la portata della spaccatura.
    Solo in quel momento, distante come avrebbe potuto giungergli la voce di qualcuno sotto il pelo dell'acqua, Hyde si riusci a comprendere cosa stesse accadendo intorno a lui - cosa stesse vedendo, cosa stesse ascoltando.
    «sotto sopra?» alzò il capo cercando il profilo da pirla di Ronan, riconoscibile in qualunque tempo, luogo, o forma.
    Dove cazzo era sua sorella. Cosa significava sotto sopra. «e perché voi non ci siete?» avrebbe dovuto, ed avrebbe potuto, essere una domanda generica, quella del magiavvocato Jack Daniels: lui voleva davvero sapere perché Amalie fosse in un fottuto altro posto e loro no - come avevano fatto ad arrivare in California, o a Parigi? Erano caduti nella fottuta tana del Bianconiglio? Invece, la domanda suonò come un'accusa (cosa che, effettivamente, era) ed il suo denso disappunto scivolò su Al e Maeve. Che innato talento ad abbandonare i propri figli. Sorrise a metà, più prendendo in giro sé stesso che non loro - i quali, in ogni caso, non avrebbero capito. Hyde e Jekyll erano rimasti per loro, e loro, come al solito, avevano mandato tutto a farsi fottere. Per qualche causa più grande, probabilmente. Non lo metteva in dubbio. E non per colpa loro, certo.
    Non era mai colpa loro, eppure Hyde si era sempre trovato a dover leccare ferite che loro, avevano lasciato. Sono incinta - perfino. Cercò di impedire con un'occhiata di sterile avvertimento a Jekyll di non aprire bocca (un continuo fallire, ma ciò non ostacolava il fratello minore dal provarci comunque) mimando appena un «congratulazioni» che, in quel tono, sarebbe stato opportuno solo da sicario a sicario sulle spalle di un buon lavoro compiuto. Non poteva aspettarsi di meglio: in un colpo solo, Hyde aveva perso sia Amalie che Mabel. Indietreggiò ancora tenendo il capo chino, stanco e pesante di anni che ancora non aveva vissuto ma già gli pareva di aver consumato. Posò una mano sulla spalla sottile di Tupp (Erin, Hyde. Cristo santo, Erin.), stringendo quanto bastava a farle sentire che, pur ingannando nell'aspetto, sotto sotto Hyde era vivo e tristemente umano.
    «troverá un modo per raggiungerli» non disse tornare, ci credeva poco anche lui. Troppo di quella faccenda gli puzzava di manomesso e corrotto. Il tempo non funziona così, continuava a ripetersi. Non funziona così.
    «lo fa sempre.» indipendentemente dal prezzo - da noi, da me. Ma quello, non glielo disse. Lanciò un'ultima occhiata al passato, uno sguardo morbido e triste a scivolare da ... Sander? (Sul serio? Accennò un pigro cenno con la mano.) a Danielle, da Danielle a Heidrun, da Heidrun a BJ e CJ.
    "Vi prenderete cura di loro?"
    "Sicuro"

    Deglutì ancora e tentò uno di quei sorrisi che piegavano appena la bocca, ma negli occhi ci provavano davvero ad arrivarci; non era bravo ad esprimere le proprie emozioni, né era interessato a farlo, ma poteva capitare che perfino Hyde Joyce Crane Winston manifestasse qualcosa in più rispetto all’usuale cipiglio da Protezione Salute per il quale molte agenzie farmaceutiche (e tabaccaie) gli avevano chiesto di posare come modello per segnalare ai giovani cosa potesse attenderli se avessero esagerato con fumo, acidi, o azzardate passeggiate notturne senza maglietta della pelle. «vostra sorella sarebbe fiera di voi.»

    «siete ancora vive, quasi non ci speravo più» Friday deglutì, le braccia strette al petto e le ramate sopracciglia corrugate. «non dirlo a noi.» rispose laconica, ed ancora distratta, scandagliando il corpo sottile di suo fratello alla ricerca di cicatrici da microchip – sapeva che gli alieni utilizzavano una tecnologia molto più avanzata della loro, ma non si sapeva mai. Umettò le labbra ed azzardò un sorriso a bocca chiusa, il tono lamentoso a prudere in gola per implorarlo di smetterla di fare il deficiente e tornare a casa. Ai De Thirteenth era stato insegnato che tutto potesse essere comprato, ed avevano pagato sulla loro pelle il prezzo di quanto non fosse vero. Fece guizzare i vivaci occhi verdi su Tu vo Fa l’Amerikano (ciao Arci), il quale aveva esplicitato, all’incirca, la…situazione. Van Lidova era Vasilov? Uau. Il mondo meritava di saperlo, e grazie a E.T. (le vere religioni si riconoscevano nei momenti del bisogno) all’interno di quella stanza portatrice di Verità, potevano vantare un’eccelsa giornalista di prima classe. Sentiva le dita prudere dal bisogno di prendere appunti, ma non ci riusciva, Fray; non riusciva a pensare ad un articolo per il Morsmordre, o qualunque altra testata. In quel momento, non le interessava davvero che il mondo sapesse: le importava solamente quel che sapeva lei, ossia che Sandy fosse vivo. Se lo sarebbe fatto bastare - per un po’. «millenovecentodiciotto, ew - le avete le docce, almeno? Addestrate alpaca?» Domande importanti. Gonfiò il petto e drizzò la schiena, gli occhi ben piantati in quelli del Grifondoro. Sapeva che l’avrebbe messo in imbarazzo di fronte ai suoi amici, ma come ogni madre sorella maggiore che si rispettasse, non le importava. «sunday de thirteenth, resisti. Ti voglio bene, fratellino – piantala, sarai sempre il mio fratellino. troverò un modo per riportarti indietro, lo giuro su »
    Tre anni: “Sandy, smettila di mettere in bocca il Cacciavite Sonico”
    Sei anni: “è magicissimo. Il tardis ti può portare su ogni stella” “come il nostro jet?” “meglio”
    Dieci anni: “perché non dobbiamo battere le palpebre?” “Tu nel dubbio non farlo”
    «doctor who» appena un sussurro, mano aperta sul petto.
    C’erano promesse, e c’erano Doctor Who. «non dimenticarti di noi nel far west.»

