I wonder if I'll ever get that good shit back

bells + elijah

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    Richiuse la valigia con un tonfo sordo e metallico, le mani poggiate sulla superficie di cuoio a studiarne i solchi lasciati negli anni dai colpi contro un vagone o l’altro dell’Espresso. Arabells Dallaire, come aveva chiarito sin dal ritorno, pochi giorni prima, ad Inverness, non aveva alcuna intenzione di rimanere lì per l’estate - o per il resto della sua vita, come aveva lasciato intendere socchiudendo sorniona le palpebre. C’erano troppi ricordi, fra quelle quattro mura. C’era troppa Arabells per una Lies che in quegli anni era cresciuta ed era cambiata, stravolta da un mondo che non aveva alcuna intenzione di rimanere allo stato basico. Non avrebbe lavorato lì in ogni caso, quindi a che pro rimanere in Scozia? Non che fossero realmente motivi di carriera a spiegare la determinazione della ormai ex Corvonero nel voler lasciare la casa della sua infanzia, ma non aveva dovuto spiegare ad Elijah le sue motivazioni – riassumibili in due parole, per giunta: Jeremy Milkobitch. Ora, non era mai stata una ragazza superstiziosa, ed aveva sfottuto Arci una vita intera per quelle stronzate da terzo occhio e compagnia cantante, ma riconosceva un pattern quando ne vedeva uno: aveva perso Arci, non avrebbe lasciato che anche il Tassorosso sparisse nel maledetto etere. E, a volerne aggiungere altre due di parole, Oscar Fraser le pareva una motivazione più che sufficiente per salutare allegramente i Campbell ed augurare loro una buona estate fra i campi smeraldo della Scozia. Non voleva più vedere la villa fantasma dei Fraser dirimpetto alla sua camera; non voleva più avere nulla a che fare con tutti quei posti, ed erano maledettamente tanti, in cui aveva desiderato o avuto le dita di Blaze sulla pelle – non voleva sentirlo il suo profumo sui fili d’erba, né credere di udire la sua risata dietro ogni angolo. Se n’era andato da mesi, ma il capitano della squadra di quidditch dei blu bronzo ancora non gliel’aveva perdonato – non l’avrebbe mai fatto, conoscendosi. Lo sentiva ancora pulsare dolorosamente sotto pelle, una continua puntura nell’incavo del gomito ad asciugarle la bocca. Poco importava quante mani avessero sostituito le sue, quante labbra avesse lasciato poggiare sulle proprie e quanto ci avesse provato a cancellare i segni di Oscar dalla propria carne – ancora non se ne andava, quel figlio di buona donna. Sempre lì, dove maledettamente faceva più male. Bells, che di soffrire ne aveva già avuto abbastanza, aveva preferito ripiegare quel caos di emozioni sul rancore e l’odio. Non tollerava più quel paesino del cazzo dove ogni cosa le ricordava il Grifondoro, okay? Dannazione, Eli avrebbe potuto chiedere asilo politico a Nathaniel, Rea o gli Eubeech, dato che non pareva essere in grado di rimanere da solo senza morire o sparire per mesi: non era la sua baby sitter, era sua sorella. Era perfino sottilmente e meschinamente egoista, la Dallaire – perché Eli, a Dicembre, non aveva perso nessuno. Il fatto che un sorriso bastasse a guadagnarsi l’affetto del maggiore, non significava che fossero suoi amici; aver perso la memoria, poi, non faceva che aiutarlo. Sì, okay, c’era Jay, ma non era la persona più indicata a piangerne la scomparsa considerando che dietro si era lasciato fremelli ed una triste (più del solito) Hadaway. Sì, okay, Murphy e Run erano suo amiche, ma non era né un Sinclair Hansen né un Milkobitch.
    Insomma. Alla Dallaire giravano i coglioni perché lei aveva perso tutti i suoi amici, e lui no.
    Archibald Leroy. Quella merde di un francese che aveva ben pensato di finire nel maledetto secolo precedente – di culo che almeno fosse in America e non a Londra. Aveva mai messo in dubbio che fosse vivo, Bells? Talvolta, ma mai sul serio. La videochiamata mistica di tre mesi prima non aveva fatto altro che farla incazzare maggiormente, e l’aveva perfino spinta ad accantonare lo studio pur di cercare, in ogni libro di Storia, segni della sua presenza.
    Nessun Leroy sarebbe mai passato inosservato se fosse rimasto troppo a lungo - doveva pur significare qualcosa, no? Scosse il capo mordendo l’interno della guancia fra i denti, un’occhiata stizzita alla propria, mal ridotta, stanza: ricordava di averci pianto, Arabells; di averci riso, di aver atteso la fine dei temporali con la mano di Eli stretta nella propria, di aver lasciato la finestra aperta perché Oscar ci sgattaiolasse dentro nel cuore della notte.
    Già detto che se ne voleva andare? Il prima possibile, grazie tante. Osservò di sottecchi il pianoforte chiedendosi se dai Milkobitch (che, per inciso, non aveva avvisato del proprio imminente trasferimento) ci fosse posto anche per lui. Stava giusto valutando l’idea di un incantesimo di rimpicciolimento, quando il din don del citofono interruppe il flusso dei suoi pensieri. Fece guizzare lo sguardo alla villa dei Fraser, tranquillizzandosi nel rendersi conto che non vi fosse traccia di anima viva. Phoebe? Controllò le notifiche sul telefono, ed il suono del citofono si fece più intenso ed urgente. Eau la Madonna, era il postino? No, passava solo al mattino. Sperava che non fosse Elijah senza chiavi – Dio, lo odiava quando le dimenticava: ma cazzarola, eliminare più di vent’anni di vita non gli era bastato a far posto in quella testolina bionda che si ritrovava? Arricciò il naso infilando lo smartphone nei pantaloncini, il top di leggero a lasciare scoperto stomaco e ombelico mentre seccata scendeva al piano inferiore. «non vedi che sto arrivando?» ringhiò alla porta a denti stretti, sbirciando dallo spioncino (beh, era diventata paranoica: fatele causa) per vedere su chi dovesse riversare le proprie ingiurie.
    «dimmi che sei qui in veste di professore» fu l’esordio della Dallaire, palpebre dischiuse ed un sorriso tirato sulle labbra sottili. Aveva appena concluso i MAGO, e non poteva essere un buon segno se il tuo insegnante si attaccava al citofono esigendo la tua attenzione – come minimo Van Lidova aveva deciso che quell’anno gli esami dovessero, boh, essere raddoppiati. «ciao bells, buone vacanze!!!» Lei inarcò un sopracciglio. Che tipo, papà Campbell. «come procedono????» Meh, era a casa da due giorni? Si strinse nelle spalle, un apatico «una meraviglia» a far brillare le iridi chiare. «benissimo, sono contento!!! Ah, e tuo fratello è stato arrestato» «cosa?» «cosa»

    Cosa era decisamente opportuno a descrivere le circostanze. Da dieci minuti la diciottenne, braccia incrociate sul petto, osservava la facciata del distretto di Polizia di Inverness domandandosi come la sua vita fosse giunta a quel punto. Insomma, da quelle parti tutta la pula conosceva (ed amava, com’era giusto fosse.) Arabells, ma…Elijah? Eli era conosciuto dalle forze dall’ordine solo come quella povera anima del fratello di Arabells, la voce conciliante che appianava le (numerose) divergenze di opinioni fra la minore in famiglia e l’autorità locale. Umettò le labbra, si grattò distrattamente un sopracciglio. Non aveva abbastanza problemi di suo senza che quel deficiente di suo fratello si facesse arrestare? Quell’infame, poi, avrebbe fatto del suo meglio (come sempre.) per esprimere tutto il suo rammarico e l’infinito senso di colpa che lo bruciava dall’interno come la fiaccola delle Olimpiadi, guardandola con vitrei occhi verdi e sillabando un mi dispiace che, la poco elegante Bells, gli avrebbe gentilmente infilato su per il culo. Amava suo fratello indubbiamente più di quanto non amasse sé stessa, ma non poteva negare che fosse…difficile, avere a che fare con lui. C’era di buono che la Dallaire fosse immune agli occhi da cucciolo del suo bro, e che per quanto lo adorasse e venerasse come una religione a sé stante, non aveva alcuna intenzione di proteggere i suoi sentimenti con le rassicurazioni di una madre al proprio figlio ancora in fasce: era schietta, Bells. Non sincera, mai onesta, ma per quanto possibile sempre diretta: eyeroll al cielo, e si volava. Si decise ad entrare solamente per curiosità, cullandosi nell’idea che l’Elijah diretto a comprare una cosa l’avesse fatto con indosso il kilt, e rigorosamente senza mutande – così che la minore potesse, finalmente!, riscattare i soldi della scommessa con Nathaniel – finendo per dimenticarsi l’indumento in qualche negozio, ed essere denunciato per oscenità in luogo pubblico.
