sipping wine, feeling fine

New Year's Eve 2039 | tutti invitati !!1!

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    Camden Town Huji Brandon Hilton
    Cam Hilton
    «penso sia un'idea di merda»
    «tiny!»
    «mi hai chiesto di essere onesta, no?»
    Da Tintagel Hilton, non ci si poteva aspettare diversamente. Ed era per questo che Cam si rivolgeva raramente alla sorella per ottenere consigli o chiedere un parere: il ragazzo non era praticamente mai pronto all'onestà brutale della gemella, e per questo la maggior parte delle volte faceva di testa propria senza chiedere la sua opinione. Che tanto - lo sapeva bene - sarebbe stata negativa in ogni caso: si potevano contare sulla punta delle dita le volte in cui dalla bocca di Tiny fosse uscito un commento positivo o vagamente carino riguardo a qualcosa.
    Ma quella volta era diversa: aveva sperato davvero di ottenere una reazione diversa da sua sorella in modo da avere qualcuno a supportarlo in quel piano, ma evidentemente si era sbagliato. Come sempre.
    Conosceva una sola persona, al mondo, che apprezzava sempre le sue idee. L'unica a supportarlo in tutto ciò che faceva, ed a credere in lui. E quell'unica persona, Cam, la stava lentamente perdendo: Philadelphia Sutton Maribel Soledad Hilton continuava a lottare, giorno dopo giorno, ma le sue condizioni erano sempre più gravi. E Cam era l'unico a sperare ancora in una sua miracolosa guarigione:
    Tiny, col suo cinismo, non ci aveva mai creduto.
    Penn aveva rassicurato i figli fin dall'inizio come meglio aveva potuto, sorridendo ogni giorno, ma lentamente aveva smesso di crederci.
    Bangkok li aveva abbandonati, e Camden sembrava essere l'unico in famiglia ad avercela con lui per questo. Ogni volta che tentava di parlarne, sua sorella alzava le spalle fingendo che il tutto non la toccasse, mentre sua madre lo giustificava con un "Tuo fratello è fatto così, non devi odiarlo" Ed ovviamente Cam non lo odiava, non avrebbe mai potuto, ma non per questo covava meno rabbia nei suoi confronti: Bangkok era svanito nel momento stesso in cui lui e Tiny avevano sentito il bisogno del supporto del fratello maggiore come mai era accaduto prima, in vita loro, e andandosene aveva spezzato il cuore della madre, anche se lei faceva di tutto per non farlo notare.
    «mamma ha detto che è un'idea adorabile»
    «per mamma, tutte le tue idee sono adorabili» non aveva tutti i torti: sua madre aveva sempre accolto ogni sua iniziativa col migliore dei sorrisi, permettendo al figlio di fare praticamente ogni cosa. Anche perché quelli di Cam erano sempre desideri fattibili ed innocui: non aveva mai chiesto alla madre il permesso di organizzare un'asta clandestina per vendere i diari del nonno (come Bangkok) o di dar fuoco al loro coniglio (come Tiny) Camden aveva toccato l'apice della trasgressione quando si era tagliato i capelli da solo e, essendosi reso improponibile, non si era tolto per più di due mesi il suo cappellino da baseball preferito dalla testa.
    «ma non te ne rendi conto? Organizzare una festa...» ci aveva pensato per settimane, ed era arrivato alla conclusione che quello fosse un modo per tornare ad un minimo di normalità «...le cose sembrerebbero come erano prima» Che mamma si ammalasse.
    E che Bangkok andasse via.
    Quando casa loro era piena delle telecamere del reality show, con cui i figli di Penn erano praticamente nati: per loro, quella era stata la normalità per anni, ed era stato strano abituarsi a girare per casa senza esser seguiti da un cameraman. Quando ogni venerdì pomeriggio, nei periodi in cui tornavano da Ilvermorny, Penn li coinvolgeva nei preparativi delle grandi feste che dava nell'attico a Beverly Hills durante i mesi estivi o nel grande salone della villa in Gran Bretagna, poco fuori da Londra. Ed era lì che Cam aveva intenzione di organizzare la festa di fine anno: pianificare un evento del genere era ciò di cui aveva bisogno per sentirsi meglio, e non vedeva l'ora di iniziare a curare i dettagli insieme a sua madre, scegliendo le decorazioni da mettere sui tavoli e le luci con cui illuminare il cortile esterno. «te l'ho già detto, per me è un'idea tremenda. Non voglio fermarti, ma di certo non ti aiuterò ad organizzare il tutto» Rude. Ma anche senza la sorella, sapeva di potercela fare. Aveva anni di esperienza, Cam, ed era il figlio di Philadelphia Hilton: certe cose gli scorrevano nelle vene. E poi sapeva di poter contare sull'aiuto di sua madre, ed era emozionato all'idea di poterla rendere felice, dandole la possibilità di fare qualcosa a cui era stata costretta a rinunciare dopo essersi ammalata.
    «E, Cam..» Il ragazzo si fermò sulla porta, riportando lo sguardo sulla sorella sdraiata sul pavimento, le gambe poggiate sul muro ed il proprio pc sulla pancia «Mh?» Per la prima volta da quando era entrato nella sua camera, Tiny spostò l'attenzione dallo schermo per rivolgerla al fratello «Non restarci troppo male, quando lui non si presenterà» Gli capitava ancora di stupirsi del legame tra lui e la sua gemella: per quanto fosse diversa da lui, Tintagel era in grado di comprenderlo come nessun altro al mondo, forse persino più di sé stesso. E Cam forse non se ne era reso nemmeno conto, ma uno dei motivi principali per cui voleva organizzare quella festa era proprio Bangkok, e la speranza che si rifacesse vivo. «Non lo sto facendo per lui»
    Non del tutto

    «Ma non mi dire, ti sei persino vestita elegante!» Sapeva quanto sua sorella odiasse mettersi a tiro, e per questo non poteva che adorarla ancora di più per lo sforzo che stava facendo in quel momento: aveva addirittura messo i tacchi, vi rendete conto? «dal momento che mio fratello ha invitato più di trecento persone a casa, non credo avessi molta altra scelta» Per un attimo, mentre attendeva in sala da solo circondato unicamente dallo staff dell'evento, aveva temuto che la sorella avrebbe passato il resto della serata chiusa nella propria stanza o, cosa molto più probabile, avrebbe deciso di sgattaiolare via ed imbucarsi a qualche festa babbana lasciandolo da solo ad affrontare la marea di ospiti che, da un momento all'altro, avrebbero invaso casa loro. «grazie» Era tranquillizzante averla lì al suo fianco, e per un attimo gli sembrò che tutto fosse tornato alla normalità: Bangkok avrebbe fatto il suo ingresso dal portone da un momento all'altro con il fiatone, la camicia fuori posto ed i capelli scompigliati a seguito di un appuntamento andato decisamente bene e, lanciando un sorriso compiaciuto ai fratelli, sarebbe sfrecciato in camera a cambiarsi e prepararsi per la festa mentre Penn urlava al primogenito dalla propria stanza, lì dove era impegnata a sistemarsi i capelli e raccoglierli in un'elaborata acconciatura, di darsi una mossa. «ricordami: quante persone hai esattamente invitato?» Beh. Nel perfetto stile Hilton, Camden non aveva assolutamente badato al numero: riprendendo vecchi contatti di sua madre, aveva spedito una lettera praticamente a tutta la comunità magica inglese ed americana. Anche francese, ad esser sinceri. E si era anche preso la libertà di estendere l'invito ad alcuni dei suoi amici cool e rikki, come Leo - il figlio dei Ferragnez - e Stormi - la figlia di Kylie. Si limitò ad un'alzata di spalle, sussurrando un «abbastanza» molto evasivo come risposta.
    Tintagel non doveva mica sapere il numero preciso degli invitati.
    Sinceramente, non lo sapeva neppure Cam
    MUDBLOOD | 17 y/o | thunderbird
    cinnamonroll | 31.12.2039
    You should not be alone,
    All this drink got me thrower,
    Club got me right
    And I feel so alive
    I got it from my mama


    Dai, da quanto la volevate la festa #2043??? :perv:
    Buon capodanno oblivion, con qualche mese d'anticipo ♥︎
     