    «sono famoso? Nel futuro avete i miei poster? SONO VINTAGE? Volete sentire un pezzo anche per voi?» No? E invece sentì proprio sì.
    «ma chi è?
    Soho è
    Soho chi?
    Genepì
    Fra cent’anni saremo molto fregni, almeno quello, più manzo che vitello;
    al momento mi sto molto annoiando, okay STAPH: lo so
    qui dentro sono l’unico bello - fotomodello
    come Thor e il suo martello
    quale martello? a interpretazione
    la fascia protetta è solo una grande illusione
    s o h ohoohohoh
    che dici
    non c’è la mia foto sui nuovi pannolini?
    Duemilacentocose, che profonda delusione
    Preferisco spielberg con gli alieni e l’invasione
    No non mi chiamo maicol, ma amo l’alcol
    No, al, su river è borotalco
    Madonna emanuele, perché non apprezzate?
    Discendenti di Jbeech non vedo le mani alzate
    Brodi Fibra, poi
    Che immensa tristezza
    I tuoi pro nipoti soffrono di stitichezza.
    La canzone di base si è rivelata infinita
    Sara non se la sente di seguire la trafila
    Anche prima ha sgarrato, ma ehi, belin, almeno ci ha provato
    La vita da rapper, fidatevi, è complessa
    Sono giunta a pensare che dovrei fare la Principessa
    O frequentare l’accademia dei piccioni,
    dove in realtà sono tutti gnoccoloni
    11:11 MAKE A WISH
    Uau tu pensa, fa rima con Hashish
    Che vorrei usare come scusa, ma
    Rosa
    Posa
    Xdono è la mia musa»

    20/04/2018 | 22:30
    jack daniels
    friday de 13th
    shanghai bond
     
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    Non era mai stata una persona opportunista, Jessalyn Goodwin. Ma la si poteva accusare di star usando l'esercito di Amalie per scopi personali? Forse si Diciamo solo che, negli ultimi tempi, aveva iniziato a molestare i poveri malcapitati che, durante quel pomeriggio di inizio marzo, avevano deciso di accogliere l'invito sui volantini distribuiti clandestinamente e presentarsi nella stanza delle necessità. E Jess si era guadagnata lo status di fantasma, cosa che suscitava un certo effetto, soprattutto in persone sensibili come Behan Tryhard.
    Ed infatti era il povero tasso la vittima preferita della Goodwin.
    Tutto a fin di bene, sia chiaro.
    «Allora, hai capito?» Il ragazzo annuì, ma la sua espressione era chiaramente ancora perplessa. «Ti devo rispiegare il piano da capo?» Era almeno la terza volta, quella sera, che gli rispiegava nei dettagli la tabella di marcia ma Jess avrebbe fatto lo sforzo di ripeterla una quarta o persino una quinta, se ciò ne assicurava la riuscita «Il piano l'ho capito, ma...perchè non puoi farlo tu??» Ma era scemo? Ogni volta che apriva bocca, Jess si ricordava del perché lo adorasse così tanto: la sua imbranataggine le faceva così tanta tenerezza
    «Sono un f-a-n-t-a-s-m-a, e Connor lavora al ministero, capisci? Al m-i-n-i-s-t-e-r-o!» Mica il suo era uno status da fantasma normale: materialmente era ancora viva. E farsi scoprire da qualcuno che lavorava al ministero era sicuramente l'ultima cosa che desiderava. Non perché non confidasse nella buona fede del Walsh, sia chiaro: l'aveva già incontrato al funerale, mesi prima, e gli era sembrato una persona abbastanza tranquilla. Il timore di Jess stava nel nuovo governo, nella politica ancor più restrittiva nei confronti degli special, nei controlli diventati sempre più fiscali. E per quanto cercasse di non darlo a vedere, di mascherare tutto con il suo solito sorriso e le sue solite battute fuori luogo, la Goodwin aveva sinceramente paura per la situazione precaria in cui lei e Nate si trovavano. Da quando il quartier generale era stato smantellato, Jess non si era più sentita a casa: la permanenza a casa di Maeve e Dakota era stata troppo breve per adattarsi mentre durante il soggiorno ad Hogwarts erano pochi i momenti in cui la ragazza riusciva a sentirsi davvero al sicuro, e per questo riempiva le sue giornate come meglio poteva per non pensarci. E non pensare alle persone che, a dicembre, aveva perso: sarebbero tornati, ne era certa.
    In qualche modo, in qualche tempo, sarebbero riapparsi dal nulla, come se non fosse accaduto niente, e tutti insieme avrebbero potuto riderci sopra, raccontato ciò che era successo in quei mesi dalla loro scomparsa. E così Jess avrebbe raccontato con fierezza a Dakota e Maeve di come avevano mangiato mcdonalds d'asporto soltanto per le prime due settimane, ma poi si erano impegnati andando a fare la spesa e cucinando cibi salutari - senza però dire che ciò succedeva massimo tre volte alla settimana, mentre i restanti giorni il loro unico carburante era il cibo spazzatura. Insieme ad Erin e Nate avrebbero fatto un rewatch delle due stagioni della Casa di Carta, così da rivederlo insieme a Kieran e poter poi pianificare tutti insieme una rapina alla Gringott e fantasticare su cosa avrebbero comprato con tutti quei soldi.
    Almeno Jess avrebbe avuto altro a cui pensare, piuttosto che trasformare l'esercito di Amalie in una sorta di branca dello shipper club
    «E se poi incontro Maple e mi chiede cosa ci faccio lì?» Ma anche meglio!! Ancora non lo capiva che era tutto parte di un piano più grande? E che aveva scelto proprio lui per quanto fosse shippabile con la Walsh? Giovane tasso ingenuo «Scusa non ti farebbe piacere? Comunque è a scuola, non corri rischi»
    «Come fai a saperlo?»
    «Sesto senso degli spiriti» E poi perché l'aveva vista mezz'ora prima nella sala comune dei tassi già in pigiama, sicuramente non in tenuta da gita dell'ultimo minuto diretta a casa
    Ma Jessalyn Goodwin oramai era immedesimata al 100% nella parte da fantasma per ammettere la verità.

    "Gesù aiutami tu"
    Non sapeva il motivo preciso per cui avesse accettato di prender parte a quel piano: un po' perché Jess gliel'aveva spacciato come missione ufficiale dell'esercito di Amalie, un po' perché alla ragazza era praticamente impossibile dire di no. E poi era un fantasma, e come si poteva dir di no ad un fantasma? Beh non avrebbe mai voluto correre il rischio di esser tormentato per una vita intera.
    E poi il piano, su carta, era piuttosto lineare: bussava, diceva ciò che doveva dire ed andava via. Semplice, no? Davanti alla porta di casa Walsh però, tutte le certezze del Tryhard iniziarono a vacillare. Chi voleva prender in giro: era un piano così stupido
    «Ma che...scusa cosa ci fai qui?» Aiuto. Perché aveva detto di si a Jessalyn Goodwin?? Perché??? «Sono il nuovo portavoce degli special ad Hogwarts» Era credibile? Probabilmente no. Ma, come Jess aveva ripetuto ogni volta che il ragazzo aveva avuto voglia di tirarsi indietro dalla missione, bisognava avere fiducia nella forza dell'amore, e render fiero lo shipper club: se c'era anche una minima possibilità che quella situazione assurda per lui avrebbe però portato a risvolti positivi per i Copmunks, allora valeva la pena tentare. «ma scusa tu non sei amico di mia sorella? Un mago, soprattutto?» «sì ma...è la nuova politica» Non era così impossibile da credere, no? Con il nuovo preside una cosa del genere era alquanto probabile. E Beh si rilassò quando vide Connor annuire: gli credeva. Ma durò ben poco. «è comunque notte» Effettivamente nemmeno lui aveva ben capito perché Jess avesse deciso di farlo andare dopo cena dal Walsh, ma dopo un vano tentativo iniziale di farle cambiare idea si era semplicemente adeguato «è una notizia di massima importanza, mi hanno mandato qui di corsa»
    «ok...» I due però vennero interrotti dalla suoneria di un cellulare, e Connor fece cenno a Beh di fermarsi «dammi solo un attimo...Maple? Perché mi chiami a quest'or...cosa?» Cosa stava succedendo? Ad Hogwarts stava accadendo qualcosa di degno di nota proprio in quell'unica mezz'ora in cui il ragazzo non c'era? La sua sfiga era qualcosa di immensurabile «ma stai ferma lì! MAPLE FER...ma mi ha chiuso in faccia?»
    «che è successo?» Connor lo osservò un attimo, come se si fosse dimenticato della sua presenza e non sapesse cosa farsene di lui.
    «cerchiamo di capire in che guai si è cacciata mia sorella»