    Elijah Dallaire. Sarebbe davvero stato un sognoh.
    Spinse le porte del distretto volgendo un mesto cenno con il capo alla segretaria dietro la scrivania. «uau, nuovo taglio di capelli? Che meraviglia, sheeren» li conosceva per nome? Certo, know your enemy. Pensavate che Bells avesse problemi solamente con la polizia magika? Ovunque ci fosse del potere c’era della corruzione, e la Dallaire combatteva il crimine (diventando una criminale, sì) senza distinzione. «cerco un tizio biondo, karino ma non quanto me, alto più o meno così e presumibilmente nudo» la speranza era sempre l’ultima a morire, sentiva già prudere l’indice per una bella LIVE su instagram. «sono la sua balia» sorrise morbida all’addetta.
    E quasi desiderò che fosse una menzogna.

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    former ravenclaw | 03.07.2018
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    elijah dallaire
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    «non ti preoccupare, ho sistemato tutto quanto»
    Elijah Dallaire, seduto a terra con le spalle a premere sul duro muro di mattoni, un fresco ed inaspettato sollievo a quell’estate infernale, avrebbe voluto ci fosse un modo cortese per ribattere al Campbell, accovacciato sui talloni per essere alla sua stessa altezza dietro le sbarre d’acciaio della cella provvisoria, ma non ne aveva davvero né la forza, né la voglia. Il silenzio, decretò essere la migliore delle risposte che potesse concedergli: ancora inebriato dai fumi dell’alcol – del pomeriggio, di quella sera stessa; ad un certo punto, aveva smesso di dare uno spessore all’orario d’inizio delle bevute -, aveva persino la scusante per rimanere immobile e non guardare lo scozzese, le iridi trasparenti a cercare di mettere a fuoco chi sedeva dalla parte opposta della stanza di detenzione interna alla stazione di polizia di Inverness.
    Non aveva di che ringraziare Phobos, il chiaroveggente, e non aveva idea di come dirgli che il suo interesse fosse superfluo senza far passare le proprie parole per un mero convenevole; non c’era nemmeno un modo carino, e che non paresse tediosa autocommiserazione, per fargli notare che non aveva sistemato un bel niente – che non poteva, per quanto immaginava gli facesse piacere crederlo: non glielo avrebbe comunque mai davvero fatto presente, Elijah. Se era felice, non poteva permettersi in alcun modo di ledere quella patina di buon umore per aver compiuto una buona azione: non sarebbe stato lui, se l’avesse fatto.
    Che non si sentisse se stesso da che aveva memoria d’esistere, contava ben poco sulla propria intelligenza emotiva; che non fosse, se stesso, era di marginale rilevanza.
    Soprattutto, il biondo francese non aveva idea di come potesse esprimere la sua infima preoccupazione nei riguardi di quella faccenda. Paradossalmente, in maniera così assurda da farlo sorridere allo stesso vuoto cui aveva donato tutte le proprie occhiate da un quarto d’ora a quella parte, era sollevato - di essere stato arrestato, sì.
    Forse era il troppo elevato tasso alcolico nelle vene a farlo stare così, ma… dannazione, aveva più paura di dover uscire che non di restare lì dentro.
    «ho parlato con chelsea,» riprese il docente, interpretando la piega sulle labbra del wizard come un cenno di gratitudine, o un segno che avesse inteso cosa gli aveva comunicato pochi istanti prima. «ho già pagato la cauzione» agitò la mano nell’aria, minimizzando la questione e richiamando l’attenzione del Dallaire, fronte corrugata e gambe a stringersi maggiormente al petto. Non… non ne aveva alcun diritto, giusto? Nessun interesse, nello sprecare il proprio denaro per lui – e Dio solo sapeva se quello era il motivo per cui lo spaventava più il mondo oltre quelle sbarre, che non dalla parte in cui si trovava in quel momento. Glielo avevano chiesto i suoi amici, di farlo? Era soltanto pena?
    Fece per chiederglielo il perché, sinceramente interessato a quel punto nello scoprire cosa lo portasse a tenerci così tanto – come se non avesse trovato sospette, per giunta, tutte quelle visite a sorpresa a casa durante l’anno scolastico, o le sporadiche volte che lo aveva accidentalmente incontrato mentre portava fuori Natajah -, ma evidentemente troppo lento si fece surclassare dalla loquacità del trentenne. «e le ho detto di farti uscire quando arriva tua sorella: visto, tutto sotto controllo!» sua sorella? «cosa?» sperava di aver compreso male, Elijah, e di non aver appena sentito dire che Bells sarebbe andata lì. Santo cielo, ma almeno poteva chiamare Nate, o Euge? O Rea: sicuramente l’opzione migliore, considerando che l’avrebbe lasciato lì e si sarebbe portata via la chiave della cella. «cazzo» si piegò sulle proprie ginocchia, le braccia conserte sopra di queste e la testa infossata nell’incavo.
    No, non aveva considerato che prima o poi avrebbe comunque scoperto che il fratello maggiore era stato arrestato; , era abbastanza sbronzo da sperare che quello potesse rimanere un segreto abbastanza a lungo, convinto che si sarebbe inventato qualcosa per quella nuova sparizione una volta tornato a casa. Non poteva farsi vedere così da Arabells, non - «cazzo batté la fronte contro l’avambraccio, gli occhi chiusi a pungere dietro le palpebre e la testa a vorticare troppo velocemente. «ehi, tranquillo!, ora la vado a prendere e ti faccio portare via» continuava a fraintendere, Phobos Campbell. A quel punto, avrebbe soltanto voluto mandarlo a farsi fottere – stava complicando tutto, Cristo. «non era necessario, non-» «sì, lo è» strinse di più le palpebre, e a sentire la voce del Campbell farsi più sussurrata e dispotica, più dura, non se la sentì nemmeno di alzare lo sguardo. «cinque minuti e siamo di ritorno»
    Se ne andò, ed Elijah non si mosse di un centimetro per due, tre minuti forse. Soltanto le mani si limitarono a scivolare dalle braccia alle quali si erano avvinghiate in difesa, al viso – alle tempie, a premere più forte che poteva. Cercò di ignorare il vociare dei suoi compagni di stanza, così come aveva fatto in tutto il tempo a precedere l’arrivo dell’amico: non era a lui, comunque, che il tizio con la bandana (che cliché, santo cielo) aveva chiesto cosa il biondino avesse fatto per trovarsi lì – al che aveva sentito palpabile la presenza dell’Henderson nei timpani dirgli di suggerire ai delinquenti di farsi un grandissimo pacco di cazzi propri -; lui sapeva già cosa avesse combinato, non aveva di certo bisogno di sentire da Earl che aveva sentito dire che aveva aggredito un agente.