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    sander bitchinskarden & roosevelt stilinski-milkobitch
    sander&levi
    C’era solo una cosa peggiore dei Bitchinskarden.
    «lEVI» nO.
    Sander, la risposta corretta era Sander. Sollevò gli occhi sul trafelato guaritore, i capelli biondo cenere di lui celermente spettinati ed una spalla poggiata, con classe, alla cornice della porta della sua stanza. Fingere di non vederlo non funzionava più da anni, quindi Levi si costrinse a sollevare una mano dal mouse in segno di saluto curvando poi nervosamente le labbra in un sorriso. «ma la finisci di smanettare? è l’ultimo giorno dell’anno» grazie a Dio, avrebbe aggiunto il minore. Fece scivolare gli occhi verdi dallo schermo del computer al viso del fratello, stringendosi nelle spalle senza aggiungere altro. Sapeva già cosa volesse dirgli, così come Sand sapeva perfettamente quale sarebbe stata la risposta: no, non ho voglia di venire alla festa; sì, tu vai, divertiti anche per me; salutami tutti, a mezzanotte vi chiamo su skype per gli auguri; tieni sotto controllo Ray, ha la rissa facile; non provocare Jackie, l’Abro ha di nuovo prodotto bacche. Avrebbero potuto saltare quel genere di convenevoli limitandosi ad una pacca sulla spalla, ma se avesse semplicemente lasciato correre, non sarebbe stato Sander Bitchinskarden: «verrai a quella festa.» Levi deglutì, le dita a tremare debolmente sopra la tastiera. Abbassò la testa evitando il suo sguardo, preferendo concentrarsi sulle stringhe di codice sullo schermo che sul disappunto del diciassettenne - cosa si aspettava da lui? «sand,» supplicò in un opaco tono di voce, ingobbendo le spalle e cercando, istintivamente, di farsi un bersaglio più piccolo. Odiava gli occhi gonfi di contrarietà di suo fratello, ed odiava esserne la ragione – applicabile anche a chiunque altro: Levi soffriva di sindrome dell’abbandono, e per anni aveva convissuto con il terrore che, un giorno, né Juno, né Ray né Sander sarebbero tornati a casa, preferendo le gemelle-del-terrore e le madri-del-terrore-ma-harder-e-better (tutte citazioni di Sander, Levi non si sarebbe mai permesso di fare alcuna osservazione in merito) a lui ed i papà – che erano diventati presto lui e Jeremy, concludendosi infine con un solo lui. Vorrei dire che con gli anni si fosse convinto che sarebbero tornati sempre, ma sarebbe una sfacciata menzogna: ogni mattino Roosevelt, pur essendo il primo a svegliarsi, rimaneva a letto finchè non udiva il suono di uno dei suoi fratelli al piano sottostante; se Ray, Juno o Sander dormivano fino a tardi, era in grado di rimanere sveglio per ore senza neanche avere il coraggio di scendere a prepararsi la colazione, terrorizzato all’idea di essere solo. Non sopportava dover dire no all’invito alla festa, ma…«non posso ammise in un sussurro, sentendo lo sguardo farsi liquido. Si sforzò di fissare lo schermo attendendo che le lacrime si asciugassero, cocciuto nel non incrociare gli occhi dell’altro. Finsero entrambi di non accorgersi del silenzio a seguito di quell’affermazione, magistrali nel colmare ogni lacuna spingendo e comprimendo giorni e secondi l’uno dopo l’altro: premevano il tempo in piccoli spazzi così che non pesasse nei suoi momenti vuoti, la loro versione del bere un goccio d’acqua perché ho la gola secca. «non si è mai sentito che un bitchinskarden mancasse ad una festa» aprì la bocca per fargli notare, ovvio e logico come ogni Corvonero che meritasse tal nomea, che lui non lo fosse - la richiuse solo quando, più per indole pignola che per reale intento, alzò il capo verso il guaritore: avrebbe preferito il doppio dito medio in risposta alla (meschina.) osservazione sul non essere davvero fratelli, a quell’espressione arida e secca.
    Erano diversi, Sander e Levi. Affrontavano le perdite ed il dolore in modo completamente opposto: il primo reagiva, il secondo incassava; il primo imprecava, il secondo piangeva. Sander era pragmatico, Levi emotivo.
    Ma faceva male uguale, ed il Corvonero lo sapeva: glielo leggeva nelle labbra strette e nei sorrisi di circostanza, nelle palpebre abbassate più a lungo del dovuto e nei troppi respiri trattenuti nei polmoni. Levi percepiva il dolore di Sander in maniera quasi fisica, e lo moltiplicava fra una costola e l’altra fino ad eclissare il proprio. Ti prego, imploravano gli occhi scuri del diciassettenne. Quando Sander socchiuse le labbra, ne uscì un suono muto ed ovattato che ad un orecchio casuale avrebbe potuto apparire un sospiro, ma che Levi conosceva abbastanza bene da distinguerlo per quel che era: un singhiozzo. «mai scandì roco, usando quel peculiare tono di voce per dar maggior enfasi all’affermazione. Sapere che fosse ad un passo dalle lacrime, fece stringere il cuore di Levi in un pugno di catrame denso ed appiccicoso. Inspirò vibrando dalle narici, il cuore tachicardico nello sterno. «per favore, voglio rimanere a casa» tentò ancora, piegando la testa all’indietro per fissare il soffitto. Non aveva bisogno di specificare il perché, ma Levi decise di farlo comunque, occhi chiusi e mascella dolorosamente serrata nello sbottare tutto d’un fiato. «se rimango abbastanza a lungo in camera mia, e chiudo gli occhi, e metto le cuffie, e suono un po’ di chitarra o piano, o leggo un saggio di storia o un fumetto di xmen, o programmo un nuovo videogioco, riesco a convincermi che scendendo le scale troverò ancora papà appoggiato all’armadietto della cucina a scrollare il capo con un mezzo sorriso ed un sei così nerd prima di spettinarmi i capelli e chiedermi dell’ultima cosa che ho letto o del nuovo progetto a cui mi sto dedicando malgrado non ne capisca un accidenti» ignorò la gola chiusa per inspirare, tornando a parlare prima che Sander potesse interromperlo. «e mi chiederà di nuovo di guardare un film ed io fingerò di nuovo di non accorgermi di quando guarda me invece della tv e se è una di quelle serate aspetterò il momento in cui mi dirà quanto sarei piaciuto a zio todd e quanto papà sarebbe stato fiero di me e quanto zia run avrebbe voluto vedere quel film con noi e quanto sono un bravo ragazzo e quanto sia fiero di me e mi voglia bene ed io gli dirò che anche io sono fiero di lui e gli voglio bene ed allora fumeremo una canna e lui mi ripeterà ancora che una canna non vale come droga ed io gli dirò che sì, essendo il delta-9-tetraidrocannabinolo una sostanza psicotropa vale come droga, e lui mi spingerà verso le scale ripetendomi ancora quanto sia il suo piccolo nerd ed io sorriderò salendo le scale perché sono un nerd ma sono il suo piccolo nerd prese fiato come un naufrago in apnea, tossendo per togliersi l’impiccio dalla gola. «- e invece non c’è ed io non voglio saperlo» in un’altra occasione, in un altro contesto, avrebbe sorriso trionfante a Sander: Levi non era certo famoso per le sue condivisioni, più introverso e timido rispetto ai fratelli; difficilmente diceva la propria opinione, preferendo mostrare quanto poco fosse interessato a quella o quell’altra attività storcendo il naso in un se proprio dobbiamo, ma senza mai imporre categorici no.
    Non sorrise, concentrandosi invece nel far funzionare i polmoni in modo corretto. Sander Bitchinskarden rimase in silenzio così a lungo da fargli dubitare fosse ancora nella stanza; si trovò costretto ad alzare il capo, trovandolo con le braccia incrociate sul petto e gli occhi adombrati e fissi su un punto imprecisato della stanza. Non ricambiò l’occhiata di Levi. «m a i» ripetè, senza spostarsi di un millimetro, come se Levi non avesse mai parlato.
    Sapevano entrambi l’avesse fatto. «e se non vuoi venire in qualità di fratello, percival» l’altro riuscì perfino a sorridere, strappando a Levi un istintivo eye roll al soffitto – ed un sorriso debole ma presente: Sander aveva scoperto il secondo nome di Levi solo pochi mesi prima, e solo perché: «lo farai in quanto te lo demanda il tuo tutore legale.» Sand sorrise compiaciuto stringendosi nelle spalle, rendendo la posizione di Roosevelt Percival Stilinski Milkobitch ancor più umida e fragile.
    Il suo tutore legale.
    Il suo tutore legale - suo fratello di appena diciassette anni, che dalle responsabilità era sempre fuggito come se ne andasse della sua vita, che del tirocinio insieme ai pompieri aveva fatto mestiere a tempo pieno abbandonando gli studi, era il suo tutore legale.
    Levi era diventato orfano a pochi giorni dall’inizio della scuola. Non ricordava molto di quel due Settembre, se non di non aver mai ricevuto tanti abbracci in vita sua – né di aver sorriso così falsamente a così tante persone. Strette di mano; pianti che gli avevano straziato il petto, e più o meno credibili se hai bisogno di qualcosa, io ci sono a cui il Corvonero aveva annuito piano. Era minorenne, Levi. Era un nuovo bambino dei tempi bui, anime perse che non appartenevano a niente e nessuno in quel mondo in delirante declino.
    Era solo. Non si sentiva solo da anni, ma in quel momento, pur avendo i fianchi e le spalle coperti da Sander, Juno e Raymond, Roosevelt si era sentito lo stesso bambino che nove anni prima si era affacciato sul vialetto Stilinski – Milkobitch stringendo al petto una chitarra ed una borsa con pochi vestiti, petto troppo magro ed occhi troppo tristi: incerto. Terrorizzato. Solo ed unico in tutto l’universo. Era stato scaricato momentaneamente nel piccolo appartamento di Adelaide e BJ, e le visite non si erano concluse – ma una, una specifica, si era fatta notare per la propria assenza. Quando gli avevano annunciato ufficialmente il decesso di Jeremy Milkobitch, e Levi aveva sentito il proprio piccolo mondo collassare su se stesso stritolando ossa e muscoli, Sander aveva solo chiesto che ora fosse.
    E poi non l’aveva visto per giorni.
    Tre notti passarono prima che Sander Bitchinskarden spalancasse la porta d’entrata, occhiaie scure e sguardo vagamente allucinato. Non avrebbe mai dimenticato il sorriso a far capolino sulle labbra di lui, così fiero ed onesto e caldo: una delle cose più belle a cui Levi avesse mai assistito. «percival,» gli aveva detto facendo ondeggiare il foglio, che da quel momento lo qualificava come tutore, davanti al suo naso. «davvero ti chiami così?» e non aveva avuto bisogno di altre spiegazioni, Levi, allacciando i fili fra loro in un battito di ciglia e sentendo il cuore pompare sangue dolce e denso ad ogni nodo compiuto: l’ora, per sapere se fosse ancora in tempo per contattare uno studio legale; i giorni, per lasciare gli studi e chiedere, ingoiando orgoglio e preghiere, di essere assunto a tempo pieno così da avere uno stipendio con il quale assicurarsi l’affidamento. «sì, okaaay pidocchio, mi hanno aiutato,» Testimoni e Garanti, probabilmente; una plausibile Tupperware Armstrong Jackson a manifestare fuori dalla sede dell’assistenza infantile, trascinando con sé Mabel, Rude e Leia; un Cash Noah Hamilton a pulire le lenti degli occhiali ed elencare in tono apatico tutto ciò che qualificava i documenti di Sander come attendibili. «ma comunque.» sottolineò il proprio nome mimando una pistola con le dita, enfatizzando come, malgrado tutto e tutti, fosse lui il Referente.
    Lui, il Tutore. «perché?» solo un bisbiglio rauco, la voce di Levi. «le domande stupide non ti si addicono, percival» Sander si era stretto nelle spalle con un mezzo sorriso, ma agli occhi lucidi di Levi aveva lasciato che la smorfia evaporasse, vantando in risposta un confuso sguardo di sottecchi. «sei mio fratello, testina di minchia, cosa ti aspettavi?»
    «ti lascio scegliere il mio outfit» concesse, sospirando ed abbandonandosi sul letto libero del fratello minore. Sander Bitchinskarden era sempre stato convinto che Levi appartenesse ad una razza diversa dalla sua, superiore. A rischio estinzione, da proteggere ad ogni costo. Più volte, e sempre ad alta voce (Sander non possedeva il normale filtro che gli esseri umani interponevano fra cervello e lingua, i pensieri non ci stavano tutti nella piccola, bellissima, testa castano dorato), aveva messo in discussione l’origine umana del mingherlino Roosevelt, prendendosi pugni e coppini un giorno da Juno e (lo stesso.) l’altro da Ray. Malgrado Levi fosse più piccolo di tre (3!) anni, Sander provava un’ammirazione reverenziale verso il Corvonero, e non aveva mai ritenuto doveroso celarlo: non c’era nulla, eccetto qualunque genere di attività fisica o l’uso di qualsiasi arma, che non fosse alla portata del moro; se non era in grado di far qualcosa, ed era di suo difficile, lo avrebbe imparato. Aveva una sua opinione su qualunque argomento, dalla politica alla cultura generale; di qualunque cosa si parlasse, lui aveva appena letto un articolo in proposito. Idealmente, Levi era tutto ciò che Sander non comprendeva e disprezzava, trovandolo noioso e senza senso – ma non era mai riuscito ad associare quel genere di etichette al fratello minore. Non era quel genere di secchione puntiglioso e saccente che voleva sempre aver ragione, né (al contrario di Hyde.) quello che ti osservava fallire se non gli chiedevi una mano, o che ti costringeva a seguire alla lettera i suoi ordini: aiutava gli altri perché gli faceva piacere farlo, un concetto alieno e sconosciuto a Sander, e ti faceva quasi (quasi.) interessare a questioni cui normalmente non degnavi mezzo orecchio. Era decisamente troppo sveglio ed intelligente per un Sander, ma Levi non gliel’aveva mai fatto pesare- agli occhi di Levi, era lui quello da ammirare, il fratello maggiore da prendere come punto di riferimento e modello. Roosevelt era, in poche parole, il classico sgagnetto che nei film, nelle serie tv, nei libri (e nei racconti tramandati di generazione in generazione) a scuola le avrebbe prese di santa ragione, t-t-t-target perfetto di qualunque bulletto di strada. Levi s’era evitato quel futuro, malgrado l’indole riservata che non gli aveva mai permesso di fare particolari amicizie, solamente grazie al contesto: Sander piaceva a tutti, di conseguenza evitavano di prendere di mira suo fratello; Juno e Ray terrorizzavano psicologicamente ogni imberbe di Hogwarts, e le gemelle-del-terrore non aiutavano ad ammorbidire la nomea della famigghia. Inoltre, Levi aveva la sfortuna di essere cugino di CJ Hamilton, il che poneva esistenzialmente dalla sua parte il resto dei criminali amici del kugi (hola ronan, que pasa).
    Insomma. Levi era una secchia favorita dalla sorte.
    L’autorizzazione sulla scelta degli abiti per la festa organizzata dagli Hilton fece curvare involontariamente la bocca di Levi in un sorriso, gli occhi grigio-verdi a brillare di flebile entusiasmo. Trovò un po’ più semplice respirare, Sander. Il neo pompiere era quel tipo di ragazzo che se ne sbatteva allegramente il cazzo di chiunque, e per cui al contempo, determinate piccole cose, significavano universi interi: per quell’abbozzo di sorriso, che voleva credere fosse incipit di un volenteroso sì, verrò alla festa, sei un bro fantastiko, Sander avrebbe permesso a Levi di scegliere ben più del solo completo per l’ultima notte dell’anno – e lo sapevano entrambi, che bisogno c’era di dirlo. Allungò una mano sul comodino spostando distrattamente penna e taccuino, e non gli sfuggì come le spalle di Levi si contrassero a quel minimo movimento, le dita a scattare irrazionalmente verso la sua direzione per poter porre rimedio, chiuse poi a pugno nel rendersi conto di quanto appena fatto: Roosevelt soffriva di OCD . «e ti permetto di mettere a posto la mia camera» quel permesso gli costò decisamente più del precedente. Sander non creava caos, Sander era il caos – perlomeno all’interno della sua stanza. Nulla seguiva una logica, fra vestiti lanciati alla rinfusa ed oggetti di dubbia natura a spiccare come furti di (molto peculiari.) gazze ladre; avrebbe potuto mentire dicendo che nel suo disordine, ci si ritrovava, ma perché quando poteva candidamente ammettere di non trovare mai un cazzo? Se non li avesse avuti attaccati al busto, avrebbe perso anche gli arti.
    (era capitato, un paio di volte).
    Eppure gli piaceva, il disordine. Lo trovava confortante, privo di aspettative – al contrario di tutta la sua maledetta vita, per dirne una. Non che l’avrebbe mai ammesso ad alta voce al fratello. Prese dal taschino della giacca di jeans un contenitore trasparente di pillole bianche, mostrando a Levi (la sua badante infermiera di fiducia) quanto fosse badger ingoiandone una a secco. Si trattava di…roba…che…meh, non si era mai interessato al loro contenuto, né a quale patologia fosse affetto. Finchè avessero impedito i black out e gli avessero evitato entusiasmanti conversazioni con un fallace se stesso, beh, avrebbe preso qualunque roba prescritta dal medico. Lasciava che fosse (il quattordicenne, sì) Levi ad occuparsi dei…dettagli, tipo assicurarsi che non fossero pasticche al cianuro.
    Fino a quel momento aveva funzionato. «ma a te piace la tua camera» Che voce sottile, Roosevelt Percival Stilinski Milkobitch. Così diverso da Sander, il quale un regolatore di volume non l’aveva mai posseduto – come la grande metafora di Juno enunciava, “Sander parla in CAPS”: nulla di più vero, signori miei; nulla di più vero. «sì, beh,» si strinse nelle spalle sistemando penna e taccuino, notando con la coda dell’occhio la schiena di Levi rilassarsi. «mi piaci di più tu» ruotò gli occhi al soffitto al sorriso storto del minore, i denti distanziati e so british a baluginare dalle labbra dischiuse. Levi lo faceva sempre sembrare più gentile di quanto non fosse - lo faceva sentire migliore. Si scrollò come un cane dal pesante pelo bagnato, allungando una mano verso quella del fratello: «abbiamo un accordo?» Andiamo, amico, batti sto cinque. Non vado da nessuna parte senza di te. Sander sapeva perfettamente perché ci tenesse tanto a partecipare a quell’evento, ed era stato del tutto onesto in quanto detto al minore: non si era mai sentito che un bitchinskarden mancasse ad una festa pareva una frase di circostanza e del tutto superficiale, ma non significava che non fosse un mantra per il Guaritore. Aveva poche certezze, Sand, e se le teneva fottutamente tutte.
    Almeno quelle.
    Inoltre, come tutti potevano ben immaginare, persone ed alcool erano il suo meccanismo di coping per sopravvivere ad un se stesso che non capiva ed una realtà che si rifiutava di comprendere. Non conosceva passato, presente, o futuro; aveva portato il vivi nell’attimo ad un nuovo magistrale livello, bypassando con classe tutto quel che veniva prima ed ignorando con eleganza le conseguenze nel dopo. Non ci si poteva permettere molto altro, di quei tempi.
    Levi sospirò, togliendosi gli occhiali per pulire le lenti. Un gesto che, Sander sapeva, era dettato unicamente dal nervosismo e dall’Ansia Di Vivere – nonché una scusa come un’altra per non incrociare gli occhi scuri del Bitchinskarden. Riusciva a percepirlo denso nell’aria e metallico sulla lingua, il definitivo no. Deglutì spasmodico. «andiamo, bello. siamo una squadra» ruppe il silenzio prima che fosse Levi a farlo. L’altro indossò nuovamente gli occhiali dalla sottile montatura nera, lucidi occhi chiari ed un debole sorriso sulle labbra. Allungò esitante le dita verso la mano ancora sospesa di Sander picchiando il palmo contro il suo. «la migliore