    «quindi sono tornati??» Connor lanciò un'occhiata al ragazzo sul sedile del passeggero, ancora non sicuro sul perché avesse acconsentito a portarselo dietro. «così dicono» Non appena Maple aveva chiuso la chiamata senza dargli spiegazioni più precise su cosa stesse andando a fare, il fratello aveva iniziato una serie di chiamate per capire cosa fosse successo, finché non aveva fatto il numero di Stiles che gli aveva detto un po' meglio di cosa si trattasse. E Connor aveva deciso di andare soprattutto perché non si fidava della guida dello Stilinski e voleva assicurarsi che sua sorella arrivasse sana e salva. «ma allora devo dirlo a Nicky!! Possiamo farla una sosta ad Hogwarts??» Ma non capiva che erano di fretta? Sicuramente il ragazzo aveva una cognizione distorta dello spazio, perché altrimenti le cose non si spiegavano «non c'è tempo. E poi scusa..nicky winston? Se non sbaglio è anche lei sul pulmino della speranza» O così gli pareva di aver capito dopo che Maple, al decimo tentativo del fratello di richiamarla, aveva finalmente deciso di rispondere.
    Poi ci fu un momento di silenzio, troppo lungo perfino per gli standard di Connor, che decise di spezzarlo con la prima domanda che gli venne in mente. «sei ansioso di rivedere qualcuno?» Ed era chiara, la domanda implicita: hai perso qualcuno a dicembre? «non in particolare...cioè ci sono persone che mi mancano ma.. »«non troppo da starci male» e Beh annuì, andando a confermare ciò che il ragazzo aveva pensato fin da subito: si vedeva che per lui non si trattasse di qualcosa di personale, dato che il suo primo pensiero era volato all'amica. Per un po' aveva creduto anche lui di non esser stato toccato da quegli eventi. Si era illuso che non gli importasse.
    Poi però con il passare dei giorni si era accorto che vedere sua sorella ridere insieme ad Aidan gli mancava, così come prendersi un caffè con Dakota o farsi offrire qualcosa da bere da Run ogni qualvolta si presentava a New Hovel per i controlli mensili
    Si era illuso di esser stato fortunato, quando in realtà aveva perso anche lui: si era solamente illuso di non tenerci troppo da starci male, ma quell'illusione era durata ben poco.

    «Come state?? JESS MICA LI STAI NUTRENDO SOLO DI PANCAKES???» Aveva gli occhi lucidi, la Goodwin, e si stava davvero sforzando con tutta se stessa per non scoppiare a piangere davanti a tutti loro. Stavano bene, certo, ma non erano tornati. Ci aveva creduto sul serio, quando era arrivata quella chiamata. Ci aveva creduto quando aveva annunciato il loro ritorno urlando al povero Nate, ne era certa quando sul pulmino si era messa a cantare a squarciagola Firework insieme a Maple e Nicky
    «Solo le prime settimane, giuro » Sorrise a Gwen, ed in qualunque altra occasione era certa che sarebbe scoppiata a ridere per l'abbigliamento dell'amica, e le avrebbe fatto una foto e poi prenderla in giro per settimane intere. Quello che fece invece, fu avvicinarsi all'immagine di Maeve nel muro adiacente «abbiamo imparato a cucinare sano.. » diede una piccola gomitata a Nate, per avere l'appoggio dell'amico: una frase del genere detta unicamente da Jessalyn Goodwin non era credibile «siamo andati a fare la spesa - spiegare i modi non era poi così importante, e così la ragazza evitò di raccontare alla Winston di come uscivano dai negozi con il carrello pieno di prodotti ben nascosto sotto il mantello dell'invisibilità - ed abbiamo comprato persino l'insalata!!» Non disse però che la prima volta ne avevano comprata un tipo amarissimo, che avevano mangiato a forza per non fare sprechi dato che persino Luna, Hamtaro, Thor o Loki si erano rifiutati di mangiarla dopo un primo assaggio.
    Non era brava ad affrontare una situazione del genere Jess: aveva così tante cose da dire eppure non sapeva come. VOLEVO DIRTI TANTE COSE MA NON SO DA DOOOVE INIZIARE E così si limitò a rimanere ferma, impiegando tutte le sue forze per trattenere le lacrime che lottavano per uscire , finché i suoi occhi non si posarono su Murphy e Kieran. «lo sapevo che stavate bene, lo sapevo» Mi mancate tanto
    Ed aveva atteso di veder spuntare Dakota da un momento all'altro, perché un'altra possibilità non voleva nemmeno prenderla in conto, finché non udì le parole di Sandy. Il sottosopra. Cosa diamine era? «Ma anche lui è salvo, vero? Vi prego, ditemi che mio cugino sta bene» Aveva avuto la possibilità di stare con lui così poco, Jess: due anni scarsi di ricordi insieme non erano abbastanza.
    Non era giusto
    Ma del resto nulla in quella situazione lo era.
    20/04/2018 | 22:30
    connor walsh
    jessalyn goodwin
    behan tryhard
     