    Non capivano, e lui non voleva lo facessero: che senso aveva prestargli ascolto?
    L’unico momento in cui alzò gli occhi, fu dopo una mezza dozzina di minuti da che Phobos gli aveva promesso sarebbero stati lì in meno tempo. «non» soffiò un ringhio tra i denti, le iridi verde acqua contornate dal rossore di lacrime mai versate e sonno che non si decideva a prenderselo da… troppo. Le puntò nell’uomo che aveva deciso di avvicinarglisi, senza apparente motivo, un sorriso niente affatto rassicurante a storcergli le labbra sottili. «fottutamente toccarmi» a prescindere, bisognava metterlo subito in preventivo. Aveva una conoscenza base delle carceri britanniche – grazie Netflix -, ma abbastanza forbita da sapere che chi stava lì dentro non conoscesse particolarmente bene le direttive sugli spazi personali e la privacy.
    Non ebbe bisogno di dire altro, ma non sapeva perché - immaginava, comunque, di essere entrato nella testa del tipo in qualche modo mistico che Nate gli aveva sicuramente spiegato, ma che non era mai riuscito a mettere per bene in pratica da Brecon a quella data.
    «dallaire,» strinse le labbra tra loro, voltandosi verso le sbarre ad aprirsi. «è arrivata la tua balia» che simpatica, Sheeren. «posso restare ancora un po’?»
    Sembrava non essere una richiesta normale, lì dentro: probabilmente, non tutti avevano una sorella che li avrebbe uccisi una volta messo piede fuori dalla cella. «no – e no, kevin, non potresti comunque prendere il suo posto. su, fila»
    Si fece scortare, testa bassa e tanta voglia di morire ad accompagnarlo nel viaggio della speranza dalla cella alla sala d’aspetto della stazione. Annuì piano, quando più gentile di quanto avrebbe dovuto la poliziotta gli raccomandò di fare meno cazzate e lo lasciò libero al suo destino.
    Un destino di nome Arabells Dallaire.
    E di cui aveva legittima paura. Rimase a guardarla più a lungo del dovuto, le mani unite sotto al sottile giacchetto chiaro appena restituitogli.
    «la macchina è qua fuori, mi hanno detto» sì, perché era giustamente uscito in auto da sbronzo. «vuoi guidare tu?» provò a sorridere, Elijah Dallaire.
    Fallendo, probabilmente.
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    Ma certamente, Arabells Dallaire avrebbe potuto essere la sorella comprensiva e dolce, pronta ad andare incontro alla cieca a qualunque inghippo nel quale si fosse invischiato il fratello maggiore rimanendo sempre dalla sua parte, abbracciandolo e sussurrandogli, malgrado non ci credesse davvero, che tutto sarebbe andato meglio – che si trattava di una fase transitoria, che fosse normale essere destabilizzati.
    Avrebbe anche potuto comprare uno skateboard e lanciarsi dalla Duncansby head, ma non significava che lo avrebbe fatto. Incrociò le braccia sul petto e piegò il capo di lato, studiando il profilo mortificato di Elijah Dallaire mentre veniva condotto fuori dalla gatta buia. Inespressivamente cordiale, fece un cenno con il capo alla guardia, alzando poi gli eterocromatici occhi chiari sul viso di Eli. Voleva forse rimanere a fissarla senza dire niente per tutto il pomeriggio? La notte? Credeva forse che tutti fossero sfaccendati come lui? Arabells Dallaire, al contrario di quello sfigato di Elijah, aveva davvero una vita che non includesse solamente maratone di how i met your mother con quell’altro sfigato di Nathaniel. Il fatto che amasse entrambi in maniera sincera e, a quel punto poteva sostenerlo con certezza, illimitata, non significava che li reputasse i quasi trentenni più cool del circondario – e loro, com’era giusto fosse, lo sapevano: lungi dalla Dallaire tenersi critiche, sempre costruttive, nei confronti delle persone a cui voleva bene. «la macchina è qua fuori, mi hanno detto» Sei…fottutamente….serio…Elijah Dallaire? Impassibile, la ex Corvonero arcuò lenta, e non priva di giudizio, il sopracciglio destro. «vuoi guidare tu?» Quella era la prima cosa che gli veniva in mente di dirle dopo essere stato recuperato da una maledetta centrale della polizia? Ma perché a lei. «no» rispose secca, dopo una manciata di secondi nei quali era rimasta a fissarlo sbigottita, allargando le braccia ai propri fianchi: certo che voleva guidare lei, che domanda stupida era? Con un drammatico e teatrale movimento della mano, gli indicò la porta dalla quale uscire – fosse mai che si confondesse e rimanesse chiuso nei bagni: la scusa della memoria cominciava a diventare fragile, e quella della dislessia un’alternativa sempre più concreta. Quando furono fuori dalla Centrale, lontano quanto bastava da non attirare occhiate indiscrete, Arabells si fermò di fronte al fratello. «elijah,» esordì, con tutta la quiete del mondo, posando le mani sulle sue spalle.
    Rapida come un colibrì, alzò la destra e gliela schiaffò sulla nuca, sibilando seccata fra i denti. «ma sei scemo squittì piano, poggiando il pugno sul fianco. Cristo Santo, si era fatto arrestare? Neanche Archibald si era mai (per ora?) fatto arrestare, come poteva Elijah Dallaire finire dietro le sbarre? Perché era un ciula, ecco perché – qualunque cosa avesse fatto, si era fatto sgamare.
    Che poi…cosa poteva ben aver fatto, quel biondo cucciolo di un Labrador. Guardato male un’autista che non aveva fatto attraversare sulle strisce una vecchietta? «si può sapere cos’hai fatto? jEeEz» sbuffò secca sollevando una ciocca di capelli bruni dalla fronte, sopracciglia inarcate ed occhi ruotati melodrammatici al cielo. «potevi chiamarmi prima di farti arrestare, sappiamo entrambi chi fra i due se la cava meglio nelle situazioni che richiedono un certo grado di illegalità» o almeno, credeva lo sapessero: Elijah doveva aver frainteso qualche passaggio nel loro rapporto, se credeva di potersela cavare senza di lei.
    Sì, okay, era la sorella minore, embè? Era anche più figa di lui, so what. «e non provare ad usare la tattica foca-morente con me» sapeva che l’avrebbe fatto: sbatteva le lunghe ciglia bionde, mostrava il proprio kwore ferito nelle trasparenti iride verdi, e taaac il mondo lo perdonava per qualunque genocidio commesso. Chiaramente non attaccava con lei: era stata cieca per gran parte della sua vita, quindi aveva imparato a dire nO a suo fratello ben prima che quella strategia potesse, in maniera effettiva, attecchire. «o domani cucino io.» e quella, signori, era davvero la minaccia più crudele che potesse fare a chiunque: ci si moriva, della roba cucinata da Bells.
    Ed Elijah aveva già dato.