    Infilò una mano nel colletto della camicia allentando, se possibile, ancor più il nodo della cravatta, guadagnando un’occhiataccia dal basso quattordicenne al suo fianco. Indossavano entrambi abiti troppo fancy per i gusti di Sander, ma Levi pareva esserci nato dentro - beh che Levi non contava: pareva a suo agio in qualunque vestito o circostanza. Indossava a pennello la vita, dipinta addosso come una tela al museo.
    Esilarante che, nella realtà, nulla fosse come appariva. Roosevelt poteva essere il più brillante Corvonero della sua età, l’hacker più rapido del far east, un musicista ottimo ed un intelligente compagnia in biblioteca, ma quando aveva a che fare con esseri umani terzi, il suo quoziente intellettivo scendeva ad un livello perfino inferiore a quello usuale di ray Sander. Levi era il classico “che ore sono?” “sì” su cui gli adolescenti amavano fare meme con scritto MOOD, ma in versione tascabile e viva. Sander, un po’ sadico, amava vederlo in difficoltà quando la sua Ansia Sociale entrava in circolo: tornava umano ed approcciabile, il ragazzino che avrebbe sempre dovuto essere e mai era sembrato. Come se non bastasse l’Angoscia generale respirata da Levi in qualunque ambientazione, il Corvonero aveva l’agghiacciante brutta abitudine di prendersi platoniche sbandate verso chiunque si mostrasse gentile nei suoi confronti – e lo amava anche per quello, Sand: Levi era così un bambino speciale che ampliava il suo amore anche agli oggetti inanimati, sviluppando legami intellegibili solo a se stesso con sedie dalla forma buffa o appendi abiti vintage. Vederlo ad una festa, circondato da individui, era un Inferno ed un Paradiso tutto insieme – una bella botta di vita. Fortuna che c’era il buon Sander a rompere il ghiaccio per lui. «levi, ma le baudie gallagher?» Con i capelli ordinatamente pettinati, Levi sollevò immensi e terrorizzati occhi chiari su di lui, le mani strette al petto apparentemente in preghiera. Ad una seconda occhiata, chiunque avrebbe potuto notare che fra le dita, Levi, stringeva qualcosa; il modo tenero e possessivo con il quale i polpastrelli sfioravano l’oggetto, potevano far (erroneamente.) pensare che si trattasse di, boh, un uovo, ma fortunatamente per tutti, neanche Roosevelt era così speciale. Scosse le spalle alla sua domanda. «magari glielo lascio nella cassetta della posta» sussurrò a se stesso, cambiando argomento. Mentre Sander cercava Danielle (e le sorelle, ma più Danielle), Levi pregava che da qualche buio anfratto della stanza spuntasse Hyde Crane Winston, compagno di scuola ed una delle poche anime così (disgraziate) difficili da metterlo a suo agio anche in simili situazioni di stress, e torturava la piccola scatola color argento. Non sapeva con esattezza in quale film l’avesse visto, o se qualcuno mai glielo avesse insegnato, ma Roosevelt (oltre ai vari, evidenti, problemi relazionali) aveva una certa ossessione per l’etichetta e la buona educazione: gli sembrava irrimediabilmente brutto presentarsi a mani vuote ad una festa alla quale era stato invitato, malgrado, come gli aveva fatto notare (chiunque) Sand, gli Hilton avessero già tutto. Lanciò un’occhiata da sopra la spalla alla stanza; all’entrata, ancora rannicchiati su se stessi a piangere a sue spese, Juno e Raymond cercavano inutilmente di darsi un contegno.
    Distolse immediatamente lo sguardo arrossendo nuovamente, ma non prima che il suo sguardo venisse intercettato dal Guaritore. «poteva andare peggio» sarebbe suonato più rincuorante se a dirglielo non fosse stato un Bitchinskarden intento a ingozzarsi di tartine. Levi umettò le labbra, ancora paonazzo dal ricordo di poco prima. «dubito.» Tornando al discorso Levi vs il Mondo: un ragazzo, di un solo anno più grande di lui e dal pesante accento francese (l’aveva conosciuto durante una visita a Beauxbatons, ma non avrebbe saputo dire quale fosse il suo nome – e non sarebbe stato così rude da domandarglielo), l’aveva fermato all’entrata per dirgli che aveva sentito di suo padre. Mai v’era stato al mondo momento meno opportuno per l’Ansia di Levi di entrare in azione, bloccandogli cervello e sinapsi e rendendolo incapace di intendere e di volere.
    «condoglianze»
    «anche a te e famiglia»
    ??? Ecco cosa succedeva quando Levi apriva bocca al di fuori delle mura domestiche, ed ecco perché evitava di farlo, se non strettamente necessario. Ma proprio strettamente. Mentre Juno e Raymond si soffocavano di risate alla sua inadeguatezza, Sander era stato così gentile da trascinare un paonazzo e inintelligibile Levi lontano dal misfatto. Il maggiore fece ancora spallucce. «lo sai, è veramente forte che siamo qui – dagli hilton, intendo» Lo era? Sì insomma, sembravano simpatici dallo schermo del reality, ma c’erano almeno un centinaio di posti in cui Levi avrebbe preferito essere. «lo sai, quella – quella faccenda. Il club dei 27» Levi arcuò entrambe le sopracciglia, offeso dall’atteggiamento entusiasta di Sander. Non che non fosse abituato alle stravaganze del pompiere, ma gli pareva il caso? «non c’è nulla di “forte”» mimò perfino le virgolette con la mano libera. «nella morte di qualcuno» il club 27 era un’espressione usata dai giornali per definire le icone che, chi per un motivo e chi per l’altro, erano morte all’età di ventisette anni. «spaccagioie. Considera il…drama. il thriller» Sander inspirò profondamente dalle narici, alzando l’aria con le dita destre come se potesse, in concreto, annusare l’odore di giallo. «tuttora nessuno sa come sia morto. Neanche i medium funzionano. Questa è roba forte - cristo, percival, dov’è il tuo spirito d’avventura» ??? Non c’era mai stato, e non aveva mai trovato affascinante né omicidi né serial killer né teorie del complotto - sicuramente non quelle inerenti il già difficile Yale Hilton, sparito dalla faccia della terra senza lasciare alcuna traccia se non una stanza pregna di sangue. C’era chi diceva (…okay, non era interessato, ma non significava che non leggesse giornali.) avesse comprato un’isola e passasse le sue giornate insieme a Michael Jackson e Britney Spears (anche lei sparita nel lontano 2025: che eroina, che icona di stile) e chi parlasse di mistici sacrifici a Satana in cambio della vita eterna, o del nuovo iPhone 15t (roba forte, nel 2022).
    Insomma. Levi scosse la testa e sollevò le spalle mostrando quanto poco fosse un argomento appropriato, esattamente nel momento in cui: «CAAAAAAAAAAAAAAAAAAAAM» Levi si raggelò sul posto, restio nel seguire lo sguardo del fratello e la mano sollevata trionfante nell’aria in direzione di qualcuno. C’erano momenti, rari ma impossibile da ignorare, in cui essere il fratello disadattato di Sander Bitchinskarden era davvero……….difficile. «no» tentò di supplicare in un sibilo. Non era pRonTo ad affrontare i proprietari così, a brucio: non potevano fare un po’ di riscaldamento con…boh, qualsiasi altro invitato alla festa che, possibilmente, non fosse super famoso o super ricco o super carino? Non potevano…non so, cercare di rubare una lampada come gli adolescenti normali? «stai sciallo, percival, mica ti abbandono.» Poco importava che Sander Bitchinskarden non conoscesse Penn, o Bangkok, o i gemelli minori: non esisteva limite all’indole molesta ed estroversa del Guaritore, sicuro di sé come chi nella vita non avesse più nulla da perdere. «EHI CAM, mio vecchio amigo» Cosa? Non erano amici? Grazie tante, lo sapeva, ma sapeva anche che non gliene poteva importare di meno. Allargò le braccia invitandolo ad una stretta affettuosa e amichevole, pacche sulle spalle e «ti vedo in forma, bello» che, ovviamente, non avevano alcuna ragione d’esistere. Non ebbe bisogno di vedere altro, Levi, per sapere dove lo sguardo curioso del Bitchinskarden volesse andare a parare.
    E la sua promessa, d’improvviso, divenne cenere al vento. Lo sapeva.
    Mayday. mAYDaY.
    «ma dov’è uno sguardo verso le spalle di Camden, la mano sinistra fra i corti capelli castani. Un sorriso sghembo curvò le labbra di Sander, sguardo caldo ed accorato verso l’Hilton: «quella meraviglia di tintagel? Vorrei ringraziarla personalmente per l’ospitalità.» Chinò perfino rispettosamente il capo, quella creatura malevola di Sander. «siete stati davvero forti ad invitarci.» Salve Dio, sono Levi. Non ho mai creduto particolarmente nella tua esistenza, e di certo l’ultimo periodo non ha aiutato, ma se ci sei, ti prego, fai apparire una buca e sotterramici. In caso non ci fossi, confido che le mie onde cerebrali possano intercettare un segnale alieno, e che i suddetti possano addurmi prima che Sander ci faccia cacciare. Grazie, un ammiratore. «a proposito, levi -» nO. Perché lo stava chiamando in causa? Levi era ancora certo che avesse potuto fingere di non esistere, e nessuno avrebbe notato la sua presenza. Drizzò le spalle smettendo di respirare, pallido e sottile come un foglio di carta velina.
    Doveva vomitare. Lo sentiva. Era stata un’idea terribile quella di seguire i fratelli alla festa. «levi» «il trentun dicembre» santo cielo beato. «oggi, intendevo. Informazione generale» spinse gli occhiali sulla radice del naso, gorgogliando un sorriso stentato e nervoso. «auguri. Fra un pochino. Molto gentili davvero» «le-» «èsolounpensiero» spinse la scatolina davanti a sé, senza aver coraggio di guardare né Camden né Sander. «per vostra madre, diglielo levi – ehi, ma quella è RuMi CaRtER???» Quando Levi allungò una mano per stringere la manica di Sander…Sander se n’era già andato.
    Mica ti abbandono.
    Okay. Non doveva essere….così difficile. «io, mh, è una cassetta» indicò la scatola con la mano. «ahah- spoiler» ahAH. Passò una mano sul mento, indietreggiando d’istinto di un passo. «sono dei componimenti al piano, roba, mh, poco conosciuta» sarebbe morto lì, seduta stante, prima di ammettere che li avesse scritti lui. «secondo diversi studi la musica aiuta a mh, rilassarsi e ridurre lo stress, in tal modo dovrebbe,» colpo di tosse strategico, un modo come un altro per prendere fiato. «aiutare la signora hilton con, mh, il- » stava sudando? Stava sudando. Fece guizzare gli occhi intorno a sé, tornando visibilmente sofferente ad osservare l’Hilton. «dolore. non è una – non è una cura, ovviamente, chiaramente, scusa, è solo -» l’unico modo in cui ho potuto fingere di fare qualcosa per mio padre. Superfluo dire che non fosse servito, e che fosse solo l’ennesima, criptica, maniera per non rimanere con le mani in mano ad osservare l’inevitabile dispiegarsi degli eventi. «mi… » Dispiace? Abbozzò un sorriso e lo lasciò seccare sulle labbra, scuotendo debolmente il capo. «buon anno per dopo, sai. Devo-» ??? Indicò un punto a caso alle proprie spalle. «grazieancora, tuttobellissimo, ciao, auguri» Chissà, magari se fosse riuscito a raggiungere i muri della stanza prima della mezzanotte, avrebbe potuto inaugurare l’anno come wALLFLOWER carta da parati. Funzionava ancora nascondersi in bagno?
    Avrebbe dovuto scoprirlo prima che Sander lo obbligasse a scattargli foto con le celebrità presenti da mandare a Jericho e Darden, perché non era certo di poter risparmiarsi un infarto di fronte al principe George (aveva sentito ci fosse anche lui!). Era arrivato al trentun dicembre, tanto valeva cercare di sopravvivere fino a poter vedere l’alba del 2040.
    Almeno lui che poteva, finché poteva.