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    Le odiava tutte, quelle luride bestie che sceglievano come categoria quella degli One Direction. O le hits del 2012, le quali non poteva sapere perché era stato fottutamente rapito. Non c’era più un minimo di rispetto in quel mondo infame, Songpop era solo servito a ricordarglielo. Vedete, Xavier non era per le droghe, ma da quando aveva scoperto quell’app non riusciva a scollarsene - tutto, pur di non pensare al fatto che suo fratello lo stesse evitando. Non bastava avere l’altro cretino disperso chissà dove, anche Stiles aveva deciso di fare il prezioso, così, perché gli girava. Dannazione, non funzionava così: era lui quello a sparire e a farsi sentire quando più gli pareva, era così che era sempre stato. Non era preoccupato per lo Stilinski - quando mai - solo estremamente irritato da quella mancanza di rispetto, poteva degnarsi almeno di mandare un messaggio per dirgli di smettere di rompere le palle. Da quando era diventato lui quello responsabile dei due? Poteva anche avere tre figli (Daisy, Atlas e Stiles) ma non significava niente, Cristo, rischiava di beccarsi una pallottola in fronte ogni volta che metteva piede fuori di casa.
    Scese dalla moto della ragazza, casco stretto sotto al braccio e sguardo a fissare i cancelli di Villa Hamilton. Era identica all’ultima volta in cui l’aveva vista alcuni mesi prima, quando si era trasferito da Stiles; si trattava dello stesso edificio, con la differenza che Xavier era cambiato da allora. Aveva ignorato il fatto per settimane, pensando di poterlo accartocciare e abbandonare in un angolo remoto, dove sarebbe rimasto….per sempre? Non aveva bisogno dell’ennesimo problema da risolvere, o un’altra ragione per essere squadrato con disgusto. L’aveva sulla punta della lingua, quella parola, quella definizione, che si rifiutava di dire ad alta voce - sapete, ci stava pensando da un po’, seppure si era imposto di far finta di niente. Ma come poteva, quando ormai ne sentiva la consapevolezza? Aveva aspirato ad essere normale per la maggior parte della sua vita, quando si era poi arreso all’evidenza: era chiaro che non lo sarebbe mai stato. Dovette trattenere una bestemmia stretta tra i denti, quando bussando alla porta della casa, si trovò davanti Newt «cristo, è una persecuzione» poco importava che fosse lo Stevens quello che si era presentato alla sua porta. Gli rivolse un’ultima occhiata prima di sorpassarlo, sperando che Jericho non avesse prestato attenzione a quello scambio (unilaterale) di battute, quella non era la giornata dell’apri il kuore al tuo bff4ever. Controllò il cellulare per vedere se aveva notifiche dal gioco, soddisfatto poi quando notò la sfida da parte di Austin, una baldracca che continuava a proporgli playlist Jazz - quella volta l’avrebbe massacrato, umiliandolo come si meritava. «spero che non sia una perdita di tempo» disse a Jericho, attimi prima di entrare nella stanza incriminata. Si fece strada tra la gente, non risparmiandosi qualche gomitata in faccia a qualcuno, finché non arrivò ad affiancarsi a Stiles «guarda chi si rivede» sarebbe quasi potuto passare per annoiato, se solo i suoi occhi non si fossero soffermati per qualche secondo di più sul volto del fratello, scrutando quelle occhiaie scure così simili alle sue. L’aveva detto, lui, che stava cercando di rimpiazzarlo. Si voltò poi verso lo specchio, cercando Jay, Al, Shia e Run tra i presenti, doveva vedere con i suoi occhi che fossero ancora vivi, non gli era bastato l’esperimento su Jack. «e anche xav. però non dirglielo. dov'è lo stronzino? daisy e atlas stanno bene?» il pirocineta si schiarì la gola, gli occhi a spostarsi verso il Matthews e l’accenno di un sorriso a comparire sulle labbra – ogni tanto, anche lui si dimostrava umano. Osservò i suoi abiti con sospetto, e poté giurare di sentire la puzza di sterco fino a lì, chiedendosi come diavolo ci era finito nel 1918 «non potevo non venire a rompere le palle, Giei, dovevo vedere con i miei occhi se fossi ancora vivo» una rapida occhiata in direzione di Jericho e Jade, «le gemelle se la cavano, anche se sono due bestie di satana» da qualcuno dovevano aver preso, no? Avrebbe preferito che il loro lato demoniaco non si manifestasse prima degli otto anni, ma sapeva di chiedere troppo. «te quanto stai morendo nel ’18? Sembra un posto abbastanza di merda» perché, dai, lo era chiaramente: a chi piaceva il Far West?? Non a Jay #wat.

    Fino a cinque minuti prima quella panchina era stata libera, e lei immersa nella più pura pace dei sensi. Poteva godersi la natura e le risate dei bambini a giocare nel parco, quella surreale aria di primavera e il ghiacciolo che stava mangiando. Lo scenario era così surreale che non poteva durare, e infatti poco dopo giunsero loro. Chi erano? Non ne aveva idea, sapeva solo che da quando li aveva visti emergere dalla metro aveva pregato che non si fermassero alla fermata – santo polaretto, tremava solo a vedere le loro facce da gen z trash. Le sue preghiere alle divinità indiane non andarono a buon fine, perché non solo si fermarono davanti alla paletta del pullman, ma uno di loro si sedette persino vicino a lei.
    Voglio morire.
    Cristo, le aveva detto qualcosa. Vabbe, tanto non aveva capito.
    Voglio m o r i r e.
    Urlava nella sua testa, e se avesse potuto avrebbe esternato il disagio che stava crescendo nel petto. Non potevano andare da qualche altra parte? Lo sentiva che la stavano fissando e giudicando, poteva sentire i loro sguardi sul suo viso incandescente – perché non avrebbero dovuto guardarla, poi? La sua felpa con cappuccio a forma di gatto attirava una certa attenzione. Aggiornamento: stavano ridendo. Abbassò immediatamente lo sguardo sul cemento, sentendosi morire in cento modi diversi. Si torturava il labbro mentre pensava a come scollarsi da quella panchina – non era così sicura che le gambe l’avrebbero sorretta – convinta che dovesse solo trovare il frangente giusto.
    Il quale non sarebbe mai arrivato, quindi tanto valeva strappare il cerotto all’istante: si sporse oltre la figura del ragazzo per far finta di controllare se stesse arrivando il pullman, alzandosi poi in piedi e allontanandosi dal gruppetto. Il cuore stava ancora battendo come impazzito, e sentiva le mani a tremarle un po’, ma ce l’aveva fatta - tutto, pur di scappare alla gen z. «I pullman si fanno aspettare quando non c’è scuola, eh?» ho ventiquattro anni, signora. Le avevano detto che sembrava giovane ma….non pensava così tanto? O quella vecchia aveva un problema di vista, il che era più plausibile. Si grattò la nuca, una nuova e mistika voglia di sotterrarsi a presentarsi, «mmh si, maledetti» alzò persino il pugno in aria a maledire il Signore dei trasporti, sapendo che il gesto da ottantenne avrebbe fatto colpo sulla donna. «e come va con i voti?» Siobhan lanciò uno sguardo disperato dietro di lei, nella vana speranza di avvistare il pullman. Ovviamente, non ve n’era traccia. Non voleva davvero avere una conversazione con quella vecchia che neanche conosceva – ma poi perché l’aveva approcciata???? – specie su una scuola immaginaria che neanche frequentava. «sì……me la cavo insomma» «ma sì, mio marito è uscito col sei e ha fatto carriera comunque. Sai, se hai la grinta puoi andare ovunque» intanto, Siobhan continuava ad annuire rapita dal discorso emozionante della nonna. In realtà aveva paura che, se non si fosse mostrata abbastanza interessata, avrebbe incominciato ad insultare la gioventù e lei non aveva voglia di sorbirsi le solite cazzate. «guardi, l’importante sono la salute e la famiglia» ripeté la formula magica che riusciva a vincere il cuore di tutti i vecchi, quella che si sentiva in ogni telenovela. Il volto della signora si illuminò, e poggiò una mano al petto con sguardo commosso «ah, hai proprio ragione! Senti giovanotta, hai idea di cosa stia succedendo in fondo alla strada?» se stava parlando di un rave, lei non ne sapeva niente. Solo perché era giovane non voleva dire che si facesse di droga e andasse a ballare in discoteca, che erano quei luoghi comuni? «veramente no, che succede?» «dicono che siano tornati dei ragazzi scomparsi, dal futuro? O era dal passato? Non ho capito bene» quasi rischiò di strozzarsi con la saliva, Siobhan, aveva capito bene??? Salutò immediatamente la vecchia e si mise a correre verso la casa indicata, vedere i suoi parenti era più importante della spesa che avrebbe dovuto fare.
    Si sentiva come una bambina al primo giorno di scuola, col cuore a battere forte contro il petto e le aspettative troppo alte. Quando aveva scoperto che i suoi genitori erano tra gli scomparsi di dicembre, aveva pensato di aver perso l’ultima occasione per conoscerli, anche solo per rubarne un’occhiata – e invece, l’universo le stava dicendo che aveva un’altra occasione? Non si aspettava di parlarci o altro, figurarsi, le bastava sapere che stavano bene. Non avrebbe dovuto importarle di qualche sconosciuto, eppure le parole di Meara erano ancora fresche nella sua mente, lo doveva almeno a lei di credere in quella lettera. Si avvicinò allo specchio, cercando con gli occhi i volti di Sers- Gesù, ma quella sarebbe dovuta essere sua madre? Piegò il capo per osservarla meglio, sconvolta dall’aspetto della bionda: sembrava più uno zombie, che una persona. Doveva essere l’aria da gen z, perché CJ non sembrava essere messo molto meglio. Accanto a loro, c’erano poi Arci, Run e Gemes, passando poi all’altro portale, dove poteva vedere Al, Ake e Will! E c’erano ancora Niamh e Sin, Lydia e gli altri suoi cugini. Le stava per venire un infarto, il suo cuore non poteva reggere tutte quelle emozioni in una volta. Santo polaretto, voleva loro già bene!!&& Sembravano così carini – tranne i suoi genitori – specie Sin e la sua coppola fosforescente!!