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    L’insana idea di fare dietrofront, tornare indietro dalla guardia di turno e chiedere se fosse, per cortesia, possibile rientrare in cella e restarci fino a data da destinarsi, seguì Elijah Dallaire per tutto il cammino che lo separava dalla sorella – e che, forse per l’alcol ancora in eccesso, o magari per il semplice terrore che la minuta ragazza, le braccia conserte ed una luce palesemente omicida a brillarle negli occhi, riusciva a fargli provare mentre le si avvicinava, sembrava durare un tempo tremendamente infinito, amplificando il rombo del muscolo cardiaco contro la cassa toracica passo dopo passo. Non gli pareva così folle, niente affatto: anzi, sembrava la mossa più intelligente da fare, in quel preciso istante.
    Quel pensiero non lo abbandonò nemmeno dopo aver tentato, e fallito, una parvenza di quotidiana normalità di fronte a Bells; se possibile, gli si insediò ancor maggiormente nel petto quando il sorriso, già vacillante dal suo principio, lasciò sulle labbra sottili soltanto un alone ombroso di quel che aveva preteso d’essere, ed il deluso sbigottimento della giovane lo costrinse silente a precederla oltre la porta della stazione. Trasse un profondo respiro dalle narici non appena ebbe varcato l’uscio, gli occhi socchiusi a bearsi della brezza leggera e pungente della tarda serata scozzese: onestamente parlando, non aveva idea di quanto tempo avesse passato chiuso lì dentro; in maniera ancora più sincera, non gli interessava minimamente saperlo - ed avrebbe con tutto il cuore preferito che nemmeno alla più giovane Dallaire importasse così tanto. A sentire il vento sferzargli il viso, poteva quasi dire di esserci stato per giorni: ancora, nei meandri lucidi di una mente appannata, si disse che doveva essere soltanto una mera illusione data dai fumi dell’ebbrezza.
    Avvertì Arabells farsi più vicina, fermarsi davanti a lui e posare le dita sulle sue spalle, ma non si mosse di un centimetro nemmeno quando chiamò il suo nome; pregustandosi già quanto sarebbe accaduto di lì a poco, si limitò ad inspirare dalle narici, automatico e ordinario, mentre più innaturalmente andava a serrare la mandibola, l’ormai ripetuta fino alla nausea richiesta di non essere toccato ad echeggiare atona sulla lingua, incapace di prendere forma in quel dato contesto. Non era pronto a dare spiegazioni, il biondo, e quella di parlare non era esattamente una delle sue priorità al momento. Sentiva che se avesse aperto la bocca, dopo tutto il trambusto nel quale si era cacciato e che, per inciso, aveva egli stesso creato, le parole non sarebbero state la prima cosa a fuoriuscirne: un altro punto che avrebbe potuto giocare a suo favore, tornando al discorso del non uscire e rimanere in gabbia. Soprattutto, parlare con Bells non era ciò che desiderava - soltanto perché, invero, era proprio su di lei che avrebbe voluto poter vomitare tutto quanto (metaforicamente, s’intende; per quanto riguardava la parte letterale, un vicolo nel quale andarsi a rintanare per qualche secondo – o minuto – era la prima cosa che avrebbe cercato non appena fosse riuscito a scollare le palpebre tra di loro).
    Non voleva, semplicemente, doverla guardare negli occhi e farsi vedere per ciò che era: stanco, vulnerabile, incapace di… qualsiasi cosa, a quel punto. Non perché si vergognasse, Elijah – si può tranquillamente dire che avesse passato quella fase da un bel pezzo, e che a quel punto non avesse più nulla di cui imbarazzarsi: era diventato una barzelletta persino per se stesso, talmente patetico da ritrovarsi (ubriaco) a ridere alla propria immagine riflessa nello specchio del bagno. Solo perché non era giusto, e lei non si meritava di essere lì, invischiata in una simile faccenda: avrebbe dovuto essere altrove, che di problemi a cui pensare ne aveva a bizzeffe anche senza dover pensare ad un fratello così.
    Quasi pensò di rispondere alla poco delicata domanda sollevata dalla Dallaire, ma lo schiaffo non gli diede il tempo di aprire bocca – meglio, perché non sapeva cosa, ma avrebbe certamente detto qualcosa di inutilmente stupido. Socchiuse gli occhi portando una mano a sfiorare il punto colpito da Bells, senza ancora riuscire a cercare lo sguardo eterocromatico di lei, mortificato com’era nei suoi confronti.
    «non-» non davvero tante cose.
    Non mi va di parlarne; non volevo farmi vedere da te; non uso nessuna tattica da foca morente – non è colpa mia se il mio sguardo di base è così.
    Ma soprattutto: non parlare di cucina, o di cibo. Fu quasi istantaneo, il momento in cui le dita arrivarono alla bocca, un primo conato trattenuto tra le labbra a bruciare e disgustare gola e palato, e quello in cui le iridi trasparenti guizzarono alla ricerca di un anfratto abbastanza buio da nasconderlo alla scarsa quantità di popolazione che trafficava quelle vie. Corse nel vicolo più vicino, e si sorprese della sua capacità di non cadere nel tragitto quando si appoggiò al muro in mattoni di un palazzo, piegandosi immediatamente e svuotandosi.
    Cristo, «che schifo» gorgogliò sommessamente. Gli sarebbe piaciuto sentire la voce di Nate ed Eugene ripetergli nella testa che era meglio fuori che dentro, e che dopo ci si sentiva naturalmente meglio: una gran cazzata. Si allontanò ancora disgustato, andando a premere le spalle contro la parete opposta, il più lontano possibile dall’olezzo nauseabondo, e ci mise più tempo del necessario ad accorgersi di avere il culo a terra e le gambe allungate davanti a lui. Quando si sentì in grado di parlare, non era del tutto certo Bells fosse lì per sentirlo: da una parte, confidava avesse perso le speranze nei suoi confronti e fosse tornata a casa – sempre per il suo meglio, sempre perché non si meritava tutto quello. Dall’altra, egoisticamente, sperava fosse al suo fianco, pronta a portarlo a casa.
    A perdonarlo, a non odiarlo sempre un po’ di più.
    «ho picchiato un agente di polizia» ammise a mezza bocca, sorridendo stupido e stupito delle sue stesse parole: dirlo ad alta voce, era quasi divertente. Anche se, e lo sapeva, di esilarante non ci fosse alcunché. «non sapevo fosse un agente» ci tenne a precisare, casomai la ragazza pensasse che fosse diventato il suo nuovo hobby in assenza di nuove serie televisive da bingewatchare. «ero» - sono - «ubriaco, e… non l’ho fatto apposta.» ingoiò un grumo di bile, il palmo della mancina a premere sulle tempie doloranti. «ma… mi ha toccato, e…» era davvero difficile, parlare in generale e sapersi spiegare nello specifico. «non riesco a controllarlo, bells, continuo a… vedere troppo sospirò, esausto ed afflitto; Dio, quanto avrebbe voluto dormire – quanto tempo era che non ci riusciva? Non era certo di ricordarselo. «mi dispiace così tanto»
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    Incrociò le braccia sul petto e poggiò una spalla al muro destro del vicolo, gli occhi chiari a posarsi sulla chioma bionda del fratello. Si costrinse a respirare dalla bocca, ad ignorare la pozza di vomito poco distante – d’altronde, Elijah si era sempre preso cura di lei quand’era tornata a casa camminando a gattoni, compagnia costante dentro al bagno di casa loro nelle interminabili notti passate ad abbracciare il water. Non era nella posizione di giudicarlo, almeno idealmente.
    In pratica? Oh, boi.
