Socchiuse le palpebre, la musica ad insinuarsi sotto i vestiti appiccicandosi alla pelle come uno spiacevole strato di sudore. Hyde Crane Winston non si sprecò neanche ad arricciare il naso, gli opachi occhi azzurri a scivolare apatici sulla marmaglia di gioventù in movimento sulla pista – non dissimile ad un branco di lombrichi legati per la coda, a suo dire: uno spettacolo raccapricciante. Non li conosceva, ovviamente, ma non aveva bisogno di farlo per odiarli tutti – era sempre così, quando aveva a che fare con il genere umano: partiva da una base d’intolleranza e, nel 90% dei casi, la confermava non appena aprivano bocca. S’immise nella mischia come un’ombra, e quelli neanche se ne accorsero della sua presenza: fu l’istinto a prevalere, spingendoli a rimanere ad una democratica distanza di sicurezza dal biondo. Era una specie in via d’estinzione, il diciannovenne, di quelle condannate a morire giovani ed in discrezione – ben lontano da quella gioventù che attirava attenzione quanto un fuoco d’artificio nella notte, o di quelle che abbracciavano cieli dipinti d’azzurro come se potessero imprimersi ogni nuvola nella pelle. Passava inosservato perché lo era, inosservato: a meno che non decidesse di essere notato, ed accadeva (mai.) assai di rado, raramente lo si percepiva all’interno di una stanza. La leggenda narrava che non si muovesse affatto, come ogni creatura a sangue freddo che meritasse tal nomea, e che neanche battesse le palpebre; risaputo che ogni leggenda avesse un fondo di verità, ma non sarebbe stato lui a rivelare quale. Tenne il capo sollevato, spostandosi di appena pochi centimetri ogni qual volta qualcuno, meno abile degli altri nell’antica arte della sopravvivenza, rischiasse di invadere il suo spazio personale. Il perché Hyde si trovasse all’interno del Fiendfyre, come in tutte le precedenti discoteche magiche in cui avesse mai messo piede nella sua vita, era esplicabile con un nome: Jekyll, conosciuto anche come quel demente di mio fratello. E no, non per recuperarlo da una serata in cui aveva esagerato con la vodka. Per evitarlo. Mai, Jekyll, l’avrebbe cercato all’interno del Fiendfyre – e quello era stato il motivo principale, per non dire l’unico, che l’aveva spinto a entrare in quel locale di perdizione, dove in quel momento soffriva soffocato da profumi troppo persistenti ed ormoni a bazzicare nell’aria come polvere da sparo o polline. Giunse alla parte opposta della discoteca, i bassi a fargli vibrare ossa e cuore; si lasciò cadere su un divanetto che, indubbiamente, doveva aver visto giorni migliori, e solo quando si fu acceso una sigaretta, sbattendosene le palle dei divieti che affollavano le pareti come macabri poster d’autore, si concesse di serrare dolente le palpebre. Tutte quelle persone - quei suoni, quei battiti che poteva quasi percepire sulla lingua. Era del tutto illogico che un Hyde, in quella bolgia, ci si sentisse a proprio agio - ed era del tutto logico: amava la solitudine, e non c’era posto al mondo in cui essere più solo se non circondato da persone con cui non c’entravi un cazzo. L’aveva appreso non appena aveva messo piede in quel tempo, che la solitudine lì non poteva godersela nel proprio scantinato – non l’aveva più, una casa. Per mesi non aveva capito quale fosse il problema, perché non riuscisse a rimanere con se stesso più di cinque minuti senza perderci la testa: non era solitudine, quella respirata quando non c’era nessun altro intorno – perché qualcuno, c’era sempre. La notte, la sua parte della giornata meno sfavorita, era piena di anime perse che cercavano la propria strada in una siringa d’eroina o nel fumo di una sigaretta; pieno di gente a cercare risposte nelle stelle, o a piangere nei palmi delle mani quando nessuno li guardava. Londra, nel 2018, era disgustosamente piena di creature svezzate a speranza ma cresciute nel sangue, che quella speranza ancora la cercavano ovunque – ed ancora la chiedevano ad un Dio che aveva smesso di far loro caso secoli prima. Era una solitudine troppo piena, quella di Jack Daniels; Hyde Crane Winston, nel passeggiare su viali che cent’anni dopo puzzavano d’antico, non riusciva semplicemente a trovarsi. Non si era mai sentito a suo agio neanche nel proprio tempo, figurarsi dove e quando non c’entrava un cazzo – figurarsi quando quel cemento aveva deciso di calpestarlo per Mabel, per quei genitori ch’erano morti prima del suo smistamento, e loro se n’erano andati. Dispersi nel tempo e nello spazio, probabilmente catapultati anche in una diversa dimensione (sempre difficile capire determinate sottigliezze quantistiche) e senza possibilità di tornare da loro. Da lui. Erano mesi ch’era costretto a tollerare l’insano entusiasmo di suo fratello, acuito dall’eterna ottimista Tessa e l’immancabile Noah – mesi in cui si era mostrato disponibile, dove per disponibile s’intendeva che non aveva sparato né a loro né a se stesso. Se fosse rimasto un altro secondo con lui, con loro, non era certo di poter resistere ancora alla tentazione di premere