    we tripped on the urge to feel alive
     
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    Shiloh lanciò un’occhiata al letto, così invitante e morbido in confronto alla dura sedia di plastica su cui era seduta. Era da quindici minuti buoni che pensava a quanto sarebbe stato bello infilarsi sotto le coperte e chiudere gli occhi per dieci – un paio di ore – minuti e dimenticarsi di dover finire quel capitolo. Era bloccata sulla stessa scena da tre giorni, e solo perché pensava di non aver abbastanza da dire. In realtà, dopo cinque minuti passati a fissare intensamente la pagina di Word, si arrendeva e iniziava a stalkerare le vite interessanti dei suoi amici su Instagram. Lei ci stava provando davvero tanto a farsi venire in mente qualcosa, ma ogni parola suonava stonata, non in armonia con il resto della frase. Non poteva scegliersi un mestiere più facile, tipo la barista da Starbucks? O l’albero alla recita di fine anno. Si tolse le cuffie dalle orecchie, concludendo che Nicky Minaj era nociva per la sua scrittura, e si scrocchiò le dita in attesa che le arrivasse l’atrite. «voglio dormire» «la vostra generazione è così fragile» alzò gli occhi al cielo trattenendosi dall’imprecare, voltandosi verso il dingo. Geoffrey, l’animagus spacciato per un cane, era ormai diventato il suo terapista e coach spirituale, tanto che si PERmeTTeva di darle ordini. «hai finito di rompere il cazzo?» no, non finiva mai, sembrava esssere il suo unico passatempo oltre al togliersi le pulci. «vuoi finire come l’altra volta, che hai finito per scrivere la notte?» «beh .» si beccò un’occhiata carica di judgement da parte degli occhietti neri del cane, «le hai viste le tue occhiaie? Fai schifo, non troverai mai qualcuno» «QUESTA ERA RUDE, GEOFFREO» scattò in piedi, le mani poggiate sui fianchi e le sopracciglia corrugate a giudicare l’animale. Era così crudele, che pensava prendesse le sue frasi dal GF15. Andava bene farle da guru motivazionale ma non capiva perché dovesse essere così terribile, voleva forse che lo mettesse nel suo libro e lo facesse morire atrocemente? Beh, ora l’avrebbe fatto visto che era arrabbiata. «sai cosa ti dic- aspetta, bestia» alzò l’indice in aria per zittirlo, mentre si sporgeva sulla scrivania per rispondere al telefono «yoo what’s up my bitch» era così che salutava i suoi amiki di solito? Sì, e se era ubriaca anche peggio. «tu non sei normale» «ti sei visto?» Hades, dall’altra parte dello schermo, sospirò a un passo dal suicidio. Aveva sempre pensato che quella costante aura di morte che lo circondava fosse divertente – sapete, per il nome. Avete capito? Eh? EH?? – ma era in quei momenti momenti che raggiungeva il suo picco «nicky-» «la tua fidanzata» rettificò, che quelle erano questioni importanti «lasciami in pace, sciacallo. Nicky mi ha detto che quelli di dicembre sono tornati, più o me-» «e quindi?» era un peso, quel Frodo, mai che riuscisse a terminare una frase. Non poteva parlare più veloce? Non aveva tempo da perdere, aveva un libro da scrivere, mica cazzi. «la smetti di interrompermi?? Pensavo potesse essere utile per quello che stai scrivendo, ma fai te, sai quan-» «aw capellone, che carino che pensi a me! Dove hai detto che sono?» «non te l’ho detto? Comunque a villa hamilton, che sembra il covo di qualche dro-» dai frodo cut the shit out e falla finita, si vede che i capelli ti stanno dando alla testa #wat «grazie bello smack ci sentiamo dopo» ossia tra cinque mesi, ma non aveva bisogno di dirglielo.