    «ho picchiato un agente di polizia» Battè le palpebre, corrugò le sopracciglia. Elijah Dallaire, suo fratello, aveva…aveva picchiato un agente di polizia? Lo stesso ragazzone che sorrideva alle fioraie e portava il brodo di pollo ai Campbell quando Phoebe o Zenith erano malate? Lo stesso che, troppo gentile per aprire bocca, rimaneva silente ad ascoltare le elucubrazioni di Phobos su come le api un giorno avrebbero conquistato il mondo? Fino a qualche anno prima, Bells avrebbe detto che non aveva alcun senso - a quel punto, ed a quell’Elijah, non sapeva più cosa pensare.
    Non era la prima volta che si ritrovava a fissare suo fratello, ed a ricambiare la sua occhiata era uno sconosciuto. Dall’aria familiare, certo; dagli stessi occhi verdi che aveva immaginato di quella esatta tonalità prima ancora di avere la vista, dalle stesse labbra morbide sempre piegate verso l’alto - sempre Elijah, ma anche un po’ meno. L’amnesia, la maledetta morte, gliel’avevano portato via giorno dopo giorno, ora dopo ora: non sapeva più chi Elijah Dallaire fosse. Non significava che gli volesse meno bene, o che non fosse suo fratello (dannazione, l’inferno avrebbe dovuto congelare prima che potessero portarle via anche quello.), significava solamente che…non aveva idea di come aiutarlo. Non sapeva più come essere la sorella del quale aveva, chiaramente, bisogno. Come essere il suo punto fermo, dopo anni in cui lui lo era stato per lei. Poco importava che fosse la sorellina minore: i Dallaire s’erano sempre guardati, almeno metaforicamente, le spalle a vicenda.
    L’età era solo un numero. «non sapevo fosse un agente» Inarcò un sopracciglio e piegò scettica il capo sulla spalla. Credeva forse che una frase del genere migliorasse la situazione? Che, invece, sarebbe stato accettabile se avesse picchiato un altro povero Cristo qualsiasi? Non glielo fece notare ad alta voce, ma v’era poco di fraintendibile nell’occhiata della Corvonero. «ero ubriaco, e… non l’ho fatto apposta.» Bla, bla.
    Bla.
    Aveva sentito quelle giustificazioni troppe volte perché potessero attecchire; non era abbastanza empatica per mettersi nei suoi panni, e lo amava troppo per accettare quelle stronzate senza battere ciglio, o per battergli una mano sulla spalla promettendogli che l’indomani sarebbe andata meglio, offrendogli l’unica cosa che da quattro anni a quella parte potesse permettersi: una menzogna. Attese che finisse di parlare, ed ancora non disse niente. Spostò lo sguardo sulla strada principale, le labbra una linea dura e la posizione assunta contro il muro rigida ed implacabile. «ti voglio bene, eli» quasi onesto, ma non del tutto – lo sapevano entrambi che ti voglio bene non sarebbe mai stato abbastanza. «ma se ti sento dire un’altra che ti dispiace, ti strappo le palle con una limetta per unghie» abbassò lo sguardo verso il Dallaire maggiore, un sorriso ad aleggiare sulle labbra che non era affatto intenzionato ad ammorbidire la minaccia – anzi, al massimo a sottolinearla. «la sottoscritta, nonché il resto della popolazione mondiale, non se ne fa niente dei tuoi mi dispiace» voleva essere brutale? Che domande, certo che voleva! Si accovacciò al fianco di Eli, le ginocchia premute contro il petto ed il capo abbassato per poter avere gli occhi alla sua stessa altezza. «e non ce ne frega un cazzo» severo, ma giusto. Spostò una ciocca di capelli color oro dalla fronte sudata del fratello, sospirando afflizione e stanchezza. Si chinò, bilanciandosi sul terreno, per posare le labbra sulla guancia di Elijah.
    Stava per dirgli qualcosa che non gli sarebbe piaciuto.
    «stavo pensando…» fece guizzare la lingua fra i denti, spostò lo sguardo da Eli ai propri piedi. Non era facile neanche per lei, soprattutto per lei, ma doveva mettere da parte il proprio lato egoista, ed abbracciare il fatto che quella soluzione avesse più pro che contro - e sì, la Dallaire ci pensava da diverso tempo.
    Mesi. Anni.
    «dovresti dichiararti alle autorità» solenne, strinse le dita sulla spalla dell’ex Grifondoro. Aveva bisogno che lui la guardasse, che capisse - e se quel contatto bastava a scatenare il suo potere, a spingerlo a volersi allontanare da lei, che si rendesse conto di non poter andare avanti così. L’alcool era un passatempo, non una risposta ai problemi della dannata vita. Un concetto estraneo alla sua cerchia di amicizie, lo sapeva, ma non significava che avesse mai cambiato idea in proposito. «saresti insieme a gente come te, che possa aiutarti più di quanto non possa fare io» Le seccava? Da morire: era suo fratello, ed era suo il compito d’aiutarlo – ma sapeva riconoscere i propri limiti. «saresti sotto costante controllo» l’occhiata si fece più affilata e severa, lasciando galleggiare nell’aria il: e ne hai fottutamente bisogno, bro. «ed è…si, è un po’ nazi» giusto un po’, eh. «ma resta meno pericoloso di…questo» indicò la centrale di polizia poco distante, includendo poi nel gesto l’intera cittadina.
    Perché se l’avessero scoperto, l’avrebbero giustiziato. «non passi inosservato, eli» Si strinse pigramente nelle spalle, allungando un sornione sorriso nella sua direzione. «è la maledizione dei dallaire»
    Una delle tante.

    arabells "lies" dallaire
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    Aveva evitato di cercare lo sguardo della sorella per tutto il tempo, preferendo fissare le iridi trasparenti sul muro opposto pur di non rischiare di incrociare in quelle eterocromatiche di Bells la solita occhiata di pena e compassione – ben più che doverosa: a quel punto, sapeva essere l’unica cosa che si meritasse. Nonostante lei, per Elijah, non l’avesse mai avuta; nonostante Elijah ne avesse bisogno - un po’, di quella pietà sottintesa nella piega delle labbra, morbida ed accondiscendente, e già più evidente nelle sopracciglia corrucciate, nelle rughe della fronte ad incresparsi in un paio di irregolari archetti: era stupido e decisamente infantile, ed odiava sentirsi così vittima del suo stesso, mero esistere, ma a volte non riusciva a non lasciarsi cullare da quella sensibile comprensione che, sperava, nemmeno uno di tutti coloro che gliela porgevano poteva realmente vantare di avere. Non egocentrico o pretenzioso, né così masochista da volersi assicurare il monopolio di quella sofferenza: il biondo sperava davvero soltanto che nessuno avesse ragione di dirgli che lo capiva, e che per quello gli dispiaceva – non avrebbe augurato nemmeno al peggiore dei suoi nemici, se solo ne avesse avuti, di provare quel vuoto ad espandersi nello stomaco e nel petto, dietro uno sguardo sempre più perso ed un cuore che ad ogni battito soffriva la nostalgia di qualcosa che non ricordava; non avrebbe mai voluto che nessuno dovesse ritrovarsi, come lui, a voler riempire tutto quello spazio libero con momenti felici e persone fantastiche, sorrisi e risate, ed a dover sentire quella scura lacuna avvinghiarsi a tutti questi, a contagiarli con la propria putrida melma - fino al punto che, di questi, non fosse rimasta che la paura di perderli di nuovo.