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    «tuo - cos’hai detto
    «ho detto: non ci posso credere che mio figlio venticinquenne sia ancora vergine»
    Thiago aprì la bocca e la richiuse, sopracciglia corrugate e l’indice ancora poggiato alla carta sul tavolo, laddove aveva appena scartato. Un pomeriggio come cento altri in quel di Avana, Cuba. Lanciò un’occhiata bieca di fronte a sé, dove Hilton Yale – non Yale Hilton, attenzione - con un sigaro stretto fra i denti e l’espressione di chi sapeva avrebbe di nuovo stracciato il suo avversario (non era un asso nel poker, era forse un problema? beh, ch lo denunciassero allora.) sedeva dando le spalle al muro.
    Attese una manciata di secondi, ma l’uomo si limitò a scartare una carta senza prestargli particolare attenzione. «in che senso» poggiò il ventaglio di una (quasi. molto quasi) Scala Reale sul legno, muovendosi nervoso sulla sedia. Hilton arcuò un sopracciglio. «nel senso che non hai mai pen-» «NON QUELLO» L’aver alzato il tono di voce indusse Hilton ad abbassare gli occhiali sulla punta del naso, le labbra morbide dischiuse e piegate verso il basso. Non era certo la prima volta che i due come le Cidies avessero problemi di comunicazione, uno dei motivi per il quale, cinque anni prima, avevano adottato Marìa - o almeno, quella era la scusa simpatica ed usata in pubblico; né Thiago né Hilton volevano ammettere ad alta voce di averla trovata a giocare in giardino, ignara di quanto stesse accadendo alle sue spalle (una delle numerose mafie dell’Avana aveva appena massacrato la sua famiglia; la bambina, sordo-muta dalla nascita, non se n’era neanche accorta). Santiago diede un colpetto alla sedia della dodicenne Marìa, l’unica che a carte poteva competere con Hilton, indicandole con un cenno del capo l’uomo. «chiedigli cosa intendeva» domandò, nel linguaggio dei segni; Marìa, in tutta risposta, si allungò sul tavolo per dare un pugno alla spalla dell’altro, un secco (ed esasperato) movimento della mano in direzione di Thiago. Lo Yale, massaggiandosi la parte lesa, fece vagare lo sguardo dall’uno all’altro. «non hai venticinque anni?» Lo sconcerto si fece dilagante e pesante, nel balcone affacciato sul mare. «tuo figlio E quel che le telenovelas insegnavano, a quel punto della conversazione, implicava: zoom tattico da un volto all’altro, violini in sottofondo, pomo d’Adamo ad alzarsi in singulti silenti e dolorosi, la sorpresa nel viso dei due diretti interessati – colpevole in uno, dolente nell’altro.
    Ma quella non era una telenovelas, e Hilton Yale riprese il sigaro fra le mani tornando alle sue carte. «e?» E? E?? Thiago si alzò d’improvviso dalla sedia, una mano al cuore e l’altra puntata accusativa contro il petto del quarantaquattrenne. «SONO TUO FIGLIO?» L’Hilton lo guardò come se avesse perso qualche rotella per strada - lui! «sì?» «E NON ME L’HAI MAI DETTO?» Era troppo …sconvolto, per concentrarsi singolarmente sulle emozioni provate in quel momento. Faceva sul serio? Era un modo di dire? Non erano certo argomenti sul quale bisognava scherzare; Santiago non aveva mai conosciuto suo padre, e ad un certo punto della sua vita la questione era semplicemente diventata…scontata, ed aveva smesso di interrogarsi sull’identità dell’uomo del mistero. A che pro? Aveva sua mamma, Charity; gli era sempre bastata. Marìa, scivolando sotto il tavolo, fuggì alla discussione con pacata eleganza. Hilton lo guardò arcuando entrambe le sopracciglia. «non lo sapevi?» ????? «No?????» L’uomo sospirò melodrammatico stringendosi appena nelle spalle. «pensavo fosse ovvio» Come… in quale mondo avrebbe potuto essere ovvio? Era apparso nella sua vita quando aveva tredici anni, ed il cancro si stava portando via sua madre secondo dopo secondo; Hilton si era fatto posto, ingombrante e fastidioso, finchè Thiago non si era abituato alla sua presenza – fino a che, alla morte di Charity, non erano diventati una famiglia. Allo sguardo allucinato di Santiago, l’altro alzò le mani in segno di resa: «davvero non hai mai notato la somiglianza?» No? Non era mica un programma dell’FBI di riconoscimento. «non - davvero Hilton Yale era così tranquillo, che non c’era abbastanza spazio per lo sbigottimento di Thiago; sembrava stupido, fuori luogo. Si sedette incrociando seccato le braccia sul petto. «sei mio padre?» Hilton annuì, uno sguardo preoccupato verso di lui. «tutto bene?» No? Fece per ribattere, aggressivo e crudele, ma dalla bocca non uscì nulla quando sollevò gli occhi azzurri cercando quelli dell’altro. «come?» formulò in un soffio, sentendo le spalle afflosciarsi. «pensavo fossi grandicello, ma… la conosci la storia dell’ape e del fiore? In versione robotica, però – inseminazione artificiale, come Kim e Kanye. In pratica,» gli lanciò un fazzoletto in faccia prima che potesse applicarsi in un’esplicita, e davvero non richiesta, dimostrazione con le dita di come funzionasse un rapporto sessuale. «quindi…» Thiago umettò le labbra, le ciglia bionde a sfiorare le guance. «sei mio padre» ripetè, incredulo, sentendolo sbagliato ed insapore sulla lingua. «e cambia qualcosa?» Ci pensò sul serio, Santiago. Si morse l’interno della guancia posando lo sguardo sul mare poco distante, inspirando quieto dalle narici. Cambiava qualcosa dal giorno prima, dal mese prima - da dieci anni prima? Sentiva che avrebbe dovuto, che sarebbe stata normale e del tutto prevedibile una scenata sull’essersi sorbito menzogne per tutta la vita, ma la verità era che Hilton non gli aveva mai mentito: l’aveva semplicemente omesso, ed a Thiago non era mai interessato abbastanza da domandarlo. Grattò la nuca, memore di puntate infinite di Ali del Destino, il Segreto, la Signora in Rosa – il mondo di Patty.
    Sono il papà di pATTY- *eco* il papà di Patty, il papà di Patty, *zoom sul viso rigato di lacrime della suddetta* il papà di Patty….
    Piegò la bocca verso il basso e fece spallucce. «nahh» riprese le carte poggiando la schiena al sedile della sedia. Restava comunque l’uomo che l’aveva cresciuto (male, ma con sentimento), il sangue non cambiava nulla. «almeno hilton yale è il tuo vero nome?» lo domandò per alleggerire la tensione, un sorriso morbido e tranquillo a curvare la bocca. E l’altro, soffiando un filo di fumo grigio e spesso, schioccò la lingua sul palato. «meh. è yale hilton» SH000000000000K. «YALE HILTON?» Ora: Newhaven Cedric George Stephen Hilton non era mai stato l’attrezzo più affilato della cassetta, ma - «QUEL YALE HILTON?» Santiago Alejandro Goose riusciva a superarlo. Erano entrambi buoni ed ingenui, più il secondo del primo; creativi, distratti. Thiago era un ragazzo semplice, impegnato in volontariato e costruzione dei quartieri distrutti da mafia o calamità naturali, sempre in prima linea alla mensa dei poveri la domenica e con appostamenti strategici presso le strisce pedonali per far attraversare in sicurezza le viejas; non era davvero stupido, era semplicemente… «davvero, thiago. Davvero»…biondo, di fatto e di indole. L’uomo scosse il capo, e Santiago rimase inebetito a riflettere sul senso della vita.
    Davvero per davvero.

    Un giorno qualunque di un’estate qualunque. Quel giorno, Santiago non aveva fatto altre domande, convinto che la questione non lo toccasse, ma nei mesi a seguire la curiosità aveva vinto la logica che gli diceva di lasciar perdere – che probabilmente la storia completa non gli sarebbe piaciuta.
    A Settembre aveva scoperto perché si chiamasse Goose – non come la madre, Ford, né come (evidentemente) il padre, Hilton.
    «quando tua madre mi ha chiesto come dovesse chiamarti, ero … in uno stato alterato» e ringraziamo la parentesi di una teatrale Marìa a mimare Fatto come un cocco: Thiago poteva non essere particolarmente recettivo, ma non così tanto sì invece, grazie Marìa. «era il nome della mia aragosta», aveva spiegato, come fosse perfettamente logico possedere un’aragosta – lobster is the new black. «mio fratello me l’ha data come regalo di nozze, per ricordarmi cosa fossi» «un’aragosta?» «un imbecille»
    A ottobre, gli raccontò della sua nascita.
    «charity era mia amica,» aw, che cosa dolce. «e mi ricattava. Non ho avuto molta scelta» Al sopracciglio sollevato di Thiago, sollevò le mani in segno di resa: «non rimpiango niente. e poi ho avuto la parte facile, non ti ho mica partorito io» onesto. A quanto pareva, un diciottenne Yale aggredito da un licantropo era stato salvato da sua madre, la quale si era trovata nella Foresta per bird watching notturno (e per stalkerare il gruppo di amici di Yale; a quanto pareva, aveva una cotta per Marceline); l’aveva trovato privo di sensi, e l’aveva portato alla clinica più vicina. Ha mantenuto il segreto per un anno, prima di usarlo contro di lui: Charity Ford voleva un figlio.
    «…a caso?» Yale si era stretto nelle spalle. «non mi ha mai detto il motivo, ma immagino avesse a che fare con la sua famiglia – gente strana, i ford» e quello spiegava anche perché Thiago non avesse mai sentito parlare di nessuno di loro. «mi ha detto che sarebbe sparita. Che…non saresti mai stato un problema mio» Ah, qualunque figlio sognava di sentirsi dire simili affettuose perle paterne. Non si offese solamente perché… beh, poteva capire il diciannovenne Yale; Thiago si metteva sempre nei panni degli altri, prima di reagire. «e l’ha fatto. puff, nel nulla – un nulla di nome santo domingo.»
    A Novembre:
    «non ho avuto sue notizie per anni. sono andato avanti nella mia vita, ho lasciato l’università prima di laurearmi in medicina. A venticinque anni ho ricevuto un ultimatum da mamma Parker: potevo trovarmi un lavoro – normale – o sposarmi, altrimenti niente eredità» Avrebbe davvero voluto non giudicarlo, principalmente perché gli voleva bene, ma «…e ti sei sposato.» «cosa? No – sei pazzo?» «ma…tu sei sposato» O almeno, sicuramente lo era quando aveva finto la sua morte. «credevi l’avessi fatto per RICATTO?» Beh: «sì» «quanta poca stima del sottoscritto. questo-» aveva indicato la propria fede, appesa simbolicamente al collo. «è la green card di fergie» «dei BLACK EYED PEAS?» «…no, santiago. no. Fergie è la figlia di rosario, fernanda. Beh comunque, ho iniziato a lavorare, mi sono infilato in una situazione poco pulita, bOOm» «a child» «all’incirca; i miei “aguzzini” avevano scoperto di te e charity – grazie a loro ho scoperto fosse malata» Si era stretto nelle spalle. «ho preso due piccioni con una coppola» «??» «un modo di dire dei miei tempi, lascia stare»
    Razionalmente sapeva che avrebbe dovuto odiarlo – più per aver lasciato Charity da sola che per se stesso; ed avrebbe voluto, sentendo nel petto e fra i denti che non facendolo stava mancando di rispetto alla memoria di sua madre. Avrebbe voluto essere astioso, leggere fra le righe il non detto di quella vicenda: era stato un gioco, per Yale; una scomodità priva di conseguenze. Un ragazzino superficiale abituato alle uscite facili negli ostacoli della vita, troppo codardo per affrontare l’esistenza in modo attivo e non passivo. Stupido.
    Superficiale. Egoista.
    Ma Santiago semplicemente non poteva, odiarlo. Lui e Marìa erano tutto ciò che avesse, ed in fin dei conti, seppur a mali estremi e per salvarsi il culo, l’Hilton l’aveva cresciuto. Non era programmato per trovare Yale meschino, malgrado oggettivamente sapesse lo fosse – era fatto male, Thiago.
    A Dicembre, era cambiato tutto.
    Yale non era mai entrato nei dettagli della sua vita – suo fratello, i suoi cugini – e nessuno in famiglia era abbastanza social da possedere un profilo facebook o twitter; troppo pigri, o codardi, perfino per sfogliare i giornali di moda e gossip. Ecco perché, fino a metà Dicembre 2039, Yale Hilton non aveva saputo di Penn; avrebbe potuto mai immaginarlo? No. Supporlo? Sì, ed era uno dei motivi che l’avevano spinto ad ignorare tutti per una decade: vile, e dolorosamente umano. Fino in fondo. L’aveva aspettato seduto sul suo letto, senza neanche sprecarsi ad accendere la luce. Marìa era già andata a dormire, ed a quel punto sarebbe stato illusorio credere che Thiago non avesse un po’ paura - cos’altro aveva da dirgli, avevano forse un dinosauro in cantina? Sangue alieno? L’FBI li stava cercando per contrabbando di organi (non sarebbe stata la prima volta, ma giuro che non c’entravano nulla)?
    «ho bisogno che tu mi faccia un favore, santiago»