    Era stata una pessima idea iniziare una serie con Isaac, e se ne pentiva ogni volta che apriva Netflix. Era così tentata di far scivolare per sbaglio il dito su play e lasciare che la puntata andasse avanti: aveva bisogno di sapere se la sua ship avesse paccato e come fosse finita tra loro, la tentazione era così forte che aveva quasi ceduto. La scusa era che aveva paura di spoilerarsi qualcosa su Tumblr, e le sembrava ottima.
    Idealmente, era un’idea carina da mettere in pratica, ma quando si trattava di dover aspettare Isaac per settimane, diventava una sofferenza atroce. Avrebbe dovuto dirglielo, eppure amava troppo poter commentare la stupidità di Rio e quando odiasse Tokyo «mi sto sentendo male, Ike» si voltò dall’altra parte, fronte poggiata sulla spalla del ragazzo. Il dolore era troppo grande per poterlo sopportare, specie dopo tutta quella tensione «salva, cosa fai» era ormai disperata e con il cuore che rischiava di scoppiarle nel petto, non poteva credere che fosse così scemo. «non può finire così, mi rifiuto» era chiara la disperazione che si leggeva nei suoi occhi, quella sensazione di vuoto che le attanagliava lo stomaco – la casa de papel stava diventando una droga, e lei stava incominciando a sentirne gli effetti. «bene, devo staccare un attimo» avrebbe avuto bisogno di una pausa di almeno cinque anni, ma pensava che anche dieci minuti sarebbero andati bene «andiamo a vedere che fa stiles?» «shar…» sapeva cosa le avrebbe detto, che avevano già disturbato abbastanza. Beh, lei era preoccupata e amava disturbare le persona a cui teneva quindi non si sarebbe fatta fermare – no, in realtà era disagiata quanto il Lovecraft ma qualcuno doveva farsi forza. Voleva già un po’ morire, incredibile.
    Menomale che c’erano i textposts di tumblr a darle coraggio nella vita, o non sapeva come sarebbe sopravvissuta (spoiler: male, come si era passata diciotto anni di vita). «dai, alzati» gli offrì una mano per alzarsi dal divano, cercando poi di non cadere a terra quando dovette aiutarlo a tirarsi su. «ti vedo un po’ cambiato» «okay?» la bionda lo osservò di sottecchi ancora per qualche secondo, scrollando poi le spalle: era confusa dalla vita, figurarsi se non doveva esserlo anche dal suo ragazzo. «non lo so, sarà la nuova colonia» quale colonia - lei, nel dubbio, stava improvvisando. Non aveva mai capito come funzionasse la convivenza tra il corvonero e il tassorosso, e se vivessero insieme in realtà, sapeva solo che un giorno si era trovata Stiles nell’appartamento di Isaac (o il contrario?) e da quel momento aveva smesso di farsi domande. O meglio, non ai due coinquilini? Amici? Amanti? E meglio non continuare con quel pensiero, perché stava degenerando pericolosamente in fretta.
    «stiles?» intanto che il Lovecraft faceva il lavoro sporco, lei osservava a braccia incrociate il pavimento. Uau, quelle piastrelle erano proprio brutte. Quello era un procione che si stava mangiando un topo? «ehi, lo ved-» «STILES?» dai, ma che due palle, era importante! Finse per un momento di essere un adulto responsabile, interessandosi della questione porta «che succede?» «non…non apre» ruotò gli occhi al cielo, ERA PER QUELLO CHE L’AVEVA INTERROTTA??? Sicuramente quel cristo di Stiles si stava masturbando e non voleva farlo sapere al mondo, non era un dramma. La gente si masturba, Isaac. E infatti «perché era chiuso???» «masturbazione» non poté trattenersi, Sharyn, che alzò i pugni in aria in una danza della vittoria «SI!» i due ragazzi non la notarono, troppo presi dalla loro conversazone sulla masturbazione delle cicale – no, fermi tutti. Come erano arrivati a quel punto? Anzi, era certa di non voler sapere i particolari. Non era interessata, okay? Grazie ragazzi di aver cambiato argomento. «possiamo parlare?» la Winston annuì, labbra premute tra loro a impedirsi di dire qualche cazzata. Di solito, a quella domanda non seguiva niente di buono.
    Fast forward nella conversazione perché qualcuno deve ancora scrivere trenta pg.
    «c’è questa ragazza» portò le ginocchia al petto, sinceramente interessata alla piega che quella conversazione aveva preso. Quando si parlava di situazioni sentimentali, lei era sempre in prima fila. Però…c’era qualcosa che non le tornava. Si accigliò, guardando il ragazzo in modo buffo (aka creepy) «c’è questa ragazza, no, ma …sono molto confuso al riguardo? Non sono…certo…che mi piaccia» non tornavano i conti, a Shar e la sua bacheca dei misteri. Aveva prove più o meno solide secondo le quali Stiles poteva avere una cotta per un ragazzo, o comunque un certo interesse, e i film che si era fatta sulla questione non aiutavano. Aveva i pin e i like su instagram a dimostrarlo, aveva solo più bisogno di una confessione per coronare la sua storia d’amore (quale). Poteva capire quanto quella potesse essere una cosa delicata per il ragazzo ed era l’unica ragione per cui non aveva fatto pressione, però suvvia!, non le poteva tirare fuori una ragazza. «ma quindi non ti piace jeremy?» scusate eh, non ce la fece più a tenerselo dentro. Quella era la sua chance per scoprire la verità!!&& E poi doveva capire se rendere pubblica la bacheca ship o meno, insomma, le cose basilari. «shAR» beh, come se lui non fosse stato curioso! Non pensate che fosse l’unica a tessere trame alle spalle dello Stilinski, Isaac partecipava alla maggior parte delle speculazioni della bionda. «beh? i fan meritano di saperlo» e con fan intendeva se stessa, tanto per essere chiari. Era sicura che avrebbe svelato l’arcano, se qUAlcUNo non avesse interrotto la conversazione.
    Ma cosa volevano, ma perché a lei.
    Complimento Soho, hai appena perso una potenziale fan.

    Quante volte aveva rischiato di morire sullo scuolabus? Dovevano essere almeno dieci, non le aveva contate ma dovevano essere abbastanza. Gli highlights del tempo trascorso ad aggrapparsi al sedile, erano stati quando Stiles sembrava aver perso il controllo del volante e STAVANO PER SBANDARE, e di quando si era messo sulla corsia più veloce e stavano per tamponare una macchina perché Stilinski continuava ad accellerare per cercare di far cambiare corsia ai tipi, perché stAVaNO anDAnDo PiANo. Aveva pensanto di non uscire viva da quella trappola mortale, si era persino andata a informare su come lasciare un testamento lampo su internet. Voleva bene a sua cugina e i suoi amici ma non sarebbe mai più salita in auto con Stiles, neanche per loro. «sto per vomitare» lanciò uno sguardo terrorizzato ad Isaac, percependo la ciambella risalire lungo l’esofago «non posso farlo qui, i loro mobili sembrano così cari» ed ecco che Sharyn stava incominciando a farsi prendere dal panico, con tanto di una mano a tapparsi la bocca. Non sentì arrivare Shiloh da dietro, la quale le strinse un braccio sulle spalle «dai shar, se lo meritano ‘sti ricchi» ma anche no?? Strabuzzò gli occhi, oltraggiata dalle parole dell’ex tassorosso – cosa diceva, non voleva mica pagare la lavanderia agli Hamilton. «no grazie, mi fanno già abbastanza paura così» quelle poche volte che aveva intravisto Rea al Ministero le erano bastatate, si ricordava chiaramente il lezzo di morte nell’aria «che cos’hai lì?» Shiloh abbassò lo sguardo sul suo quaderino, pensando se smerdarsi davanti alla Winston o raccontarle di come tenesse il suo diario segreto sempre con sé. Non era capace a inventarsi delle scuse, okay? Una volta aveva detto che le era morto l’unicorno per non andare a una festa, insomma, tutti sapevano quanto poco fosse credibile «è per….prendere appunti, sai, per il mio libro» lei, nel dubbio, lo stava già spammando a tutti. «ma non sei qui per rivedere qualcuno?» «nah, chi li conosce questi» c’erano alcuni suoi ex compagni di scuola ma le importava fino a un certo punto, non erano mica bff. Era così orribile che neanche si sentiva in colpa per starsi intromettendo in quella riunione, non era colpa sua se Hades l’aveva chiamata – ecco, era colpa del De la Cruz.
    SHILOH STAVA SCRIVENDO UN LIBRO?????? Sharyn dovette mantenere una calma zen per non urlarglielo in faccia, e solo perché stava fingendo di essere una persona matura. Era la fan numero uno delle sue fanfiction su Bella e Jacob, ma scherziamo!!&& Si allontanò di qualche metro dalla ragazza prima di concendersi una risatina a metà tra il psicopatico e il terrifiante, e fu allora che la (li?) vide «CAZZO MAE MA SEI INCINTA??????» corse allo specchio, occhi spalancati sulla pancia della cugina. Non ci poteva credere, quando era successo? Ma perché??? Non sapeva se essere felice o altro, quindi optò per la sua solita confusione «chi è il padre??» fai che sia Liam, fai che sia Liam. Faceva parte del fanclub della Mallaway, ma che credete. «ah no, aspetta, le avete le macchine volanti lì? MICHELLE E’ DIVENTATA PRESIDENTE?»