    Un po’, e soprattutto, necessitava la schietta freddezza che era sicuro avrebbe riscontrato, se solo avesse avuto il coraggio di sollevare il capo. Il suo salvagente, Arabells Dallaire: non era importante cosa gli dicesse, o come, o perché; non cambiava niente, il modo con il quale lo poteva guardare – divertita, stufa, preoccupata. Sarebbe sempre rimasta il suo primo punto fisso, il primo faro a rischiarargli la via: qualunque cosa avesse avuto da comunicargli, in qualsivoglia maniera, l’avrebbe raccolta come oro colato.
    Anche per questo, sicuramente, non lo fece: troppa paura di vedere alcune delle sue poche certezze crollare in quell’effimero scambio di sguardi. Chiuse gli occhi, premendo i palmi sulle palpebre ed i polpastrelli tra i capelli dorati; quando sentì la ragazza intervenire, assicurandogli quanto gli volesse bene, spinse con ancor più veemenza – era sempre fantastico sentirselo dire, ma con quel tono sapeva già che si sarebbe beccato una marea di insulti: non che coprendosi la vista potesse evitarli, ma… ci si prova. «ma se ti sento dire un’altra volta che ti dispiace, ti strappo le palle con una limetta per unghie» rise, Elijah Dallaire. «la sottoscritta, nonché il resto della popolazione mondiale, non se ne fa niente dei tuoi mi dispiace» rise come se fosse divertente, ritrovandosi a stringere tra le dita i sottili fili di un biondo fin troppo acceso. «e non ce ne frega un cazzo» a denti stretti e capo sempre più chino, mano a mano che Bells gli si faceva vicina, rise come se non facesse male – come se ogni spasmo nervoso non gli stringesse la bocca dello stomaco e la gola, rendendo ogni verso un po’ più strozzato e falso -; rise, fingendo al meglio delle proprie (ubriache) facoltà che quelle lacrime fossero di ilarità e non di dolore. Fu con ancora la parodia di una piega a spingere gli angoli delle labbra verso l’alto, rocambolesca imitazione di ciò che avrebbe potuto (e dovuto, e voluto) essere, che si rivolse alla sorella - «mi dispiace»
    Lo sapeva che né lei, né i suoi amici, né il mondo intero se ne faceva un beneamato cazzo delle sue scuse: per questo, avrebbe smesso? No, certo che no - come avrebbe potuto? Avesse avuto altro da offrire alle persone che non il suo più sentito dispiacere e sincero rammarico, se lo sarebbe risparmiato; avesse conosciuto modi più utili per rimediare, più pratici per essere meno… Elijah Dallaire - quello della memoria persa, quello che era morto, quello che era da tre anni a quella parte -, avrebbe smesso di suonare come un disco rotto.
    Se solo si fosse sentito meno fragile, meno sul punto di spaccarsi ad ogni movimento sbagliato e a ciascuna parola riflettuta meno della precedente, magari sarebbe stato più semplice.
    Sarebbe stato stupido chiederle di non continuare a parlare? Domandarle se potesse semplicemente restare lì vicino come aveva appena fatto, premendo le labbra sulla sua guancia ancora un paio di volte così che potesse sentirsi meglio - più reale, più obbligato a restare saldato a quel barlume di concreto. Zittirla dopo le prime, esplicative parole e dirle se potesse limitarsi a riaccompagnarlo a casa, rimandando il tutto al giorno seguente – e a quello dopo ancora, e ancora, e ancora. Conoscendo la corvonero, : molto stupido.
    Nonché impossibile, certo. Strinse i denti, quando ella gli strinse la spalla tra le dita; irrigidì ogni singolo muscolo, il respiro a farsi più calibrato ad ogni battito nel petto. Cercava di controllarsi, il chiaroveggente – inutile dire quanto fosse vano il tentativo di reprimere quel potere di merda, soprattutto quando aveva più alcol in corpo che non sangue nelle vene. Si sarebbe potuto sentire sollevato nel constatare che non fosse scattato nulla, ma nel continuare a sentire il discorso di Bells non poté rilassarsi in alcun modo.
    Dovresti dichiararti alle autorità.
    Resta meno pericoloso di questo.
    Non passi inosservato.

    Poteva darle torto? No, mai: aveva ragione, ed anche Elijah aveva osato pensarci mesi addietro.
    «no» sollevò gli occhi verdi verso il volto di lei, più morbido e caldo il sorriso a sporgere appena dietro la poco curata barba bionda. «non posso, non… è fuori discussione» inspirò, espirò. «è troppo… pericoloso» soprattutto di quei tempi, soprattutto di quel governo. Vivendo ad Inverness aveva sempre vissuto lontano da ogni rischio da parte del Ministero, aveva potuto… gestirsela - in maniera fallimentare ed evidentemente deleteria per la sua persona, senza dubbio.
    «devo… dirti una cosa» si morse le labbra, abbassando lo sguardo nel cercare di evitare il suo sguardo. La stava facendo evidentemente più grossa del dovuto, ne era sicuro, ma non poteva che sentirsi in colpa per quello – come al solito, sì. «da un po’ di tempo» tipo un anno e mezzo, ma non erano i dettagli ad essere importanti. Si rese conto che non ce n’era nemmeno bisogno, che avrebbe potuto continuare a tenerselo per sé – che se fosse stato meno ubriaco, lo avrebbe taciuto ancora a lungo. «ma tu eri ad hogwarts, ed io dovevo… parlartene di persona,» deglutì, senza avere ancora la forza di alzare il capo. «e poi… e poi mi è passato di mente, ed avevo… » si schiarì la voce, occupando le pause vuote nelle quali non riusciva a dare fiato ai propri pensieri. «avevo paura, ho paura, che tu potessi odiarmi…» scosse la testa, sorridendo mesto. «mi dispiace» ancora, sempre. «sono solo… giustificazioni stupide» e si disse che se non avesse alzato gli occhi, non avrebbe mai finito di parlare – ed ormai, doveva.
    Oppure poteva fingere uno svenimento.
    «ero un dottore.» poteva finirla così? Poteva finirla così. «un… estremista.» la cosa più ridicola, era non avere modo di argomentarsi – di dare una spiegazione, un perché. «non posso dichiararmi come esperimento, non posso essere sotto lo stretto controllo del ministero, bells. potrebbero scoprirlo, potrebbero…» uccidermi.
    Di nuovo.
    «mi odi?» avrebbe preferito non chiederlo, ma doveva saperlo.
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    Che quesiti complessi poneva, Elijah Dallaire. Sempre così onesto, con quegli occhi verdi troppo sinceri e trasparenti per poter dubitare delle sue pure intenzioni; il sorriso a pungere sempre gli angoli delle labbra, anche quando non raggiungeva lo sguardo, e le spalle a tendersi come se dalla risposta dipendesse la sorte dell’intero dannato universo. Non l’aveva interrotto neanche quando, all’ennesimo mi dispiace, aveva sentito i muscoli irrigidirsi pronta dargli una testata e frantumargli il setto nasale. Non aveva messo mani avanti neanche quand’egli aveva accennato a qualcosa da dirgli, malgrado l’ex Corvonero fosse certa di non volerlo sapere. L’aveva lasciato parlare perché con Elijah Dallaire funzionava così: ascoltavi cosa avesse da dire, perché era il genere d’uomo che aveva sempre qualcosa da dire.
    Anche quando Arabells avrebbe preferito di no. Serrò le palpebre posando una mano sugli occhi, distaccandosi dalla miserabile scena di quel vicolo. Poteva fingere, concentrandosi sul proprio respiro, di essere seduta sul proprio divano a guardare l’ennesimo drama, tutta reference per le proprie costruttive critiche alla cessazione della carriera artistica di determinati attori, una risata di scherno a solleticare la gola ed un pop corn scagliato contro lo schermo. Scosse il capo, i corti capelli bruni a solleticarle le spalle, e deglutì allontanandosi fisicamente di un passo da Elijah. Se l’avesse guardato – se avesse detto un’altra parola – avrebbe rese concrete le proprie futili minacce, e l’avrebbe realmente colpito a sangue.