    Rimpiangeva tutto.
    Si vendeva troppo facilmente, il Goose; un paio d’occhioni supplichevoli, qualche complimento lanciato sotto banco, una pacca sulle spalle ed era fatta: ecco perché, l’ultimo dell’anno, stava scendendo da un taxi con al collo un borsone scuro, lo sguardo incollato ai cancelli della villa. Avrebbe potuto dire no, passo; avrebbe potuto continuare la sua vita nella maniera mediocre e quieta che tanto gli piaceva, abitudinaria e classica - era un bravo ragazzo meraviglioso, una vera fortuna, si narrava, averlo nell’Avana: nel suo piccolo, si ripeteva, stava facendo la differenza. Non era così, ed in cuor suo ne era cosciente. Umettò le labbra stringendosi nel pesante giaccone invernale sotto cui, in maniera davvero poco opportuna, celava una rossa camicia hawaiana. Non era avvezzo a temperature così rigide; la pelle ambrata dal sole sembrava volersi staccare dai muscoli ed andare a farsi un giro, nel dicembre siderale dell’Occidente. «soy un idiota» biascicò fra sé, lanciando pochi contanti all’autista. C’era una frase, piccola ed apparentemente ingenua, a cui Thiago non poteva semplicemente resistere: sei un bravo ragazzo, Santiago. Hanno bisogno di qualcuno come te. Per favore. Con il senno di poi (le risposte, a Thiago, venivano sempre troppo tardi), si rendeva conto di aver fatto una cazzata. Avrebbe dovuto essere più persuasivo e meno incline alla manipolazione; avrebbe dovuto costringere suo padre (ew, che senso) a muovere il culo ed andare lui a Londra, invece di continuare a giocare al gatto di Schrödinger a Cuba, dove si erano trasferiti una decina d’anni prima.
    Patetico. Patetici. Sbuffò una nuvoletta d’aria calda, arricciando il naso al vapore fumoso di fronte alla bocca. Massaggiò le guance lisce finchè non sentì il sangue tornare a circolare in maniera corretta e sana. Ma poi, a che pro? Dubitava sinceramente che avessero bisogno di lui, considerando che beh, a quanto pareva nessuno sapeva della sua esistenza («meglio, tanto non avresti dovuto dirglielo» a cui era seguito un esasperato e confuso «PERCHÈ»).
    Santiago era in incognito. In - in incognito, che sembrava molto più cool di quanto effettivamente non fosse. Marìa e il non-troppo-morto Yale Hilton erano rimasti a Cuba con la promessa che, di lì a breve, ma che dico, brevissimo sarebbero approdati in Gran Bretagna.
    Non era bravo ad annusare le menzogne, Thiago; specifica necessaria caso mai l’aveste immaginato più sveglio di quanto non fosse. Ci aveva creduto davvero, ed il Narratore invece vi narra (spoiler) che they, in fact, didn’t. Come precauzione, dato che Yale sapeva quanto Santiago fosse una labile patata, l’aveva obliviato facendogli dimenticare dove abitassero.
    Sostanzialmente, sì, è esattamente come pensate: Newhaven Cedric George Stephen Hilton IV aveva (di nuovo) abbandonato suo figlio – perché dopo tutti quegli anni non sapeva cosa fare con la sua famiglia, okay. Ma anche perché era semplicemente, ed inevitabilmente, un po’ stronzo.
    «sono brave persone, ti piaceranno» Non aveva infilato il dito nella piaga, ma se davvero erano così brave persone, perché non era mai tornato a casa? Non aveva avuto intenzione di sentire altre cazzate, Thiago; di doversi sorbire il cinismo amaro di chi quel mondo fingeva di conoscerlo, ed invece non aveva mai saputo nulla – «l’amore è abbastanza per andarsene, chico; non per rimanere»: gliel’aveva ripetuto centinaia di volte, ad ogni (ogni!) cambio scuola a suo dire necessario. Uno dei tanti motivi, oltre al suo naturale disagio (piaceva solo ai vecchi, ai bambini ed alle mamme) per il quale non aveva amici. Il più influente in quel campo, però, era sicuramente la sua diffidenza: faceva il piacione, magari passava minuti od ore a fare l’amicone o il fidanzato perfetto ad un appuntamento, ma quando si arrivava al sodo…meh. Non era filosoficamente convinto, Thiago. Aveva la strana ossessione per la quale doveva sentirselo dentro, di essere con le persone adatte.
    In pratica era un cetriolo sociale, esattamente.
    Finse che le lenti degli occhiali da sole (beh certo, non poteva abbandonare la sua coperta di Linus) non fossero appannati, mentre si trascinava, letteralmente, oltre la soglia dell’imponente dimora. Già detto quanto volesse morire? No? Giocava sul fatto che nessuno comprendesse lo spagnolo – aveva usato quella strategia per tutto il viaggio, nel ciarlare fra sé, e fino a quel momento aveva funzionato.
    Non sono un brav’uomo, Thiago: ma tu sì.
    Meeeh. Che…fregatura.
    Entrò camminando lateralmente, come una vera lobster che si rispettasse, convinto così di attirare meno l’attenzione. Inutile dire che non aveva ricevuto, per ovvi motivi, alcun invito; la sua scusa ufficiale era che aveva mandato la lettera per un colloquio come giardiniere – sì, a capodanno: eh, la crisi. Nel suo intimo c’era chilly! sperava davvero di non arrivare a tanto (anzi, di aver sbagliato casa) ma non poteva negare di essere anche…curioso, senza contare che si sentiva responsabile per il comportamento scorretto, rozzo, e maleducato di suo…ew, di Yale. Non c’erano più i vecchi di una volta. Paranoico come solo una spia sovietica poteva esserlo, intercettò (per errore.) lo sguardo di qualcuno. Chi? Per la sua misera conoscenza dell’elitè del mondo magico e non, poteva essere il figlio di Beyoncè (. Beh. Almeno lei la conosceva) quanto quello di Britney Spears, o boh, uno dei cugini che sapeva essere sparsi nel mondo ma dei quali non conosceva nulla. Ebbene sì, Alejandro si era presentato alla cieca – convinto, nel proprio animo ottimista, di essere un ottimo improvvisatore.
    Spoiler: non lo era – manco per il cazzo.
    «hola» salutò nervosamente, agitando la mano nell’aria. «sono il nuovo giardiniere» ??? «cioè, devo fare il colloquio» il pesante accento spagnolo, per la prima volta in vita sua, aiutava davvero la sua causa: uau. «ma sono speranzoso» ????
    E meno male che lo fosse lui.

    cuban | 24.04.2014
    jardinero | 25 y.o.
    I heard the mission bell
    And I was thinking to myself
    "This could be Heaven or this could be Hell"
    Welcome to the Hotel California, Such a lovely place
     
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  4. big eyes‚
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    Beh, beh, e adesso?
    Ok, ok, ok. Ok. Era evidentemente fuori contesto, come un'opera d'arte di età classica nel settore preistorico di un museo /anche se in quello specifico frangente, poteva quasi sembrare il contrario/ ma che poteva farci lei? Lo sapeva, merlino se lo sapeva, dal primo istante in cui le era stato proposto: brooke non era per 'ste cose, non era per le feste, e per di più scadeva moltissimo quando la festa comprendeva un altro centinaio o due di persone... e si faceva presso gli hilton, probabilmente i più chic e ricchi del suo decennio. Insomma, brooklyn /detta “brooke”/ iréne kaufman-dumont lì in mezzo non aveva alcun senso: col suo vestitino banale, le sue scarpette basse perché chi ci sapeva camminare sui tacchi, vicino alla sua amica stra figa che in compenso sembrava essere nata per mimetizzarsi in mezzo a quella gente – scarlett. Lei sì che ci sapeva fare, avrebbe voluto avere un... un quarto?, del suo charme, o per lo meno delle sue abilità nel mettersi addosso qualunque cosa senza timore, riuscendo in ogni caso ad apparire brillante.
    Ne era l'ombra, ma di questo non le aveva mai dato colpa: naturalmente era lei, brooke, quella inadeguata, quella che – al solito – sbagliava abito (e non che avesse grande scelta in casa, per di più aveva anche provato qualcuno degli abiti di scarlett... col risultato che sembrava una patata avvolta in carta da lucido; nulla di più lontanamente sexy), occasione, espressione. Perché no, neanche quella funzionava al momento, congelata in una certa fredda smorfia di apatica indifferenza – la sua in pratica, che solitamente poteva anche starci, era propria della figlia kaufman-dumont... ma durante una festa, sembrava davvero una terribile forzatura. Voleva solo scappare.
    «te l'ho detto, è stata una pessima idea» e si aggrappò un momento al braccio della bionda, tirandolo con aria seccata e risentita.
    Ma tornando a poche ore prima –
    «non credo di aver ricevuto l'invito» asserì critica, squadrandola con quelle sottili sopracciglia arcate nel puro dubbio, quasi sospetto; il sorrisetto della bionda non le piaceva affatto, «anzi, ne sono piuttosto sicura – hilton-perfettini non mi hanno invitata alla loro super-as-fuck festa di capodanno» lei?, davvero?, nulla di cui stupirsi, ma fissando scarlett con un certo astio non mascherò una buona dose di ironia... non era proprio il tipo che andava a braccetto con la famiglia più famosa della decadente londra del quasi 2040.
    La bionda parve quasi ridere del suo broncio, come a leggere in automatico tutto ciò che veramente brooke pensava, ma che raramente esprimeva a parole: era più brava con gli sguardi, con i mezzi sorrisi e quei gesti invisibili, banali, come il prendersi le mani e torturarsi con le unghie la pelle, o il lieve arricciarsi del naso, l'accavallare le gambe – una marea di piccole cose che solo una persona cresciuta con lei poteva capire. «ti fai troppi problemi, ti ho detto che vieni con me» quasi sfacciata, smettendo di fissarla per guardare il proprio riflesso allo specchio mentre tirava su la cerniera di quel tubino di un rosso così accattivante da far risaltare ogni forma del suo corpo che si avviava verso l'età adulto... ben diverso dal suo, ancora simile a quello di una bambina, se non per la forma lunga, slanciata, che la portava a sedici anni ad essere fra le più alte della scuola, e a poche spanne da scarlett.
    In ogni caso, più la fissava più si sentiva tanto affine a lei quanto diversa, una cosa che persisteva da anni «non mi sembra una buona idea, per nulla... non so nemmeno cosa mettermi, io non ho un guardaroba figo come il tuo... e ignori il fatto che i miei non mi lasceranno mai festeggiare capodanno fuori casa e soprattutto con quelli» ma era inutile, più aggiungeva parole su parole, più la bionda allargava il sorriso, rideva di lei, delle sue «scuse», per poi avvicinarsi e frugare ordinatamente nell'armadio, tirarne fuori un abito scollato color mandorla e lanciarglielo contro – preso al volo solo dai buoni riflessi della ragazza.
    Lo fissò, senza riuscire a mascherare un certo disappunto: sul suo petto a tavola da surf, i fianchi stretti, l'assenza di sedere o di qualunque altra curva, quell'abito l'avrebbe fatta sembrare una scopa. Arricciò le labbra, posandolo poi distrattamente sul letto di lei «non... non mi starebbero bene questi vestiti» scarlett sbuffò, lanciandole una scarpa che la povera serpe riuscì ad evitare al pelo, con un grido sorpreso e offeso «ma che» «P R O V A L O» e lo sapeva, sapeva benissimo cosa significasse quel tono – seccata /e un velo atterrita/ si alzò in piedi e iniziò lentamente a svestirsi: un capo alla volta, a partire dalla maglia a collo alto, le scarpe e i jeans; e poi in intimo, di fronte a lei, leggermente in imbarazzo afferrò l'abito e se lo infilò, tirandolo e cercando di entrarvi nel modo più elegante possibile – fallendo. «appunto» braccia molli lungo i fianchi, quasi abbandonate, mentre di fronte a lei scarlett la fissava, avanzava verso di lei e sorrideva «e invece, ti sta come un figurino...sei davvero sexy» e graffiò con ironia quell'ultima parola, cingendole i fianchi in modo scherzoso ma possessivo, tanto da sentire sulla pelle bianca le dieci dita stringersi. Non le aveva creduto, e rapida se l'era sfilato, tornando a pelle nuda sotto gli occhi magnetici della bionda, che neanche per un istante smisero di stare sulla pelle porcellana di brooke.
    Qualche istante, in cui poté quasi dire di godersi quella lunga e intensa occhiata, che la fece fremere da capo a piedi – prima di interrompere il tutto afferrando frettolosamente la felpa. «non verrò.»