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    Non c'era molto da dire. In fondo le voci erano corse con la stessa velocità con cui la brezza investe le serate estive, quelle passate alla riva, seduti su quel terriccio umido e fastidioso sui vestiti – sensazioni ruvide, sgradevoli le smorfie che ne accompagnavano il ricordo. Eppure l'abrahams non aveva più provato quelle sensazioni, non aveva mai trovato nulla di simile nella uggiosa londra; quasi come se stesse solo scontando una terribile e lunga punizione per aver abbandonato la terra natia. Il piccolo lago dietro la casa della sua famiglia non sarebbe tornato; non avrebbe più avuto le scarpe piene di granelli, i calzini e l'orlo dei pantaloni umidi.
    Tante cose erano destinate a non tornare, e lui -dall'alto dei suoi oltre trent'anni- poteva dire di aver iniziato solo ora ad ingranare con questo arcano concetto della perdita: lasciare l'america per lui non era stato nulla di terribile, giovane avventuroso in fuga, pensava semplicemente che un giorno sarebbe tornato. Ciò che non aveva messo in conto era in che tipo di america sarebbe tornato – e quella che aveva trovato una volta a casa non aveva nulla della vecchia casa, di quel posto che aveva ritenuto di pari importanza di una “base”, un luogo che non sarebbe mai cambiato per aspettarlo e accoglierlo. Ma si sbagliava.
    I luoghi potevano restare gli stessi; semplicemente le persone cambiavano.
    Si allontanavano.
    Sparivano.
    L'assenza di sua madre aveva aperto una ferita ben più grave di quanto si potesse sospettare: la sua scomparsa aveva brutalmente gettato in faccia a drake l'angosciante verità – che tutti cambiano, mutano, e a volte il loro cambiamento include la sparizione, la morte.
    Non era quello che aveva pensato di tutti quei uomini e quelle donne, quegli amici, che da un giorno all'altro erano scomparsi, abbandonando famiglie, amori, carriere – apparentemente un complotto, qualcosa che andava al di là di qualunque certezza. Perché certezze in quella vita non ce n'erano, e quella era solo una delle tante, a volte troppe, incognite di un essere umano. Assurda, senza ombra di dubbio: com'era possibile che così tante persone fossero sparite senza lasciare traccia? ammettiamolo, era assurdo – ma fatto sta che nessuno aveva potuto fare niente... E quando lei aveva aperto gli occhi su quel mondo ancora pulito, ancora fragilmente in balia di tempeste che si sarebbero abbattute solo molto più avanti, scoprendo come i (letteralmente) tre quarti della sua famiglia fosse svanita nel nulla, le incertezze l'avevano paralizzata in quel tempo, in quegli istanti di vita.
    Aveva deciso neanche troppo volontariamente di abbandonare tutto ciò che era stata, che conosceva davvero, che aveva vissuto sulla propria pelle – non certo qualcosa di così prezioso, ma era lei, la vera ginger abitava quel mondo come un fantasma, sentendo di essersi lasciata alle spalle ben più di un padre e un fratello... un'identità, un'anima, una vita, e quel distacco aveva fatto brutalmente male. Col tempo aveva imparato quanto potesse essere lancinante un dolore simile.
    Come se una lama incantata l'avesse divisa, anima e corpo in spasso su due universi diversi, a seguire due cronologie temporali diverse.
    Perché se casa era dove stavano i suoi, allora ginger sentiva di aver perso quella casa molto tempo prima, di essersi costruita un futuro senza speranze e di aver solo cercato una via di fuga da quel mondo che nulla prospettava. Faceva male, faceva un male cane, ma cos'altro era, lei, se non solo la somma di sofferenze e gioie?, come una figlia qualunque, a suo modo era stata speciale. Qualcuno l'aveva amata.
    Qualcuno l'avrebbe pianta... perché non c'era ritorno da quel genere di viaggio che aveva deciso di compiere. Certe cose devono solo accadere e basta, cliff l'avrebbe perdonata – o forse no, ma era davvero così importante nel momento in cui la poveretta sapeva che non avrebbe mai più rivisto il cliff che aveva appena abbandonato? Era stato un taglio deciso, un taglio preciso che lei stessa aveva deciso di praticare per fare ciò che riteneva più giusto – in un mondo dove nessuno poteva conoscerla, in cui lei stessa non sapeva riconoscersi, senza suo fratello e i due uomini che l'avevano cresciuta.
    Un taglio, la sola cosa che era servita.
    La stessa che aveva alla fine dato vita a quel piccolo esserino che teneva in braccio. Quanto aveva?, non che se lo ricordasse così bene, ma fingeva bella – fingeva, perché era tutto più facile quando veniva ritenuta la “cattiva”. Quel bambino lei lo adorava, ne ricordava il giorno di nascita così come i primi vagiti, il primo pianto, il primo tremore quando, avvolto in un panno, le era stato messo fra le braccia quando morrigan stanca aveva chiesto di riposare; con quel fiato spezzato dallo sforzo e il volto bagnato di lacrime. Lei c'era stata, dal primo istante fino all'ultimo, e mentre lo strascico accompagnava il suo passo lungo i corridoi di villa hamilton, il piccolo gene giaceva col viso posato sulla sua spalla, il respiro tranquillo, le manine aggrappate al colletto estremamente elegante della zia. Era una bugiarda, una bugiarda nata, perché quel bambino se lo portava ovunque da quando era nato... da quando aveva aperto gli occhi, la prima passeggiata al parco, fino a quel momento in cui i respiri venivano trattenuti per evitare di sciogliersi in singhiozzi.
    Non c'era molto da dire.
    Erano tutti lì, famiglie e amori, amici e colleghi – tutti appena saputa la notizia si erano avviati verso villa hamilton, sperando che le voci fossero vere, che qualcosa di incredibile fosse accaduto. Tante cose terribili erano successe, erano momenti bui, e persino una persona esterna alle vicende come bella aveva avvertito il terribile cambiamento sulla pelle, ora coperta di brividi al solo pensiero – mentre a distanza si stagliava il profilo dello specchio che tanto clamore aveva suscitato. «shh, va» «tutto» «bene.» il groppo in gola non accennava ad abbandonare la sua posizione, rendendo estremamente difficile anche sibilare quelle poche parole. Andava tutto bene, sarebbe andato tutto bene - non erano morti, era già più di quanto ginger potesse sperare. Anche se qualcosa glielo faceva intuire... e no, nessun family-radar – ma il semplice fatto che forse, con dakota e jason morti, lei quel viaggio non avrebbe mai avuto modo di farlo. O semplicemente di conoscerli, di arrivare a tanto... ma che ne sapeva di come diavolo funzionavano 'ste cose, erano lì, era fottutamente lì, tutti loro. Dietro il velo del riflesso dello specchio di casa hamilton, ginger poteva scrutare dei volti – confusi a tratti, spezzati da alcune distorsioni, e a volte così chiari da farla rabbrividire. Possibile?, erano lì, i suoni chiari facevano credere quasi di poter sentire gli stessi suoni che gli altri sentivano, il riflesso illudeva di poter davvero toccare i loro volti, o le loro mani – o sentire il loro respiro sul collo. Era così assurdo, eppure reale.