    Perché Elijah Dallaire aveva sempre qualcosa da dire, ma era anche un fottuto mulo: picchiava la testa contro gli stessi muri all’infinito, infliggendosi sadico dolore solamente perché per gli altri, i suoi muri, non avevano così importanza da doverli abbattere. Creava problemi che non sussistevano; disegnava scenari che non prendevano mai forma: a conti fatti, dietro il sorriso smagliante ed i dolci occhi chiari, Elijah Dallaire era solo un paranoico, egoista, figlio di buona donna. Trattenne l’ossigeno nei polmoni, rilasciandolo con lentezza dilaniante per impedirsi di fare qualche stronzata tipo prenderlo a calci – perché sapeva che non si sarebbe difeso, che l’avrebbe implorata di continuare. Era davvero - Elijah. «come fai a saperlo?» domandò lapidaria, socchiudendo le palpebre verso il fratello. Perché dubitava che qualcuno, mentr’ella era assente, fosse andata a bussare alla sua porta per informarlo dell’oscuro passato che l’aveva visto protagonista. Non aveva realmente bisogno che il fratello le rispondesse, e lo rese cristallino nell’occhiata fredda che gli rivolse: aveva fatto la Nancy fottuta Drew. Per quello, forse, poteva odiarlo – perché, come sempre, si era cacciato nei guai, incapace a farsi i cazzi propri e realmente dimenticare -- ma quel che più in quel momento le strozzava il fiato in gola, facendo tribolare il cuore nello sterno e gonfiandole lo sguardo di rabbia, era che potesse pensare che lei, sua sorella!, potesse mai realmente odiarlo. Eli poteva anche non ricordare nulla del suo passato, ma lei sì: ricordava i pomeriggi passati sui manici di scopa con le braccia di suo fratello strette alla vita per impedirle di cadere; ricordava la sua voce calda mentre le leggeva le favole della buonanotte, e quella più esitante quanto cercava di apprendere il braille - perché non voleva lasciarla sola. Ricordava le notti in cui fuggiva nella sua camera, ch’egli fosse presente o meno, per potersi avvolgere nel suo profumo e smettere di avere paura.
    Era suo fratello. Era la sua famiglia. C’era sempre stato, per lei – erano loro due contro il mondo, no? «e come puoi -» corrugò le sopracciglia, strinse le labbra fra i denti lasciandosi sfuggire un sorriso a mezza bocca. Era incredula, Arabells. E doppiamente incazzata, perché quella stupida – stupida!- domanda le impediva di affrontare la questione come avrebbe meritato. Alzò una mano, osservando come pavida tremasse nell’aria fra loro, intimandogli con un’occhiata di tacere. Aveva già parlato maledettamente abbastanza. Non potrei mai odiarti. Non potrei mai odiarti. Non potrei mai odiarti - ma quelle parole non riusciva a pronunciarle, incastrate in gola come un boccone mal masticato, la maledizione a consumarla bollente dall’interno. Aprì la bocca per dirle comunque, dirle sempre, ma non ne uscì nulla. «le persone…» massaggiò la fronte, sospirando quella rabbia in stanca esasperazione. «non ti amano per quello che fai, eli» ed invece era vero, probabilmente lo facevano: la vicina di casa gli voleva bene per i fiori sempre freschi, l’edicolante per i sorrisi sempre gentili, le vecchiette di tutta la maledetta Inverness per il braccio con cui faceva loro attraversare la strada. «ma per quello che sei» Conosceva suo fratello. Non le importava che avesse perso la memoria; non le importava che, mentre lei lo aspettava a casa, mentre lei lo cercava ovunque, fosse stato un estremista.
    Era suo fratello, e non avrebbe mai smesso di volergli bene. «fare qualcosa di sbagliato non ti rende sbagliato, solo qualcuno ce ha fatto una scelta sbagliata» ed anche lì, sapeva quanto generalizzare fosse scorretto: di certo non giustificava Hitler per lo sterminio degli ebrei. Poteva giustificare Eli? No.
    Ma non le importava così tanto – ed allora forse, da redimere erano in due.
    Non riusciva - non poteva - essere obiettiva, con Elijah. Non quando la guardava così, come se una parola fuori posto potesse spezzarlo: Bells non voleva essere l’ennesima crepa nella campana di vetro di Eli, voleva esserne la colla. «penso comunque tu sia uno stronzo,» accennò un sorriso pallido, tornando ad avvicinarsi di un passo al Dallaire. «ma non posso…» odiarti. Lasciò che fosse lui a concludere per lei la frase, stringendosi mesta nelle spalle. «non per questo, almeno. sull’alcolismo ed il non voler mai – MAI – chiedere aiuto, mi tengo ancora il beneficio del dubbio.» aka: non sei perdonato, infame. «in ogni caso, non puoi continuare a fare il barbone. Hai un piano migliore, dr gogol?» arcuò le sopracciglia, un breve cenno per invitarlo a parlare.
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    Per tutta quell’apparentemente interminabile nottata, Elijah aveva reputato il semplice respirare come un’azione fin troppo forzata, oltre che un dispendio di fatica allucinante; continuava a rendersi conto di non avere fiato nei polmoni solamente nel momento in cui, fortunatamente, questi iniziavano a bruciare come carboni incandescenti, costringendolo a boccheggiare alla ricerca di ossigeno che nemmeno avrebbe voluto, se non ne fosse valsa la vita di Nathaniel e Rea. Nemmeno poteva dare la colpa allo scotch, per quello - anzi, se proprio gli doveva qualcosa, quella era la gratitudine nel rimembrargli quanto fosse stupido il suo cadere ripetutamente in un’apnea involontaria. Da veri idioti, il cercare l’inutile conforto di una bolla d’acqua che potesse sottrarlo a tutti quei rumori, a tutte quelle facce. Il biondo grifondoro riteneva più che altro tutto quel caos, certamente da lui stesso creato, reo di un principio di collasso polmonare: era scivolato troppo velocemente da un turbinio di colori confusi e strazianti grida, da immagini e parole cui non voleva fare da spettatore, alla frenesia di una rissa involontaria e di un conseguente arresto; inaspettatamente, ma senza calma, si era sentito catapultato dall’ansia di ciò che ne sarebbe stato di un Dallaire dagli occhi troppo umidi e trasparenti dietro le sbarre di una cella di Inverness, ad accettare quale che sarebbe stato il proprio destino – per poi ricadere in una spirale d’angoscia e timore nell’esatto istante in cui aveva riconosciuto il viso gentile di Phobos, ed aveva saputo dell’imminente arrivo di sua sorella. Senza contare tutto quello che era avvenuto dopo, per quanto al senso di colpa – verso sua sorella nel particolare, ma tranquillamente generalizzabile a chiunque si fosse trovato dinnanzi in un qualsiasi momento della propria esistenza; non c’è davvero bisogno di ribadire quanto fosse quel sentimento a muovere, per inerzia, il chiaroveggente – fosse oramai avvezzo. Era stato tutto davvero troppo, per una sola serata: si era abituato all’eccesso che lo vedeva volente vittima e protagonista, scendendo a patti con se stesso nell’accettarlo se voleva sopravvivere così, ma mai in vita sua (o almeno, quella di cui aveva memoria) era stato ammanettato e spinto nel sedile posteriore di una volante della polizia.