    Ed erano state le classiche “ultime parole”, perché poche ore dopo eccola lì, affianco alla bionda, col naso arricciato e quel vestito scialbo, i ciuffi della frangia scomposti, neanche l'ombra del trucco sul viso imbronciato che un po' guardava tutti di sottecchi, specie quando un hilton le passava affianco. «ti odio» appena sussurrato, per poi concentrarsi su un'ombra distante, in mezzo alle altre «per l'intera barba di merlino, ci sono i bitchinskarden...lei» ed eccola lì, il suo incubo, il suo peggior nemico di hogwarts – juno bitch, e basta, insieme ai suoi fratelli. Dio quanto la odiava, già lì col suo stupido iphone a farsi selfie con tutti gli hilton-perfettini presenti nell'arco di un kilometro, già accerchiata dalle grifo-stupide come lei.
    Volentieri le avrebbe infilato quel cellulare, tutte le sue extension e il gel delle unghie in gola, per strozzarla col suo stesso motivo di vanto. «sapevo di non dover venire... odio tutti» «anche me?» e si sentì prendere il viso dal mento, tirato su per coprire la breve altezza fra i due sguardi «in questo momento, un po'» se l'inferno esisteva, i suoi diavoli erano usciti per tormentarla... e lo facevano nel peggio modo.
    Però, però c'era da dire una cosa – quella festa si stava animando, e mostrava tranquillamente i livelli di ricchezza a cui un hilton poteva ambire per la propria festa, di qualunque tipo. E questo, indubbiamente, la faceva sentire ancora più a disagio: ma inutile negarlo, brooke era un disagio perfettamente da sé, senza bisogno di altri.

    brooklyn irène kaufmont
    For you, I would cross the line
    I would waste my time
    I would lose my mind
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    Era una cosa che la irritava terribilmente.
    Brooke rappresentava la perfetta incarnazione di quello che lei non sarebbe mai potuta essere: dolce, d'una genuina bellezza da togliere il fiato, vera. Non aveva bisogno di calcare il rossetto fuori dai bordi per sembrare più attraente, né di infilarsi in vestitino che le risaltasse le forme per apparire più sexy, né tanto meno di imparare a sorridere con fare civettuolo per attirare l'attenzione. Brooke era per lei una di quelle persone in grado di splendere senza troppe pretese, senza troppi fronzoli, per il semplice fatto di essere sé stesse.
    Scarlett era diversa. Scarlett era bionda, aveva gli occhi chiari e le curve nei punti giusti, ma si guardava allo specchio e sapeva di essere insignificante. Non aveva niente da dire che potesse renderla più interessante agli occhi degli altri, non era in grado di esternare le miriadi d'idee che ogni sera la tenevano sveglia china su un quaderno pieno di scarabocchi e rime senza scopo senza sembrare noiosa, banale. Non poteva mettersi addosso una felpa e sperare che qualcuno la degnasse di sincera considerazione.
    Ecco perché la irritava terribilmente l'insicurezza di Brooke rendendola però, paradossalmente, ancora più pura ai suoi occhi.
    Un'altra cosa che la irritava, poi, era proprio quella sua tendenza ad irritarsi tanto facilmente che aveva senz'altro ereditato da sua madre e di cui, per quanto faticasse, non riusciva proprio a liberarsi. Le prendeva lo stomaco, le attorcigliava le budella fino a darle la nausea e, spesse volte, doveva chiudere gli occhi e staccare la spina per qualche istante prima di riprendersi, anche se mai del tutto.
    Voleva bene a sua madre, ma quella era una delle tante cose che non riusciva a perdonarle: i segreti, per esempio, quegli innumerevoli silenzi che da diciannove anni si ostinava a mantenere con la sua stessa figlia e che, con tutta probabilità, mai le avrebbe svelato. La freddezza poi, quella con cui l'aveva sempre trattato malgrado provasse ad essere più affettuosa, più materna. A volte la sofferenza nei suoi occhi ad ogni fallimento come madre e come donna era talmente evidente che Scarlett, per quanto odiasse sentirsi così poco amata, non poteva che comprendere ed accettare.
    Era sangue del suo sangue e, per quanto poco sopportasse ammetterlo, le somigliava dannatamente. Solo in una cosa differivano: l'ambizione.
    Emaline, per quanto cupa ed indifferente per la maggior parte del tempo, non aveva mai perso quella passione che la spingeva a cercare sempre di più, che si trattasse di vendetta, di carriera, o d'amore. Scarlett no. Scarlett viveva la vita a un passo alla volta. Aveva voglia di fare, di osare, ma pensava al presente e mai al futuro. Aveva finito la scuola ed aveva continuato a scrivere le sue poesie per sé, non per i posteri o per guadagnare qualcosa, e non aveva mai preso realmente in considerazione una relazione duratura, amava quel poco che aveva - Broke, e le parole - e le andava bene così. Ecco perché era e sarebbe sempre stata una Grifondoro.
    «non credo di aver ricevuto l'invito» eccola Brooke, intenta ad elencare le 13 reasons why non andare alla festa degli hilton quando l'unica vera ragione era che se la faceva sotto dalla paura all'idea di trovarsi in mezzo a quelli che per lei erano strafattifighi.
    Scarlett la ascoltò blaterare in silenzio, litigando con la zip del suo vestito e lanciando di tanto in tanto un'occhiata al proprio profilo allo specchio con una certa rassegnazione.
    «beh, buon per te.» esordì alla fine, una punta di seccatura nella voce. «meglio che essere invitata da uno dei cugini-amici-quel che è solo perché, sai no, la gina.» continuò con fare più dolce, voltandosi poi verso l'amica per rivolgerle un lieve sorriso d'incoraggiamento — inutile, a giudicare dal modo in cui Brooke aveva continuato imperterrita a mettere in atto tutti quei piccoli gesti che le venivano spontanei ogni qual volta qualcosa la preoccupava. Scarlett li conosceva uno ad uno, da sempre, e non poté che intenerirsi dinanzi a quell'ennesima dimostrazione che, malgrado gli anni, la sua piccola Kaufmann-Dumont era la stessa di quand'erano entrambe bambine. «ti fai troppi problemi, ti ho detto che vieni con me.» le pizzicò la punta del naso con due dita e tornò a dedicarsi al suo outfit di cui, per inciso, non era mai abbastanza convinta. Quel tubino rosso non sarebbe stato troppo sgargiante? E quelle scarpe? Beh, se Brooke trovava il tutto figo, allora tanto valeva fidarsi del suo giudizio. «scuse.» fu il suo ultimo commento all'ennesimo sproloquio della mora. Ma si poteva essere così testarde? A mali estremi, estremi rimedi fu la sua soluzione. Si avvicinò all'armadio, frugando tra la sua roba alla ricerca di qualcosa che potesse effettivamente star bene all'amica e che, al contempo, non la facesse sentire troppo un pesce fuor d'acqua. Impresa ardua, c'era da ammetterlo, ma alla fine trovò quello che stava cercando: un perfetto abitino marrone, con una scollatura evidente ma non volgare che avrebbe senza dubbio risaltato la figura di Brooke. Glielo lanciò senza aggiungere alcun commento, in attesa dell'ennesima valanga di proteste che sarebbero senz'altro conseguite alla presa visione dell'indumento.
    «non... non mi starebbero bene questi vestiti» eccola. Più per l'esasperazione che per altro, le lanciò addosso una delle sue scarpe nella speranza di farla finalmente tacere. «P R O V A L O.» le ordinò risoluta, puntando gli occhi cerulei dritti in quelli verdi della Kaufmont. Non smise di fissarla neppure quando questa iniziò a spogliarsi, senza alcuna consapevole malizia ma con la sincera impossibilità di staccarle gli occhi di dosso. La invidiava, ecco tutto. Per Brooklyn sarebbe stato assurdo venirne a conoscenza, ma era così da sempre.
    Piegò il capo in una smorfia critica, scrutando dall'alto in basso il corpo dell'amica dentro il vestito che le aveva prestato. Come aveva immaginato, le stava d'incanto. «e invece, ti sta come un figurino...sei davvero sexy» e non lo diceva tanto per dire. Le cinse i fianchi con un sorriso soddisfatto tra le labbra, le dita strette sulla sua pelle diafana ora avvolta in un'eleganza che non era solita conoscere ma che, in ogni caso, non le sfigurava affatto. Tutt'altro.
    «non verrò.» quelle parole spezzarono l'improvviso silenzio che era calato fra le due, e così anche il contatto visivo che Scarlett non si era neppure accorta di aver nuovamente allacciato con persino maggiore insistenza di prima.

    E quando qualcuno diceva di no alla Levitt, ecco che questa tirava fuori la sua ostinazione d'acciaio. Ci aveva provato con le buone in un primo momento, insistendo su quanto ci tenesse a passare il capodanno con lei e su come avrebbe fatto in modo che anche lei si divertisse. Poi era passata al vittimismo, lamentandosi di quanto poco tutti le volessero bene, nessuno abbastanza da fare qualcosa in suo favore. Infine, senza troppi fronzoli, aveva preso l'amica sottobraccio e l'aveva letteralmente trascinata fuori, e poi giù fino alla famosa festa degli hilton.
    Non è che lei ci tenesse particolarmente, è che non sopportava l'idea di dover passare un altro capodanno in casa e se quella era la sua unica alternativa... beh, si sarebbe divertita in un modo o nell'altro.
    Con Brooke ad un passo dietro di lei, fece il suo ingresso in casa hilton indossando uno dei suoi sorrisi più falsi migliori, affrettandosi ad individuare camden per potergli rivolgere un cenno di saluto, almeno da lontano: c'era fin troppa gente per potersi infilare tra la folla senza rovinarsi il trucco.
    «non sono così male, se li conosci.» sussurrò avvicinando il viso a quello dell'amica, salutando poi con un cenno del capo sanders & famiglia. «hanno perso i genitori, sai, problemi in famiglia e quant'altro. c'è da capirli. poi vabbé, la gente è sempre un po' testa di cazzo, ma a questo dovresti esserci già abituata.» ma di questo a Brooke, a giudicare dalla sua espressione tutt'altro che serena, doveva importare piuttosto poco.
    «sapevo di non dover venire... odio tutti» l'avrebbe mai fatta finita? Non si sa. Le prese il viso con una mano, voltandolo perché incontrasse il suo sguardo. «anche me?» il tono mellifluo, le unghia laccate di rosso a premere lievemente sul mento dell'altra. «in questo momento, un po'» sorrise Scarlett, uno di quei sorrisi che preludono a qualcosa di molto, molto peggio. «preparati a odiarmi un po' di più.» e, senza permetterle di ribattere, la prese per mano incastrando le dita con le sue e la trascinò al centro della sala, cingendole poi il collo con le braccia.
    «lezione di danza numero uno: le mani sui fianchi del tuo accompagnatore.» e, abbassando un braccio, le portò le mani sui propri fianchi. «lezione di danza numero due: chiudi gli occhi e ascolta la musica.» ed abbassò le palpebre, non del tutto solo per assicurarsi che lo facesse anche Brooke. «ah-ah, non si bara. lezione di danza numero tre: balla.» e, noncurante di chiunque la stesse osservando, prese ad ondeggiare al ritmo della musica, stretta al corpo della mora.
    scarlett morrigan levitt
    Now you're just
    another one of my
    problems, because
    you got out of hand.
    19 yo
    gryffindor
    i wrote a poem
     