    «respira»
    «sei»
    «a casa.» si sciolse in un singhiozzo, quel largo sorriso dalle labbra scarlatte quando la bionda riconobbe il volto del nipote, apparire in mezzo ad altri ragazzini che raccontavano di trovarsi in un tempo lontano, passato; fissò arci senza vergognarsi di quelle pesanti lacrime che iniziavano a colare sulle guance rosee, trascinandosi del mascara scuro in eleganti e dolorose tratti «torna a casa. Arci.» si avvicinò alla superficie dello specchio, stringendo un poco più forte il bambino che reggeva in braccio – non credeva che quel moretto un giorno l'avrebbe fatta angosciare tanto.
    Così come non credeva che avrebbe mai amato quel bambino come se fosse suo.
    Così come si era dovuta ricredere su molte cose; non osò parlare, ben sapendo che il tono graffiato dal dolore avrebbe solo reso tutto più difficile – non sarebbe stato un addio, no?, e allora perché il suo cuore era tanto stretto nel petto da rendere estremamente soffocante ogni battito?, soffocante ogni respiro, come se il modo per soffrire di meno fosse smettere di respirare, vivere. «gene, sta crescendo in fretta» non sapeva il perché, ma gli sembrava giusto dirglielo mentre piano avvicinava il viso del bambino ancora addormentato, come se il ragazzino (ragazzo, uomo) potesse in questo modo sfiorarlo, sentire con mano qualcosa di estremamente reale e dolce dall'altra parte di quell'assurdo vetro.
    Assurdo.
    Tutto troppo assurdo. Rise, lasciandosi sfuggire un altro singhiozzo.
    «sei tu» graffiato il tono sfuggì dalle labbra senza dare particolare colore, o un'intonazione a quanto appena detto. Sei tu, che in quella marea di volti poteva significare tutto o niente... ma ginger solo uno ne stava fissando. Sicura, ferma, terrorizzata, i suoi occhi si incastrarono in quelli di un jem che si scoprì di ricordare estremamente bene. Un bambino, per lei. Il bambino che aveva accudito quando la morte di dakota e la depressione di jason avevano reso difficile la vita di tutta la famiglia – un bambino che se li portava negli occhi i tormenti ora non più di una sola, ma bensì di due vite. Ce l'aveva nelle pieghe appena accennate attorno al sorriso opaco, ce l'aveva nei respiri che spesso aveva ascoltato prima di crollare addormentata, stanca morta - quello era jem, quasi più dello jem a cui aveva detto addio diverso tempo prima.
    Fu un sussurro, ma per lunghi istanti continuò a fissarlo, impegnato a parlare con altri... faceva male il cuore, faceva un male da morire – era lì, senza essere veramente davanti a lei. Lo guardava ma sapeva di essere esattamente invisibile per lui, un qualcosa che apparteneva ad una vita ormai dimenticata, lontana – persa. L'aveva detto ginger, la vita da fantasma faceva per lei.
    Non parlò oltre, non schiuse nemmeno le labbra – che senso aveva?, che senso poteva avere appesantire un ragazzino di una tale verità... quando nemmeno sapeva se mai si sarebbero rivisti?, no, e ancora una volta ginger prese la soluzione più giusta e drastica – un taglio. Chinò il capo quando jem accennò a guardarla, forse attirato dalla lunga occhiata, e subito un po' di persone le sfilarono davanti, coprendola e nascondendola, come uno spettro di un tempo passato. Stava bene. Stavano bene – ginger sapeva anche che lo sarebbero stati, ma non così. Non riempiendolo di discorsi su discorsi, verità su verità – quando erano ben altri i bisogni del ragazzino; ritrovarsi con le persone che amava, di cui sentiva la mancanza.
    Non era nessuno in quel momento per lui; un'ombra dietro le quinte, di cui non poteva veramente ricordare nulla... non qualcuno di cui ora avesse bisogno. Dietro front, e con le mani sepolte nelle tasche della giacca, il capo chiuso fra le spalle sottili, lamentando una strana scossa di freddi brividi lungo tutta la schiena, abbandonò silenziosamente quella sala, quel corridoio, quella villa.
    «respira.....respira...... R E S P I R A, AAAAALLLL» senza pudore l'uomo andò a schiantarsi contro lo specchio, sentendo il naso schiacciarsi contro il vetro lucido, e il cuore battere tanto forte da rimbalzare sulla superficie in maniera quasi preoccupante. Qualcuno avrebbe dovuto chiamare un medimago – ma sul momento si levò solo dell'indignazione quando, allontanatosi, una lunga goccia di muco fresco collegava il suo naso alla superficie dello specchio «SCEMO TORNA A CASA. TORNA DA ME. LO SAI CHE IO NON VIVO DAVVERO SENZA DI TE» «ah, gaaaay» «NON FINGERE CHE PER TE SIA DIVERSO. TI HO VISTO. PIANGEVI SULLA SUA VECCHIA CAMICIA.» e nel generale palm face, lo stesso hector nel vedere la faccia del buon vecchio al riflessa in tutta la sua rotondità scoppiò in lacrime e lamenti «torna a casa, ricchiun--» qualcuno ebbe la decenza di fermare hector, che dall'alto del suo francesismo in realtà stava solo dimostrando, a suo modo, il profondo senso di smarrimento e abbandono. Era pur sempre un carlino, un fottuto carlino, a lui 'ste cose non le si dovevano fare!
    In un moto di apprensione drake lo prese in braccio, stringendolo al petto come aveva visto fare poco prima una biondina con un bambino – molto più brutto, a suo parere, del dolce hector, ora tutto guaiti e feste mentre si avvicinava a leccare il vetro all'altezza del viso di al, evitando tatticamente il muco del suo padrone. «vedi di trovare il-il modo di to-tornare» di nuovo, la voce uscì roca, trattenendo il nuovo gemito – ma fu solo questione di istanti, che nuovamente lo specchio fu investito da muco e lacrime.

    DRAKE ABRAHAMS
    GINGER-ALE WM
    LONDON | HAMILTON
    20.04.2018
    HEAVEN IS MY BABY
    SUICIDE'S HER FATHER


    se ho dimenticato qualcuno è solo perché sono di corsa e...vabbè, fa schifo come post ihih non sorprendetevi
     
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19 replies since 20/4/2018, 13:30   1180 views
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