    Ma tutto ciò che aveva provato, e che a posteri più lucidi avrebbe potuto definire come un’incessante crisi di panico, non era nulla in confronto a quello: gli parve davvero, che non ci fosse più aria nel mondo per lui. Volendo l’avrebbe potuta ritrovare nel semplice distogliere lo sguardo, o socchiudere la bocca nel tentativo, minimo ed insignificante, di accennare una sola parola: se avesse chiuso gli occhi e liberato completamente la mente, lasciandosi andare a quell’oblio di vorticosi giramenti di testa causati dal buio improvviso, si sarebbe reso conto che poteva respirare più tranquillamente di quanto non gli sembrasse – che doveva farlo, se non voleva rischiare un embolo. Perché alla fine, cosa poteva aspettarsi? Invece no, reputò più consono e giustificabile serrare la mandibola in una morsa dolorosa, rimanere con le iridi verdemare sulla figura di sua sorella mentre, a seguito delle sue parole, arretrava di un passo.
    Mentre si allontanava da lui.
    «bells-» ti prego non muoverti, non farlo. Provò più pena nei propri confronti per quel supplichevole guaito a strozzargli la gola, ricordandogli di incamerare ossigeno, che non per quel pietoso tentativo di alzarsi, la mano poggiata contro il muro a dargli una forza che, se ne rese conto immediatamente, non riusciva a reclamare: sua sorella aveva gli occhi chiusi, ed almeno la sua incapacità di mettersi in piedi senza alcun aiuto se l’era risparmiata. Non riuscì comunque a proseguire con il suo discorso - sempre che in tal potesse essere definito, ecco -, trovandosi in quello straziante silenzio a domandarsi se non fosse proprio quello che voleva lui. Non per sé, naturalmente: viveva già male così; se Arabells avesse preso le distanze da lui, non ne sarebbe probabilmente mai uscito. Aveva bisogno di lei in una maniera che trascendeva la sua comprensione, scavalcando ogni ostacolo che quel passato dimenticato gli poneva: era la sua famiglia, sempre la era stata e tale sarebbe rimasta per sempre. Per lei, non poteva dire lo stesso; non si meritava di dovergli rimanere affianco, non così.
    «come fai a saperlo?» fu solo quando riuscì a vedere i suoi occhi, e sentendo dietro i propri un principio di familiare bruciore, che trovò il coraggio di abbassare di nuovo il capo, stringendo le gambe al petto. «ha importanza?» domandò sincero in un fiato sulle ginocchia, reso udibile soltanto dall’assenza di alcuna anima viva nei dintorni. Avrebbe preferito la sorella gli dicesse che no, non ne aveva davvero, o che più semplicemente lasciasse cadere il discorso; odiava, nel particolare modo che aveva Elijah di disprezzare chicchessia – ossia, senza riuscire mai a farlo davvero: aveva persino smesso di provare rancore per suo cugino dopo che aveva provato ad uccidere la qualunque nel suo festino, sebbene non fosse ancora pronto ad abbracciarlo nel caso fosse mai tornato a casa -, chiunque gli avesse regalato quel tesserino che testimoniava il suo lavoro e Jade per avergli cancellato la memoria, ed avergli omesso la verità per tutto quel tempo, ma non era pronto a scoperchiare gli altarini della Beech (certamente incapace di garantirle l’anonimato da ubriaco). Non che temeva Bells potesse dirlo a qualcuno, si fidava ciecamente della discrezione della sorella, ma più a lungo riusciva a proteggere Eugene da tutto quello, meglio si sentiva.
    Chiuse gli occhi, perché il pizzicore che precedeva le lacrime ancora non si era calmato, sentendo, nel momento stesso in cui le palpebre gli impedirono la vista, la testa così tanto pesante da doverla spingere contro il muro dal quale pareva essere indivisibile; deglutì acida bile a corrodergli la gola, inspirando lento dalle narici. Non volle muoversi di un solo centimetro, e solo rimanere immobile in una deleteria stasi: posare lo sguardo sul vicolo, o cercare a tastoni la corvonero, lo avrebbe fatto pentire immediatamente di ogni scelta della propria vita, dal momento che si fosse reso conto che l’aveva lasciato lì.
    Invece era ancora con lui - e lo sapeva non lo avrebbe abbandonato; lo sperava, ed in parte continuava a temerlo. Non interruppe mai le sue parole, limitandosi a sorriderne dolce, o a scuotere loro il capo in maniera appena percettibile: come poteva credere che la gente potesse apprezzarlo per chi era, se lui per primo non sapeva chi fosse? E come poteva essere certo di non essere sbagliato, e di aver solo agito in quella maniera? Aveva certo delle idee, il Dallaire, sul perché si fosse spinto fino ad abbracciare le fila dell’estremismo ribelle – ed anche sulla Resistenza in sé e per sé, consapevole ora come allora che non avrebbe completamente disdegnato un qualsiasi movimento che desiderasse sistemare quel governo -: tutte riguardavano sua sorella, o i suoi migliori amici, o addirittura la madre, e tuttavia nessuna di cui potesse avere la sicurezza. Considerando poi, che poteva non essere nessuna di tutte quelle – che forse era davvero un mostro, dietro una maschera di buonismo e gentilezza. Il voler essere una persona buona adesso, in quel luglio del duemiladiciotto, non avrebbe potuto giustificarlo.
    «non mi merito tutto questo.» un soffio di fiato spinto fuori con forza, masticato più del dovuto. Portò lo sguardo acquamarina sulla sorella, un mesto sorriso a piegare appena gli angoli della bocca nel vederla più vicina; ovviamente, non si riferiva alle condizioni pietose nelle quali si era stabilmente accomodato: per quanto lo riguardava, potevano essere sue per sempre e sentirle costantemente adeguate. «non… non mi merito la tua pazienza, tutto quello che mi stai dando» una seconda possibilità, un affetto incondizionato ed imperituro. «o… o quello che hanno fatto per me nate e rea.» deglutì, un brivido a scorrere dalla base del collo lungo tutta la colonna vertebrale; era felice di essere vivo, ma a quale prezzo. Alzò una mano, cercando di impedirle di intervenire mentre si umettava le labbra e, troppo lentamente, si abituava all’effetto dell’alcol che scemava, lasciandogli solo un gran mal di testa. «non mi sto auto commiserando, davvero:» poteva non sembrare, lo capiva anche in quelle condizioni, ma era la verità. «insomma, guardami. sto una merda,» si strinse nelle spalle, quasi rassegnato: ci si sentiva, una merda, dal momento in cui l’aveva vista da un lettino d’ospedale, senza riuscire a riconoscerla. «e sono stanco,» delle voci, dell’insonnia, del non sapere come controllarmi, dell’avere paura al minimo rischio di contatto umano perché vedo sempre – sempre! – qualcosa che non vorrei né dovrei vedere. «e non so come uscirne e-» deglutì di nuovo, sentendo la gola stringersi in se stessa, bloccandogli il respiro e costringendolo, ancora, agli occhi lucidi. «non so come chiedere aiuto, bells.» che non volesse disturbare era un altro discorso, poi.
    «non so cosa fare.» ammise, chiudendo di nuovo gli occhi e mentendo appena: un’idea l’aveva, ma non era né attuabile, né confessabile senza rischiare di venire legato in un sotterraneo vita natural durante. «non ho un piano, ma penso che… potrei iniziare dagli alcolisti anonimi.» era sicuro non avrebbe funzionato – non da subito, e non per sempre probabilmente -, ma tentare era il minimo che potesse fare. «sei tu quella intelligente in famiglia: tu hai un piano?»
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