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    maverick & cassidy
    «Ge-sù.» non aveva ancora poggiato entrambi i piedi dentro casa Hilton, ma già le sue labbra s'erano piegate in quella sua solita smorfia di puro disgusto verso il genere umano e i suoi prodotti. Cassidy sarebbe potuta essere la perfetta incarnazione della borghese incline agli agi e alla vita mondana, naturalmente predisposta a rapportarsi coi suoi simili -gli Hilton, per esempio- e dunque perfettamente a proprio agio in situazioni come quella, eppure—nope. Col suo carattere, tutt'altro che semplice, aveva finito per crearsi una casta a sé stante, una sua personalissima élite che, per quel che le riguardava, avrebbe potuto comprendere soltanto sé stessa se solo non avesse avuto necessariamente bisogno di qualche contatto umano di tanto in tanto per non sprofondare nella noia più assoluta. «Io me ne vado.» fece per girare i tacchi, desiderosa di voltare le spalle a quell'accozzaglia di marmocchi dall'evidentemente scarso quoziente intellettivo e tornarsene a casa a finire il suo binge-watching di x-files (sì, era un'appassionata del vintage), ma un braccio delicato eppure risoluto gli si parò davanti, bloccandole il passaggio.
    «Alt, tu non vai da nessuna parte Cassie-bella.» con un leggero sorriso stampato sulle labbra ed una t-shirt decisamente inadatta al contesto, Maverick sembrava invece piuttosto entusiasta di trovarsi a quella festa. Non che anche lui fosse il tipo da grandi folle e party hard, ma aveva una capacità di adattamento alle situazioni decisamente più alta rispetto a quella di Cassidy. Per farla breve, finché c'erano i suoi amici poteva anche trovarsi ai piedi di un vulcano in eruzione e la cosa non l'avrebbe turbato minimamente. «Brooke chiama, noi rispondiamo. Funziona così tra di noi, hai presente?» in poche parole, la spiegazione del perché si trovassero in casa Hilton: Scarlett aveva trascinato Brooke a quella festa e Maverick, che sapeva quanto poco quest'ultima sarebbe stata a proprio agio in un evento come quello, aveva ben deciso di portarsi dietro una squadra di soccorso per giovani disadattate. «Sono assolutamente sicura che Brooklyn possa cavarsela egregiamente anche senza di me.» affermò Cassie in tutta risposta, incrociando le braccia al petto come la più capricciosa delle mocciose. «E anche senza tuo fratello, a dirla tutta.» rivolse uno sguardo comprensivo verso Eugéne, abbastanza certa che neanche questi fosse chissà quanto felice di esser stato trascinato a quella festa. «Non provare a cercare consensi. Géne sarà l'anima della festa stasera, vero Géne?» circondò le spalle del fratello con un braccio, sebbene non fosse affatto convinto delle proprie parole: aveva dovuto sudare sette camice prima di costringere convincere il maggiore ad accompagnarlo fino a lì. Perché tanta insistenza? Fondamentalmente, perché gli mancava. Gli mancava passare del tempo assieme a lui e gli mancava quel rapporto che da anni aveva cessato d'essere fra loro, facendogli venire dei dubbi sul fatto che fosse mai davvero esistito. C'era dell'altro poi, quel desiderio di mollare tutto e scappare via, lo stesso che decine di volte l'aveva portato ad allontanarsi da casa per poi tornare con un peso sul petto più pesante di prima. Orion era un buon palliativo per la sua sofferenza, ma a volte quell'urgenza si faceva talmente intensa che solo suo fratello avrebbe potuto alleviarla, anche solo restandogli accanto. Probabilmente una ragione egoista per volerlo con sé, ma Maverick non aveva mai affermato di essere perfetto.
    «Sì, certo, ed io sono la Regina d'Inghilterra.» simpatica come sempre, Cassie alzò gli occhi al cielo, vagando con lo sguardo per la stanza alla ricerca di una qualche faccia "amica". «Dobbiamo recuperare Lady Dee-sagio? Ottimo, diamoci una mossa.» e, senza attendere repliche, prese a farsi largo tra la folla con il solo intento di trascinare Brooke via da lì e poter finalmente tornarsene a casa. Con l'impeto di un uragano, non si curò nemmeno d'aver urtato un paio di gomiti e rovesciato qualche bicchiere, si limitò ad un semplice «Tanto la macchia va via con un incantesimo basic, tranqui.» accompagnato da un'occhiolino tutt'altro che affabile.
    «Dici che dovremmo andarle dietro?» Maverick non s'era mosso di un centimetro: aveva afferrato un paio di Burrobirre dal primo tavolo che gli era capitato sotto tiro e ne aveva passata una al fratello, lo sguardo ancora fisso verso la chioma scura di Cassie che si perdeva tra gli invitati. «Non che sia preoccupato per lei—è per gli altri che ho paura.» voleva bene all'amica, invero, ma sapeva anche quanto distruttiva potesse essere nella maggior parte dei casi.
    A quel punto, la cosa più logica sarebbe stata individuare Scarlett e Brooke e raggiungerle quanto prima, ma l'improvvisa consapevolezza di trovarsi con la sola compagnia di Eugéne gli mise addosso un certo disagio. «Uhm, comunque mi fa piacere che... Sì, insomma, che alla fine ti sia deciso. A venire qui, intendo.» alzò leggermente le spalle, nascondendo qualunque espressione fosse sul punto di mostrare dietro un sorso di Burrobirra.

    «Comunque, se era un lesbo party, potevate anche dirlo sin da subito.» si piazzò dritta accanto alle due, proprio in mezzo alla pista da ballo, spostando lo sguardo prima su Scarlett, poi su Brooke. «Momento sbagliato?» azzardò, abbozzando uno dei suoi più finti sorrisi e sporgendosi sulle punte per raggiungere l'altezza delle due. «Me l'ha detto Mae di cercarvi eh, io neanche ci volevo venire a 'sta festa, ma oramai... Sesso, droga & rock'n roll di gruppo? C'è anche Eugéne Loren Anima Della Festa Baudelaire-Hansen Primo di Borgogna di là, CIOEH.» qualora non fosse stato chiaro, Cassie aveva qualche difficoltà con la gestione delle emozioni—della vita, più in generale.
    No, I move slow,
    I want to stop time.


    Cassie urta qualcuno a caso e gli fa rovesciare il bicchiere, se vuoi essere quel qualcuno—ESSILO! #wat
     
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    Tiny Hilton
    tintagel vixenne eloise penelope
    - how to burn down your school without getting caught -

    «sta organizzando una festa»
    «che festa?»
    «una festa festa» E non serviva aggiungere altro: anni d'esperienza diretta li avevano resi dei perfetti party planner. Probabilmente, Tiny e Cam avevano imparato a contattare catering e scegliere centrotavola ancor prima di imparare a contare.
    E, seppur non l'avrebbe mai ammesso ad alta voce, alla ragazza mancava terribilmente organizzare una festa: era sempre stata una delle sue attività preferite, e durante l'anno scolastico aspettava con ansia le vacanze di natale in vista del gran pranzo del 25 a casa loro (Il veglione del 24 era al ranch del bisnonno, ovviamente) e si teneva in contatto 24/7 con sua madre per aiutarla nell'organizzazione. Tiny non era come i suoi fratelli: non era l'anima della festa come Bang, né l'amichevole e sorridente padrone di casa come Cam. La ragazza, tra tante persone, preferiva rimanere in disparte ed osservare tutto da lontano o, in caso degli eventi a casa Hilton, assicurarsi che tutto procedesse per il meglio.
    «e tu non sei felice?» Ma era scemo? E infatti «ma sei scemo?» Si era aspettata che lui, fra tutti, sarebbe stato in grado di comprenderla: non poteva mettersi ad organizzare la festa di capodanno alla casa in campagna, non quando essa era rimasta vuota da più di un anno. E soprattutto, non quando lei non sarebbe potuta stare con loro a festeggiare: che festa era, senza Penn Hilton? era assurdo anche solo pensarci. E, seppur sapesse bene che alla madre non avrebbe fatto altro che piacere vedere i figli tornare a comportarsi normalmente, come prima della sua malattia, a Tiny l'idea di organizzare qualcosa senza lei sembrava una sorta di tradimento. Per questo aveva detto a Cam che non l'avrebbe aiutato. E per questo aveva chiamato Bangkok per sfogarsi e sperare di esser compresa. «magari ti diverti»: evidentemente aveva fatto la scelta sbagliata. Era l'unica, in famiglia, a parlare con Bang da quando era scappato di casa: il fratello le aveva lasciato il numero della nuova sim nascosto in un bigliettino nella sua stanza, all'interno di Florence, il suo koala di peluche (che tiny usava fin da bambina come nascondiglio per i suoi oggetti più cari - plettri rotti, monetine trovate per terra, accendini rubati e bigliettini) Forse perché il fratello già sapeva che, in famiglia, lei sarebbe stata l'unica a non giudicarlo per la sua scelta e a soffre meno per la sua mancanza. Non che non amasse Bang, sia chiaro, ma Tiny era una ragazza che tendeva ad accettare tutto ciò che le capitava in maniera piuttosto distaccata e rilassata. O forse era solo l'immagine che, da sempre, aveva tentato di dare di sé a tutte le persone che conosceva, e soprattutto a sé stessa: era più semplice convincersi di non starci troppo male, per il fatto che suo fratello li avesse abbandonati, e soprattutto per la malattia di sua madre, piuttosto che fare i conti con ciò che quegli eventi avevano significato per lei. «tiny..avrà bisogno di te per fare tutto» Ha bisogno anche di te, e invece dimmi un po' dove sei? No. Si era ripromessa che mai, in quelle chiamate, avrebbe fatto pesare al fratello in qualche modo la sua decisione, quindi scacciò quel pensiero un attimo dopo «..il massimo che gli concedo è non di scappare dalla finestra e presentarmi alla festa» E già mettersi in tiro, per lei, era uno sforzo che richiedeva enorme fatica. Udì la risata di Bang, e per un attimo le sembrò di averlo di nuovo lì a casa con loro. Poi però udì un vociare di sottofondo, e subito tornò alla realtà. «Ty devo andare, ti voglio bene» Duravano sempre così poco, le chiamate tra loro. «salutami anche l'altro Bang, quello figo» se aveva una crush per il migliore amico del fratello? Cliché, ovvio che l'aveva avuta, ma ovviamente avrebbe preferito farsi bruciare viva prima di farlo scoprire a qualcuno «e..bang?»«Mh?» Ci manchi «vedi di non schiattare» e quello era il massimo d'affetto che una Tiny Hilton fosse disposta a dimostrare al resto del mondo.

    «abbastanza» Si stava quasi pentendo, di non averlo aiutato con i preparativi. Perché gesù, quella parola era la stessa che pronunciava Penn Hilton ogni qualvolta qualcuno le rivolgeva la stessa identica domanda: era stata la stessa Tiny, anni prima, a fissare un tetto massimo di persone, a seconda del tipo di evento. Sua madre non aveva mai avuto il senso della misura e, evidentemente, neppure suo fratello. Ma in quel momento, la diciassettenne non aveva alcun diritto di rimproverarlo, visto che era lei ad essersi rifiutata di aiutalo nei preparativi «beh, passerò uno splendido capodanno a supervisionare che non ci distruggano casa»
    Quando iniziarono ad arrivare gli ospiti, Tiny lasciò il compito di buon padrone di casa al fratello, e così si risparmiò l'odioso compito di sorridere ad ogni nuovo arrivato e prendersi tutti quei complimenti come "Oh che casa adorabile; oh grazie per l'ospitalità; oh siete così gentili;" per poi passare, senza mezzi termini, alle domande più dirette che gran parte delle persone - il pubblico - desiderava sapere: "ma la mamma come sta? e bang, quando torna? ce la fate in casa a gestire tutto tu e tuo fratello?" Non era decisamente pronta, la ragazza, a confrontarsi con tutte quelle persone, e per questo fece ciò che gli riusciva meglio: osservare la situazione da lontano. Poco le importava delle occhiate che le arrivavano da ogni parte della stanza, alcune perplesse, altre curiose, altre quasi in attesa di ricevere un suo saluto: era nata e cresciuta tra le telecamere, Tiny, e dunque l'attenzione su di sé non le destava alcun fastidio. O almeno, le andava bene tutto finché le persone non iniziavano a rivolgerle la parola.
    «hola» appunto. Le mancavano proprio gli spagnoli, per render quella giornata ancora più splendida. Rispose al ragazzo limitandosi ad alzare una mano e scuoterla leggermente, già troppo esausta dalla vita per far qualunque altra cosa: avrebbe potuto tranquillamente rispondere in spagnolo, lingua che padroneggiava molto bene, ma non aveva voglia di far vedere di saperlo parlare, temendo che lo strano tipo le si sarebbe accollato tutta la sera «sono il nuovo giardiniere» avevano un nuovo giardiniere??? «cioè, devo fare il colloquio» Ahhh «ma sono speranzoso» «beh, di certo uno che viene qui a capodanno o è un lavoratore diligente o non ha nient'altro da fare nella vita» A guardarlo gli faceva un po' pena, ed un po' gli voleva già bene. Se fosse stato per lei, l'avrebbe assunto in quel momento. «comunque, per il colloquio devi incontrare l'avvocato di mia madre» Non voleva traumatizzarlo subito, ma le cose dovevano esser messe in chiaro «sai chi è?» SUSPENSEE «è mia madre» Ragionava in modo particolare, Penn Hilton: era sempre stata più intelligente della norma, così che quando poteva preferiva far a meno di commercialisti, pubblicitari e soprattutto avvocati. Anche dopo la malattia, aveva comunque continuato ad esaminare personalmente i possibili nuovi dipendenti. «ti fisso un incontro il prima possibile» Non che avesse molto da fare, Penn, ma presentarla al mondo come donna con un agenda piena d'impegni era una sorta di ritorno alla normalità, per Tiny




    2022's - 17 y/o
    mudblood - pukwudgie
    goth life


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    made in china — I'm here at the beginning of the end
     
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    Eugéne Baudelaire-Hansen
    Capodanno.
    Il giorno più ignobile, orribile, terrificante dell’universo. Era all’Inferno? Aveva per caso dissacrato la parola di Gesù Cristo, meritandosi una punizione per i suoi peccati? Probabilmente la risposta alla sua domanda era sì perché, innumerevoli volte quella sera, si era ritrovato a dover fare i conti con la voglia di tirar giù tutti i Santi del Paradiso.
    Ma lui era una persona troppo ben educata per esplicare ad alta voce le bestemmie, le imprecazioni e le maledizioni che avrebbe voluto lanciare ad ogni singola persona in quella stanza, una per una.