il grilletto: ed ecco perché il Fiendfyre. Aspirò denso dalla sigaretta stringendola fra pollice ed anulare, così da avere ben libero il medio da sollevare all’incauto di turno che credette, sul serio?, fosse una buona idea approcciarlo. Ed il tempo parve farsi astratto ed elastico, appiccicoso e soggettivo: lo osservò scorrere impassibile, spettatore di vite che non avrebbe mai capito né voluto, consumando una sigaretta dopo l’altra al ritmo con il quale loro consumavano battiti e sudore. Sorseggiò il proprio whisky con la stessa elegante disattenzione che avrebbe potuto riservare al caffè o all’acqua, statico ed immobile mentre tutto intorno a lui collassava, moriva, e rinasceva per compiere il circolo ancora una volta. Gli parve di udire la voce di Grey, quella notte - ma non era possibile. Gli sembrò di vedere la chioma argento di Mabel - ma non era possibile. Si sentiva l’ultimo uomo sulla terra, Hyde. Poco importava che fosse circondato da centinaia di ragazzi e ragazze, poco importava che la Malattia che avrebbe portato all’apocalisse fosse ancora lontana decenni: si sentiva sul filo del rasoio, il CW. Si sentiva già l’unico dei sopravvissuti. Lasciò il locale solamente all’alba, quando di quelle ombre non era rimasto che il ricordo impresso sulla pista. Come ogni ora da quando aveva lasciato il loro appartamento, scrisse un messaggio a suo fratello: sono ancora vivo - fine, quello l’unico commento del CW nelle ultime ore, ripetuto ad ogni scoccare delle 00. Non così scontato quando si trattava di Hyde, eh; e sì che non voleva essere trovato da Jek, ma sapeva anche il fratello maggiore avesse preso tutta l’apprensione di mamma (e sapeva anche gli fosse rimasto solo lui): non voleva farlo preoccupare. Voleva solo che non gli rompesse il cazzo. Sapeva di essere sgarbato, sapeva di ferire i sentimenti di Orwell, e sapeva anche che sarebbe stata una stronzata ammettere non gli importasse delle azioni sopracitate - eppure lo faceva comunque, un po’ perché fare lo stronzo gli veniva d’indole ed un po’ perché gli piaceva, maltrattare suo fratello. Da tali atteggiamenti nasceva la teoria complottistica secondo la quale fosse stato adottato: troppo diverso dal resto della sua famiglia, per essere uno di loro. Certo, se non fossero fottutamente morti tutti prima che Hyde fosse adolescente, probabilmente non sarebbe stato così neanche lui – ma era inutile domandarselo, dato che non l’avrebbero mai saputo. Girovagò per ore privo di meta, ringraziando il Signore che a Londra ci fosse sempre un tempo di merda, e non dovesse avere nulla a che fare, neanche in pieno mezzogiorno, con il mitologico sole - qualcosa di sconosciuto al CW, e del quale non voleva sapere niente. Malgrado fosse estate, girava per le strade di Londra con l’immancabile giacca nera: non aveva abbastanza sangue in corpo per percepire il caldo, Hyde, che a vederlo da lontano – abiti eleganti, viso pallido e stanco, spettinati capelli biondi – pareva più un’idea che non un ragazzo in carne ed ossa. Inforcò gli occhiali dalle lenti scure malgrado non ve ne fosse alcun motivo pratico, beandosi di poter osservare senza essere a sua volta guardato: era un misantropo, ma non significava che non fosse una comare di merda. Inoltre, tendeva a dimenticare completamente le norme sociali, ritrovandosi ad esprimere il proprio disgusto / disappunto / irritazione privo di alcun filtro, fissando le persone più di quanto non fosse concesso dall’etichetta. Per tutto il giorno aveva ignorato i messaggi del fratello, rispondendo l’usuale sono vivo puntuale e maniacale quando richiesto ma senza sprecarsi a leggere le risposte (poteva immaginarli: DOVE SEI? DOV’è IL DETERSIVO PER I PIATTI? HYDE MI SENTO SOLO. HYDE DOVREI SCRIVERE A DAVINA? HYDE, è FINITA LA CARTA IGIENICA IN BAGNO SEND HELP. HYDE?????? H Y Y Y Y / D E E E) e non aveva intenzione di cominciare in quel momento. 59. Prese il telefono, sbloccò la tastiera, scorse la chat ignorando i messaggi non letti: ancora qui, digitò flemmatico. Non ebbe tempo di inviare, e quasi perse la presa sul telefono quando qualcuno gli sbattè contro: ma Cristo, la strada non era grande abbastanza per due persone? Si fermò, battè pigramente le ciglia. «mi scusi» Pure. Alzò il capo con studiata lentezza, lo sguardo ceruleo a posarsi sulla ragazzina. Si tolse gli occhiali, pulì distrattamente le lenti con un lembo della maglietta. «no, figurati» biascicò arrogante, chinando il capo per osservare il movimento delle proprie dita. «che clichè guardare dove si cammina, d’altronde» ribattè ancora ironico, posando gli occhiali sulla punta del naso. «magari la prossima volta mi stendo sul cemento, così puoi calpestarmi più adeguatamente. Ho giusto un paio di organi vitali ancora in… semi buone, condizioni» un angolo delle labbra si sollevò di ben un millimetro, ed in qualunque essere umano avrebbe addolcito la frase facendola passare per burla. «che spreco.» Ma era Hyde Crane Winston, e lui non scherzava mai.
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