    Quella casa gli ricordava, incredibilmente e forse nemmeno tanto incredibilmente, uno zoo. Un’accozzaglia di gente ubriaca che come unico scopo sembrava avesse quello di strepitare, bere e vomitare qualsiasi cosa avesse in corpo nel senso letterale del termine, fino a morire sul pavimento appiccicaticcio.
    Gli veniva in mente solo una parola per descrivere lo spettacolo che gli si stava palesando davanti agli occhi, ovvero: agghiacciante.

    Osservare da vicino quel tipo di comportamento non solo era una conferma del fatto che facesse bene a stare alla larga dalle persone, sopravvalutate a parer suo, ma anche dagli amici di suo fratello. Il che era tutto dire, considerando che Maverick non fosse nemmeno una delle sue prime scelte in fatto di amicizie.
    Bastava prestare attenzione alla sua amica Cassidy per capire quanto gli standard del minore fossero ridotti al livello di “primato che ha smesso di crederci”, tanto da poter rivalutare, con una certa sicurezza, l’idea che l’estinzione della razza umana, magica o Babbana, non fosse proprio una cattivissima idea; Cassidy era quella che lui considerava un’ultima risorsa, in tutti i sensi possibili.
    Quindi, guardarla vaneggiare, lamentarsi e sbuffare era come assistere ad una puntata di un noto programma televisivo Babbano che trattava di vari argomenti scientifici. Quello, chiaramente, doveva essere l’episodio dedicato alla scoperta delle piante. Perché, beh, le piante non hanno un cervello e quindi—

    Distratto si guarda intorno, cercando di focalizzarsi sull’arredamento.
    Oh, ma quello era per caso un quadro di Van Gogh originale?
    Poi, l’attenzione ritorna su Cassidy, chiaramente intenzionata a ricevere supporto per non sapeva bene quale motivo; per togliere qualsiasi dubbio e per non fare capire all’altra che non avesse ascoltato nemmeno l’inizio del discorso annuisce. Annuire era sempre la soluzione.
    Le parole di Maverick, invece, attirano la sua attenzione e si ritrova a doversi trattenere dallo schiaffarsi in fronte un potente facepalm. Si limita invece a sospirare, lasciandosi cingere le spalle. Di sottecchi posa le iridi azzurre, illuminate dalle luci multicolor, sul volto dell’altro, chiedendosi da dove venisse in primis quella confidenza, ma più di tutto la ricerca di contatto fisico.

    Loro non erano mai stati—fisici.
    Non poteva negare che la colpa fosse sua, perché era un asociale del cazzo ed era inutile negarlo, non cercava neppure scuse per farlo. Maverick, però, era sempre così; troppo comprensivo, troppo gentile, troppo appiccicoso, troppo tutto. E lui, inevitabilmente, si sentiva a disagio.

    «Temo di dover dare ragione a Cassidy, nonostante la veda bene ad occuparsi di una decina di Corgi ed indossare abiti color pastello» ma senza il portamento adatto ad una Regina, questo però era meglio lasciarlo sottinteso.

    La vede allontanarsi, così come sente scivolare via il braccio del fratello. Nuovamente, il minore ricerca un tentativo di conversazione abbastanza stiracchiato.

    Si domandava perché, ancora, provasse ad avvicinarglisi nonostante fosse un fratello poco propenso al dialogo, specie con i membri della propria famiglia. Insomma, lo vedeva con quanto sforzo Maverick provasse a parlargli, a ricercare il suo conforto, a volerlo nella sua vita, ed era anche qualcosa che, Dio santo, apprezzava. Davvero, era commuovente.
    Ma quando lo guardava o gli stava vicino, sentiva l’odore dell’Amortentia e ricordava l’importanza che sapeva avesse nella sua vita, ed era intollerabile che gli volesse così bene, che fosse una parte così vitale del suo mondo, ma che al tempo stesso gli facesse prudere le mani dalla voglia di tirargli un pungo, perché tu hai avuto tutto piccolo ingrato del cazzo, e dovrei odiarti, quindi stammi alla larga.

    «Penso che non sia necessario» risponde, alzando la voce per sovrastare il rumore della musica, per i suoi gusti troppo alta. Poi, alza un sopracciglio con aria alquanto scettica «Smettila di dire stronzate. Lei non è un pericolo se paragonata ai soggetti che ci sono in questa stanza. Li hai visti bene?» afferma, indicando un gruppetto di persone intente a tenere un ragazzo sotto sopra, così da fargli bere un’intera pinta di birra. Ma ancora, ancora, Maverick si sbilancia, mettendolo in difficoltà.

    Si era lasciato convincere ad andare al party-- ma perché? Non di certo per la festa, o per quegli stupidi dei suoi amici, o perché Capodanno significasse qualcosa per lui.
    Probabilmente, era lì perché voleva fargli piacere, forse anche per controllarlo. Forse perché la mancanza di Orion era un buon momento per stare soli senza interferenze esterne, perché davvero quel ragazzo era un’anima intelligente e sopraffina, ma non lo riusciva a tollerare, nonostante si mostrasse sempre neutrale nei suoi confronti.

    In effetti, ora che ci pensava, non rimanevano soli da davvero tanto tempo.

    «Mi hai costretto a venire, quindi sono venuto. Non mi piacciono le feste, non mi piacciono i tuoi amici, non mi piace la musica che hanno messo sembrano dei corvi che gracchiano in coro e non mi piace la gente che vomita senza controllo, ma» si schiarisce la gola, secca per via della voce alta «il lato positivo è che nessuno potrà andare in overdose, con un Medimago nei paragi.»

    Aveva dei dubbi sul fatto di voler bere una Burrobirra in quel posto, preoccupato per cosa avrebbe potuto trovarci dentro: peli, saliva, capelli, roba Babbana. Nope.
    Per questo, la tiene in mano, ma non si azzarda a posare le labbra sul boccale.

    «Pensavo che avresti portato Orion, a dire il vero» domanda lecita, dato che sembravano attaccati con un incantesimo di Adesione Permanente «a mezzanotte si dà il classico bacio che corona tutto l’anno a venire. Il porta fortuna per una perfetta relazione.»

    Uh, acido. Acido.

    «Ma è okay. Magari lo scoccare della fine dell’anno porterà fortuna ad entrambi» per il loro rapporto? Per la speranza di Maverick di essere considerato come un fratello e non come un nemico da combattere? Distrattamente, volta il capo a guardarlo, facendo spallucce «o magari ti dovrò portare a casa in spalla.»

    Aveva proprio questo presentimento, mh.


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    Edited by Miss Badwrong - 13/10/2018, 14:45
     
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    Meara Beaumont-Barrow era convinta che il mondo le sarebbe crollato addosso da un momento all’altro, e non poteva far altro che incolpare se stessa. Era stata un’idiota a pensare di poter gestire tutto, come se fosse stata abbastanza matura da gestire una figlia a soli diciotto anni. Cristo, era ancora una bambina che non riusciva neanche a prendersi cura di sé, cosa le faceva pensare di poterlo fare con un altro essere umano? Per qualche stupido istante aveva pensato che CJ sarebbe tornato, se non per lei almeno per Barrow, per poi scontrarsi con l’amara realtà; aveva persino provato a contattarlo durante i primi mesi di gravidanza, ma dall’altra parte dello schermo non aveva mai risposto nessuno. Alla fine si era arresa ripetendosi che era meglio così, che non aveva bisogno di lui e in fondo era solo un fottuto ragazzino. Ne avrebbe avuti altri, di certo non era il primo e non sarebbe stato l’ultimo ad andarsene. Ciò non toglieva che facesse maledettamente male, e che ogni giorno non potesse fare a meno di odiarlo un po’ di iù: aveva voltato a tutti le spalle, come se non significassero un cazzo. Alla fine aveva deciso di giocare all suo stesso gioco, cancellandolo dalla sua vita come se neanche fosse esistito; l’unica taccia indelebile era quella si Barrow, ma aveva imparato a conviverci. Inizialmente aveva pensato di sbarazzarsene, una comune operazione e il problema si sarebbe risolto per sempre, poi erano sopraggiunti i dubbi. E se se ne fosse pentita? Era giusto togliere una vita perché i suoi genitori erano stati due teste di minchia? Non aveva problemi economici, ed era quasi certa di poter fare una vita decente a quella bestiola. Spoiler alert: ci è riuscita davvero.
    Quasi si sentiva nuda a non avere Barrow stretta tra le braccia, come se mancasse un pezzo importante di sé. Non era tranquilla a sapere la figlia in mano a ai suoi genitori, sapendo già che le avrebbero provato a far cavalcare il cane come l’ultima volta. Neanche Leone Ferragnez aveva avuto un’infanzia così movimentata. «state attenti, non è una bambola di plastica» scrisse veloce al telefono, subito dopo aver aperto la magnifica foto di una Barry vestita come un delfino – da quello che le avevano detto volevano ricreare la pubblicità del delfino curioso, giusto perché non potevano scopare come due vecchi qualsiasi.
    Ancora si chiedeva cosa fosse venuta a fare a quella festa, o meglio come si fosse fatta convincere. Le stavano sul cazzo la maggior parte dei presenti, e l’altra parte era pronta a fare domande inopportune su sua figlia. Come se non avessero mai visto una ragazza madre, inkredibile. «non datele la vodka per farla addormentare» non avevano visto come era diventati i tre figli? Fece per fare un passo avanti quando fu bloccata da un qualcosa di solido «ma porca putt-» le aveva fatto versare il drink era l’unica cosa a cui riuscì a pensare quando sollevò lo sguardo su un ragazzo – era furiosa, oltre ad essersi infradiciata il braccio le toccava pure tornare indietro a prenderne un altro «ma vedi dove vai?» «sei te che mi sei venuta addosso» Elijah scrollò le spalle, non potendo nascondere un sorriso divertito dall’espressione scandalizzata della ragazza. Era una sua impressione o assomigliava a uno di quei chihuahua che tremavano e abbaiavano incazzati? «non sei chiaramente facile da evitare» la bionda incrociò stizzita le braccia al petto, facendogli notare quanto fosse massiccio – era un cazzo di armadio, era ovvio che se stava in mezzo alla stanza la gente sarebbe andata a sbattergli contro. «come vuoi» l’Hansen era abbastanza intelligente da capire quando lasciar perdere una battaglia persa in precedenza, e quella discussione lo era di certo: se la ragazza voleva avere ragione, che l’avesse pure «posso almeno prendertene uno nuovo?» indicò con un cenno del capo il bicchiere quasi vuoto che la Beaumont teneva in mano, e poi la gente osava pure trattarlo male. Si offriva anche di andare a prendere loro il drink, cosa volevano di più? Ok che Elijah aveva anche i suoi fini, ma non lo rendeva meno cavalleresco #wat «se stai cercando di drogarmi, sappi che ormai sono abituata» incredibile, con ogni minuto che passava era sempre più entertained dalla biondina «buono a sapersi» non che avesse intenzione di far scivolare una qualche pasticca nel suo bicchiere, di solito preferiva parlare con gente sobria.
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    I got to give it to her like we in a marriage

     
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